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2019/11/02

Come ci si salva da un razzo in fiamme?

I decenni passano e le tecnologie si evolvono, ma alla fine ogni astronauta che parte per un volo spaziale si trova sempre nella stessa situazione: sigillato dentro una piccola cabina che sta appollaiata sopra alcune centinaia di tonnellate di propellente altamente infiammabile. Propellente che bisogna oltretutto accendere per poter partire. Il lancio di un vettore spaziale è in sostanza una gigantesca esplosione controllata.

Ma cosa succede se diventa un’esplosione incontrollata?


Puntali salvavita


Nella maggior parte dei vettori spaziali per equipaggi è presente un Launch Escape System o LES, che tradotto letteralmente significa “sistema di fuga dal lancio”. Di solito è costituito da uno o più motori a razzo ad altissima accelerazione, capaci di sollevare l’abitacolo intero, catapultarlo rapidamente a distanza di sicurezza dal razzo vettore e portarlo a una quota sufficiente a consentire l’apertura di uno o più paracadute per ottenere un atterraggio morbido sulla terraferma. Quei puntali sottili in cima alla maggior parte dei razzi che trasportano equipaggi sono dei LES.

La sommità di un vettore Soyuz mostra il sistema di evacuazione d’emergenza SAS (il puntale con i quattro ugelli rossi); il veicolo spaziale è all’interno della carenatura. Credit: Carla Cioffi, Wikimedia Commons, 2011.


Ovviamente si spera sempre di non doverli usare, ma a volte succede. Nel 1983, il vettore Soyuz-U della missione sovietica Soyuz T-10-1 s’incendiò poco prima del lancio e il suo LES (o SAS, dalle iniziali di Sistema Avariynogo Spaseniya) fu attivato dai controllori della missione solo due secondi prima che il razzo esplodesse.

I due cosmonauti a bordo, Vladimir Titov e Gennady Strekalov, si salvarono, sopportando un’accelerazione di ben 17 g per circa cinque secondi e ricadendo a circa quattro chilometri di distanza, mentre i resti del vettore bruciavano sulla rampa di lancio.

Militari russi osservano l'unico uso di un sistema di evacuazione d’emergenza da parte di un equipaggio: Titov e Strekalov, Soyuz T-10-1, 1983.


Anche gli americani, all’inizio del proprio programma spaziale con equipaggi, adottarono un LES a forma di puntale per le missioni Mercury e Apollo. Furono più fortunati dei russi, perché non ebbero mai la necessità di attivarli.

Il puntale con il sistema di evacuazione d’emergenza di Apollo 11. Foto NASA AP11-69-HC-718.


I veicoli statunitensi della serie Gemini, invece, fecero a meno di questo puntale di salvataggio, perché adottarono un sistema differente. Sollevare e accelerare un intero abitacolo richiede motori molto potenti, che però costituiscono una zavorra se non vengono utilizzati: nel caso delle missioni Apollo, per esempio, il LES pesava ben 3,6 tonnellate. Così le Gemini usarono una soluzione più snella e leggera: dei seggiolini eiettabili.

Specifiche del seggiolino eiettabile dei veicoli spaziali Gemini.

Illustrazione dell’espulsione degli astronauti da un veicolo spaziale Gemini collocata in cima al suo vettore di lancio Titan.

Illustrazione della procedura di eiezione ad alta quota (fino a circa 20 km) degli astronauti Gemini. Si nota l’uso di un ballute, ossia di un pre-paracadute frenante sferico gonfiabile, prima del paracadute vero e proprio.


La stessa scelta tecnica fu fatta per gli Shuttle statunitensi, durante i loro voli iniziali, e per le Vostok russe.

Spaccato di una capsula Vostok, che mostra chiaramente il seggiolino eiettabile.

Seggiolino eiettabile Vostok. Credit: London Science Museum.

Illustrazione di un seggiolino eiettabile Vostok, che mostra la posizione della capsula nella carenatura ed evidenzia l’apertura nella carenatura stessa attraverso la quale il cosmonauta poteva eiettarsi sulla rampa di lancio.


Nel caso delle Vostok, fra l‘altro, il seggiolino eiettabile veniva usato anche quando il volo si svolgeva regolarmente: la capsula, infatti, non era in grado di compiere un atterraggio sufficientemente dolce scendendo sotto il suo unico grande paracadute, per cui il cosmonauta era costretto a lanciarsi fuori dal veicolo durante la discesa, a circa 7000 metri di quota, e scendere con un proprio paracadute.

Anche Yuri Gagarin, primo essere umano nello spazio, seguì questa procedura, ma fu costretto a mentire e a dichiarare di essere atterrato all’interno della propria capsula perché le norme FAI di omologazione del suo primato richiedevano che il cosmonauta restasse a bordo fino alla fine del volo. La verità emerse pochi anni dopo, quando ormai il valore dell’impresa di Gagarin era passato irrevocabilmente alla storia.

Nel caso del veicolo spaziale sovietico Voskhod fu scelta una soluzione tecnica drasticamente diversa: fare semplicemente a meno di qualunque sistema di salvataggio d’emergenza. L’imperativo politico era che l’Unione Sovietica fosse il primo paese al mondo a far volare un veicolo con tre cosmonauti a bordo, ma l’unico modo per farlo era modificare una Vostok monoposto e sacrificare non solo il seggiolino eiettabile ma anche le tute pressurizzate che avrebbero salvato i cosmonauti in caso di depressurizzazione della capsula.

Il 12 ottobre 1963, Vladimir Komarov, Boris Yegorov e Konstatin Feoktisov partirono a bordo della Voskhod 1 per un volo spaziale di 24 ore e tornarono sani e salvi. La propaganda sovietica vantò di avere veicoli spaziali così progrediti da permettere ai cosmonauti di volare in maniche di camicia, ma la realtà era ben diversa.


Dalla padella nella brace


I seggiolini eiettabili consentono un grande risparmio di peso, ma hanno alcune limitazioni fondamentali.

La prima è che sono utilizzabili soltanto in alcuni momenti del volo: oltre una certa quota e velocità, a seconda del veicolo, l’urto contro il muro d’aria supersonico al momento dell’espulsione dall’abitacolo avrebbe conseguenze letali. Una cabina di veicolo spaziale, invece, offre protezione anche a quote e velocità molto elevate.

Condizioni di utilizzo del seggiolino eiettabile Gemini.


Per esempio, i seggiolini Gemini erano utilizzabili, perlomeno sulla carta, da quota zero (sulla rampa di lancio) fino a 70.000 piedi (21 km) e a velocità fino a 500 nodi (900 km/h). Ma un vettore spaziale supera ben presto questa quota e questa velocità, per cui i seggiolini sarebbero stati inutili per gran parte del volo.

La seconda limitazione è che un razzo di emergenza può essere sganciato quando non è più necessario e consente quindi di alleggerire il veicolo, mentre un seggiolino eiettabile rimane a bordo, e costituisce ingombro e zavorra, per tutto il volo.

Il razzo d‘emergenza Apollo, per esempio, veniva eliminato a circa 89 km di quota, quindi all’inizio del viaggio; per contro, portare fino alla Luna tre seggiolini eiettabili, uno per ciascun membro d’equipaggio, avrebbe comportato una penalità di consumo di propellente inaccettabile.

Schema di utilizzo di un LES Apollo. Le quote sono espresse in piedi.


Per le Vostok questo non era un problema, visto che il seggiolino era comunque necessario durante il rientro, e non lo era neanche per le Gemini, perché nel progetto originale avrebbero planato al rientro sotto una grande ala di Rogallo gonfiabile (di forma simile a quella dei deltaplani), atterrando su un carrello retrattile come degli aerei, e i seggiolini sarebbero stati utili come precauzione per consentire ai piloti di salvarsi in caso di problemi nella fase delicata dell’atterraggio, per esempio in caso di rientro lontano dalle piste di atterraggio predisposte.

Un simulacro di veicolo Gemini modificato per sperimentare il sistema di planata con ala di Rogallo gonfiabile. Credit: Smithsonian Institution.


La terza limitazione dei seggiolini è però la più importante: l’astronauta o cosmonauta perde la protezione rigida dell’abitacolo e quindi se si eietta mentre il vettore in avaria è ancora sulla rampa di lancio o sta arrampicandosi verso lo spazio rischia di trovarsi proiettato all’interno della palla di fuoco del razzo che sta esplodendo oppure in mezzo agli scarichi incandescenti dei suoi motori.

Come già raccontato in un altro articolo, John Young, astronauta veterano statunitense noto per il suo gelido senso dell’umorismo oltre che per il suo talento, riassunse il problema con una delle sue proverbiali battute. Poco prima del volo di debutto dello Shuttle nel 1982, di cui era protagonista insieme a Bob Crippen, un giornalista gli chiese, in conferenza stampa, di chiarire il funzionamento dei seggiolini eiettabili del veicolo.



“Non mi è ancora chiaro se sia possibile eiettarsi durante la combustione dei motori a propellente solido”, domandò il giornalista riferendosi ai due enormi razzi laterali dello Shuttle. Young, impassibile, gli rispose col tono di chi spiega una cosa ovvia: “Ti basta tirare la maniglietta” (“You just pull the little handle”). Il sottinteso, naturalmente, era che era senz’altro tecnicamente possibile eiettarsi durante questa fase del decollo, ma si sarebbe finiti direttamente nel getto dei motori, con conseguenze facilmente prevedibili.

In altre parole, i seggiolini eiettabili dello Shuttle erano in buona sostanza un palliativo. Dopo i primi quattro voli furono abbandonati, anche perché non ci sarebbe stato modo di usarli per gli astronauti situati nella zona inferiore della cabina del veicolo. Sarebbero stati quindi inutili durante la tragedia dello Shuttle Challenger, nella cui disintegrazione poco dopo il decollo persero la vita sette astronauti nel 1986.


Soluzioni moderne


Gli attuali veicoli spaziali Soyuz russi, gli Shenzhou cinesi e gli statunitensi Orion, Dragon, Starliner e New Shepard adottano tutti un sistema di emergenza basato su motori che sollevano e allontanano l’intera capsula, ma solo Soyuz, Shenzhou e Orion restano fedeli allo stile tradizionale che prevede un razzo di emergenza montato davanti alla capsula: gli altri veicoli usano una nuova configurazione pusher, nella quale i motori di emergenza sono montati lateralmente o sotto la capsula e sono integrati permanentemente in essa.

Questa soluzione comporta un aggravio di peso, visto che i motori d’emergenza restano sul veicolo per tutto il volo invece di essere eliminati poco dopo il decollo, ma consente di riutilizzare questi motori per altre funzioni, come per esempio un’accelerazione verso un’orbita più alta oppure (nel caso di motori laterali) una frenata di atterraggio, rendendo possibili atterraggi dolci sulla terraferma.

Il sistema di emergenza di un veicolo Shenzhou cinese. Si notano i due gruppi separati di ugelli. Credit: ChinaNews / Spaceflight Insider.

Collaudo del sistema di emergenza di un veicolo Orion statunitense, luglio 2019.

Una capsula Crew Dragon di SpaceX effettua un test di attivazione del sistema di evacuazione d’emergenza di tipo pusher. Credit: SpaceX, 2015.


Decisioni istintive


I seggiolini eiettabili per astronauti sono insomma una tecnologia ormai abbandonata, che per fortuna non è mai stato necessario usare in emergenza. Ma una volta c’è mancato davvero poco.

Il 12 dicembre 1965 gli Stati Uniti tentarono il primo rendez-vous orbitale fra due veicoli con equipaggi. La missione Gemini 6, condotta da Walter Schirra e Thomas Stafford, avrebbe dovuto raggiungere in orbita i colleghi Frank Borman e James Lovell, lanciati alcuni giorni prima. Al momento del decollo, i due motori del vettore Titan che avrebbe dovuto portare nello spazio la Gemini 6 si accesero correttamente ma si spensero inaspettatamente circa 1,2 secondi dopo.



Il razzo, pieno di 150 tonnellate di propellente altamente corrosivo e tossico oltre che ipergolico (a innesco spontaneo per contatto fra i suoi due componenti), rimase immobile sulla rampa di lancio. In cima, dentro la Gemini 6, Schirra aveva la mano serrata sull’anello di attivazione dei seggiolini eiettabili. Non avvertiva alcun movimento del veicolo e mancava il boato dei motori, eppure il cronometro della missione e il computer si erano attivati, come se fossero partiti.

Doveva decidere: se il veicolo si era alzato da terra anche di pochi centimetri, c’era il rischio che esplodesse, e quindi era urgente eiettarsi per evitare la palla di fuoco dell’esplosione. Ma se non si era mosso, allora il posto più sicuro era dentro la capsula, dalla quale i tecnici li avrebbero estratti con calma.

Schirra decise di non tirare l’anello.

La sua scelta, basata sui suoi istinti di pilota, si rivelò esatta. I due astronauti furono estratti dopo un’ora e mezza, sani e salvi, e il fatto di non essersi eiettati permise di riconfigurare rapidamente la capsula e il vettore per un nuovo tentativo, che avvenne con pieno successo tre giorni dopo, dimostrando che un rendez-vous di precisione era possibile e aprendo così la strada alla Luna.


Fuochi d’artificio


Nella scelta di Schirra aveva pesato non poco il fatto che gli astronauti non si fidavano granché di quei seggiolini eiettabili. Il suo compagno di missione, Stafford, scrisse nel suo libro We Have Capture che c’era una magagna non banale nell’attivarli durante la loro missione: l’atmosfera della cabina era infatti composta da ossigeno puro e al momento del lancio loro erano già stati due ore a mollo in quell’atmosfera. Le loro tute ne erano impregnate e quindi qualunque scintilla li avrebbe fatti ardere in pochi istanti (in modo simile a quello che accadde in seguito, tragicamente, con Apollo 1).

Anche se la fase iniziale dell’espulsione era pneumatica, Stafford temeva che accendere un motore a razzo in quelle condizioni li avrebbe trasformati in “due fuochi d’artificio sparati verso la sabbia e le palme nane”.

L’apparato di collaudo dei seggiolini eiettabili delle capsule Gemini. Credit: NASA.


Test dei seggiolini eiettabili delle capsule Gemini. Credit: NASA.


Gli astronauti delle missioni Gemini avevano ottime ragioni per non fidarsi di questo sistema di eiezione. John Young e Gus Grissom avevano assistito a un suo test, nel quale c’erano dei manichini a bordo al posto degli astronauti: il sistema di sparo dei seggiolini aveva funzionato alla perfezione, ma i portelli di uscita non si erano aperti, per cui i manichini si erano sfracellati a testa in avanti contro l’interno di questi portelli.

John Young, impassibile ma consapevole che prima o poi al posto di quei manichini ci sarebbe stato lui, commentò ad alta voce gli effetti del test con un’altra delle sue frecciate memorabili: “That's a hell of a headache, but a short one” ("È un gran brutto mal di testa, ma dura poco”).


Fonti: Smithsonian Institution, NASA, The Verge, Russian Space Web.


Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta sulla rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA, è stato aggiornato e ampliato rispetto alla versione iniziale e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

2019/10/26

Su Venere in batiscafo e in pallone

Venere come appare in luce naturale attenuata.
Credit: Planetary.org / NASA /
JHUAPL / CIW / Gordan Ugarkovic.
Ultimo aggiornamento: 2019/10/26.

Venere è un inferno. Grande all’incirca come la Terra, la sua superficie è tormentata da temperature che fonderebbero il piombo, pressioni 90 volte superiori a quelle terrestri e nuvole di acido solforico sospese in un’atmosfera di anidride carbonica e azoto mossa da venti che arrivano a 300 chilometri l’ora. Sotto la coltre abbagliante di nubi che ricopre perennemente il pianeta arriva poca luce a illuminare le alte montagne vulcaniche e gli enormi altipiani.

Fino agli anni Sessanta del secolo scorso si riteneva che Venere fosse un mondo paludoso e accogliente, ma le prime esplorazioni spaziali rivelarono appunto un quadro ben diverso. La sonda statunitense Mariner 2 fu la prima a passare vicino al pianeta nel 1962, misurandone le condizioni e comunicando un verdetto inatteso: Venere era la sorella impazzita della Terra, devastata da un effetto serra inarrestabile.

I russi decisero di andare a visitare il fondo di quell’inferno.


Il programma Venera


Fra il 1961 e il 1984, l’Unione Sovietica spedì verso Venere almeno diciotto sonde senza equipaggio. Tredici riuscirono a trasmettere informazioni mentre penetravano nella densa atmosfera venusiana e dieci arrivarono addirittura al suolo e trasmisero da lì dati scientifici e persino immagini: le prime in assoluto scattate dalla superficie di un altro pianeta. Era il 22 ottobre 1975 e la sonda, costruita massicciamente come un batiscafo, era la Venera 9.

Atterrare su Venere richiedeva una progettazione completamente differente da quella tradizionale dei veicoli spaziali, solitamente concepiti per essere il più possibile leggeri ed esili. Venera 9, ancor più delle sonde che l’avevano preceduta, era un carro armato spaziale. Lasciò perdere i propri paracadute già a 50 chilometri di quota, perché tanto si sarebbero sciolti per il calore, e precipitò, come previsto, fino a incontrare gli strati densi dell’atmosfera venusiana.

Grazie alle sonde che l’avevano preceduta, si sapeva che al suolo quegli strati erano a pressioni sicuramente superiori a 25 atmosfere. Lo si sapeva in un modo molto brutale: Venera 4, 5 e 6, concepite per sopportare appunto 25 atmosfere, erano state stritolate come lattine ben prima di arrivare a terra.

La prima a sopravvivere alla discesa era stata Venera 7, che aveva avuto successo nel trasmettere dati scientifici dal suolo venusiano a dicembre del 1970. Aveva resistito a calore, pressione e corrosione per 23 minuti, annunciando temperature di oltre 450 °C.

Venera 9 era talmente robusta che sfruttò quella densità atmosferica spaventosa per frenare aerodinamicamente, grazie a una sorta di ala circolare rigida che la fece planare per ben 55 minuti. Frenare si fa per dire, perché arrivò al suolo cadendo a 25 chilometri l’ora. Nessun problema: sotto la sonda c’era un robusto respingente collassabile, che attutì l’urto dei 660 chilogrammi di massa.


Batiscafo venusiano


Come i batiscafi usati per esplorare le profondità degli oceani, Venera 9 aveva uno scafo sferico resistente alla pressione, con un diametro di circa 80 centimetri, interamente in titanio, rivestito da dodici centimetri di materiale isolante a nido d’ape, a sua volta coperto da un guscio esterno in titanio.

Il calore proveniente dall’esterno veniva assorbito da un accumulatore termico a nitrato di litio triidrato e da uno scambiatore di calore, che proteggevano i numerosi strumenti scientifici e gli apparati di trasmissione situati all’interno dello scafo. Le due telecamere di bordo si affacciavano alla superficie attraverso finestrini di quarzo spessi un centimetro.

Nulla di questi veicoli spaziali era fragile o delicato, insomma; tutto era pensato per la massima robustezza e semplicità. Il sistema di rilascio delle antenne era composto da un blocchetto di zucchero, che si sarebbe sciolto per il calore o in caso di atterraggio in eventuali specchi d’acqua (inizialmente non si sapeva che la temperatura su Venere era così alta).

Venera 9 era persino radioattiva: aveva infatti un densitometro a raggi gamma, basato su un contenitore di un isotopo radioattivo che veniva depositato sulla superficie nella maniera più semplice possibile, ossia usando un braccio che si apriva per caduta. I tappi protettivi delle telecamere venivano fatti saltare con cariche esplosive. Ma nonostante queste soluzioni di forza bruta, uno dei tappi non si staccò.

Le dimensioni della sonda Venera 9 rispetto a uno dei tecnici.

Il modulo di atterraggio della sonda Venera 9. L’elemento circolare piatto è un aerofreno. I due tubi sono condotti per il convogliamento di gas dello scambiatore di calore. La spirale in alto è l’antenna per le comunicazioni radio.


Cartoline dall’inferno


Venera 9 riuscì comunque a trasmettere, oltre a una notevole quantità di misurazioni delle condizioni ambientali, due immagini panoramiche in bianco e nero del suolo venusiano, mostrando agli scienziati russi e poi al mondo una distesa ostile di rocce basaltiche, cotte e smussate dall’ambiente feroce nel quale giacevano.

Una sonda gemella, Venera 10, atterrò tre giorni più tardi, il 25 ottobre 1975, a circa 2200 chilometri di distanza. Anche qui uno dei tappi delle telecamere non si staccò, ma l’altro funzionò come previsto e permise di acquisire e trasmettere immagini del suolo alla parte della sonda che era rimasta in orbita e che ritrasmise i dati verso la Terra. Le lampade che erano state installate a bordo di entrambe le sonde, nel timore che sotto le nubi non ci fosse luce sufficiente, non furono necessarie.

Immagini della superficie di Venere inviate da Venera 9 (sopra) e da Venera 10 (sotto) nel 1976. Credit: Accademia Sovietica delle Scienze.


I tappi delle telecamere furono un vero tormento di queste missioni: per Venera 11 e 12 non se ne staccò nessuno. Andò bene con Venera 13, che trasmise le prime immagini a colori della superficie del pianeta e analizzò un campione di polvere, resistendo poco più di due ore, ma Venera 14 fornì la beffa peggiore: i tappi si staccarono correttamente, ma uno di essi finì esattamente sotto il braccio dello strumento di analisi della compressibilità del suolo, per cui la sonda trasmise verso la Terra informazioni dettagliatissime sulla compressibilità del tappo.

Due tecnici veterani del programma spaziale sovietico, V.I. Yegorov e N.I. Antoshin, accanto al modulo di atterraggio di Venera 13.

Replica della sonda Venera 13 presso il Padiglione del Cosmo della Mostra sui Successi dell’Economia Nazionale a Mosca. In primo piano il veicolo di atterraggio, che era alloggiato all’interno della sfera in cima alla sonda vera e propria in secondo piano. Fonte: NASA.

Immagine panoramica a colori della superficie di Venere, scattata dalla sonda Venera 13 nel 1982. Si vede parte della base della sonda; l’oggetto al centro è un tappo di una delle fotocamere di bordo. Fonte: NASA.

Elaborazione digitale di immagini di Venera 10, ralizzata da Donald Mitchell.

Elaborazione digitale di immagini Venera, realizzata da Donald Mitchell.

Da allora altre sonde russe, americane, europee e giapponesi hanno sorvolato il pianeta, ma nessun’altra è più scesa fino alla superficie. Le missioni Venera costituiscono così un altro primato del programma spaziale russo.


Ritorno a Venere


Viste le difficoltà tecniche e le condizioni ambientali proibitive, le possibilità di visitare Venere sembrano molto scarse e quelle di trovarvi vita paiono nulle. Ma c’è una zona del pianeta che potrebbe ospitare la vita e si presterebbe a una missione meno brutale e fugace delle Venera: è l’alta atmosfera.

La NASA sta preparando, per ora a livello concettuale, una missione con equipaggio denominata HAVOC, dalle iniziali di High Altitude Venus Operational Concept. L‘idea di fondo, fattibile con le attuali tecnologie, è insediarsi a circa 55 chilometri di quota usando dei grandi aerostati.

A questa quota, infatti, l’atmosfera venusiana è la più simile a quella terrestre in tutto il Sistema Solare: la pressione è circa la metà di quella al livello del mare sul nostro pianeta, la temperatura oscilla fra 20 e 30 °C, gli strati più alti offrono protezione sufficiente contro le radiazioni provenienti dallo spazio e c’è moltissima luce solare per generare energia con sistemi fotovoltaici. La gravità è il 90% di quella terrestre.

Gli aerostati sarebbero pieni di ossigeno e azoto, che sono più leggeri degli elementi che compongono l’atmosfera venusiana e quindi consentono di galleggiare, offrendo nel contempo una grande riserva di aria respirabile per gli equipaggi.

Illustrazione di HAVOC, uno studio NASA per un’esplorazione dell’atmosfera venusiana tramite aerostati dotabili di equipaggi. Fonte: NASA.


In queste condizioni, gli astronauti-aeronauti potrebbero uscire all’aperto indossando una semplice tuta resistente agli agenti chimici, non pressurizzata, e un respiratore, passeggiando su una balconata fra le nuvole di Venere.

Considerato che in questo momento i programmi spaziali non prevedono neppure di riportare equipaggi sulla Luna, che rispetto a Venere è dietro l’angolo, progetti come questo possono parere fantascientifici. Ma Venere è meno lontana di Marte e questo riduce l’esposizione alle radiazioni cosmiche durante il tragitto, e la NASA guarda avanti e a volte i piani fantasiosi si concretizzano. Del resto, chi avrebbe mai pensato che un imprenditore privato, Elon Musk, sarebbe riuscito a lanciare verso l’orbita di Marte la propria automobile?


Vita su Venere, vita sulla Terra


Nell‘alta atmosfera venusiana ci sono condizioni adeguate per la vita: alcuni organismi terrestri, gli estremofili, vi si troverebbero a proprio agio. L’ambiente offre ingredienti chimici a volontà e grandi quantità di energia proveniente dal Sole: tutto quel che serve per ospitare forme viventi. La nostra esplorazione di Venere è troppo limitata per escludere questa possibilità, e con il passare del tempo sta diventando chiaro che, perlomeno sulla Terra, la vita si adatta a qualunque ambiente. Sul nostro pianeta esistono forme di vita primitive (batteri) che vivono nelle nuvole. Vale la pena di chiedersi se lo stesso avviene nelle nubi bianchissime che avvolgono il pianeta gemello.

Cosa molto più importante, studiare Venere ci permette di vedere concretamente quali sono gli effetti di un riscaldamento globale incontrollato e quindi di migliorare i nostri modelli del clima terrestre, con tutto quel che ne consegue per il bene della salute del nostro mondo. Anche se non ci si aspetta che la Terra sia soggetta a uno scenario così estremo come quello di Venere, è fondamentale capire quali cambiamenti avvengono in un clima planetario quando si verificano certe condizioni fisiche.

Nonostante Venere sia il pianeta più vicino al nostro, ha delle differenze immense: capire come due pianeti così simili possano avere due evoluzioni così diverse ci può aiutare a capire l’evoluzione del sistema solare e a gestire meglio la nostra astronave Terra.


Fonti: Mental Landscape, National Geographic, Cosmos Magazine, NASA, NASA, Space.com, Universal Science, Space.com, NASA.


Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta sulla rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA, è stato aggiornato rispetto alla versione iniziale e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

2019/10/19

Perché le stazioni spaziali ruotano solo nella fantascienza?

Eleganti nella loro simmetria e forma circolare, volteggiano nel cosmo in tante illustrazioni classiche di progetti spaziali e film di fantascienza, accompagnate magari dalle note del Danubio blu: sono le stazioni spaziali e le astronavi che ruotano su se stesse, usando l’effetto centrifugo per simulare la gravità nello spazio.

Erano un’idea prediletta di grandi nomi della ricerca spaziale come Konstantin Tsiolkovsky e Wernher Von Braun, furono proposte seriamente negli anni Settanta dalla NASA, e hanno costellato decenni di iconografia fantascientifica, da 2001 Odissea nello spazio a Elysium a The Martian a Interstellar. Ma non sono mai diventate realtà, nonostante un pedigree tecnico così autorevole, e probabilmente non lo diventeranno mai. Perché?


Un po’ di storia


Il russo Konstantin Tsiolkovsky, scienziato e pioniere della teoria dei voli spaziali, concepì l’idea di usare la rotazione per creare gravità artificiale nello spazio già nel 1903, quasi sei decenni prima del primo volo spaziale umano. La forma a ruota fu proposta nel 1929 dallo sloveno Herman Noordung (Herman Potočnik) nel suo studio Das Problem der Befahrung des Weltraums (Il problema del volo spaziale).

Il tedesco Wernher Von Braun, progettista chiave dei programmi spaziali statunitensi, immaginò negli anni Cinquanta una stazione a forma di ruota avente un diametro di 76 metri, che avrebbe ruotato su se stessa tre volte al minuto producendo sul proprio bordo, costituito da un tubo semirigido gonfiabile abitato su tre livelli, una gravità simulata equivalente a un terzo di quella terrestre. Questa stazione sarebbe stata l’avamposto dal quale sarebbero partite le missioni verso la Luna e i pianeti.

Le illustrazioni di questa ruota spaziale nella popolarissima rivista statunitense Colliers Magazine, realizzate da grandi artisti come Chesley Bonestell e accompagnate da articoli che ne divulgavano le caratteristiche tecniche con invidiabile ottimismo, cementarono quest’idea nell’immaginario collettivo.

La stazione rotante circolare proposta da Von Braun nel 1952 e illustrata da Chesley Bonestell. Foto NASA MSFC-75-SA-4105-2C.

Nei piani di Von Braun, la stazione spaziale sarebbe stata dotata di un grande collettore solare (la struttura semicircolare appoggiata sopra l’anello abitativo) e sarebbe stata alimentata, secondo i disinvolti standard dell’epoca, da un reattore nucleare situato nella porzione centrale.

L’idea della stazione a forma di ruota fu poi trasposta sul grande schermo in modo memorabile dal regista Stanley Kubrick in 2001 Odissea nello spazio (1968), film nel quale anche l’astronave interplanetaria Discovery è dotata di una sezione rotante per creare a bordo una zona dotata di gravità apparente.

La stazione spaziale rotante di 2001 Odissea nello spazio (1968).


La sezione rotante dell’astronave Discovery di 2001 Odissea nello spazio (1968).

Studi della NASA svolti negli anni Settanta svilupparono in dettaglio l’idea del toroide di Stanford, ossia di una gigantesca struttura toroidale, con un diametro di 1,8 chilometri, messa in rotazione alla velocità di un giro al minuto per produrre nella zona periferica un effetto equivalente alla gravità terrestre e capace di ospitare alcune migliaia di persone.

Il toroide di Stanford (1975), al di sotto del quale è posizionato un colossale specchio per illuminare l’interno. Fonte: Wikipedia.


La corsa alla Luna, tuttavia, fece mettere da parte queste tappe intermedie in favore di veicoli capaci di raggiungere le proprie destinazioni direttamente, senza passare da una stazione. I budget sempre più scarsi erogati dai governi alle agenzie spaziali negli anni successivi agli sbarchi umani sulla Luna stroncarono queste ambiziose strutture rotanti. Al loro posto furono realizzate stazioni spaziali non rotanti, come le Salyut e Mir sovietiche, lo Skylab statunitense, la Tiangong cinese e la Stazione Spaziale Internazionale.

La stazione Skylab statunitense.


La stazione spaziale sovietica Salyut 7.

La stazione spaziale sovietica Mir.

Illustrazione di una stazione spaziale cinese della serie Tiangong e di un veicolo spaziale Shenzhou.

La Stazione Spaziale Internazionale nel 2009.


Mal di spazio


La condizione di assenza di peso o di caduta libera continua che si verifica in un veicolo spaziale orbitante attuale lo rende ideale per qualunque esperimento in microgravità, come avviene oggi sulla Stazione Spaziale Internazionale, ma comporta numerosi svantaggi che renderebbero molto desiderabile una forma di gravità artificiale.

L’assenza di peso prolungata è infatti deleteria per l’organismo umano, perché altera la distribuzione dei fluidi corporei, atrofizza i muscoli, indebolisce le ossa, deforma il bulbo oculare riducendo la vista a volte in maniera permanente, deprime il sistema immunitario e causa nausea e perdita dell’equilibrio al momento del ritorno in gravità. Arrivare su Marte dopo qualche mese di viaggio e non riuscire a stare in piedi, non vederci bene o vomitare dentro la tuta spaziale sarebbe imbarazzante.

Lo stato di caduta libera è anche una complicazione drammatica in caso di ferite aperte o interventi chirurgici: il sangue rilasciato si disperde infatti in tutte le direzioni come una fontana, occultando il campo operatorio invece di defluire e imbrattando qualunque superficie circostante.

Questa assenza di peso è inoltre fonte di disagi in moltissime attività quotidiane, come l’uso dei servizi igienici (liquidi e solidi devono essere aspirati, non sempre con risultati efficaci) e l’igiene personale (un bagno o una doccia sono praticamente impossibili), e complica la progettazione e costruzione di propulsori (il propellente fluttua invece di assestarsi sul fondo del serbatoio, creando irregolarità di alimentazione e sciabordii interni destabilizzanti) e degli impianti di ventilazione: l’aria scaldata dal calore corporeo rimane tutt’intorno alla persona invece di allontanarsi per convezione e lo stesso vale per l’anidride carbonica esalata, obbligando l’uso di sistemi di circolazione forzata.

Una stazione spaziale o un veicolo interplanetario che avesse una sezione rotante abitabile, per esempio un anello o dei moduli separati, risolverebbe tutti questi problemi. Eppure la Stazione Spaziale Internazionale non ruota e nessuno dei veicoli spaziali progettati per futuri viaggi interplanetari integra sezioni rotanti. Non è questione di costi: è un problema di fisica di base.


Forze inattese


L’ostacolo principale all’uso di stazioni e veicoli spaziali rotanti è il nostro senso dell’equilibrio. L’orecchio interno è estremamente abile nel percepire il movimento e la gravità, e muoversi all’interno di un corpo rotante significa subire l’effetto Coriolis, che devia ogni oggetto che vari la propria distanza dal centro di rotazione. Un astronauta che si alzasse in piedi o si abbassasse all’interno di una centrifuga spaziale verrebbe colpito da attacchi di nausea, perché i fluidi dell’orecchio interno verrebbero deviati da questo effetto rispetto alla “verticale” locale, mandando al cervello segnali contraddittori continui.

Lo stesso avverrebbe per ogni rotazione del capo, e inoltre un astronauta che camminasse in direzione opposta al senso di rotazione annullerebbe l’effetto centrifugo e si troverebbe improvvisamente a fluttuare. Sarebbe una situazione decisamente disorientante.

Questi fenomeni diminuiscono man mano che aumenta la dimensione della struttura rotante, ma per farli diventare trascurabili sarebbero necessari diametri enormi, dai cento metri in su, con vertiginosi aumenti dei costi e difficoltà tecniche altrettanto critiche.


Ruote sbilanciate


Una struttura rotante, inoltre, si troverebbe soggetta a squilibri e sollecitazioni derivanti dalla distribuzione non uniforme delle masse e al loro spostamento al suo interno: è il motivo per cui è necessario effettuare il bilanciamento delle ruote delle automobili. Gli oggetti a bordo dovrebbero essere disposti in modo perfettamente bilanciato e un astronauta che si spostasse da una parte all’altra della stazione o astronave rotante produrrebbe delle forze che tenderebbero ad alterare l’asse di rotazione. Lo stesso varrebbe per qualunque trasferimento di masse o fluidi da una parte all’altra della struttura: un dettaglio cruciale, spesso dimenticato con disinvoltura dai film di fantascienza.

Ancora una volta, per evitare che queste forze facessero oscillare il veicolo o la stazione in maniera incontrollata e irregolare sarebbe necessario avere diametri e masse enormi o complessi sistemi di compensazione della distribuzione delle masse, con costi e difficoltà realizzative attualmente insostenibili.


In Interstellar, il veicolo spaziale Endurance mantiene magicamente una rotazione stabile nonostante sia stata fortemente sbilanciata dalla colossale stupidità di Matt Damon.


Finestrini, giunti ed attracchi da incubo


Avere una stazione o un veicolo spaziale interamente rotante significherebbe che un astronauta che guardasse fuori da un finestrino vedrebbe tutto il cielo girargli intorno costantemente: un effetto sicuramente disorientante e sgradevole, che oltretutto renderebbe impraticabile qualunque attività di navigazione basata sulla posizione delle stelle. Amedeo Balbi presenta questo grafico del rapporto fra raggio della stazione e velocità di rotazione in questo suo video a 9:45. Una stazione con un diametro di due chilometri dovrebbe fare un giro al minuto, correndo come la lancetta dei secondi sul quadrante di un orologio.



La rotazione renderebbe inoltre complicatissimo qualunque attracco di un veicolo di rifornimento o di trasferimento di astronauti: sarebbe necessario fermare la rotazione per ogni distacco o attracco, causando sollecitazioni alla struttura e producendo scompiglio a bordo (qualunque oggetto non vincolato continuerebbe a ruotare e “cadrebbe” lateralmente).

La soluzione mostrata con kubrickiana eleganza in 2001 Odissea nello spazio, ossia far ruotare il veicolo che deve attraccare alla stessa velocità alla quale ruota la stazione spaziale, richiederebbe un allineamento assiale perfetto e un’altrettanto perfetta corrispondenza delle velocità di rotazione. Ma un attracco orbitale è già ora una manovra cruciale e complicatissima senza introdurre tutte queste difficoltà aggiuntive.

Si potrebbe concepire una stazione oppure un veicolo spaziale avente soltanto alcune porzioni che ruotano: questo risolverebbe i problemi di attracco (i veicoli in visita attraccherebbero alla parte non rotante) e di disorientamento e navigazione stellare (i finestrini e gli strumenti di puntamento delle stelle sarebbero situati solo nella parte non rotante).

Tuttavia questo introdurrebbe un altro problema tecnico: sarebbe infatti necessario costruire un giunto rotante perfettamente ermetico fra la parte rotante e quella fissa. Da questo giunto dovrebbero passare inoltre tutti i cavi di alimentazione e le condotte di trasporto dei fluidi. Qualunque malfunzionamento di questo giunto comprometterebbe l’intera stazione o astronave. Ancora una volta, la complessità realizzativa sarebbe così elevata da rendere rischioso e poco praticabile questo approccio.


Soluzioni alternative


L’idea delle stazioni o astronavi rotanti sembra insomma destinata a restare sulla carta o sullo schermo. Ma esistono altri metodi per ottenere lo stesso risultato di gravità artificiale senza tutti gli effetti negativi descritti fin qui.

Uno è già stato sperimentato, sia pure in maniera modesta: nel 1966 la missione statunitense Gemini 11 unì con un cavo di 30 metri la capsula con gli astronauti al vettore Agena senza equipaggio, e l’insieme fu messo in lenta rotazione, a 0,15 giri al minuto, come delle bolas.

Il vettore Agena collegato con un cavo alla capsula Gemini 11 nel 1966 durante un esperimento di gravità artificiale. Fonte: JSC Digital Image Collection.


Questo produsse a bordo della capsula 0,0005 g: pochissimo, ma comunque sufficiente a dimostrare la fattibilità di un veicolo nel quale la parte abitata ruota all’estremità di un cavo intorno a una massa centrale. Una struttura del genere minimizza i problemi di equilibratura e riduce enormemente le masse in gioco, rendendola più fattibile con i vettori di lancio attuali e consentendo un arresto della rotazione per gli attracchi.

Un’altra soluzione, ancora più elegante, è sottoporre il veicolo a una propulsione continua: finché il motore è acceso, tutto a bordo sarà soggetto a un’accelerazione lungo l’asse di spinta. Non ci sarebbe nessun effetto Coriolis e si interromperebbe la gravità artificiale semplicemente spegnendo il propulsore. I motori chimici tradizionali non sono in grado di funzionare continuamente, ma i propulsori ionici (già in uso su sonde come Dawn o BepiColombo) possono farlo, anche se attualmente erogano spinte modestissime e quindi produrrebbero gravità artificiali molto lievi.

La terza alternativa è utilizzare la gravità naturale: la massa di un asteroide come Cerere o Vesta, per esempio, genera spontaneamente circa un cinquantesimo della gravità terrestre. Ma la propulsione necessaria per variare la traiettoria di un oggetto così massiccio è, almeno per ora, irrealizzabile.

Con somma gioia di Mel Brooks e di tutti i suoi fan, insomma, forse un giorno ci troveremo ad andare verso Marte a bordo di bolas spaziali.


Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta sulla rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA, è stato aggiornato rispetto alla versione iniziale e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

2019/10/12

I disastri sfiorati dello Shuttle

Chiunque abbia la passione per lo spazio ricorda i due incidenti fatali del programma Shuttle statunitense: la distruzione del Challenger al decollo nel 1986 e la perdita del Columbia nel 2003. In ciascuna tragedia persero la vita sette astronauti. Ma i cinque Shuttle che hanno costituito per trent’anni la colonna portante dei voli spaziali statunitensi ed europei hanno rischiato disastri analoghi in molte altre occasioni, di cui si parla poco.


Tecnologia estrema


Il progetto Shuttle, nato negli anni Settanta, fu una sfida tecnologica straordinaria e spesso sottovalutata. Costruire e far volare un veicolo che decolla come un missile, va nello spazio come un’astronave e torna a terra planando come un aliante a 25 volte la velocità del suono, e lo fa ripetutamente portando sette astronauti e oltre venti tonnellate di carico, significò portare al limite la tecnologia aerospaziale dell’epoca.

Quel limite comportò compromessi e rinunce. Il veicolo spaziale non aveva una all-envelope escape capability, ossia la capacità di mettere in salvo gli astronauti in qualunque momento del volo. I vettori Mercury, Apollo, Voskhod e Soyuz ospitavano gli equipaggi dentro una capsula che poteva essere espulsa da un apposito motore a razzo mentre il vettore era sulla rampa o durante l’arrampicata verso lo spazio; lo Shuttle no. In caso di anomalia sulla rampa o durante i primi due minuti del volo, non c’era sostanzialmente nulla da fare; dopo, eventualmente, si poteva tentare una rischiosissima virata per rientrare planando. Gli astronauti lo sapevano e accettavano il rischio.

Durante i primi voli, lo Shuttle Columbia fu dotato di seggiolini eiettabili, che però erano inutili fino allo sgancio dei due booster a propellente solido ed erano usabili solo a velocità inferiori a 5.500 km/h e a quote minori di 39 km.

Quando un giornalista chiese a John Young, comandante della missione inaugurale del programma Shuttle nel 1981, se era possibile eiettarsi mentre i due booster erano accesi, l’astronauta rispose con il suo tipico umorismo laconico: “Basta che tiri la maniglietta”. In altre parole, ci si poteva sì eiettare, ma si finiva nel getto dei motori.



Scudo fragile


Gli Shuttle erano dotati di un’innovazione particolare: uno scudo termico riutilizzabile, a differenza di quelli ablativi dei veicoli precedenti. Era composto da migliaia di pannelli conformati per adattarsi alla fusoliera e alle ali. Questi pannelli avevano una capacità di protezione termica straordinaria, ma erano meccanicamente fragili: si sbriciolavano al minimo impatto.

Durante la missione militare STS-27, nel 1988, se ne danneggiarono al decollo oltre settecento sull’ala destra e una si staccò completamente, esponendo al calore del rientro l’acciaio e l’alluminio della struttura sottostante. Gli astronauti si resero conto della drammaticità della propria situazione mentre erano in orbita, ispezionando l’esterno con una telecamera montata sul braccio robotico dello Shuttle Atlantis. Il comandante, Robert Gibson, guardando i danni all’ala destra, ammise in seguito di aver pensato che sarebbero morti tutti al rientro.

Essendo una missione militare top secret, le immagini della telecamera furono inviate a terra in forma criptata. Questo ne peggiorò enormemente la qualità e spinse i tecnici a terra a sottovalutare i danni e a dare il via libera per un rientro normale. Gibson era incredulo, ma ubbidì.


Missione STS-27: i danni alla fiancata destra dello Shuttle Atlantis, fotografati durante l’atterraggio.

Dettaglio della foto precedente, che evidenzia le numerosissime scheggiature bianche dello scudo termico.

Missione STS-27: tracce di metallo fuso dove manca un pannello dello scudo termico; scheggiatura dei pannelli adiacenti.

Un’altra inquadratura del danno dello scudo di STS-27 mostrato nella foto precedente.

Missione STS-27: l’ispezione post-volo rivela l’entità dei danni.

Il ritorno sulla Terra andò bene, ma gli astronauti e i tecnici rimasero ammutoliti quando videro i danni che Atlantis aveva subìto. Il fatto che questo Shuttle rientrò nonostante le lesioni estese allo scudo termico e il clima di segretezza che circondò la missione contribuirono all’idea che questo genere di danni fosse normale e non preoccupante.

Quindici anni più tardi, questa stessa fragilità fu la causa del disastro del Columbia, anch’esso lesionato nello scudo termico durante il decollo.


Motori d’oro


Nel 1999, la missione STS-93 sopravvisse a una grave avaria a uno dei tre motori RS-25 dello Shuttle Columbia. Doveva portare in orbita uno dei carichi più pesanti dell’intera storia dei voli Shuttle: le venti tonnellate del telescopio spaziale Chandra, dedicato all’osservazione dell’universo nella gamma di frequenze dei raggi X.

L’ossigeno liquido che, insieme all’idrogeno liquido, alimentava i motori dello Shuttle passava attraverso una rosa di circa seicento iniettori. Questi iniettori venivano ispezionati dopo ogni volo; se qualcuno risultava danneggiato, veniva tappato con un pernetto placcato d’oro. I motori potevano funzionare senza problemi anche se c’erano vari iniettori tappati in questo modo.

All’accensione dei motori del Columbia, uno di questi pernetti fu letteralmente sparato fuori dalla propria sede a causa della pressione dei gas e colpì la parete interna dell’ugello del motore destro, lesionandola. Questa parete era composta da circa un migliaio di tubicini nei quali fluiva idrogeno liquido per raffreddarla, altrimenti si sarebbe fusa per via del calore della combustione all’interno dell’ugello.

Le lesioni interruppero parzialmente questo flusso. Cinque interruzioni avrebbero comportato il surriscaldamento dell’ugello, l’esplosione del motore e la perdita dello Shuttle e del suo equipaggio. Qui ce ne furono tre.

Missione STS-93: il motore di destra ha una fiammata anomala all’interno dell’ugello. Sta perdendo idrogeno liquido.

Missione STS-93: al centro, il danno all’interno di un ugello dello Shuttle Columbia.

Missione STS-93: dettaglio del danno all’ugello del Columbia.

Il Columbia decollò regolarmente lo stesso, grazie all’intervento compensativo dei computer di bordo che avevano rilevato il problema, ma il motore lesionato arrivò pericolosamente vicino al limite di surriscaldamento.

Come se non bastasse, la comandante, Eileen Collins, riferì un problema a una cella a combustibile che poteva portare alla sua esplosione, e al Controllo Missione i sensori indicavano che uno dei booster a propellente solido non aveva fluido idraulico per orientare il proprio ugello: un altro problema potenzialmente disastroso. Ma i tecnici a terra, durante i secondi concitati dell’arrampicata verso lo spazio, capirono che si trattava rispettivamente di un sensore difettoso e di un corto circuito a un cavo di controllo del motore centrale. La guaina isolante del cavo era stata progressivamente asportata, un volo dopo l’altro, dallo sfregamento contro la testa di una singola vite, deformata e resa tagliente dalla forza eccessiva usata per stringerla. Questo portò alla disattivazione di uno dei due computer ridondanti installati sul motore, riducendo ulteriormente i margini di sicurezza.

Il Controllo Missione, insomma, si trovava con uno Shuttle in corsa verso lo spazio che aveva un motore surriscaldato e un altro che dava problemi di telemetria e in più aveva un computer in avaria che lo faceva lavorare a potenza ridotta. Il Columbia riuscì a malapena a entrare in orbita alla quota pianificata e il resto della missione andò bene, mettendo correttamente in orbita il telescopio Chandra, ma il rischio di perdere uno Shuttle e il suo equipaggio fu di nuovo grande.

A lancio concluso, il direttore di volo, John Shannon, si lasciò scappare un raro commento pubblico sul canale di comunicazione con i controllori: “Altri [lanci] così non ne vogliamo”.


All’ultimo secondo


La partenza di uno Shuttle era una coreografia estremamente complessa. In sintesi, prima di tutto venivano accesi i tre motori principali a propellente liquido dello Shuttle, sei secondi prima del lancio, scaglionandoli leggermente per portarli a piena potenza in modo graduale ed evitare sollecitazioni eccessive.

Se questi motori risultavano funzionare correttamente, allora venivano accesi anche i booster laterali a propellente solido. Questi booster, a differenza dei motori dello Shuttle, non potevano essere spenti una volta accesi, e quindi era importante essere sicuri di poter lanciare. Anche perché in cima a quei motori c’erano degli astronauti.

Normalmente, quando quegli astronauti sentivano oscillare lo Shuttle sotto la spinta dei suoi tre motori, capivano che stavano per partire per lo spazio. Ma a giugno del 1984 la missione STS-41D fu interrotta quattro secondi prima del lancio; le missioni STS-51F (luglio 1985), STS-55 (marzo 1993) e STS-51 (agosto 1993) furono fermate tre secondi prima; e la STS-68 (1994) fu interrotta 1,9 secondi prima del lancio a causa di un valore eccessivo di temperatura rilevato da un sensore di uno dei motori.



Quando succedeva un abort di questo genere, gli astronauti si trovavano legati dalle cinture dentro un enorme razzo pieno di propellente che chiaramente non stava funzionando come avrebbe dovuto. Intervenivano potenti getti d’acqua per raffreddare i motori, la passerella di ingresso degli astronauti veniva riavvicinata allo Shuttle e i tecnici del Controllo Missione correvano per mettere in sicurezza il veicolo.

A questo punto gli astronauti dipendevano dai tecnici per sapere se evacuare in fretta lo Shuttle o attendere il ritorno degli addetti alla rampa di lancio. In caso di evacuazione, dovevano uscire dal portello dello Shuttle mentre indossavano circa 40 chilogrammi di tuta e bombole di sopravvivenza, tenendo presente che la cabina del veicolo era puntata verso l’alto e quindi il pavimento era una parete verticale, correre lungo la passerella e infilarsi in una cesta appesa a un cavo che li avrebbe portati verso un bunker ad alcune centinaia di metri di distanza. Sempre che, s’intende, lo Shuttle non fosse esploso nel frattempo.

Il sistema di fuga d’emergenza della rampa 39A nel 2012.

1981: Bob Crippen (a sinistra) e John Young (a destra) si addestrano con il sistema di fuga prima del volo inaugurale dello Shuttle.



Facilità ingannevole


Le agenzie spaziali sono talmente ben addestrate, competenti e professionali che fanno sembrare facili i lanci di questi grandi vettori, ma se si guarda dietro le quinte si apprezza quanto sia in realtà delicato e complesso il lavoro necessario per mettere delle persone dentro una cabina alleggerita al massimo, legata a qualche centinaio di tonnellate di sostanze altamente esplosive, e accelerare quelle persone verso il vuoto inospitale dello spazio in maniera controllata.

Le lezioni dei disastri passati servono come sprone per lavorare con diligenza e passione per evitare che si ripetano, perché in ogni lancio vale sempre una regola: affinché vada bene, migliaia di componenti devono funzionare tutti correttamente. Ma per farlo andar male basta che non ne funzioni uno.



Fonti: SpaceflightNow, AmericaSpace, Universe Today, American Digest.

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2019/10/05

Shuttle vs Buran: spy-story e tecnologie a confronto

1988: una navetta spaziale, grande come un aereo di linea, rientra dallo spazio ed esegue un atterraggio perfetto sulla pista, nonostante il vento traverso a 60 chilometri orari. Ma quando i tecnici aprono il portello del veicolo, a bordo non c’è nessuno.

La navetta, infatti, non è uno Shuttle statunitense: è una Buran sovietica, che è capace di atterrare autonomamente, cosa che il veicolo americano non è in grado di fare, tanto che è stato necessario mettere a bordo dello Shuttle due astronauti (John Young e Bob Crippen) persino per il suo volo inaugurale: una scelta rischiosissima e senza precedenti.

Lungi dall’essere una semplice copia dello Shuttle, come credono molti, la Buran è un veicolo profondamente differente e per molti versi superiore per concezione. Purtroppo il destino farà sì che quel suo straordinario debutto sarà anche il suo unico volo.


L’era dei “furgoni spaziali”


Torniamo indietro di oltre vent’anni rispetto a quello spettacolare volo della Buran: gli Stati Uniti svilupparono lo Space Shuttle negli anni Sessanta e Settanta come veicolo da trasporto spaziale, capace di essere in gran parte riutilizzato invece di essere usabile una sola volta come i veicoli spaziali che l’avevano preceduto.

Questo riutilizzo, si pensava, avrebbe abbattuto drasticamente, di circa il 90%, i costi dei voli spaziali. Inoltre il suo profilo di volo, con accelerazioni più dolci e un atterraggio planato invece di un ammaraggio, avrebbe consentito di portare nello spazio anche astronauti meno iperselezionati di quelli richiesti dai veicoli Mercury, Gemini e Apollo precedenti.

Illustrazione dello Shuttle statunitense come era concepito nel 1969: ali piccole, stabilizzatore posteriore e lanciatore alato con equipaggio e riutilizzabile.


Il progetto Shuttle, annunciato mentre gli ultimi astronauti ancora stavano camminando sulla Luna nel 1972, subì nel corso degli anni moltissime variazioni e ridimensionamenti: il budget spaziale, limitato dopo i fasti della Luna, costrinse la NASA a rinunciare alla piena riusabilità prevista inizialmente.

Il lanciatore alato pilotato, che avrebbe dovuto portare in quota lo Shuttle orbitale vero e proprio, divenne un semplice serbatoio esterno sacrificabile, e per la prima volta un veicolo con equipaggio fu dotato di booster a propellente solido.

Una scelta rischiosa, visto che i booster di questo tipo non possono essere regolati o spenti una volta accesi; una scelta che si rivelerà fatale durante un decollo dello Shuttle Challenger nel 1986, quando una fiammata proveniente da una guarnizione difettosa di questi enormi razzi farà deflagrare il serbatoio, distruggendo il veicolo e portando i sette membri dell’equipaggio alla morte in diretta televisiva mondiale. Lo Shuttle era, per usare le parole di uno dei suoi astronauti, una farfalla legata ad un proiettile.


Ali rivelatrici


I sovietici esaminarono in dettaglio i progetti dello Shuttle e si resero conto che mostravano una caratteristica per loro preoccupante: la grande ala a doppio delta, con la sua enorme tripla penalità (di peso e aerodinamica al decollo, termica al rientro). Adottarla aveva senso soltanto se lo Shuttle doveva avere delle finalità militari strategiche.

Lo Shuttle Columbia al decollo.


In effetti l‘ala a doppio delta non faceva parte del progetto Shuttle originale, che era stato appunto concepito con ali piccole e diritte: la grande ala fu imposta da un requisito militare, il cosiddetto “long crossrange”, ossia la capacità di rientrare compiendo ampie virate per spostarsi lateralmente di oltre 2000 chilometri rispetto alla traiettoria orbitale.

Questa capacità avrebbe permesso allo Shuttle di decollare per esempio dalla base militare californiana di Vandenberg, inserirsi in un’orbita polare, mettere in orbita un oggetto militare (o prelevarlo dall’orbita) e poi rientrare di nuovo a Vandenberg dopo una singola orbita, compensando la rotazione terrestre con una grande virata, senza mai sorvolare territori nemici, come descritto nel documento STS Design Reference Mission 3A/3B (NASA, 1973).

Verso la fine degli anni Settanta questo requisito di elevato crossrange fu abbandonato dai militari, ma a quel punto il progetto Shuttle era andato troppo avanti per cambiarlo radicalmente e quindi l’ala a doppio delta rimase.

I sovietici, in piena Guerra Fredda, interpretarono quell’ala come un segno evidente che gli americani volevano dotarsi di un veicolo che avrebbe permesso, per esempio, di rubare un satellite russo oppure di mettere in orbita di nascosto un ordigno nucleare da far cadere a sorpresa su Mosca, eludendo i satelliti di sorveglianza russi che avrebbero rilevato la fiammata di un normale missile balistico intercontinentale.

La soluzione sovietica a questa nuova arma americana fu logica, inevitabile e tradizionale: come era già avvenuto per tante altre tecnologie, per esempio il bombardiere Tupolev Tu-4 (identico al B-29 statunitense) o il supersonico di linea Tu-144 (ispirato dal Concorde anglo-francese), fu deciso di costruirne una copia uguale, anzi per certi versi migliore. Nacque così il progetto Buran.


Spie e controspie


A prima vista la Buran in effetti sembra una copia spudorata dello Shuttle: stesse dimensioni, stessa ala a doppio delta, stesso timone, stessa configurazione con grande vano di carico dotato di due portelloni incernierati longitudinalmente, stessa collocazione dei motori di manovra, stessa tecnica di rientro planato senza propulsione.

Indubbiamente i sovietici approfittarono delle esperienze e delle scelte già fatte dai loro omologhi americani, facendo anche incetta di tutta la documentazione pubblica sul progetto Shuttle, per saltare molte tappe di ricerca e sviluppo. Ma la CIA e l’FBI se ne accorsero e iniziarono a disseminare documenti alterati per confondere i russi e indurli a costruire la Buran con i materiali e le specifiche sbagliate, come raccontato dal documento The Farewell Dossier pubblicato sul sito della CIA.

I sovietici copiarono le caratteristiche aerodinamiche dello Shuttle, ma furono comunque costretti a distaccarsi dal progetto americano per via della loro arretratezza tecnologica in fatto di grandi razzi a propellente solido e di motori riutilizzabili ad elevatissime prestazioni come quelli usati dallo Shuttle, per cui il depistaggio americano fu efficace soltanto indirettamente: non impedì ai russi di costruire una navetta spaziale, ma li rallentò e li costrinse ad affrontare un progetto costosissimo che l’economia russa non poteva sostenere, per cui a modo suo contribuì comunque al collasso dell’Unione Sovietica.

I progettisti russi scelsero due soluzioni eleganti per compensare le proprie limitazioni motoristiche: adottarono quattro grandi razzi ausiliari a propellente liquido al posto dei due a propellente solido americani e tolsero i motori principali dalla Buran, mettendoli invece nello stadio centrale di un grande lanciatore, denominato complessivamente Energia. In questo modo sparì il requisito della riutilizzabilità dei motori principali, per cui fu possibile adottare, per lo stadio centrale del lanciatore, motori monouso per propellenti liquidi, nei quali i sovietici erano più progrediti degli americani (gli RD-170 di Energia erano ancora più potenti degli F-1 usati nel Saturn V).

Non solo: togliendole la massa dei motori, la Buran divenne capace di portare in orbita 30 tonnellate di carico contro le 26 dello Shuttle e divenne molto più semplice da preparare per un volo successivo. La Buran, diremmo oggi, era lo Shuttle 2.0.


Trionfo russo, ma con amarezza


Il vettore Energia fu collaudato nel 1987, senza la navetta, con pieno successo. La Buran volò con Energia a novembre del 1988, con anni di ritardo sul rivale Shuttle, che aveva già iniziato i voli nel 1982.

La Buran sulla rampa di lancio al Sito 110 di Baikonur. La rampa è un adattamento di una di quelle usate per il fallito vettore lunare N-1.


La Buran durante il suo primo e ultimo decollo verticale per un volo orbitale, trasportata dal vettore gigante Energia.


Fu un trionfo totale, dopo dodici anni di sofferto e costoso sviluppo: le 80 tonnellate della Buran entrarono in orbita intorno alla Terra alla quota di circa 250 chilometri, trasportando sette tonnellate di strumenti nel vano di carico. Dopo 206 minuti dal decollo e due orbite, la Buran accese i motori di manovra e rientrò, concludendo il proprio volo spaziale con una perfetta planata sull’apposita pista dello stesso cosmodromo di Baikonur dal quale era partita verticalmente.

L’Unione Sovietica aveva dimostrato di essere tecnologicamente in grado di costruire uno spazioplano grande come un aereo di linea e capace di effettuare il lancio, le manovre orbitali, il rientro e l’atterraggio in maniera completamente automatica e autonoma, senza equipaggio. Meglio degli americani, che oltretutto avevano già perso un equipaggio con lo Shuttle.

Ma quel trionfo avvenne a meno di un anno dalla caduta del Muro di Berlino, che segnò l’inizio del crollo dell’Unione Sovietica. I sogni di usare la Buran ed Energia, in versione potenziata e pienamente riutilizzabile, per costruire uno scudo spaziale militare, ricostruire lo strato atmosferico protettivo di ozono, illuminare le città polari russe, colonizzare la Luna e Marte svanirono nel vortice del collasso. La Buran non volò più nello spazio: fu esibita in volo, anche in Occidente, portandola sul dorso del gigantesco aereo da trasporto An-225.


Fine ingloriosa


Buran ed Energia furono messi in un hangar a Baikonur come oggetti per impressionare i visitatori, ma nel 2002 la mancanza di manutenzione dell’hangar ne fece crollare il tetto, distruggendo entrambi i veicoli e causando la morte di otto operai. Di questo grande sforzo tecnologico restano soltanto i prototipi e gli esemplari parzialmente costruiti, esposti nei musei di vari paesi o abbandonati nelle gigantesche rimesse di Baikonur, e i magnifici motori RD-170, che sono stati adottati anche per i vettori statunitensi Atlas più recenti.

Un esemplare incompleto di Buran giace abbandonato in un hangar in Kazakistan.


Lo Shuttle americano, dopo un altro disastro nel 2003 che costò la vita a tutti e sette gli astronauti del Columbia durante il rientro, concluse la propria carriera trentennale nel 2011, chiudendo l’era dei veicoli spaziali alati con equipaggio.

Ma qualcosa, di quell’era, rimane tuttora: il “mini-Shuttle” americano senza equipaggio X-37B, che va e viene dallo spazio da anni, avvolto da un segreto quasi totale. Ma questa è una storia da raccontare un’altra volta.

Il “mini-Shuttle” militare statunitense X-37B all’interno della carenatura di lancio. Credit: US Air Force, 2010/Wikimedia.


Fonti: Astronautix, AlternateHistory.com, Discover Magazine, RussianSpaceWeb, Reddit, Yarchive, NBC, NASA.  

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