Arma virumque cano. Trojae qui primis ab oris. D. Nunc vero negare non possum, nescio qua soni deformitate me offensum. M. Non injuria: quamquam enim barbarismus factus non sit, id tamen vitium factum est, quod et grammatica reprehendat et musica: grammatica, quia id verbum, cujus novissima syllaba producenda est, eo loco positum est ubi corripienda poni debuit; musica vero tantummodo quia producta quaelibet vox est eo loco, quo corripi oportebat, et tempus debitum quod numerosa dimensio postulabat, redditum non est.
Scrive Aurelio Roncaglia che quando Dante definisce la poesia "fictio retorica musicaque poita", per musica intende, secondo la nozione medievale, "…non l’attività pratica del far musica (…) ma soprattutto una disciplina teorica, la scienza dei rapporti proporzionali (…). Anche i musicologi riconoscono che in questa e simili affermazioni "Dante non ha inteso mai parlare di musica nel senso specializzato", bensì nel senso di pura "musicalità del discorso poetico", e più in generale di qualsiasi discorso verbale, giacché, come osserva Guido d’Arezzo, "canitur … omne quod dicitur"". Al contrario ad locum Nino Pirrotta scrive che "nasce da questo concetto di musica verbale anche la disponibilità delle parole in se stesse armonizzate a ricevere l’ulteriore musicalità di una melodia", schierandosi così contro l’esistenza di un ‘divorzio’, tutto italiano, tra alta poesia e musica canonizzato dalle osservazioni di Contini circa la superiorità dei siciliani sui poeti provenzali ch’egli individua proprio nell’aver i primi "in tutto disgiunta la poesia dalla musica".
Partiamo, so wie so, dall’ipotesi che tale divorzio non pertenga al genere ‘commedia’, e che non sia consono alla scelta linguistica della Commedia dove Dante mescola vocabula yrsuta et reburra ad altri pexa et lubrica secondo un’operazione che si è voluta chiamare plurilinguismo dantesco.
Si taccia in questa sede dei diastemi di Aristosseno, del trattato di Aristide Quintiliano come di quello di Terenziano Mauro e Cesio Basio e si consideri, seppur brevemente, la teoresi più vicina a Dante: Agostino, Boezio, Marziano Capella, Isidoro di Siviglia, e Vincenzo Bellovacense. Il minimo comune multiplo di questa trattatistica, come d’altri accessus alle scienze medievali, è il preliminare carattere bifronte della musica: dall’una parte considerata come ars teorica in senso scolastico alias scienza delle proporzioni, facente parte del quadrivio, dall’altra come prassi musicale e dunque strumentale, propria ai musici. Per Agostino in verità, la musica globalmente considerata, teorica o pratica che sia, "est scientia bene movendi", e per esser scienza, deve essere regolata secondo una misura ritmica, un numero. Infatti ex mutabilium numerorum in inferioribus rebus consideratione evehitur animus ad immutabiles numeros, qui in ipsa sunt immutabili veritate, cioè in Dio che secondo numero-ritmo produce il mondo.
La commistione tra teoria e prassi, tuttavia, non è in nessun modo scongiurata se Brunetto Latini, nel suo Tesoro, dopo aver indicato la musica come parte della scienza matematica, scrive che essa
E di cantatores i quali in rithimis cantant gestas parla il giurista bergomense Alberico da Rosciate (1290-1360) nel Proemio all’Inferno del suo commento-traduzione alla Commedia che traggo dal Codice Grumelli della Biblioteca Angelo Mai di Bergamo, Cassaforte 6, 1.
Alberico dopo aver premesso che ad intelligentiam presentis comedie
auctor subicit quatuor (sic) urdela: que materia,
que forma, que causa efficiens, que finalis, cui parti philosophie
supponatur et quis libri titulus, così prosegue:
Che anticamente per il genere ‘commedia’ proprio non si possa parlare di
divorzio tra musica e poesia lo leggiamo già nella precedente redazione
volgare di Jacopo della Lana (ed. Scarabelli) ad locum:
L’altro modo è la forma poetica la quale è fittiva e di esempli positivi dalla qual forma ello tolle lo nome overo titulo cioè Comedia che è quasi a dire villano dittato, cioè che anticamente li villani sonando sue sestole overo pive si ritimavano.
Del resto, Commedia a parte, per incantamento con Guido e Lippo vorrebbe essere Dante sul vasel che viaggia ad ogni vento, in un talento con un poeta e con un musico e con le donne amate poste sul vascello dal buon incantatore, di contro al vascello sul quale il triste Tristano canta, accompagnandosi con l’arpa, l’amore per Isotta che l’ha incantato. Sul vasel di Merlino assimilato a Orfeo e Tristano, Dante vorrebbe il celebre poeta degli spiritelli, Guido Cavalcanti, e Lippo Pasci de’ Bardi al quale il poeta invia il sonetto doppio Se Lippo amico se’ tu che mi leggi per affidare una pulcella nuda, cioè la stanza Lo meo servente core (Rime XLIX), affinché la rivesta di note musicali e la tenga per druda. E che Lippo Pasci de’ Bardi fosse anche musico oltre che poeta lo ha evinto M. Salem Elsheikh da un sonetto di Nicolò de’ Rossi Io vidi ombre e vuy al paragone dove è citato insieme a Casella, Scochetto e molti altri: "Lippo, che possiamo considerare, e con ragione, collega di Casella e amico di Dante, è incluso nell’elenco di musici rammentato nel son. Io vidi ombre , musici probabilmente venuti a conoscenza del de’ Rossi durante il suo soggiorno bolognese". Se Lippo è l’amico del sonetto Guido i’ vorrei che tu e Lapo (Gorni: Lippo) ed io, il vasel del buon incantatore sarebbe allora davvero evocativo del vascelletto di Tristano come già proponeva Rajna, a sua volta paragonato nel Tristano stesso alla navicella di san Brandano che navigava verso le isole Fortunate avviluppata da una musica soprannaturale. Il vasel evoca il vasello snelletto e leggero della Commedia, sul quale son traghettati dal celestial nocchiero gli spirti che vanno a purgarsi cantando ad una voce il salmo In exitu Israel de Aegypto .
Che per la pulcella nuda Dante desiderasse alcun rivestimento, già per il Casini significava ch’egli volesse che vi fossero apposte delle note, una melodia più o meno facile al modo di quella che accompagnava le coblas di Sordello. Del resto Dante si era dilettato, riferisce l’Anonimo Fiorentino, a sentire cantare i suoi versi da Casella il quale nella Commedia intona sì dolcemente la canzone Amor che ne la mente mi ragiona con l’usato amoroso canto che solea quetar tutti i desideri, sì che a nessuno pareva toccasse altro la mente.
Boezio, distinguendo tra una musica mondana, umana e strumentale, parla della musica humana, a sua volta divisibile in armonica, ritmica e metrica, come di una espressione della complessione interna, dell’anima. E se la musica mundana può essere scrutata nel cielo, nella compagine dei quattro elementi ed è quella a cui Dante si riferisce nel Convivio comparandola al cielo di Marte per le belle relazioni numeriche, per intendere la musica humana, scrive Boezio, bisogna invece scendere in se stessi. Che cos’è infatti che tiene unita la vitalità della mente con il corpo se non una compenetrazione e contemperazione di voci leggere e gravi in modo da produrre un’unica consonanza? E che cosa tiene unite le varie parti dell’anima?
Una musica de interiore homine che si genera dall’armonia interna allorché spira amore: come le nove rime, che Bonagiunta degli Orbicciani attribuisce a Dante e in relazione alle quali Dante stesso dà spiegazione dicendo: I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch'e' ditta dentro vo significando. Sul problema si legga quanto scritto, per questi versi, nelle chiose a luoghi puntuali alla Commedia da Francesco Mazzoni. Fu Mario Casella a fornire l’ipotesto indicando un passo di quella che, scrive Mazzoni, oggi sappiamo essere l’Epistola ad Severinum de caritate di Frate Ivo: "Dice dunque frate Ivo nel prologo del trattato, a introdurre la materia: "Quomodo enim de amore loquitur homo, qui non amat, qui vim non sentit amoris? (…) Solus proinde de ea digne loquitur, qui secundum quod cor dictat interius, exterius verba componit … Illum … audire vellem qui calamum linguae tingeret in sanguine cordis; quia tunc vera et veneranda doctrina est, cum quod lingua loquitur, conscientia dictat, charitas suggerit et spiritus ingerit"".
L’intrinseco rapporto tra la produzione del suono e quella delle parole lo troviamo nella similitudine paradisiaca seguente dove certo non manca l’elemento "cuore" nel quale Dante imprime le parole: produzione del suono, formazione delle parole, impressione nel cuore sanciscono nuovamente l’endiadi parole-cuore: parole dettate/impresse nel cuore con variatio complicata tra parole e suoni: E come suono al collo de la cetra / prende sua forma, e sì com’ al pertugio / de la sampogna vento che penètra, / così, rimosso d’aspettare indugio, / quel mormorar de l’aguglia salissi / su per lo collo, come fosse bugio. / Fecesi voce quivi, e quindi uscissi / per lo suo becco in forma di parole, / quali aspettava il core ov’io le scrissi.
Codificazione di un canone d’estetica: parole dettate da amore o musica che soffia dall’animo producono una nuova poesia e una nuova musica: nove rime e novità del suono. Una poesia e una musica che come il vasel di Merlino conduce per il Mare amoroso, sí che fortuna od altro tempo rio / non (…) potesse dare impedimento.
Possiamo ritrovare questa stessa rispondenza in un episodio del Tristano di Gottfried sul quale discorreremo poco più avanti. L’arpa di Tristano, evocativa della lira d’Orfeo, produce una musica al principio bella e dilettevole finché non è evidente che il suo canto non viene dal profondo e il cuore non è dappresso.
Di Tristano, alter Orfeo "che lla sua dolce armonia operava nelle piante, nelli animali sensibili et non rationali" parla il giovane Lovato de’ Lovati a conclusione dell’epistola IV (del 1268), come osserva Daniela Delcorno Branca: Tristis ob Euridices raptus rodopeius Orpheus / applicuit thracie consona verba lire; / filaque pulsantem misuratus Ariona delphin / expertum levium quam grave pondus opum. / Vulneris autorem subiit Tristanus Yseldam / dum streperet vario concita corda sono.
L’episodio è forse quello in cui Tristano, nel racconto di Gottfried von Straßburg, dopo aver battuto Morolt torna a riva ferito e il veleno era siffatto che nessuna arte riuscì a liberarne la piaga. La ferita iniziò a puzzare terribilmente. Ma che quella ferita avesse qualcosa di particolare è evidente: Tristano pensava giorno e notte a Isotta, la saggia Isotta, la bella Isotta e sapeva che non sarebbe potuto altrimenti guarire che con la sua arte. Wie’z aber möhte gesîn, come fare? Nu begunde er aber daz ahten,/ sît ez sîn tôt doch waere, / sô waere im alsô maere /der lîp gewâget oder tôt /als disiu tôtlîche nôt (vv. 7302-7306): considerando che preferibile era la morte, decise di recarsi in segreto in Irlanda. Fu allestita una nave e una barchetta e furono scelti otto uomini e con loro fu portato Tristano, molto malato ed egli con sé fece recar l’arpa. Giunti a Dublino, Tristano diede l’ordine di gettare l’ancora, e fattasi portare una veste misera la indossò e, dalla nave ûz der barken si fece adagiare nella barchetta in daz schiffelîn (v. 7425) e la sua arpa con lui sîne harpfen hiez, e mangiare per tre o quattro giorni. Quindi congedò i compagni di viaggio. Rimase dunque solo, Tristan beleip al eine dâ, oscillando in qua e in là, der swebete dâ wâ unde wâ, con angoscia e affanno mit jâmer und mit sorgen, finché giunse il mattino (vv. 7503-7505). La gente di Dublino scorse la barchetta senza guida e mandarono qualcuno a verificare cosa accadesse. Erano dappresso quando udirono dal vascelletto provenire un suono d’arpa dolce e gradito al loro cuore. Ma breve fu la gioia poiché quel canto non veniva dal profondo e il cuore non era dappresso:
diu vröude diu was aber unlanc,
die sî von im haeten an der stete,
wan swaz er in dâ spiles getete
mit handen oder mit munde,
daz engie niht von grunde:
daz herze dazn was niht dermite.
so enist ez ouch niht spiles site,
daz man’z dekeine wîle tuo,
daz herze daz enstê darzuo.
al eine geschehe es harte vil,
ez enheizet doch niht rehte spil,
daz man sus ûzen hin getuot
âne herze und âne muot (vv. 7524 –7536).
Altra funzione importante che aveva la musica dell’arpa di Tristano era quella di consolare. Musica che consola: già per Boezio come per Dante "war die Musik die großte Trösterin im Schmerz". E se nell’ Inferno dantesco non c’è musica ma abbondano invece le grida di dolore, musica e luce troviamo ovunque nel Purgatorio e nel Paradiso : "Musik und Licht scheinen die strerbliche und ewige Welt für Dante zu verbinden".
Dopo pur poco veder abbiamo materiale sufficiente per dubitare non tanto della ‘qualità’ della sinfonia di Paradiso, monodia o polifonia al modo dell’Ars nova o di quella subtilior d’ascendenza francese, quanto del fatto che forse tra trovieri trovatori, minnesänger e Dante ci fosse in questo ambito una qualche speciale convergenza, sulla base comune della tradizione ebraico-cristiana che faceva di Davide eccellente cantore di Adonai del quale nei salmi si esorta la lode con timpani, cembali, con tutta la voce. E seppure il rapporto tra musica e poesia ha origine religiosa, e trova grande sviluppo nell’ambito della poesia religiosa delle origini, svolge una funzione importante anche nella lirica profana, provenzale e più genericamente in volgare, dove il rivestimento musicale è posteriore alla composizione dei versi se non si tratti addirittura di melodie già circolanti in Europa come le chansons de geste.
Se poi si vuol parlare di musica sacra, indubitabilmente presente entro gli ergasteria danteschi è il canto Liturgico. Per tutto il Purgatorio ascoltiamo inni purificatori propri alla liturgia cantata alcuni dei quali ricorrevano con assoluta frequenza nel culto: il Miserere (salmo 50) che le anime van cantando verso a verso, il salmo 103 In exitu Israel ch’esse intonano ad una voce sul vasello snelletto e leggero . L’incipit della perduta epistola Quomodo sedet sola civitas tratto dalle Lamentationes di Geremia veniva cantato nella liturgia di Pasqua e cantato era anche l’altro incipit dell’epistola perduta attribuibile a Dante, almeno secondo quanto afferma Leonardo Bruni nella sua Vita di Dante, scritta da Verona: Popule mee, quid feci tibi? del cui inno troviamo, verbi gratia, una melodia a carta 97 r. del codice ms. Asbh. 999. Cantato nella liturgia come nella finzione dantesca era il Salve Regina. E a conclusione di questa pur incompleta campionatura apponiamo ancora le parole di Schneider: "Der Übergang zu den liturgischen Hymnen, die Dante volkommen beherrscht, beweist schon, daß er auch mit der musikalischen Technik vertraut ist. Zunächst ertönt Gesang in lateinischer Sprache".
Di assoluto rilievo è la conoscenza che Dante aveva degli strumenti musicali: la apocalittica tromba di Inf. VI 95, il terribile corno di Inf. XXI 12, i tamburi di Inf. XXII 8, gli organi di Purg. IX 144-45, le dolci tube di Par. XII 8, la cetra e la sampogna di Par. XX 22-24, la giga e l’arpa in tempra tesa di Par . XIV 118-22, la lira di Par. XXIII 100, e delle valenze simboliche ad essi connessi. è significativa la similitudine infernale di mastro Adamo, fatto a guisa di leuto. Nei diversi miti della creazione degli strumenti e nella simbolica dei Padri della Chiesa "questi rapporti fra corpo umano e strumento si traducono in una forma speculativa". Così Lamek, secondo quanto narra una leggenda araba, essendo morto suo figlio e avendone appeso il corpo ad un albero, costruì un liuto a guisa dell’arto del giovane "dando al corpo dello strumento la forma della coscia, al manico la forma della gamba al resto dello strumento quella del piede". L’anima dannata del falsario mastro Adamo è costretta nella sembianza del liuto così come, più tardi, la testa del moro infedele sarà costretta sul manico della viola d’amore, e la sua pancia suona come quella di un tamburo. Metamorfosi della disarmonia, anche sonora, che serve a Dante a connotare il diavolo Malacoda che avea del cul fatto trombetta.
Una bella descrizione di strumenti e del loro suono, così come delle loro valenze simboliche, la troviamo nel De planctu naturae di Alano da Lilla. Egli, a conclusione della sua satura-invettiva contro la sodomia, presenta la protagonista "Natura", eterna potenza generatrice di vita, bellezza e armonia e compitrice dell’opera di Dio, in difficoltà: il suo potere è limitato, ha bisogno dell’aiuto di Genius, suo sacerdote. Hymenaeus, poco prima descritto in dettaglio, atteso da una banda di musicanti i cui strumenti tacciono poiché sono in simpatia con la tristezza del maestro, decide di andare, in qualità d’ambasciatore, a chiamare Genius portando con sé un documento ufficiale e incita i suoi musici a destarsi dalla pigrizia e di far risuonare i loro strumenti.
E col tintinnio indistinto della giga e dell’arpa accordate tra loro Dante "exemplifica li loro dolcissimi canti" e alla dolcezza del canto delle anime beate pospone ’l piacer degli occhi belli.
Nessuna melodia umana nella Commedia potrebbe suonare così dolcemente quanto il sonar di quella lira che diede l’annuncio a Maria.
Un suono dolce così Dante lo esperisce già nel Paradiso Terrestre: Matelda risveglia Dante poi ch’egli assonna perché non sopporta la nota tutta … quanta come era accaduto ad Argo mentre Mercurio gli raccontava la favola di Pan e Siringa.
La Matelda, identificata ad ora ad ora con Matilde di Canossa, con una fiorentinella di quelle della Vita Nuova, con un mero simbolo, parrebbe essere proprio, come del resto molti hanno già detto, la Matilde di Hackeborn, in ragione delle sue doti di cantora. La donna soletta incontrata da Dante nel Paradiso Terrestre va cantando e scegliendo fior da fiore sulle rive del Lete. Interrogata dal poeta, spiega la sua letizia con riferimento al salmo Delectasti (v. 80); risolve i dubbi di Dante sulle acque e i venti e ancora cantando come donna innamorata il salmo 31, conduce Dante lungo il fiume mentre una melodia dolce correva / per l’aere e il dolce suono era come un coro di voci; quindi gli fa attraversare il Lete. Nel frattempo danzando in caribo sono giunte le virtù e Beatrice. Matelda, come si diceva, sveglia allora il poeta che si era addormentato. Questa Matelda che va sola cantando lieta nel Paradiso Terrestre, che guida Dante in un momento cruciale e per diversi canti, ovvero al som de l’escalina alla quale i monaci possono giungere nella contemplazione già sulla terra, potrebbe essere la benedettina, donna cantrix, Matelda di Hackeborn, e questa identificazione sottrae il personaggio dantesco, tutt’altro che secondario, a una sorte di mera "solidarietà onomastica" o di semplice simbolo e lasciandogli la caratteristica di tutti i personaggi danteschi che non siano letterari e mitologici: la storicità.
Più stringente quanto osservabile nell’ambito del genere ‘letteratura di visione’ a proposito delle visioni riportate dal monaco benedettino sassone Beda: canti e melodie dolcissime entrano a connotare le regioni dei beati. Così nella visione di Fursa contenuta nel III libro della Historia ecclesiastica gentis anglorum, della quale Rajna nota la scarsità di interesse, nel "cumulo di parole" rintracciamo il ruolo determinante che canto e melodie dolcissime hanno nella connotazione delle regioni celesti. Quando Fursa viene ricondotto nel corpo tre angeli cantano il Salmo 83 e molti altri intonano un "ignotum canticum":
E se la Commedia si conclude con la visio Dei, cioè della trinità ovvero di tre cerchi, Quell’uno e due e tre che sempre vive / e regna sempre in tre e ’n due e ’n uno, / non circunscritto, e tutto circunscrive, / tre volte era cantato da ciascuno / di quelli spirti con tal melodia / ch’ad ogne merto saria giusto muno. E nel caso di questa melodia di musica si tratta, di quella forma di conoscenza che per Hildegard von Bingen sconfinava nella mistica. Peccato solo che Dante non conoscesse Bach.