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celestina

 

 

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"A manera de contienda"
Un autore unico per La Celestina

di Gianni Ferracuti

 

[Si tratta del rifacimento completo di un vecchio articolo, già pubblicato sul Bolero, come: "La Celestina di Fernando de Rojas"]

 

I dati classici di un giallo letterario

La Celestina è la grande opera in cui la letteratura rinascimentale spagnola si mostra per la prima volta matura, piena, sicura di sé: è la svolta che separa le epoche, il primo capolavoro della modernità, un modo nuovo di concepire la scrittura.

Prendiamola come si presentò al lettore del tempo: un testo senza nome, con una trama complessa, anche se a noi posteri a prima vista sembra scontata. Il nobile Calisto ha un'infatuazione per Melibea, donzella di alto lignaggio, e smania per portarsela a letto. Ricorre alla ruffiana Celestina, che offre i suoi servizi aiutata dai servi Pármeno e Sempronio, nella speranza di guadagnarci qualcosa. L'incontro tra i due giovani viene combinato e va a buon fine, poi scoppia la tragedia: muore Celestina, uccisa dai servi nella lite per la spartizione della ricompensa avuta; muoiono anche costoro ad opera delle forze dell'ordine; muore Calisto, cadendo mentre scavalca il muro di cinta della casa di Melibea, la quale a sua volta si suicida.

L'opera appare a Burgos nel 1499 come Comedia de Calisto y Melibea, in 16 atti. Viene poi pubblicata a Toledo e a Salamanca nel 1500; quindi una nuova edizione datata 1502 viene pubblicata a Salamanca, Toledo e Siviglia, ma forse risale piuttosto al 1510 la versione che aggiunge cinque atti, collocati in mezzo al XIV, un prologo e altre modifiche. Viene anche cambiato il titolo in Tragicomedia de Calisto y Melibea. Il titolo Celestina si impone nelle edizioni posteriori, seguendo l'uso, che si generalizza nelle commedie, di formare il titolo dal nome del personaggio principale dell'opera.

Da un componimento a versi acrostici sappiamo che l'autore del testo è Fernando de Rojas, un bachiller nato a Puebla de Montalbán. Nel prologo l'autore afferma di aver trovato un manoscritto che lo ha colpito per la novità dello stile e dei personaggi, e di averlo continuato dal secondo atto in poi. Attribuisce l'originale, in modo vago, a Rodrigo Cota o a Juan de Mena. Questa attribuzione è una bugia o una battuta di spirito: nessuno che scriva come Rojas può essere così sprovveduto da attribuire il primo atto della Celestina a Mena o a Cota che, letterariamente, appartengono a mondi e a modi di scrivere lontanissimi.

Scrive inoltre Rojas di aver completato il testo portandolo ai sedici atti della prima edizione nello spazio di quindici giorni di ferie, e questa è una seconda bugia, a cui non crede nessun critico odierno, perché scrivere la Celestina in quindici giorni non è pensabile e non è tecnicamente possibile.

Fernando de Rojas è realmente esistito. Il paese che gli ha dato i natali si trova vicino Toledo; nel 1499 non doveva aver superato i trent'anni. Abbiamo di lui alcuni documenti d'archivio, tra cui il testamento e il catalogo della sua biblioteca privata, che mostra un ben definito taglio umanista. Era di condizione conversa, ma non è chiaro se abbia avuto problemi con l'inquisizione. Questa, comunque, controllava la sua famiglia: una testimonianza di Rojas a difesa di un parente non venne ammessa dal santo tribunale, secondo alcuni proprio perché era parente, secondo altri perché Fernando non veniva considerato attendibile dall'inquisizione, se si doveva accertare la pura razza cristiana di qualcuno. Morì nel 1541 e sembra non aver scritto nulla oltre alla Celestina.

Successivamente l'opera venne pubblicata con altre aggiunte, che però nessun commentatore attribuisce alla sua penna. Prendendo in considerazione il testo in 21 atti, è evidente che esso ha una coerenza compositiva straordinaria: se il primo atto non lo ha scritto Fernando, allora quando lo ha copiato lo ha modificato pesantemente, come ancora era normale per i copisti nel Quattrocento.

Bisogna dire che è un po' ingenuo credere alla lettera a ciò che Rojas scrive nel prologo, considerato che si adegua perfettamente ad alcuni topoi retorici, primo tra tutti quello della modestia. Rojas giustifica il suo anonimato perché, come giurista, scrivere commedie non è il suo mestiere e non vuole dare l'impressione di aver trascurato i suoi studi. È un topos retorico che salva il decoro di una professione seria, tenendola a distanza da un'opera che il gusto dell'epoca considerava frivola e che era normalmente letta nei bordelli.

 

Il contro-interrogatorio

Scrive dunque Rojas nella Lettera a un amico:

"Suelen los que de sus tierras absentes se fallan considerar de qué cosa aquel lugar donde parten mayor inopia o falta padezca para con la tal servir a los conterráneos, de quien en algún tiempo beneficio recebido tienen; y viendo que legítima obligación a investigar lo semijante me compelía para pagar las muchas mercedes de vuestra libre liberalidad recebidas, asaz vezes retraído en mi cámara, acostado sobre mi propia mano, echando mis sentidos por ventores y my juyzio a bolar, me venía a la memoria no sólo la necessidad que nuestra común patria tiene de la presente obra por la muchedumbre de galanes y enamorados mancebos que posee, pero aun en particular vuestra mesma persona, cuya juventud de amor ser presa se me representa aver visto y dél cruelmente lastimada, a causa de le faltar defensivas armas para resistir sus fuegos, las quales hallé esculpidas en estos papeles, no fabricadas en las grandes herrerías de Milán, mas en los claros ingenios de doctos varones castellanos formadas" [1].

C'è un'apparente contraddizione in questo brano: l'inizio fa pensare a uno che si trovi in un paese straniero e cerchi qualcosa che manca nella sua terra d'origine; poi si scopre che si allude a un insegnamento di cui c'è bisogno in Spagna, ma che viene da maestri spagnoli, e non di terre lontane. Questa contraddizione scompare se il paese straniero, l'essere lontani dalla propria terra, non è inteso come un luogo fisico, ma come un luogo spirituale: la terra della cultura, vivendo nella quale si è lontani dalla Spagna reale e quotidiana. Perciò il senso potrebbe essere questo: mi sono chiesto quale contributo potessi dare, da intellettuale, al mio paese, nel quale la cultura scarseggia.

Ne nasce in qualche modo un'opera di cui la patria "ha necessità", vale a dire che Rojas considera la Celestina socialmente utile, oltre a tutte le altre considerazioni che si possono fare. La ragione di questa utilità è indicata nel fatto che fornisce armi contro i "fuochi" dell'amore: si fa riferimento ai corteggiatori e ai giovani innamorati, cioè si allude ai fuochi dell'amor cortese, con tutto il suo apparato ideologico e il suo valore politico [2].

Segue le norme della retorica l'idea, esposta successivamente, del manoscritto trovato casualmente, e Rojas usa questo topos con una progressione più che sospetta. L'aver trovato un testo altrui, anonimo, gli consente di lodarlo smaccatamente per il sottile artificio, lo stile elegante, mai visto né sentito prima, la dolcezza della storia (quale storia? tutto ciò che Rojas dice nel prologo va applicato solo al primo atto dell'opera). Senza la mediazione del manoscritto anonimo, non avrebbe potuto parlare così bene e lodare il testo e le sue novità:

"Y como mirasse su primor, su sotil artificio, su fuerte y claro metal, su modo y manera de lavor, su estilo elegante, jamás en nuestra castellana lengua visto ni oído, leílo tres o quatro vezes, y tantas quantas más lo leía, tanta más necessidad me ponía de releerlo y tanto más me agradava, y en su processo nuevas sentencias sentía. Vi no sólo ser dulce en su principal ystoria o fición toda junta, pero aun de algunas sus particularidades salían delectables fontezicas de filosophía, de otros agradables donayres, de otros avisos y consejos contra lisongeros y malos sirvientes y falsas mugeres hechizeras".

Rojas può elogiare in modo così esplicito il testo solo perché lo presenta come un'opera anonima e non sua, che gli appartiene solo come continuatore che, per sua ammissione, non è all'altezza dell'originale. Con ogni evidenza, questo è un artificio retorico, un uso a proprio vantaggio del topico della modestia, per sottolineare senza petulanza l'originalità e le qualità dell'opera. Il peso di Rojas, anche a credere alla storia del primo autore anonimo, è ben maggiore di quello di un continuatore che incolla un finale a un testo, ed è assurdo pensare che Rojas prenda alla lettera ciò che dice. Continua poi:

"Vi que no tenía su firma del autor, el qual, según algunos dizen, fue Juan de Mena, e según otros, Rodrigo Cota"

Le parole in corsivo sono aggiunte successivamente all'edizione originale. In questa non era presente l'attribuzione a Cota o Mena; ed anzi vi si spiegava l'anonimato del testo con il fatto che l'opera non era ancora conclusa. L'indicazione di Cota o Mena non viene proposta come idea di Rojas, ma come parere di alcuni lettori (evidentemente: lettori della prima edizione della Celestina). Poiché Rojas non prende posizione sulla questione di quale delle due attribuzioni sia più attendibile, se qualcuna lo è, è plausibile che vi sia una ragione letteraria per averli tirati in ballo deliberatamente, tanto più che si tratta di attribuzioni francamente improponibili. Con questo ricordo a Cota e mena, in primo luogo si segnala che l'opera è stata oggetto di discussione ("según algunos dizen"), e questo è un tema che risulta centrale nel successivo Prólogo; in secondo luogo, limitandosi a riferire pareri senza commento circa il primo autore, Rojas li accredita come plausibili: sia nel senso che rinforza la credenza che esista un primo autore, sia nel senso che dà per scontato il collegamento della Celestina al mondo letterario, sociale e politico di Cota e Mena.

Stante l'impossibilità di pensare che veramente uno dei due abbia potuto scrivere il primo atto della Tragicomedia, è possibile che Rojas si stia divertendo con un'affermazione inverosimile: in questo caso segnalerebbe ironicamente che l'intera questione del primo autore è una finzione; oppure è possibile che richiami il nome di questi due scrittori proprio per legare la Celestina a un certo contesto ideologico. Come Rojas, Cota e Mena erano conversi. Juan de Mena, poeta molto famoso, fu legato a re Juan II e al suo progetto di modernizzazione del regno, mentre Rodrigo Cota, molto attento alla cultura popolare e di piazza, aveva messo violentemente alla berlina l'amor cortese nel suo Diálogo entre el Amor y un Viejo. Ad entrambi erano state attribuite, senza fondamento, le volgarissime e satiriche Coplas de la Panadera, atto d'accusa contro la fatuità e la vigliaccheria del mondo nobiliare, senza distinzione di fazioni o partiti. Negli ultimi anni del Quattrocento, o nei primi del Cinquecento, dopo l'espulsione degli ebrei e nel clima di consolidamento della politica dei re cattolici, Cota e Mena potevano essere considerati, per usare una nostra espressione, voci dissidenti e intellettuali di opposizione. Continua comunque Rojas:

"Quienquier que fuese, es digno de recordable memoria por la sotil invención, por la gran copia de sentencias entrexeridas que so color de donayres tiene. Gran filósofo era".

Come si anticipava, tutto ciò che Rojas dice dell'opera deve essere riferito solo al primo atto, dato che tutto il resto è la sua continuazione, giudicata, modestamente, non all'altezza. Con questa restrizione, dire che l'autore è un "gran filosofo" non può che essere una battuta. Filosofo di cosa? Di teorie da bordello? Esperto della vita? Originale inventore di personaggi scontati come i servi e la vecchia ruffiana? O forse c'è una filosofia, nel senso vero della parola, che non abbiamo tirato fuori? Una filosofia che esige anonimato:

"Y pues él con temor de detractores y nocibles lenguas más aparejadas a reprehender que a saber inventar, quiso celar e encubrir su nombre"

C'è una cosa piuttosto singolare: nella prima edizione Rojas dice che l'autore primitivo "celò" il suo nome; successivamente dice che "volle celare", specificando che l'anonimato era il frutto di una scelta libera e non il prodotto casuale del fatto che il manoscritto era rimasto interrotto. È vero che, in quest'epoca, il verbo querer ha valore ausiliare, ma ciò non significa che perda sempre il suo significato di base, soprattutto se Rojas cambia il testo proprio per introdurre il concetto che l'autore quiso celar la sua identità. In questo caso, trattandosi di una modifica dell'espressione originaria, è difficile non vedere una volontà di precisare una sfumatura importante: che senso avrebbe, nel caso di un manoscritto incompiuto, la deliberata volontà di occultare il proprio nome? In effetti, se leggiamo insieme le due modifiche apportate da Rojas e le confrontiamo con le espressioni originali, scopriamo un fatto sorprendente: che ha cambiato versione circa il presunto manoscritto originale. E la ragione è evidente: la versione originale era contraddittoria. Risultava infatti che il manoscritto era anonimo perché incompiuto, ma al tempo stesso che l'autore si era premunito contro le malelingue. Dovendo eliminare la contraddizione, e quindi modificare uno dei due termini, lascia intatta l'allusione ai detrattori, che evidentemente era fondamentale e insostituibile nella struttura del testo.

Risulta, dunque, interessante l'idea che l'anonimato del primo autore sia stato una scelta deliberata per difendersi dai detrattori. Ci si potrebbe anzitutto domandare: chi glielo ha detto a Rojas? Quali detrattori, se il testo non era stato ultimato e non aveva avuto diffusione? Si sarebbe indotti a pensare che Rojas faccia capire di sapere chi è il primo autore, anche se non lo rivela, quasi nel rispetto di un patto che subito diventa complicità: lui stesso, per gli stessi motivi, sceglierà l'anonimato (come gioco, però, svelato dai versi acrostici). Ma pensare questo è come incrinare la fiducia che, convenzionalmente, dobbiamo avere nelle sue parole, e dunque essere autorizzati a pensare, contro il senso letterale della scrittura, che il manoscritto anonimo sia un'invenzione. Altrimenti bisogna pensare che, date le caratteristiche del manoscritto, era prevedibile che vi sarebbero stati dei detrattori, e il primo autore si aspettava polemiche. In questo caso al lettore viene suggerita l'idea che l'opera sia impopolare, cosa non ben coordinata con quanto si diceva prima circa la sua necessità. Viene però precisato che le polemiche e le detrazioni nascerebbero da persone che non sanno "inventare", cioè non sanno rapportare i contenuti e le sentenze filosofiche alla struttura letteraria e alla creazione di un mondo poetico.

Rojas, insomma, sostiene che il detrattore darebbe una condanna morale (reprehender) dell'opera in base al suo contenuto, non rendendosi conto che quel contenuto è strettamente dipendente dall'invención, termine che indicava anche la disposizione degli argomenti in un discorso dimostrativo: usato in questo contesto, potrebbe riferirsi alla struttura dell'opera, alla sua concezione, oltre che a una semplice originalità della fabula. Si presenta così un capovolgimento rispetto alla concezione abituale della letteratura: si pensava abitualmente che la scrittura dovesse avere un carattere morale, essere al servizio di una morale o almeno mantenersi coerente con i suoi valori; Rojas, invece, risponde che gli elementi morali presenti nell'opera (ad esempio i comportamenti dei personaggi) dipendono dai personaggi stessi, dal modo in cui sono concepiti, dal disegno complessivo della narrazione. Insomma, che la storia tratti del bene o del male dipende da quale storia raccontiamo: se il protagonista del romanzo è Diabolik, non si può pretendere che non ci siano omicidi. "Gran filósofo era".

Abbiamo allora due possibilità interpretative: la prima è che Rojas stia mentendo quando dice di non conoscere il primo autore; la seconda, che -modificando la sua versione iniziale- connette l'anonimato alla struttura stessa dell'opera e alla novità della concezione. Rojas, insomma, è consapevole che nel suo tempo c'è un deficit di cultura, e che la letteratura può colmarlo, se si rinnova, ma sa anche che questa operazione non può essere indolore, perché si tratta di combattere una vera e propria battaglia contro i pregiudizi.

Inoltre, Rojas stesso connette il suo anonimato a quello del presunto primo autore, quasi considerando l'uno conseguenza dell'altro, ma fornendo di ciò una giustificazione poco credibile:

"Y pues él con temor de detractores y nocibles lenguas más aparejadas a reprehender que a saber inventar, quiso celar e encubrir su nombre, no me culpéys si en el fin baxo que le pongo, no espresare el mío".

È un'insistenza eccessiva sul topico della modestia: Rojas non aggiunge un finale (un fin baxo), ma ben 15 atti, e in seguito altri 5. Se ragioniamo anche solo a peso, è ben più grande la parte aggiunta della parte originale (circa l'83% contro il 17% del totale): dunque è inevitabile che una lode così aperta all'opera dell'autore primitivo (presunto) non si rifletta anche nella continuazione, soprattutto quando il lettore andrà a leggere il testo e non noterà nessuna caduta di livello dopo il primo atto. Il che la dice lunga sul ruolo retorico del manoscritto trovato per caso. Insomma Rojas dice: se ha voluto restare anonimo lui, per paura dei detrattori, figuriamoci io, che abbasso il livello del testo! E siccome questa dichiarazione è finta, dato che Rojas si presenta con nome, cognome, luogo di nascita e titolo professionale (!) nei versi acrostici che precedono l'opera, risulta anche finta e retorica la motivazione della paura dei detrattori.

Segue, continuando il testo, il riferimento al tempo record di quindici giorni in cui avrebbe Rojas completato la stesura della Comedia:

"Mayormente que, siendo jurista yo, aunque obra discreta, es agena de mi facultad, y quien lo supiese diría que no por recreación de mi principal estudio, del qual yo más me precio, como es la verdad, lo fiziesse, antes distraído de los derechos, en esta nueva lavor me entremetiesse. Pero aunque no acierten, sería pago de mi osadía. Asimismo pensarían que no quinze días de unas vacaciones, mientra mis socios en sus tierras, en acabarlo me detoviesse, como es lo cierto, pero aun más tiempo y menos accepto".

Sottolineare la distanza tra la propria professione e la scrittura delle commedie era un fatto normale e, come vide a suo tempo Lida de Malkiel, una forma di captatio benevolentiae. Però, se leggiamo questo topos nella progressione in cui Rojas lo inserisce, vediamo che gli risulta aggiunto un valore particolare: ancora una volta Rojas allontana il testo da sé, presentandolo come un'opera che va letta senza tenere in considerazione chi sia l'autore, la sua cultura, la sua posizione sociale; l'opera poggia su se stessa, descrive un mondo poetico coerente e sufficiente. Questo è coerente con l'idea che le reprehensión dei detrattori si rivolga al contenuto o a singoli episodi, senza vedere la loro relazione con l'intero mondo poetico creato dall'autore, all'interno del quale risultano naturali e necessari.

Non è, ovviamente, credibile che l'opera sia stata "continuata" e portata a termine in quindici giorni. Inoltre, nei versi acrostici prima citati Rojas afferma di aver trovato il testo a Salamanca, città in cui aveva frequentato l'università: città, peraltro, da cui in periodo di ferie è più logico allontanarsi in cerca di fresco.

 

Il movente: l'anonimato e il significato della Celestina

Venendo ora al Prólogo vero e proprio, è stato spesso notato il suo carattere prolisso, come se la penna di Rojas avesse perduto scioltezza e abilità. Si potrebbe provare una lettura diversa. Se si accetta che l'intero testo è costruito sulla finzione del manoscritto trovato, e che Rojas ha consapevolmente giocato a nascondere l'autore, a distanziare la sua opera da sé, si può agevolmente supporre che nel prologo continui il suo gioco: non per nulla, verso le ultime righe, richiama alla memoria la presenza del primo autore, confermando di essere un semplice continuatore. Si potrebbe allora supporre che, nella continuazione del gioco, questo prologo sia, nella forma, una parodia: Rojas dice delle cose certamente molto importanti, e direi capitali per l'interpretazione della Celestina, ma lo fa parodiando un altro testo, come se si trattasse di un'esercitazione universitaria: trascrive un brano da Petrarca, che si dilunga a dismisura nell'esemplificazione di tutto ciò che nel mondo mostra i segni della guerra e della contesa, tra gli animali di cielo, di terra e di mare, tra uomini di ogni età, tra lettori, a commento della frase di Eraclito: "Tutte le cose sono state create a guisa di contesa"; in tal modo affronta questo tema solenne e antico con argomentazioni spesso paradossali, come l'esempio dell'uccello Roc, che nel becco porta un'intera nave con tutto il suo carico, la solleva fino alle nubi e poi lascia che i marinai cadano nel suo volo ondeggiante. È abbastanza improbabile che Rojas, o chiunque altro avesse un po' di cultura, o anche solo di cervello, potesse credere una simile panzana.

È stato anche rilevato che non si può prendere sul serio Rojas quando loda il modo giusto di usare la Celestina, trattenendo nella propria memoria, per giovarsene, le sentenze e i detti dei filosofi in essa contenuti: si tratta in genere di sentenze di personaggi da bordello o marginali. Un altro indizio di un'intenzione parodica potrebbe essere un possibile gioco di parole, quando dice che i giovani dissentono dall'opera: "la tercera (edad), que es la alegre juventud y mancebía, discorda". Mancebía è un termine che significa sia giovinezza (da mancebo), sia bordello, e questa seconda accezione è la più frequente. Dice il Tesoro de la lengua castellana o española di Covarrubias: "Mancebía: Puede significar la junta de los mancebos, o mozos solteros; pero de ordinario significa el lugar o casa pública de las malas mujeres". Certamente, questa seconda accezione non può essere il significato primario del termine in questo caso, né stilisticamente, dato che viene utilizzato un tono solenne, né dal punto di vista grammaticale, perché la frase non avrebbe senso: "la terza, che è l'allegra giovinezza e il bordello, dissente" -non credo che sia una traduzione possibile, perché si avrebbe una stonatura con il resto dello stile. Tuttavia, inserendo i due termini, juventud e mancebía come sinonimi, all'interno di una scrittura ampollosa, per il doppio senso di mancebía si crea immediatamente un effetto comico, che rivela l'intenzione parodica generale: mancebía significa giovinezza, ma richiama mentalmente il bordello, creando ad arte l'imitazione di un caso di umorismo involontario. Storicamente, la Celestina era letta nei bordelli, e se ne ha, tra l'altro, una testimonianza esplicita nella Lozana andaluza.

Comunque, introducendo l'idea che anche per gli uomini vale il detto di Eraclito, Rojas scrive:

"¿Pues qué diremos entre los hombres a quien todo lo sobredicho es subjeto? ¿Quién explanará sus guerras, sus enemistades, sus embidias, sus aceleramientos y movimientos y descontentamientos? ¿Aquel mudar de trajes, aquel derribar y renovar edificios y otros muchos affectos diversos y variedades que desta nuestra flaca humanidad nos provienen?".

Questa allusione alla nuestra flaca humanidad ha un carattere piuttosto singolare, perché fa pensare a una persona che svaluta il presente, considerandolo corrotto rispetto all'austero e nobile buon tempo andato. Però questo atteggiamento non è affatto attribuibile a Rojas, che in questo momento scrive come un moralista, ma non lo è. Non aveva detto, nella lettera all'amico, che i detrattori non sanno inventare? Non aveva lodato appunto un'opera mai vista né udita in lingua castigliana? Non aveva definito opera utile, un vero e proprio servizio ai concittadini, la ricerca, stando in un paese straniero, delle cose che mancano nel proprio, in modo da poterle importare e arricchire così la propria terra, la cultura e la tradizione? La debolezza dell'umanità non è dunque il frutto di una decadenza, come potrebbe affermare qualunque tradizionalista (cioè un tipo umano che è più agevole classificare tra i potenziali "detrattori") ma è un elemento costitutivo dell'umanità. Checché ne dicano le scritture idealizzanti, l'umanità è debole.

La prima cosa affermata con forza da Rojas nel prologo è che tutte le cose sono create in forma di contesa: "Todas las cosas ser criadas a manera de contienda o batalla, dize aquel gran sabio Eráclito...". Alla concezione ideale di un mondo armonico e ordinato (probabilmente quella concezione a cui fanno riferimento i "detrattori"), oppone una visione mobilista e dialettica della realtà. Il processo conflittuale del divenire non dipende da cause contingenti o dal frutto di libere scelte, da immoralità, ma è insito nella struttura stessa del mondo creato: è una nota della sua realtà creaturale. Dunque, se armonia e ordine esistono, debbono essere non la negazione degli opposti, ma qualcosa di intrinseco all'opposizione stessa: questa opposizione è armonica. Ne deriva che, contro ogni assolutismo, essere in conflitto, essere in disaccordo è normale e accettabile: è inevitabile. Da qui il secondo punto: la realtà conflittuale e dialettica del mondo e della vita si riflette o prolunga nella scrittura e nel conflitto delle interpretazioni. In particolare delle interpretazioni della Celestina.

"Y pues es antigua querella y visitada de largos tiempos, no quiero maravillarme si esta presente obra ha seído instrumento de lid o contienda a sus lectores para ponerlos en differencias, dando cada uno sentencia sobre ella a sabor de su voluntad. Unos dezían que era prolixa, otros breve, otros agradable, otros escura; de manera que cortarla a medida de tantas y tan differentes condiciones a solo Dios pertenesce. Mayormente pues ella con toda las otras cosas que al mundo son, van debaxo de la vandera desta notable sentencia, "que aun la mesma vida de los hombres, si bien lo miramos, desde la primera edad hasta que blanquean las casas, es batalla" Los niños con los juegos, los moços con las letras, los mancebos con los deleytes, los viejos con mill especies de enfermedades pelean y estos papeles con todas las edades. La primera los borra y rompe, la segunda no los sabe bien leer, la tercera, que es la alegre juventud y mancebía, discorda. Unos les roen los huessos que no tienen virtud, que es la hystoria toda junta, no aprovechándose de las particularidades, haziéndola cuento de camino; otros pican los donayres y refranes comunes, loándolos con toda atención, dexando passar por alto lo que haze más al caso y utilidad suya. Pero aquellos para cuyo verdadero plazer es todo, desechan el cuento de la hystoria para contar, coligen la suma para su provecho, ríen lo donoso, las sentencias y dichos de philósophos guardan en su memoria para trasponer en lugares convenibles a sus autos y propósitos. Assí que quando diez personas se juntaren a oír esta comedia en quien quepa esta differencia de condiciones, como suele acaescer, ¿quién negará que aya contienda en cosa que de tantas maneras se entienda?".

Si sottolinea in questo brano una coerenza tra il mondo e l'opera che, evidentemente, lo riflette o descrive nella sua struttura fondamentale. Il conflitto delle interpretazioni consiste nel fatto che una cosa (un testo, nella fattispecie) viene intesa in tanti modi: ciascuno legge prendendo pezzi dell'opera e trascurando il resto; il lettore valuta con un criterio suo e non con il criterio che l'opera stessa richiede e fonda: "dando cada uno sentencia sobre ella a sabor de su voluntad" (voluntad, tra gli altri significati ha quello di "elección de alguna cosa sin obligación, u otra razón particular para ella", secondo il Diccionario de Autoridades). Segue un elenco di giudizi subiti dall'opera, che sono, con ogni evidenza, esempi di visioni parziali e riduttive.

È questa una posizione modernissima, e francamente non si capisce come sia stato possibile in passato considerare la Celestina come un'opera "medievale". Si noti che Rojas allude a una lettura pubblica, e quindi dotata di una certa teatralità, e che continua a qualificare l'opera come "commedia" ("oír esta comedia"), in un'edizione che ha nel frontespizio il nuovo titolo: Tragicomedia. La questione del titolo viene affrontata subito dopo:

"Otros han litigado sobre el nombre, diziendo que no se avía de llamar comedia, pues acabava en tristeza, sino que se llamase tragedia. El primer autor quiso darle denominación del principio, que fue plazer, y llamóla comedia. Yo viendo estas discordias, entre estos estremos partí agora por medio la porfía y llaméla tragicomedia".

Il prologo procede secondo una struttura argomentativa ordinata, dal generale al caso specifico, e infine al dettaglio: tutto è contesa, la vita umana è contesa, la lettura di un testo è contesa, il titolo è oggetto di contesa. Pare che si sia discusso parecchio sulla Comedia, e tra le tante cose che si potevano citare, visto che Rojas ha voluto fare questo riferimento, sceglie pochissimi elementi: principalmentre due, il titolo e il finale. Non ci vuol molto a concludere che si tratta per lui di due questioni estremamente importanti.

La polemica sul titolo concerne specificamente l'indicazione del genere letterario a cui il testo appartiene. La questione era allora meno futile di quanto appaia oggi, perché l'appartenenza a un genere letterario implicava di fatto alcune chiavi di lettura collegate al genere stesso, inteso come contenitore di temi, stili e chiavi interpretative. Sembra di capire che la discussione su commedia o tragedia riproponesse il tema di fondo del conflitto interpretativo: ciascuna delle tesi in campo si fonda su alcuni elementi del testo, però ne trascura altri. Ovvero sia chi sostiene che la Celestina è una commedia, sia chi sostiene che è tragedia, ha ragione, ma ha ragione in parte. In effetti, se così non fosse, il cambiamento del titolo non sarebbe giustificato, visto che tra l'altro l'originale risale al "primo autore": non si avrebbe l'autorità né il diritto di farlo.

Forse qui Rojas ha una svista: cambiare il titolo significa affermare implicitamente che la sua non è solo l'aggiunta di un finale al testo, ma una continuazione che ha implicato cambiamenti profondi, cambiamenti a livello dell'intenzione stessa dell'opera: implica, diciamo così, un atteggiamento da padrone su una parte del testo che finora aveva trattato con religioso rispetto. O non è una svista? Comunque gli sembra che ci siano delle ragioni per cambiare il titolo, che questo cambiamento non sia una modifica leggera e marginale, perché sostanzialmente le due interpretazioni sono fondate ma parziali, ed è importante sottolineare questa complementarietà degli elementi in contrasto (Eraclito, ancora!). E, di fronte al conflitto, l'atteggiamento di Rojas è: non schierarsi, non accettare un'interpretazione dimezzata, accettare anzi il conflitto interpretativo come naturale conseguenza del carattere unitario e nuovo della Celestina. Da qui il suo bisogno di piegare la teoria dei generi letterari alle esigenze del suo testo, e creare, o recuperare dalla tradizione, l'ibrido "tragicommedia".

Con ciò, a ben vedere, Rojas non risponde alle attese dei contendenti perché si colloca su un altro piano. I lettori vogliono che la Celestina sia univocamente commedia o tragedia; Rojas, invece, vuole che non sia univoca: unitaria sì, ma attraverso la pluralità delle voci che vi intervengono, come nella concordia discorde di Eraclito. In fondo nel Prólogo non dice altro: l'unità della realtà è il conflitto dei suoi elementi costitutivi, e questo si trasferisce prima nella letteratura, poi, di conseguenza, nell'interpretazione delle opere letterarie:

"Assí que viendo estas contiendas, estos díssonos y varios juyzios, miré a donde la mayor parte acostava y hallé que querían que alargasse en el proceso de su deleyte destos amantes sobre lo qual fuy muy importunado, de manera que acordé, aunque contra mi voluntad, meter segunda vez la pluma en tan estraña lavor y tan agena de mi facultad, hurtando algunos ratos a mi principal estudio, con otras horas destinadas para recreación, puesto que no han de faltar nuevos detractores a la nueva adición".

Rojas attribuisce a pressioni esterne l'idea di inserire i cinque atti aggiuntivi. La cosa è plausibile, ma per motivazioni diverse da quelle che sostiene: il brusco finale della prima redazione può essere stato oggetto di discussione, e in particolare di una critica non esterna, ma interna all'opera. Si può infatti obiettare sulla coerenza del finale e sulla scelta dei tempi rispetto a tutto il testo, o su un cambio di ritmo che quasi dà l'impressione di voler chiudere la narrazione con il deus ex machina di una strage, peraltro non ben motivata. Questi problemi vengono risolti con l'inserimento di atti che, quasi, rappresentano un'intera farsa. Naturalmente, la modifica esige comunque che Rojas conservi la coerenza con quanto aveva scritto nella Lettera all'amico: che scrivere non era il suo mestiere, che lo aveva fatto occasionalmente durante una vacanza, ecc. Scoprendosi, con le aggiunte, che aveva continuato a scrivere, doveva necessariamente dare una giustificazione e mostrarsi "molto importunato" e quasi costretto ("anche contro la mia volontà").

Siamo dunque legittimati a pensare a queste insistenze come a un ulteriore elemento del gioco impostato da Rojas fin dalla prima pagina, attraverso la creazione divertita di una situazione enigmatica: teme le malelingue, le critiche di chi potrebbe accusarlo di trascurare il lavoro (colleghi, clienti, il suo mondo sociale più stretto), ma dice anche che "la maggioranza" gli chiedeva di allungare il testo: quale maggioranza? La maggioranza di chi? Se il testo era ufficialmente anonimo, si può pensare che un lettore qualunque, che so io di Siviglia o di Valencia, avesse la possibilità di contattare don Fernando de Rojas e chiedergli di scrivere qualche atto in più? Non è più ovvio pensare che Rojas alluda alla maggioranza della gente che frequentava nel suo lavoro e nel suo ristretto mondo sociale? E in tal caso che senso ha la sottolineatura dell'estraneità dell'impegno letterario rispetto alla serietà della sua professione? Solo un senso retorico: un topos di modestia, di rispetto, ma anche funzionale al gioco precedente del manoscritto trovato per caso. Seconda ipotesi: c'è una maggioranza di persone che conoscono Rojas, ma non fanno parte del suo ambiente di lavoro: si rivolgono in modo diretto a uno scrittore, ufficialmente nascosto dall'anonimato, e parlano con lui della sua opera, anzi lo importunano. Questo implicherebbe che la vita lavorativa di Rojas non coincideva con la sua vita privata, nella quale coltivava interessi diversi, forse letterari, di cui si è perduta ogni traccia.

 

La perizia di parte: che significa "commedia"

La polemica sul nome (commedia o tragedia) è di straordinario interesse per l'interpretazione del testo. Il termine "commedia" (comedia) aveva nel Cinquecento un significato ampio: poteva essere usato per denominare opere che oggi classificheremmo in generi letterari diversi -ad esempio: la Comedia de Calisto y Melibea, la Comedia Tesorina, la Carajicomedia. Sono opere diverse e in diverso modo collegate al teatro. Ciò che per noi è ovvio -che una commedia sia scritta per la rappresentazione teatrale- nella Spagna del rinascimento è il risultato di un lungo processo di formazione del genere teatrale.

Per chiarire il senso del termine commedia nel Cinquecento si può partire dal Diccionario de Autoridades, che è posteriore, ma fornisce definizioni applicabili a questa epoca. Si ricorre a una citazione di Pedro Simón Abril, traduttore di Terenzio:

La comedia es, según los Griegos, una comprehensión del estado civil y privado, sin peligro de la vida: y según la sentencia de Tulio, la comedia es imitación de la vida, espejo de las costumbres, e imagen de la verdad.

Concetti simili vengono usati da Bartolomé de Torres Naharro nel Prohemio della sua Propalladia, l'edizione delle sue commedie pubblicata a Napoli nel 1517 -si tratta di testi specificamente destinati alla rappresentazione teatrale:

Comedia, según los antiguos, es cevilis privateque fortune, sine periculo vite, comprehensio; [...] y según Tulio, comedia es imitatio vite, speculum consuetudinis, imago veritatis.

Accanto a questa definizione classica (basata ancora una volta su Cicerone), Torres Naharro aggiuge il suo modo personale di concepire la commedia: un artificio ingegnoso, o piuttosto geniale, che intreccia avvenimenti a lieto fine, nello spazio di cinque atti, e con uno stile in cui il linguaggio sia adeguato al carattere e alla cultura di ciascun personaggio. Tuttavia, non pensando ora al teatro, la definizione del Diccionario allude a temi che riguardano o abbracciano lo stato civil y privado: civil, oltre al suo significato basico, viene definito dallo stesso dizionario come "sociable, urbano, cortés, político y de prendas propios de un ciudadano"; privado indica invece "lo que se ejecuta a vista de pocos, familiar y domésticamente, y sin formalidad ni ceremonia alguna, o lo que es particular y personal de cada uno". Si tratta cioè di argomenti legati alla vita quotidiana, sociale o privata, privi di tensione drammatica e conflitti violenti: "senza pericolo di vita". Non vengono descritti fatti solenni ed eroici, imprese politiche o militari, conflitti religiosi, orientandosi invece verso una scrittura tendenzialmente realista e disimpegnata: "imitazione della vita, specchio dei costumi e immagine della verità".

Un dizionario precedente, l'Universal vocabulario di Alfonso de Palencia, risalente alla fine del Quattrocento, dice che la commedia "comprehende hechos de personas bajas y no es de tan grande estilo como la tragedia".

In realtà, di per sé la commedia non è necessariamente bassa e volgare, pur essendo certo ben diversa dalla tragedia. Il Diccionario de Autoridades definisce quest'ultima una rappresentazione seria di azioni illustri di principi ed eroi: richiede uno stile elevato e abitualmente finisce in modo funesto. Per Alfonso de Palencia, tragedia è "cualquier cosa que los antiguos pronunciaban en versos llorosos".

Abbiamo dunque che la commedia è tendenzialmente una descrizione di scene di vita con personaggi quotidiani e familiari, costumi e usanze di ogni giorno, e in tal senso è un'immagine della verità. Parla con stile piacevole di come vanno le cose, ricorre anche alla caricatura, ai tipi, e non va presa sul serio. In generale non c'è tragedia per il contadino o l'artigiano.

Ora, data l'evidente differenza formale tra le tre opere che citavo prima, sembra ovvio pensare che il concetto di commedia si leghi a un tema, più che a un genere letterario. La Celestina, o Comedia de Calisto y Melibea, si presenta infatti come un lungo dialogo, nel quale non interviene mai la voce di un narratore esterno ai personaggi; la Tesorina è una commedia teatrale tipica, più o meno corrispondente a ciò che oggi qualifichiamo come commedia; la Carajicomedia è un testo osceno, in versi, che oggi collocheremmo tra le bizzarrie goliardiche. Se tutte e tre sono considerate comedia, in un'epoca che teneva molto alla classificazione dei generi, è perché erano accomunate da un tipo di scrittura, o meglio da un modo di descrivere il quotidiano. Erano -lo dico con volontaria imprecisione- una cosa comica.

 

La confutazione dei testimoni: le interpretazioni

Per molto tempo è stata dominante l'interpretazione secondo cui la Celestina sarebbe un grande exemplum morale, tesi che lo stesso autore proclama e ripete nel testo, benché con un formalismo rituale che non dimostra nulla: dichiarazioni di intenti morali si trovano anche nei testi più osceni del tempo. Il problema è che la Celestina non contiene una morale, ma presenta piuttosto dei conflitti morali, che la rendono ambigua. Ora, questa ambiguità è rivendicata da Rojas stesso, che ne fa l'aspetto più caratteristico dell'opera. Abbiamo visto che, per spiegare le ragioni del cambiamento del titolo -da commedia a tragicommedia-, Rojas si abbandona a una lunga riflessione sul carattere dialettico del reale, dove tutto è guerra, contesa, compresenza di opposti: "non mi meraviglio se la presente opera è stata strumento di lite o contesa per i suoi lettori, mettendoli su posizioni differenti".

L'indicazione del genere letterario valeva già come una chiave di lettura dell'opera. È evidente che la Celestina è fuori dalle definizioni ricordate. Contiene la materia comica, legata a gente di basso rango sociale, ma c'è anche il finale funesto, e le gesta del nobile Calisto sono tutt'altro che esemplari. Nel chiamarla commedia, Rojas non aveva in mente i fatti solenni e le morti conclusive, ma almeno il realismo descrittivo e l'ispirazione tratta dalla vita quotidiana. In questo contesto la descrizione del mondo nobiliare risultava ambigua e la si poteva interpretare come la presentazione di un comportamento abituale, criticabile, dell'intera classe nobiliare. In effetti, un maligno avrebbe potuto pensare che, nella versione primitiva, tutto l'improvviso cadere di corpi (di Melibea dalla torre, dei servi dalla finestra, di Calisto dal muro) fosse un cinico sberleffo, una variante particolarmente cattiva di danza della morte... Francamente, io mi sono fatto l'idea che Rojas sia stato affascinato proprio da questa possibilità narrativa, e che solo in un secondo momento si sia reso conto che un finale così precipitoso e precipitante -un intero universo che cade- era incoerente con il resto dell'opera, tutto basato su altri tempi.

Dunque, se si dà peso, come fa Rojas, al problema del genere letterario della Celestina, cioè al problema del suo significato, (tra l'altro è solo in queste pagine che Rojas parla in prima persona) risulta evidente che la soluzione data dall'autore, chiamandola tragicommedia, è un modo geniale per confermare tutta l'ambiguità del testo, per dichiarare, cioè, che essa è voluta e non deriva da un difetto di composizione. Rojas rifiuta di dare ragione agli uni o agli altri e afferma che entrambe le interpretazioni sono vere in parte, contengono una parte della verità. L'opera descrive la vita umana, nella cui realtà il positivo e il negativo sono intrecciati. Detto in altri termini, la Celestina è la descrizione del conflitto.

Ora, questo intreccio è un intrico difficile da sciogliere. Nelle opere medievali di un certo spessore c'era sempre la lotta tra il bene e il male, ma l'autore, o il personaggio guida all'interno del testo, mostrava al lettore, senza equivoci, quale fosse il bene e quale il male. Nel Poema de mio Cid, ad esempio, Rodrigo de Vivar è buono e gli Infanti di Carrión sono cattivi: dentro il testo non hanno altra possibilità, sono, per il loro stesso ruolo, il personaggio negativo, e la situazione morale è perfettamente chiara. La massima cura del testo sta nell'eliminare ogni ambiguità al riguardo: uno ha tutte le virtù, gli altri hanno tutti i difetti.

Nella Celestina non è più così, perché di ogni personaggio si possono evidenziare torti e ragioni, diversi dai torti e dalle ragioni degli altri. Inoltre non c'è alcuna voce guida per il lettore: si tratta di un dialogo in cui ogni personaggio si rivolge agli altri, senza alcuna parte descrittiva. E siccome ogni personaggio formula un suo giudizio sulla vicenda e sugli altri protagonisti, ci viene presentato senza commento il gioco delle prospettive che entrano in conflitto, ma non ci viene detto chi ha ragione. Ogni personaggio si difende, si giustifica, cerca il proprio profitto. Faccio un solo esempio: per un pregiudizio inveterato, noi siamo portati a immaginare Melibea come una fanciulla dolce e bellissima, ma di Melibea il testo, non a caso, dà due descrizioni: quella di Calisto, retorica e conforme ai canoni della descrizione della donna dell'amor cortese, e quella di Elicia, nel IX atto, secondo cui la bellezza di Melibea "por una moneda se compra de la tienda". Se adottiamo un atteggiamento neutrale e privo di pregiudizi, dobbiamo confessare che noi non abbiamo mai visto Melibea e non sappiamo chi la descrive in modo aderente ai fatti. Ma, più ancora, dobbiamo constatare che Rojas non descrive Melibea, bensì la lascia descrivere dagli altri personaggi, e questo conduce, coerentemente, a una pluralità di ritratti, ciascuno dei quali relativo agli interessi di ogni osservatore. La geniale novità è che scompare la voce narrante esterna che ci indica chi ha ragione: alla fin fine, il mondo è pieno di bei giovanotti che si innamorano alla follia di figure presuntivamente femminili che, per analogia, ricordano più l'orrido che l'angelico.

Un altro esempio si può vederlo commentando una classica, e datata, lettura della Celestina come testo che metteva in guardia dai pericoli della magia. In effetti la vecchia protagonista viene descritta come una fattucchiera, ma un servitore, che è vissuto a stretto contatto con lei, dice chiaramente che tutte le sue magie erano un imbroglio. Questa tesi di Pármeno si trova nel testo insieme alle affermazioni di Celestina, che dice di operare fatture, ecc., ma Rojas non scrive una sola parola per dire chi dei due avesse ragione. Quando l'interprete moderno ha visto nel testo una denuncia dei pericoli della magia, ha dovuto escludere dalle sue considerazioni lo scetticismo di Pármeno: cioè ha dovuto interpretare in un senso, piuttosto che in un altro, un dato testuale che l'autore lascia inspiegato. Allora non è importante sapere se veramente la magia di Celestina è efficace (presupposto perché il testo sia letto come una denuncia della stessa), ma sottolineare che questa tesi è il risultato di una costruzione interpretativa nostra che prende alcuni elementi del testo e non altri: un altro lettore potrebbe rovesciare il ragionamento e costruire una tesi opposta, basandosi piuttosto sulle affermazioni di Pármeno, e in tal modo saremmo nel pieno di una contesa interpretativa, di un conflitto delle interpretazioni, di cui Rojas appunto ha sottolineato l'importanza e che si è rifiutato di eliminare.

Il mondo poetico della Celestina è conflittuale e ambiguo, come riflesso descrittivo del mondo reale, divenuto anch'esso conflittuale e ambiguo. Proprio per questa descrizione del quotidiano esso era commedia, benché appunto il quotidiano portava in sé gli elementi tragici. Il quotidiano è appunto il luogo del conflitto, ma di un conflitto speciale. Anche nel Mio Cid esiste il conflitto, ma sappiamo chi ha ragione e chi ha torto; dunque, con tutto il suo aderire alla storia e alla cronaca, il Mio Cid ha un realismo ingenuo: l'intera vicenda storica, l'intero mondo è visto è giudicato con gli occhi e la prospettiva unica di un personaggio. Questo realismo cessa di essere ingenuo quando Rojas fa un'operazione geniale, che nel XIII sec. non era possibile: è come se qualcuno ci dicesse di considerare che il Cid ha le sue gravi colpe e che gli Infanti di Carrión hanno delle ottime ragioni, e non riusciamo a sbrogliare la matassa per dire chi effettivamente va assolto in un ipotetico giudizio.

Invece Rojas mette in scena un problema in quanto tale, facendo in modo che ciascun personaggio presenti le sue giustificazioni soggettive; per questo deve rendere i personaggi autonomi dall'autore, cioè deve farli apparire come se fossero reali, come se si muovessero per loro decisione e come se l'autore, che comunque ha creato la scrittura, fosse solo un neutro osservatore che descrive senza prendere posizione. Non c'è più, insomma, l'identificazione tra il pensiero dell'autore e le idee esposte dai personaggi: questi si muovono e pensano secondo una loro coerenza. La letteratura viene sottratta a scopi che le siano estranei, per esempio alle necessità della didattica. Quando Areúsa dice che preferisce prostituirsi per avere una propria vita autonoma, piuttosto che andare a servizio, questa affermazione non va letta primariamente come una tesi sostenuta da Fernando de Rojas, ma come un'affermazione perfettamente coerente con il personaggio di Areúsa, quale è stato descritto: il lettore, immaginandosi il personaggio, capisce che quella dichiarazione è realistica, è qualcosa che una persona reale, più o meno simile ad Areúsa, direbbe quasi certamente, o comunque potrebbe dire. La stessa cosa vale, ad esempio, per il lamento finale di Pleberio, il padre di Melibea: non è primariamente la valutazione di Rojas sull'intera vicenda, ma sono le parole che dice un padre di fronte alla tragedia, coerentemente con il carattere che gli è stato costruito e che il lettore ha conosciuto attraverso le pagine precedenti.

Questo significa che Rojas ha letteralmente creato lo spazio autonomo della letteratura. Per esempio, l'atto IX dell'opera quasi non contiene alcun episodio utile per lo sviluppo della trama. Voglio dire che, a parte una notizia che arriva e viene descritta in tre righe, l'intero atto potrebbe essere tolto senza che questo crei ostacoli alla comprensione della vicenda. Però, dal punto di vista letterario, quell'atto è importantissimo: è la descrizione di un pranzo in cui si mostra come la diversità di caratteri e sensibilità dei personaggi agisce come movente della vicenda, attiva conflitti e gelosie, movimento, e come gli eventi descritti siano letterariamente radicati nei singoli personaggi stessi. Questo atto è l'autonomia della letteratura, è il testo che, probabilmente, ha insegnato alle generazioni posteriori che cosa può essere il teatro e come può costruirsi un romanzo. Il realismo di Rojas è dunque multilaterale: descrive cioè la percezione che ogni personaggio ha della realtà sulla base del suo punto di vista, così come avviene nella vita quotidiana.

 

La scena del delitto

Il testo si apre con una scena comica. Calisto è folgorato da Melibea, che ha incontrato per caso, e prorompe in una dichiarazione d'amore che imita goffamente le forme cortesi. Non è esperto nei codici d'amore e risulta goffo; scambia una minaccia di sberle con la promessa di un premio e, prostrato dal rifiuto di Melibea, cade in una depressione ostentata ed esagerata.

Segue una scena col servo Sempronio, dove gli effetti comici sono farseschi, e Sempronio propone il ricorso a Celestina per ottenere un incontro con Melibea. Con l'intervento della vecchia ruffiana risulta chiaro che Calisto viene considerato uno sciocco, al quale si spera di sottrarre la massima quantità di ricompense per i servizi prestati. Nobile di condizione, Calisto non ha alcuna virtù morale: Celestina lo dice chiaramente, ed anzi svaluta in blocco l'intera classe nobiliare del suo tempo.

Come il personaggio socialmente positivo non è affatto positivo anche sul piano morale, così i personaggi di bassa estrazione sociale non sono da condannare totalmente. Celestina descrive un conflitto che, in fondo, torna anche nelle parole di altri protagonisti ed era comune all'epoca: i nobili sono egoisti, allora i loro servitori debbono arrangiarsi, prendere quel che possono e quando possono, perché altrimenti non otterranno niente come ricompensa del loro lavoro. Nessuno è senza colpe, nessuno può vivere senza cercare il proprio guadagno: da qui un gioco di alleanze e cambiamenti di campo che seguono l'evoluzione delle circostanze.

Accanto al denaro, un grande interesse o movente è l'amore: quello di Calisto, sensuale pur nel goffo rivestimento retorico, quello disinibito dei servi e delle ragazze al servizio di Celestina, e quello mercenario. Si tratta sempre di un amore centrato sulla sessualità, che non ha alcuna disapprovazione morale. In ogni situazione l'amore è presentato come naturale, e Rojas non si fa scrupolo di inserire, in un testo destinato alla fascia alta della letteratura, qualche scena più che piccante.

In effetti, anche se si tiene formalmente fuori dal testo -distanziandolo da sé al punto di presentarlo con un finto anonimato- Rojas controlla ogni minimo particolare del mondo poetico che costruisce e si intuiscono in modo trasparente alcune simpatie: già il fatto di aver messo in conflitto personaggi bassi o emarginati e nobili, in una situazione di ambiguità in cui il nobile non ha ragione a priori, significa dare alle figure sociali emarginate una cittadinanza, almeno letteraria, che esse di fatto non avevano in un'epoca in cui vigeva il diritto disuguale.

La descrizione della prostituzione nell'opera è coerente con i dati storici che possediamo, e il quadro letterario descrive fedelmente una situazione molto diffusa.

La prostituzione nei bordelli rinasce nel medioevo, quando rinascono i borghi dopo il 1000, e spesso per iniziativa delle autorità: non è raro che il bordello sia costituito con denaro pubblico e dato in gestione a persone che erano socialmente rispettate. La prostituzione era un mestiere regolamentato, al quale spesso si affiancava un esercizio abusivo, nelle case private, esercitato senza pagare le tasse stabilite. Non c'è bagno pubblico che non dia luogo ad appuntamenti galanti, mercenari o meno. In città come Valencia il bordello era in realtà un piccolo borgo, con circa trecento prostitute e il corredo di ogni servizio necessario, sia sanitario sia alimentare. A Siviglia era molto più grande.

Per Celestina il commercio sessuale è un lavoro come un altro, e dà soddisfazione. Vero è che lei è la tenutaria della casa e parla per interesse, ma anche le sue ragazze non sembrano sentire problemi morali particolari. Certamente la loro condizione non è bella né invidiabile, ma è anche imposta dalla miseria.

A questo quadro si aggiunge un bisogno di ribellione, di autonomia e di libertà. Dice Areúsa: "Vivo per mio conto da quando ho imparato a conoscermi, perché mi sono fatta vanto di non dirmi mai di altri, ma mia". Ironia della sorte, forse solo una donna pubblica poteva proclamare per la prima volta, cinquecento anni fa, la prima forma dell'io sono mia, sottintendendo tragicamente: a qualunque costo. L'anziana Celestina non aveva avuto queste motivazioni, neanche da giovane.

Naturalmente, questo tipo letterario non è un'apologia della prostituzione, ma un personaggio nel mondo poetico multilaterale cui si accennava prima. In una descrizione del mondo ufficiale e altisonante sarebbero presenti solo persone per bene. Nella descrizione del mondo reale fatta da Rojas ci sono anche gli emarginati e hanno le loro idee e la loro prospettiva. Una figura come Areúsa significa la creazione di un personaggio letterario critico, che rispecchia una realtà sociale e ne reclama i diritti. È la costruzione dell'antieroe: la negatività, che nel mondo significa emarginazione, viene accettata e diventa un punto di vista critico verso il mondo ufficiale, pulito e per bene. Evidentemente questa critica rimane sempre relativa: alla fin fine si tratta, nel caso in questione, delle idee di una puttana; però è anche evidente che la sua presenza nel testo, con una buona serie di argomentazioni, fa diventare relativo anche l'altro punto di vista, quello delle persone oneste. Qui risulta dirompente l'assenza di una voce che guidi il lettore, condannando o assolvendo gli uni o gli altri personaggi.

 

La fuga

Celestina riesce a combinare l'incontro tra Calisto e Melibea; i due giovani consumano il loro amore, ma la situazione precipita. Nella lite per la spartizione della ricompensa, Sempronio e Pármeno uccidono Celestina; scappano saltando da una finestra, ma si feriscono sono raggiunti dalle guardie che li giustiziano immediatamente; Calisto muore per una sciocca caduta mentre scavalca il muro di cinta della casa di Melibea; di fronte allo scandalo, Melibea rivendica con orgoglio le sue azioni e i suoi sentimenti, e si suicida gettandosi dalla torre di casa: il padre, che assiste alla scena, conclude l'opera con un lungo lamento che denuncia la malvagità del mondo.

Questo finale repentino, nella versione in sedici atti, colpisce il lettore soprattutto per l'assurdità della morte di Calisto: il gioco di casualità e di violenza affascina alcuni e lascia perplessi altri. Nella versione in ventiquattro atti Rojas impone una sequenza più lenta, e sembra voler eliminare la casualità. Areúsa, insieme alla collega Elicia, attiverà una serie di circostanze con lo scopo di organizzare la vendetta per la morte di Celestina. Incarica Centurio, uno spudorato fanfarone, di sorprendere Calisto mentre torna da un incontro con Melibea; in tal modo, sentendo del trambusto in strada mentre si sta intrattenendo con l'amata, Calisto scavalca il muro precipitosamente, ma mette un piede in fallo e cade dalla scala. Come dice Melibea, con parole aggiunte nella revisione: "Scendeva di fretta (...) con il grande impeto che aveva". Con questa modifica la morte di Calisto non appare più casuale, né svolge un ruolo di deus ex machina negativo, ma acquista una sua logica e si inquadra nella generale labilità psicologica che caratterizza i personaggi.

Melibea rifiuta di banalizzare il suo amore, e vede nel suicidio un atto di coerenza e dignità, ma è una coerenza nevrotica, condizionata dall'aver vissuto la contraddizione tra le apparenze esteriori della rispettabilità e la condotta privata: è la vera vittima, in fondo, di un'ipocrisia generalizzata, che viene criticata lungo tutto il testo.

I personaggi socialmente elevati sono retorici, mutevoli, senza ideali. Diciamolo chiaramente: Calisto cade perché sta scappando preso dalla paura. Non si ferma neanche a prendere la corazza, che pure serve (e Melibea glielo ricorda) dovendo andare in strada per impegnarsi in una zuffa, ma ha il tempo di farsi dare il mantello su cui sono sdraiati, che invece ostacola nella lotta, benché sia ottimo per coprirsi e non farsi riconoscere. Che origine ha l'impeto di Calisto mentre scende le scale, se non la fuga precipitosa? Come potrebbe risultare coerente con il carattere del personaggio un atto eroico? Rojas, dunque, vorrebbe riscattare Calisto con una morte nata da un impeto di generosità, e per questo lo lascia morire senza confessione?

C'è poi un livello intermedio fatto di idioti presuntuosi: i servi, che vedono i ricchi senza qualità e pensano sia facile fare il colpo, vivere d'imbroglio a spese altrui. Non hanno carattere e perdono facilmente il controllo della situazione appena qualcosa va storto, come quando uccidono Celestina in una vera e propria crisi di nervi.

Infine c'è il livello basso, quello di Celestina e delle sue accolite, che si sono formate un carattere nel gioco duro e nella lotta quotidiana per vivere. Celestina non si fa prendere dal panico, ma lo gestisce e se la sa cavare nei frangenti difficili (anche se non mette in conto di finire vittima del panico altrui). Moralmente indegna quanto si vuole, anche se sa giustificarsi con una certa forza di argomentazioni, Celestina è psicologicamente salda, come Areúsa, e il suo ambiente risulta in qualche modo assolto. La vendetta di Areúsa, forse recuperata dai modelli letterari della donna che si vendica nella poesia popolare, potrebbe rappresentare la voglia di riscatto sociale attraverso il personaggio che sente maggiormente il bisogno di libertà. E in fondo, al termine dell'opera, restano in piedi solo Areúsa e Pleberio, una coppia che più opposta non potrebbe essere: uomo / donna, anziano / giovane, nobile / prostituta... eppure entrambi concordanti sul fatto che il mondo è malvagio e cattivo. Ma in Pleberio questo serve, singolarmente, a non vedere le sue responsabilità individuali, a non mettersi in discussione; in Areúsa, invece, la malvagità del mondo è la premessa di una lotta: non per cambiarlo, ma almeno per crearsi uno spazio e, se possibile, riprendersi qualcosa di ciò che il mondo le ha tolto.

 

Conclusioni dell'accusa: assoluzione di Rojas per aver commesso il fatto

Per il lettore dell'epoca la Celestina è un testo sorprendente. Immerso in un dialogo, senza alcuna guida da parte dell'autore, che nulla descrive e nulla giudica, fin dalle prime pagine il lettore si muove decifrando segni che sono eloquenti per la sua cultura: osserva la descrizione di un cavaliere che non è all'altezza della sua nobiltà, né moralmente né culturalmente; incontra poi Celestina, notando che il personaggio letterario riflette assai fedelmente il tipo sociale delle vecchia ruffiana, che si incontrava in qualunque paese del tempo; i servi, naturalmente, sono ladri, come si addice a un padrone fatuo e presuntuoso. A metà dell'opera il lettore è del tutto convinto che si sta giocando, che viene presentata in chiave satirica una realtà quotidiana, con i suoi usi comuni e i difetti più diffusi, ma nel finale, certamente, un matrimonio riparatore, una legalizzazione della tresca, un colpo di scena, condurranno al lieto fine la vicenda, salvando al tempo stesso l'ordine sociale e morale. Con la benedizione della chiesa al matrimonio, risulterà chiaramente che Celestina è una vecchia reproba, un personaggio moralmente negativo, e i servi truffaldini saranno perdonati, previo pentimento, nella gioia della festa. Questo si aspetta il lettore, e ci resta di stucco quando scopre che Celestina viene ammazzata, e muoiono anche i servi, Calisto e Melibea, per di più suicida... il lettore si sente imbrogliato. Repentinamente il testo volge in tragedia, violando le tacite regole del gioco, e tutte le chiavi di lettura immaginate fino ad allora saltano per aria. Anzi, ora si accorge che Rojas non gli aveva fornito nessuna chiave di lettura.

Credeva, ma risulta un pregiudizio, che l'autore avrebbe distinto i buoni dai cattivi, il bene dal male. Non è abituato a personaggi come Celestina o Areúsa, che sono negativi ma sanno giustificarsi, e non senza ragione: non è abituato all'ambiguità nei testi letterari, e si chiede: che opera è? Come va letta e interpretata? E Rojas, nel Prólogo aggiunto posteriormente, gli risponde:

1. Tutto è contesa nel mondo, conflitto e guerra; perciò anche nella lettura di un testo letterario, che rispecchia il modo in cui vanno le cose al mondo, ci saranno conflitti di interpretazione.

2. C'è conflitto perché nell'opera, come nella realtà, non esistono "il buono" e "il cattivo" come persone o ruoli netti e definiti, senza contaminazione (un buono che sia solo buono; un cattivo che non abbia traccia di bontà), ma persone concrete, contraddittorie, problematiche, alle prese con circostanze vitali ambigue: i loro movimenti si intrecciano l'uno con l'altro, le loro motivazioni e gli obiettivi confliggono, e ciascuno ha la sua parte di ragione e di torto. Le vecchie chiavi di lettura che separano rigidamente il comico dal tragico non hanno più senso: l'opera, come la vita, è tragicommedia.

3. L'autore costruisce il suo mondo poetico, le vicende che costituiscono la trama dell'opera, su rapporti di causa ed effetto analoghi a quelli che si constatano nella realtà della vita e dei comportamenti quotidiani, e sviluppa la storia in modo coerente con il carattere che attribuisce a ciascun personaggio e con la situazione in cui lo inserisce: nel portare avanti la sua scrittura, non deve rendere conto di una tesi morale estrinseca alla letteratura, non obbedisce a scopi diversi da quelli della creazione di un testo letterario; deve solo fare in modo che ogni episodio nuovo si sviluppi dagli episodi precedenti, conservando analogie e verosimiglianze con quanto avviene nella realtà extraletteraria. Deve creare l'illusione nel lettore che la storia a cui assiste, immaginandola mentalmente o vedendola rappresentata sulla scena, sia "la realtà stessa".

4. Questo significa attribuire al mondo poetico una sorta di autonomia che lo fa esistere indipendentemente dall'autore: lo libera da obblighi didattici e gli permette di far agire i personaggi come se essi fossero autonomi, come se si muovessero per una loro motivazione interna e personale, insomma come se fossero persone. La capacità di operare scelte, che è propria di uomini e donne reali, si fa elemento essenziale nella costruzione dei personaggi che, in tal modo, sembrano poggiare su se stessi e dialogano tra loro, senza bisogno di rivolgersi, direttamente o indirettamente, al lettore.

5. Rojas sottolinea questa caratteristica nuova del suo mondo poetico, decidendo di scomparire dalla sua opera. Scomparire come autore, come presenza esplicita: la funzione del narratore viene eliminata dal testo, composto solo di dialogo, battute che un personaggio dice a un altro personaggio, come se null'altro esistesse. Più ancora: Rojas si nasconde sotto la maschera di un documento anonimo, trovato casualmente e continuato per gioco. È il massimo di distanziamento che uno scrittore possa prendere dalla sua opera, proprio per esaltarne l'autonomia: arrivare a negarsi e sparire, apparentemente senza scrivere più nulla, riducendosi al silenzio e all'invisibilità.

Con la Celestina, che a mio parere Rojas ha scritto di suo pugno dalla prima all'ultima parola, una concezione nuova della letteratura si impadronisce della scena culturale, e fino ad oggi non ha ancora abbandonato il suo ruolo di protagonista.

 

 

[1] Tutte le citazioni sono tratte dall'edizione di Dorothy S. Severin, Cátedra, Madrid 1994

[2] Sulla valenza politica dell'amor cortese nella Spagna del Quattro e del Cinquecento, e sulla sua demolizione critica ad opera di intellettuali dissidenti, si veda il mio L'amor scortese: fanatismo, pulizia etnica, trasgressione nell'epoca dei re cosiddetti cattolicin La Goliardica, Trieste 1998.

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