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Il Disinformatico

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2019/10/10

385 km con un’auto elettrica da 80 km e di otto anni fa: lezioni imparate

Nei tre giorni scorsi ho usato intensamente ELSA per andare a fare lezioni e conferenze, percorrendo in tutto 385 km: 168 per andare dal Maniero ad Ambrì, 65 per andare a Camorino e 152 per andare a Faido. Tutte queste tappe hanno compreso almeno una salita mangiacarica (da 500 a 700 metri di dislivello), e in alcuni casi anche due. I risultati di questi esperimenti sono piuttosto interessanti.



Sottolineo, prima di proseguire, che il mio non è il modo normale di usare una city-car elettrica: assistito nella mia follia dalla Dama del Maniero, sto prendendo una vecchia auto elettrica da città di seconda mano, che ha già otto anni sulle spalle, e le sto facendo fare cose anormali per scoprirne i limiti. Normalmente una city car si usa per escursioni locali: parte da casa col “pieno”, fa i suoi giretti e torna a casa ben prima di aver esaurito la propria autonomia, per cui il problema della ricarica e dell’autonomia non si pone affatto.

Detto questo, ho scoperto che la tessera italiana di Nextcharge funziona perfettamente in roaming sulle colonnine svizzere (anche se costa in alcuni casi un po' di più), che le colonnine spesso giocano scherzi durante la carica rapida (invece di arrivare all’80% standard si fermano prima), e che viaggiare con le app di monitoraggio e pianificazione è utilissimo.

Ho provato due app in particolare: OBDZero (descritta qui) e Power Cruise Control (di cui gli sviluppatori mi hanno gentilmente fornito una versione di prova). OBDZero consente un monitoraggio dello stato di carica più preciso rispetto al cruscotto molto spartano di ELSA, fornendo un’indicazione percentuale al posto delle spannometriche “tacche” del cruscotto), mentre Power Cruise Control calcola la velocità ottimale da tenere per arrivare a destinazione tenendo conto dell’altimetria del percorso e del carico a bordo. L’app esiste in varie versioni, su misura per gli specifici modelli di auto elettrica.





Durante il tragitto, PCC mostra molto chiaramente se si sta andando bene (l’auto va nella zona verde) o se si sta consumando troppo (l’auto va nella zona rossa). L’indicazione è talmente grande e chiara che la si può tenere sotto osservazione semplicemente con la coda dell’occhio, senza distrarsi troppo dalla guida.




Ho anche verificato, grazie a OBDZero, il “trucco” usato da ELSA per non farmi mai restare a piedi nonostante la sua autonomia limitata: fa lampeggiare la spia della “riserva” quando ha ancora in realtà circa un quinto della sua carica complessiva. Questo lampeggiamento è molto persuasivo nel convincerti a non esagerare e fermarti per una carica prima che sia troppo tardi.

Inoltre ho provato una tecnica di viaggio diversa dal solito: invece di andare piano, in modo da aumentare l’autonomia e ridurre le tappe (e le spese) di ricarica, ho scelto di andare alla massima velocità consentita (120 km/h, che per ELSA sono decisamente fuori dal suo uso abituale cittadino) e fermarmi a caricare più spesso, agevolato dal fatto che l’uso delle tessere, al posto delle farraginose app, fa risparmiare minuti preziosi nella procedura di attivazione della carica.

Questa tecnica è più dispendiosa, ma riduce i tempi morti: infatti se guido piano, sono impegnato nella guida e non posso fare altro, mentre se arrivo prima alla colonnina, intanto che sto caricando posso lavorare, mangiare, dormire, rispondere alla mail, eccetera. Complessivamente il tempo di viaggio da porta a porta è grosso modo uguale nei due casi, ma le pause presso le colonnine mi permettono di usarlo più produttivamente. O di mangiarmi una buona fetta di torta di mele!

Facendo i conti, infine, ho scoperto che nonostante i costi esagerati delle ricariche ho comunque risparmiato qualcosina rispetto alla mia auto a pistoni; se avessi avuto un’auto elettrica con autonomia sufficiente per l’andata e il ritorno avrei risparmiato molto di più.

Se volete tutti i dettagli, li ho raccolti su Fuoriditesla.ch qui e qui. Il viaggio a Camorino non l’ho documentato perché non ha richiesto tappe o cariche.


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2019/10/06

Ci vediamo a Verbania il 18 ottobre per la Croce Rossa?

Il 18 ottobre alle 19:30 sarò a Verbania, a Villa Rusconi Clerici, per partecipare all’apericena solidale che contribuisce alla raccolta di fondi per il progetto “Fai viaggiare lontano la solidarietà”, che ha come obiettivo l’acquisto di un furgone per movimentare attrezzature e generi alimentari per la comunità di Verbania.

L’evento è organizzato dal Comitato di Verbania della Croce Rossa Italiana. Trovate tutti i dettagli nella locandina qui accanto oppure nell’evento pubblicato su Facebook.

Saranno presenti i migliori chef del VCO, coordinati da Massimiliano Celeste de Il Portale di Pallanza. Io sarò lì per raccontare un po’ di storie strane e curiosità delle missioni spaziali. Ci saranno anche gli astrofili dell’Osservatorio Astronomico di Suno, che con i loro telescopi permetteranno ai partecipanti di studiare la volta celeste.

L’ingresso è a donazione minima consigliata di 30 euro.

Auto elettriche, servono soluzioni di ricarica meno esasperanti

Ultimo aggiornamento: 2019/10/07 18:10.

Ieri sono andato da Lugano a Induno Olona, in provincia di Varese, con la Dama del Maniero per fare da traduttore all’astronauta lunare Al Worden. Un viaggio breve, un’ottantina di chilometri in tutto fra andata e ritorno, per cui abbiamo scelto di andarci con ELSA, la nostra piccola auto elettrica, e collaudare la rete di ricarica di Enel X, per la cui tessera ho tribolato non poco.

Non è andata bene, e se questo è il modo esasperante in cui si vuole che gli automobilisti si convertano alla guida elettrica, la strada è ancora tutta in salita e c’è tanto lavoro da fare. Chi compra oggi un’auto elettrica deve tenere ben presente che è un pioniere, uno sperimentatore, con tutti i vantaggi ma anche i disagi che questo comporta.

Come al solito, ho pianificato il viaggio con un Piano A, un Piano B e anche un Piano C. Il Piano A era il fatto che l’autonomia di ELSA ci consentiva di andare e tornare; il Piano B era la colonnina rapida di Enel X in via Europa a Induno Olona; il Piano C era una coppia di colonnine lente nelle vicinanze. Ovviamente c’è sempre il Piano D, ossia qualunque presa elettrica, per esempio presso il ristorante o la sala convegni dove devo tradurre per l’ospite. È una carica lenta, ma è pur sempre una carica.

Arriviamo alla colonnina Enel X con largo anticipo, proprio per effettuare il test, e con autonomia sufficiente in ogni caso per tornare al Maniero Digitale (67% di batteria), per cui siamo in condizioni di assoluta tranquillità. Ma posso solo immaginare la rabbia e la frustrazione di chi si dovesse trovare a usare le colonnine di ricarica in caso di necessità o avendo un minimo di fretta, perché i problemi cominciano subito.




Sullo schermo tattile seleziono il connettore CHAdeMO della colonnina e poi appoggio fiducioso la tessera Enel X sul sensore. Macché: la colonnina mi dice che la tessera non è abilitata. La tessera reca la dicitura che ricorda che va associata al profilo sull’app, e mi sembra proprio di averlo fatto, anche se ora nella giungla di menu e sottomenu dell’app Enel X non riesco a verificarlo.

Mi viene il dubbio che la tessera non sia abilitata perché la mia carta di credito associata all’account Enel X è in scadenza a fine mese, per cui entro nell’app e aggiorno i dati della carta, dando quelli di quella nuova che mi è già arrivata. Niente da fare: la colonnina rifiuta di accettare la tessera.

Niente panico, penso: se la tessera non va o non è abilitata, posso usare l’app. Piccolo problema: l’app non mi permette di selezionare il connettore. Tocco l’icona, ma non mi risponde.



Vorrei tanto “selezionare una presa disponibile”, come mi ricorda la app con involontaria ironia, ma non posso. Non c’è verso.

Dai commenti arrivati dalla pubblicazione iniziale di questo articolo emerge che l’app in realtà mi sta avvisando che la colonnina è in manutenzione (lo si poteva notare andando a Eneldrive.it e cercandola) e quindi non utilizzabile. L‘avviso dell’app, però, è semplicemente un pallino rosso sull’icona della presa. Magari un bel “IN MANUTENZIONE” sarebbe stato più chiaro, anche perché il rosso è anche il colore tipico degli indicatori di notifica messaggi. Magari si potrebbe far comparire questo semplice avviso sul display della colonnina. Magari si potrebbe evitare di confondere il malcapitato utente con la dicitura di avviso che la tessera non è abilitata o che deve selezionare una presa disponibile quando non ce ne sono. Mi sembra insomma che l’interfaccia non sia pensata per rendere chiara la situazione.

Un singolo episodio non fa statistica, certo, ma la mia prima prova di una colonnina Enel X è insomma un flop completo, che indurrebbe qualunque automobilista ragionevole a rinunciare a ogni pretesa di usare l’auto elettrica e lo spingerebbe fra le braccia del primo concessionario dotato di qualcosa che vada a pistoni. O perlomeno fra le braccia di un concessionario Tesla, perché Tesla ha la propria rete di ricarica, sparsa su tutto il territorio, che funziona senza tessere, app o altre complicazioni. Disavventurette come la mia rendono dannatamente evidente il valore aggiunto di avere una rete di ricarica dedicata. Se state pensando di acquistare un’auto elettrica, tenetelo ben presente.

E così la colonnina non va. Mando la segnalazione a Enel X tramite l’app. Ma la mia esperienza di automobilista elettrico mi ha insegnato che a volte la perseveranza paga. Mi viene un’idea: provare un’altra tessera. Ho con me anche quella di Nextcharge, che ha accordi di roaming con Enel X. Però l’app di Nextcharge mi dice molto chiaramente, con un’icona marrone e la parola manutenzione, che la colonnina è in manutenzione (cosa che l’app di Enel X non mi diceva con altrettanta chiarezza). Sarà per questo che non mi accetta la tessera Enel X? Mistero.



Tentar non nuoce, per cui prendo la tessera Nextcharge e la appoggio sul sensore della colonnina Enel X. Quella che ha appena rifiutato la tessera Enel X. E la carica parte.






Nove minuti dopo, la carica è arrivata all’80% della batteria e la colonnina si ferma automaticamente, come avviene solitamente. La carica rapida, infatti, si può fare solo fino all’80% della capienza della batteria, per non stressarla troppo. L’app Nextcharge registra un addebito di 1,02 kWh al costo di 55 centesimi, ma non ho affatto caricato così poco: se sono arrivato con il 67% di batteria e ora sono all’80%, ho caricato il 13%, che su una batteria da 16 kWh sarebbero circa 2,08 kWh. Mistero.




Ripartiamo per la cena e la conferenza con l’astronauta, che registra il tutto esaurito, e torniamo al Maniero Digitale con energia in abbondanza senza dover risparmiare i (pochi) cavalli elettrici di ELSA.

Al Worden con una bottiglia di Barolo del 1971, anno della sua missione, donatagli dal ristorante da Venanzio.

La sala conferenze, dotata di videoproiettori coordinati su tutte le pareti.


Morale di quest’avventuretta: alla fine tutto è andato bene e siamo tornati a casa, ma complicazioni e ostacoli come quelli che abbiamo affrontato rendono per ora perfettamente giustificate le ironie e le risate degli automobilisti che vanno ancora a idrocarburi.

Immaginate se dal benzinaio non si potesse pagare in contanti o con la carta di credito, ma fosse necessario pagare con una tessera diversa per ogni catena di distributori, e ogni tanto la pompa si rifiutasse di erogare carburante per motivi inspiegabili: ci sarebbe la rivolta. Se state valutando l’acquisto di un’auto elettrica, pensateci molto bene.


2019/10/07 18:10


Visto che nei commenti si parla della questione di dotare le colonnine di un lettore di comuni carte di credito, segnalo che esistono: ne ho usata una proprio oggi, a Chiggiogna (Canton Ticino). È sufficiente appoggiare la carta di credito sul sensore, se la carta è contactless, oppure inserirla. Far partire la carica ha richiesto in tutto 45 secondi (li ho cronometrati), e poi la Dama del Maniero e io siamo andati al bar accanto a prenderci un’ottima fetta di torta di mele e un tè.






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“Star Trek: Picard”, nuovo trailer



È stato pubblicato un nuovo trailer della serie Star Trek Picard, che vede al centro il capitano Jean-Luc Picard di The Next Generation, alle prese con gli anni che sono passati e con nuovi problemi, nemici e avventure.

Le sorprese non mancano, e la voce magnificamente scespiriana di Patrick Stewart è solo migliorata col tempo: potrebbe leggere la guida telefonica e andrebbe d’incanto lo stesso. Se siete fan, godetevi il trailer: non faccio spoiler, ma farete almeno un paio di salti di gioia.

Anche se il rischio di un’operazione nostalgia è alto, mi pare di capire che Stewart abbia preteso storie di qualità che rispecchino i temi e i valori dello Star Trek classico. Quelli che purtroppo Discovery, pur tracimante di effetti speciali spettacolari e di ottimi attori, sembra aver perso per strada.

Picard andrà in onda a partire dal 23 gennaio 2020 su CBS All Access. Dovrò trovare qualcosa da fare per far passare in fretta i prossimi mesi.

Maggiori info sono su Ars Technica.


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2019/10/05

Un astronauta lunare a Induno Olona stasera alle 21

Credit: Rodri Van Click.
Come preannunciato, oggi alle 21 l’astronauta di Apollo 15 Al Worden sarà a Induno Olona (VA), alla Sala Multimediale del Comune, per una conferenza aperta al pubblico (su prenotazione) presso A.S.Far.M. Azienda Speciale Servizi Sociosanitari, via Carlo Maciachini, 9. Io sarò lì per tradurre il suo intervento.

È una delle poche e rare occasioni italiane di incontrare un astronauta che ha raggiunto la Luna e pilotato una delle missioni spaziali più sofisticate della storia. Non lasciatevela sfuggire.

Per maggiori informazioni, contattate A.S.Far.M. allo 0332206001 dalle ore 9,00 alle ore 12,00 e dalle ore 14,30 alle ore 17,30.

Shuttle vs Buran: spy-story e tecnologie a confronto

1988: una navetta spaziale, grande come un aereo di linea, rientra dallo spazio ed esegue un atterraggio perfetto sulla pista, nonostante il vento traverso a 60 chilometri orari. Ma quando i tecnici aprono il portello del veicolo, a bordo non c’è nessuno.

La navetta, infatti, non è uno Shuttle statunitense: è una Buran sovietica, che è capace di atterrare autonomamente, cosa che il veicolo americano non è in grado di fare, tanto che è stato necessario mettere a bordo dello Shuttle due astronauti (John Young e Bob Crippen) persino per il suo volo inaugurale: una scelta rischiosissima e senza precedenti.

Lungi dall’essere una semplice copia dello Shuttle, come credono molti, la Buran è un veicolo profondamente differente e per molti versi superiore per concezione. Purtroppo il destino farà sì che quel suo straordinario debutto sarà anche il suo unico volo.


L’era dei “furgoni spaziali”


Torniamo indietro di oltre vent’anni rispetto a quello spettacolare volo della Buran: gli Stati Uniti svilupparono lo Space Shuttle negli anni Sessanta e Settanta come veicolo da trasporto spaziale, capace di essere in gran parte riutilizzato invece di essere usabile una sola volta come i veicoli spaziali che l’avevano preceduto.

Questo riutilizzo, si pensava, avrebbe abbattuto drasticamente, di circa il 90%, i costi dei voli spaziali. Inoltre il suo profilo di volo, con accelerazioni più dolci e un atterraggio planato invece di un ammaraggio, avrebbe consentito di portare nello spazio anche astronauti meno iperselezionati di quelli richiesti dai veicoli Mercury, Gemini e Apollo precedenti.

Illustrazione dello Shuttle statunitense come era concepito nel 1969: ali piccole, stabilizzatore posteriore e lanciatore alato con equipaggio e riutilizzabile.


Il progetto Shuttle, annunciato mentre gli ultimi astronauti ancora stavano camminando sulla Luna nel 1972, subì nel corso degli anni moltissime variazioni e ridimensionamenti: il budget spaziale, limitato dopo i fasti della Luna, costrinse la NASA a rinunciare alla piena riusabilità prevista inizialmente.

Il lanciatore alato pilotato, che avrebbe dovuto portare in quota lo Shuttle orbitale vero e proprio, divenne un semplice serbatoio esterno sacrificabile, e per la prima volta un veicolo con equipaggio fu dotato di booster a propellente solido.

Una scelta rischiosa, visto che i booster di questo tipo non possono essere regolati o spenti una volta accesi; una scelta che si rivelerà fatale durante un decollo dello Shuttle Challenger nel 1986, quando una fiammata proveniente da una guarnizione difettosa di questi enormi razzi farà deflagrare il serbatoio, distruggendo il veicolo e portando i sette membri dell’equipaggio alla morte in diretta televisiva mondiale. Lo Shuttle era, per usare le parole di uno dei suoi astronauti, una farfalla legata ad un proiettile.


Ali rivelatrici


I sovietici esaminarono in dettaglio i progetti dello Shuttle e si resero conto che mostravano una caratteristica per loro preoccupante: la grande ala a doppio delta, con la sua enorme tripla penalità (di peso e aerodinamica al decollo, termica al rientro). Adottarla aveva senso soltanto se lo Shuttle doveva avere delle finalità militari strategiche.

Lo Shuttle Columbia al decollo.


In effetti l‘ala a doppio delta non faceva parte del progetto Shuttle originale, che era stato appunto concepito con ali piccole e diritte: la grande ala fu imposta da un requisito militare, il cosiddetto “long crossrange”, ossia la capacità di rientrare compiendo ampie virate per spostarsi lateralmente di oltre 2000 chilometri rispetto alla traiettoria orbitale.

Questa capacità avrebbe permesso allo Shuttle di decollare per esempio dalla base militare californiana di Vandenberg, inserirsi in un’orbita polare, mettere in orbita un oggetto militare (o prelevarlo dall’orbita) e poi rientrare di nuovo a Vandenberg dopo una singola orbita, compensando la rotazione terrestre con una grande virata, senza mai sorvolare territori nemici, come descritto nel documento STS Design Reference Mission 3A/3B (NASA, 1973).

Verso la fine degli anni Settanta questo requisito di elevato crossrange fu abbandonato dai militari, ma a quel punto il progetto Shuttle era andato troppo avanti per cambiarlo radicalmente e quindi l’ala a doppio delta rimase.

I sovietici, in piena Guerra Fredda, interpretarono quell’ala come un segno evidente che gli americani volevano dotarsi di un veicolo che avrebbe permesso, per esempio, di rubare un satellite russo oppure di mettere in orbita di nascosto un ordigno nucleare da far cadere a sorpresa su Mosca, eludendo i satelliti di sorveglianza russi che avrebbero rilevato la fiammata di un normale missile balistico intercontinentale.

La soluzione sovietica a questa nuova arma americana fu logica, inevitabile e tradizionale: come era già avvenuto per tante altre tecnologie, per esempio il bombardiere Tupolev Tu-4 (identico al B-29 statunitense) o il supersonico di linea Tu-144 (ispirato dal Concorde anglo-francese), fu deciso di costruirne una copia uguale, anzi per certi versi migliore. Nacque così il progetto Buran.


Spie e controspie


A prima vista la Buran in effetti sembra una copia spudorata dello Shuttle: stesse dimensioni, stessa ala a doppio delta, stesso timone, stessa configurazione con grande vano di carico dotato di due portelloni incernierati longitudinalmente, stessa collocazione dei motori di manovra, stessa tecnica di rientro planato senza propulsione.

Indubbiamente i sovietici approfittarono delle esperienze e delle scelte già fatte dai loro omologhi americani, facendo anche incetta di tutta la documentazione pubblica sul progetto Shuttle, per saltare molte tappe di ricerca e sviluppo. Ma la CIA e l’FBI se ne accorsero e iniziarono a disseminare documenti alterati per confondere i russi e indurli a costruire la Buran con i materiali e le specifiche sbagliate, come raccontato dal documento The Farewell Dossier pubblicato sul sito della CIA.

I sovietici copiarono le caratteristiche aerodinamiche dello Shuttle, ma furono comunque costretti a distaccarsi dal progetto americano per via della loro arretratezza tecnologica in fatto di grandi razzi a propellente solido e di motori riutilizzabili ad elevatissime prestazioni come quelli usati dallo Shuttle, per cui il depistaggio americano fu efficace soltanto indirettamente: non impedì ai russi di costruire una navetta spaziale, ma li rallentò e li costrinse ad affrontare un progetto costosissimo che l’economia russa non poteva sostenere, per cui a modo suo contribuì comunque al collasso dell’Unione Sovietica.

I progettisti russi scelsero due soluzioni eleganti per compensare le proprie limitazioni motoristiche: adottarono quattro grandi razzi ausiliari a propellente liquido al posto dei due a propellente solido americani e tolsero i motori principali dalla Buran, mettendoli invece nello stadio centrale di un grande lanciatore, denominato complessivamente Energia. In questo modo sparì il requisito della riutilizzabilità dei motori principali, per cui fu possibile adottare, per lo stadio centrale del lanciatore, motori monouso per propellenti liquidi, nei quali i sovietici erano più progrediti degli americani (gli RD-170 di Energia erano ancora più potenti degli F-1 usati nel Saturn V).

Non solo: togliendole la massa dei motori, la Buran divenne capace di portare in orbita 30 tonnellate di carico contro le 26 dello Shuttle e divenne molto più semplice da preparare per un volo successivo. La Buran, diremmo oggi, era lo Shuttle 2.0.


Trionfo russo, ma con amarezza


Il vettore Energia fu collaudato nel 1987, senza la navetta, con pieno successo. La Buran volò con Energia a novembre del 1988, con anni di ritardo sul rivale Shuttle, che aveva già iniziato i voli nel 1982.

La Buran sulla rampa di lancio al Sito 110 di Baikonur. La rampa è un adattamento di una di quelle usate per il fallito vettore lunare N-1.


La Buran durante il suo primo e ultimo decollo verticale per un volo orbitale, trasportata dal vettore gigante Energia.


Fu un trionfo totale, dopo dodici anni di sofferto e costoso sviluppo: le 80 tonnellate della Buran entrarono in orbita intorno alla Terra alla quota di circa 250 chilometri, trasportando sette tonnellate di strumenti nel vano di carico. Dopo 206 minuti dal decollo e due orbite, la Buran accese i motori di manovra e rientrò, concludendo il proprio volo spaziale con una perfetta planata sull’apposita pista dello stesso cosmodromo di Baikonur dal quale era partita verticalmente.

L’Unione Sovietica aveva dimostrato di essere tecnologicamente in grado di costruire uno spazioplano grande come un aereo di linea e capace di effettuare il lancio, le manovre orbitali, il rientro e l’atterraggio in maniera completamente automatica e autonoma, senza equipaggio. Meglio degli americani, che oltretutto avevano già perso un equipaggio con lo Shuttle.

Ma quel trionfo avvenne a meno di un anno dalla caduta del Muro di Berlino, che segnò l’inizio del crollo dell’Unione Sovietica. I sogni di usare la Buran ed Energia, in versione potenziata e pienamente riutilizzabile, per costruire uno scudo spaziale militare, ricostruire lo strato atmosferico protettivo di ozono, illuminare le città polari russe, colonizzare la Luna e Marte svanirono nel vortice del collasso. La Buran non volò più nello spazio: fu esibita in volo, anche in Occidente, portandola sul dorso del gigantesco aereo da trasporto An-225.


Fine ingloriosa


Buran ed Energia furono messi in un hangar a Baikonur come oggetti per impressionare i visitatori, ma nel 2002 la mancanza di manutenzione dell’hangar ne fece crollare il tetto, distruggendo entrambi i veicoli e causando la morte di otto operai. Di questo grande sforzo tecnologico restano soltanto i prototipi e gli esemplari parzialmente costruiti, esposti nei musei di vari paesi o abbandonati nelle gigantesche rimesse di Baikonur, e i magnifici motori RD-170, che sono stati adottati anche per i vettori statunitensi Atlas più recenti.

Un esemplare incompleto di Buran giace abbandonato in un hangar in Kazakistan.


Lo Shuttle americano, dopo un altro disastro nel 2003 che costò la vita a tutti e sette gli astronauti del Columbia durante il rientro, concluse la propria carriera trentennale nel 2011, chiudendo l’era dei veicoli spaziali alati con equipaggio.

Ma qualcosa, di quell’era, rimane tuttora: il “mini-Shuttle” americano senza equipaggio X-37B, che va e viene dallo spazio da anni, avvolto da un segreto quasi totale. Ma questa è una storia da raccontare un’altra volta.

Il “mini-Shuttle” militare statunitense X-37B all’interno della carenatura di lancio. Credit: US Air Force, 2010/Wikimedia.


Fonti: Astronautix, AlternateHistory.com, Discover Magazine, RussianSpaceWeb, Reddit, Yarchive, NBC, NASA.  

Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta sulla rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

2019/10/04

Asteroide che “sfiorerà” la Terra, la fiera delle fesserie dei giornalisti

Ne parlavo proprio pochi giorni fa al festival UniverCity di Genova: i giornalisti generalisti sembrano fisicamente incapaci di scrivere articoli sugli asteroidi senza scrivere imbecillità che creano disinformazione e spavento inutilmente.

Prendete per esempio Agi.it, che ieri ha titolato “Questa notte un asteroide si avvicinerà pericolosamente alla Terra” (copia su Archive.org). Ma in realtà la sua distanza minima dalla Terra sarà stata simile a quella della Luna: quasi 400 mila chilometri.

Nell’articolo di Agi, però, c’è scritto che si tratta di “circa 384 chilometri”. Cosa volete che siano tre zeri. Per insegnarlo a chiunque scriva queste bestialità per Agi.it, suggerirei di obbligarlo ad andare a piedi per due chilometri. Ah, no, scusate: facciamo duemila. Così magari la differenza resta impressa.

Il titolo, fra l’altro, è una bugia: standosene a centinaia di migliaia di chilometri, lontano quanto la Luna, non c’è nulla di pericoloso nel passaggio di questo asteroide. Meno male che le fake news sarebbero colpa di Internet.

Vale la pena di notare anche quell’indicazione di velocità in miglia (“a più di 19 mila miglia all'ora”), che manda al lettore un messaggio molto chiaro: “non sono capace di convertire le miglia in chilometri, ho copiato da una fonte anglofona, e se anche fossi capace di fare la conversione non me ne frega nulla di spendere tre secondi di Google per farla.” O se vogliamo dirla tutta: “non me ne frega niente di te, lettore. Tanto ormai hai cliccato e io ho incassato”.

Ma Agi.it non è la sola. Prendete per esempio Skytg24, che ha tweetato “Questa notte un asteroide sfiorerà la Terra”:




Asineria totale, perché se passare alla distanza della Luna è sfiorare, allora in questo momento George Clooney, da quel di Como, mi sta sfiorando le guance e non so come fare a dirgli di smettere.

Ma se chi scrive queste “notizie” dovesse riportare i fatti, addio clic: non ci sarebbe la possibilità di creare panico e angoscia e quindi ottenere attenzioni che generano incassi pubblicitari. Certo, si potrebbe scrivere un bell’articolo sugli asteroidi che passano senza pericolo nelle relative vicinanze della Terra, ma non sarebbe altrettanto letto.

Vorrei ricordare, a chi ancora vuole praticare giornalismo rispettando la deontologia e la dignità, che esiste sempre un’alternativa efficiente ed economica allo scrivere cazzate sensazionaliste: non scrivere.


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Abitate in Russia? Ho una missione per voi (aggiornamento: compiuta!)

Vi ricordate di Valentin, il sedicente russo che moriva di freddo a Kaluga e chiedeva aiuto, ma si rivelò essere un truffatore più volte condannato? La sua storia epica, risalente al 2003, è raccontata qui. Grazie ai lettori, era stato possibile andare nella via dove diceva di abitare ed esplorarla ben prima che esistesse Google Street View.

Ora ho per le mani un caso analogo: non posso dire di più, per il momento, ma se abitate a Mosca o potete andarci, o conoscete qualcuno che ci può andare per fotografare o fare un video di una specifica via nei prossimi giorni, senza fermarsi o esporsi in alcun modo, scrivetemi a paolo.attivissimo@gmail.com e vi spiegherò i dettagli.

Prima che me lo chiediate: no, non è sufficiente usare Street View.

Grazie!


2019/10/06


Missione compiuta! Un intrepido MiD (agente dei Men in Disinformatico) si è recato sul posto, e con sprezzo del pericolo ha portato a compimento l’ardita incursione.

Pubblicherò i risultati non appena verrà conclusa l’indagine, che sto svolgendo in coordinamento con altri che per ora non posso specificare.


2020/07/27


Ora posso preannunciare di cosa si trattava: lo spiegone è qui.

2019/10/03

ANSA inventa la condivisione delle mosche. O delle patte dei pantaloni

Secondo ANSA (copia su Archive.org), l’app per condividere i voli permette di avere il fly sharing. Titola infatti: Arriva il fly sharing, una app per condividere l'aereo. E insiste nel testo: Arriva da Torino il fly sharing.

Solo che fly, in inglese, significa mosca o patta dei pantaloni. Quindi fly sharing significa condivisione delle mosche o, peggio ancora, condivisione delle patte.

L’espressione giusta da usare sarebbe flight sharing, ma all’ANSA a quanto pare preferiscono far lavorare gente che non sa l’inglese ma ama usarlo per sciacquarsi la bocca.

Complimenti vivissimi.


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2019/10/02

Stasera Al Worden (Apollo 15) e una roccia lunare a Tradate

Come preannunciato, l’astronauta Al Worden sarà questa sera alle 21 a Tradate, presso il cinema teatro Grassi, per un incontro con le scuole e con i soci di ASIMOF e del Gruppo Astronomico Tradatese. È la vostra occasione per incontrare un uomo che è andato fino alla Luna, con buona pace dei complottisti.

Ci sarà anche in esposizione una rara roccia lunare, prelevata sulla Luna dai sui compagni di missione.

L’ingresso è gratuito e non occorre una prenotazione: l’evento è offerto dal Comune di Tradate, dal Gruppo Astronomico Tradatese e dall’associazione ASIMOF. Io sarò lì come appassionato e come traduttore per l’astronauta.

Riporto dal comunicato stampa

Mercoledì 2 ottobre 2019 storico appuntamento a Tradate, dove il GAT - Gruppo Astronomico Tradatese - ospita uno degli astronauti che partecipò nel 1971 alla missione lunare Apollo 15.

Alle h21, al Cine-teatro Grassi, in occasione del 50° anniversario della conquista della Luna, sarà ospite del GAT e del Comune di Tradate, l’astronauta americano Alfred Worden, che volò sulla Luna nel 1971 a bordo della missione Apollo 15.

Worden ha accettato di venire prima in Europa e poi in Italia grazie all’intercessione e ai contatti con ASIMOF (Associazione Italiana Modelli Fedeli) che ha sede a Comerio.

L’astronauta ricorderà in ogni dettaglio i principali momenti della missione lunare di Apollo 15. «Si prospetta un racconto emozionante ed esclusivo da parte di uno dei sette uomini ancora viventi dei 24 che hanno visitato un altro corpo celeste – spiegano gli organizzatori – Worden è uno dei leggendari 19 astronauti scelti dalla NASA nell’aprile 1966. Fu scelto come membro dell’equipaggio di supporto della missione Apollo 9 e come pilota di riserva del modulo di comando della missione Apollo 12 per poi essere assegnato come pilota del modulo di comando per l’Apollo 15, dal 26 luglio al 7 agosto 1971. I suoi compagni di volo furono il Comandante David Scott, e James B. Irwin, come pilota del modulo lunare. Apollo 15 fu la quarta missione con equipaggio ad allunare e la prima ad esplorare la Valle di di Hadley e i Monti Appennini che sono situati sul bordo sud-est del Mare Imbrium».
Nella sua lunga carriera Worden ha trascorso in totale ben 295 ore e 11 minuti nello spazio.

La serata è ad ingresso libero.
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