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Il Disinformatico: maggio 2018

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2018/05/31

Il primo attacco informatico della storia...nel 1834?

A quando risale il primo abuso di un sistema di telecomunicazione, o di hacking nella terminologia moderna? Secondo questo articolo di Tom Standage, al 1834.

Ovviamente a quell’epoca non c’era Internet e non esistevano i computer, ma la Francia aveva comunque già una propria rete di telecomunicazione nazionale, inaugurata addirittura nel 1794, in piena Rivoluzione Francese: era il telegrafo ottico, composto da catene di torri di segnalazione, piazzate a distanze da 8 a 10 chilometri l’una dall’altra e dotate di un braccio rotante che reggeva due bracci più piccoli alle estremità.

Questi bracci potevano essere orientati in vari modi per comporre un complesso codice di simboli, che venivano trasmessi da una torre all’altra con un sistema molto semplice: l’operatore della torre ricevente guardava con il cannocchiale i simboli mostrati dalla torre trasmittente e poi li ripeteva muovendo i bracci della propria torre. I suoi movimenti venivano visti dall’operatore della torre successiva, che li ripeteva a sua volta, e così via finché il messaggio arrivava a destinazione.

Con questo sistema i messaggi viaggiavano a circa 500 chilometri l’ora, coprendo per esempio la distanza fra Parigi e Lille (230 km) in una mezz’oretta, in un’epoca nella quale l’alternativa più celere, un corriere a cavallo, avrebbe impiegato almeno trenta ore. La Francia costruì una rete di 556 stazioni semaforiche che coprivano circa 4800 chilometri, e altri paesi europei realizzarono reti analoghe.

Visti i vantaggi strategici delle comunicazioni rapide, il telegrafo ottico era riservato ad usi governativi e militari. Napoleone Bonaparte portava sempre un telegrafo ottico portatile nel proprio quartier generale e fece estendere la linea da Parigi a Milano, Torino e Venezia.

Per tutelare la riservatezza dei messaggi veniva usata una forma di cifratura, per cui i telegrafisti non conoscevano il contenuto dei messaggi che ripetevano. Soltanto chi inviava un messaggio e chi lo riceveva potevano decodificarlo. In altre parole, il telegrafo ottico aveva la crittografia end-to-end come ce l’ha oggi WhatsApp. Era Internet in versione steampunk.

By Jeunamateur - Own work d'après "La télégraphie Chappe", FNHAR, 1993, CC BY-SA 3.0, Wikimedia.

Se vi interessano i dettagli tecnici e la storia del sistema, su Difesa.it (tramite Archive.org) trovate un ricchissimo approfondimento (PDF) del professor Francesco Frasca. Altre informazioni sono su Wikipedia e su Posta e società.

Ma come fu possibile “hackerare” un sistema di telecomunicazione militare cifrato, e soprattutto perché? E chi furono questi proto-hacker?


Hacker nel 1834


È qui che entrano in scena i fratelli François e Joseph Blanc, due banchieri che operavano sulla borsa di Bordeaux. Assoldarono a Parigi un collaboratore che teneva sotto osservazione la borsa parigina, la più importante e influente di Francia, e passava informazioni sugli andamenti più significativi a un operatore del telegrafo ottico a Tours, sulla linea che trasmetteva i dati fino a Bordeaux.

Siccome la rete telegrafica era solo per uso governativo e un messaggio non autorizzato sarebbe stato immediatamente evidente a tutti, i fratelli Blanc trovarono il modo di annidare i propri messaggi dentro quelli autorizzati: usarono i simboli adoperati per indicare le correzioni.

I due corruppero l’operatore telegrafico a Tours, dandogli istruzioni di commettere degli errori molto specifici nelle trasmissioni, lasciando che si propagassero lungo la linea, e poi di correggerli poco dopo. Gli errori rappresentavano in codice gli andamenti di borsa a Parigi. Un complice che viveva vicino all’ultima stazione lungo la linea, vicino a Bordeaux, prendeva nota degli errori e li riferiva ai fratelli Blanc. In termini moderni, i Blanc usavano la steganografia.

Il sistema consentì ai fratelli Blanc di conoscere gli andamenti parigini (e i loro effetti sulla borsa di Bordeaux) cinque giorni prima dei propri concorrenti locali, visto che la posta da Parigi ci metteva appunto cinque giorni ad arrivare a Bordeaux tramite carrozze trainate da cavalli, e così i fratelli guadagnarono giocando d’anticipo.

Riuscirono a farla franca per due anni, fino a quando il loro operatore complice si ammalò e rivelò tutto il meccanismo a un amico dal quale sperava di farsi sostituire. Ma quando i fratelli Blanc furono smascherati, le autorità si accorsero che non c’erano leggi che vietavano specificamente l’iniezione di messaggi privati nella rete del telegrafo ottico e quindi i due rimasero a piede libero.

Morale della storia: le intrusioni nelle reti restano spesso invisibili a lungo, perché gli intrusi non hanno interesse a farsi notare; l’elemento più fragile della catena della sicurezza è quello umano, per cui pensare alla sicurezza solo in termini di tecnologia è sbagliato; e c’è sempre un modo per abusare di qualunque sistema, specialmente se c’è un incentivo economico per farlo. La storia dei fratelli Blanc dimostra che queste sono regole senza tempo.


Fonte aggiuntiva: Inc.com.

La Psicosi del Furgone Bianco

È facile dare la colpa delle fake news alle testate giornalistiche o ai siti Web che non controllano le notizie prima di pubblicarle. Ma a volte la notizia falsa la fabbrichiamo o la alimentiamo noi utenti, perché non siamo abituati a questo nuovo ruolo di disseminatori di notizie e facciamo fatica a renderci conto che la voce digitale di qualunque utente di Facebook o WhatsApp, oggi, ha lo stesso potere di diffusione di quella di un’emittente radio o TV o di un giornale e può causare danni enormi.

Prendete per esempio l’allarme per un furgone bianco, guidato da un pedofilo pronto a rapire i bambini per esempio vicino alle scuole. Questo allarme viene segnalato in moltissime località, non solo in Italia, ma in tutto il mondo, e da molti anni, come rivela una rapida ricerca in Google News. In Italia si trovano casi a Zerbo (PV) (2016), Zeccone (PV) (2014), Lecco (2016), Ragusa (2017); all’estero spiccano Australia (2013 e 2011) e Regno Unito (2011). E questi sono solo i primi casi che ho trovato.

Questo vuol dire che o c’è un esercito internazionale di rapitori di bambini che hanno tutti scelto lo stesso metodo di operare e si ostinano a usarlo nonostante sia ormai conosciuto da anni, cosa piuttosto improbabile, oppure la notizia è falsa ed è una diceria che si perpetua e apparentemente si conferma perché in effetti i furgoni bianchi sono molto comuni e capita che qualcuno di essi passi nelle vicinanze delle scuole, ma per motivi assolutamente innocenti, e che qualche genitore ansioso interpreti male questo passaggio.

La variante più recente circola in questi giorni su WhatsApp: un messaggio include una foto di una donna e una voce femminile che dice che la donna nella foto si aggira nel quartiere insieme ad altre due persone e, nel momento in cui i bimbi escono da scuola o vi entrano, la donna ne prende uno e se lo porta via. La voce racconta che “è successo a questa mamma, mentre stava pagando alla cassa la bambina era già stata presa per mano e portata fuori dal bar. Meno male che la nonna se ne è accorta e gliel’hanno strappata dalle mani.”

Inquietante, certo, ma l’allarme è anonimo e non fornisce alcun dettaglio concreto: non indica né dove né quando sarebbe avvenuto questo tentato rapimento. Non specifica la scuola in questione e neppure la città. In altre parole, ha tutte le caratteristiche perfette per diventare un allarme che vale in eterno e in qualunque luogo, esattamente come la storia del furgone bianco, facendo leva sulle nostre paure.

WhatsApp è in grado di tracciare il passaparola di quest’allarme e risalire alla sua fonte per chiedere chiarimenti, ma per ora non risulta che l’abbia fatto. Inoltre il caso è già stato segnalato alla Polizia Postale dal collega debunker David Puente. Nel frattempo, se vogliamo dare una mano a contrastare le fake news, conviene evitare di far circolare questo genere di allarme privo di conferme e di riferimenti di luogo e di tempo e in particolare questo nuovo, perché c’è il rischio che qualcuno riconosca, o creda di riconoscere, la donna nella foto e la prenda di mira, come è successo a marzo del 2016 con il proprietario di un furgone bianco a Sant’Angelo di Piove, nel Veneto: era innocente, ma è stato additato e perseguitato come un orco da chi condivideva sui social senza riflettere.

La sua storia è stata raccontata anche da Una vita da social, la pagina Facebook ufficiale della Polizia di Stato italiana, che riporta le parole amare della vittima di una vera e propria psicosi, nata oltretutto da una stupida, irresponsabile bugia:

[...] nella mattinata di lunedi 22 febbraio [2016] sono venuto a conoscenza da mia moglie che su Whatsapp e in seguito su tutti gli altri social, stava girando un messaggio vocale con il quale una mamma di Sant'Angelo di Piove segnalava un potenziale adescamento a danno di minori e la descrizione del mezzo e del conducente erano quelli del mio veicolo.Così mi sono recato subito dalle forze dell'ordine di Piove di Sacco, dove mi hanno confermato la segnalazione fatta alla stessa stazione dai genitori dei bambini. In presenza sia degli agenti che dei genitori è stato chiarito il malinteso: tutto è nato da una bugia raccontata dai loro figli chissà per quale motivo, amplificata mediaticamente dal messaggio vocale diventato fortemente virale nei social network. L'errato allarmismo in Whatsapp, Facebook e perfino in qualche quotidiano on-line, era partito quindi prima della fine delle indagini delle forze dell'ordine. Inoltre nel weekend, a mia totale insaputa, il mio furgone (con targa ben in vista e con me e la mia famiglia all'interno), vista la sua particolarità, è stato più volte riconosciuto e fotografato ad incroci e semafori, e le foto sono state poi postate nei social network con commenti e appellativi nei miei confronti tutt’altro che piacevoli.

Ricordatevene, prima di condividere allarmi che possono rovinare una vita.

2018/05/30

Comunicazione di servizio: problemi nei commenti su Blogger.com

Da qualche giorno non ricevo più le mail automatiche di Blogger.com contenenti le notifiche e i testi dei commenti inviati e in attesa di approvazione. Di conseguenza sto avendo problemi e rallentamenti nella moderazione dei commenti.

Posso sapere dell’arrivo di nuovi commenti soltanto tramite l’interfaccia Web di Blogger, che però non mostra tutto il testo del commento. Inoltre non mi arrivano neanche le mail di notifica dopo la pubblicazione di un commento.

Questo problema è iniziato quasi contemporaneamente con l’entrata in vigore della GDPR, per cui potrebbe esserci un nesso. Nell’interfaccia di gestione di Blogger è comparso l’avviso "Blogger non supporta più OpenID. I commenti OpenID esistenti e le tue impostazioni OpenID potrebbero aver subito dei cambiamenti" (screenshot qui sotto), ma è tutto quello che so, per ora.



Se avete maggiori informazioni, scrivetele nei commenti. Sperando che io me ne accorga :-)

Scusate l’inconveniente.


2018/05/30 12:55


Stando ad alcune risposte nelle pagine di aiuto di Blogspot (“We're currently tweaking our emailing system, but we expect it to be working again within the next week. Thank you for your patience - we look forward to getting it out soon!”), si tratterebbe di un problema generale di Blogspot.

Ho provato a togliere e rimettere gli indirizzi di mail ai quali arrivano le notifiche, come suggerito qui, ma non è cambiato nulla.

Ho inoltre cambiato l’impostazione di chi può inserire commenti (sotto Impostazioni - Post, commenti e condivisione) da Utente con Google Account a Chiunque - inclusi gli utenti anonimi. Nessun cambiamento.


2018/05/31 9:00


A causa dell’ondata di spam nei commenti che è arrivata quando ho consentito i commenti anonimi, ho dovuto cambiare di nuovo l’impostazione di chi può inserire commenti a Utente con Google Account.

Fortnite, premi per 100 milioni di dollari in un gioco “gratuito”

Fortnite è la mania del momento: un gioco online popolarissimo, specialmente nella versione Battle Royale, che è gratuita e disponibile per computer Windows e Mac, PlayStation 4, Xbox One e smartphone e tablet Apple.

Per darvi un’idea di quanto stia avendo successo, provate semplicemente a nominare la parola Fortnite a qualunque bambino o adolescente. Oppure considerate questo dato: pochi giorni fa la Epic Games, la società che ha creato e gestisce Fortnite, ha annunciato che offrirà ai giocatori un montepremi complessivo di cento milioni di dollari. Cento milioni di dollari reali, s’intende.

Se vi state chiedendo come faccia un gioco gratuito a potersi permettere un montepremi così spettacolare, la risposta è una parola: V-buck. I V-buck sono la valuta interna di Fortnite e si usano come gettoni per comprare varie cose nel gioco: le skin, ossia l’aspetto visivo del personaggio gestito dal giocatore; le emote o mosse che esprimono emozioni; le armi; i Pass Battaglia, che fanno salire di livello più rapidamente; e altro ancora. Questi V-buck si guadagnano giocando molto assiduamente oppure semplicemente comperandoli online, pagandoli con soldi reali.

Ma siccome guadagnare quantità significative di V-Buck semplicemente giocando richiede moltissimo tempo ed è intenzionalmente frustrante, molti giocatori comprano questi gettoni di gioco spendendo denaro vero (di solito quello dei genitori, anche se esistono parecchi giocatori adulti). Spendono così tanto che soltanto nel primo mese di disponibilità della versione di Fortnite Battle Royale giocabile sugli smartphone Apple la Epic Games ha incassato oltre 25 milioni di dollari.

Intorno a questo vortice di denaro sono nate molte truffe, che è meglio conoscere: per esempio, i giocatori vengono abbindolati da pubblicità online o da messaggi di altri giocatori che promettono cheat, ossia trucchi per ottenere grandi quantità di V-Buck con poca fatica, magari in cambio della loro password di Fortnite o dell’installazione di qualche programma di dubbia provenienza.

È un inganno piuttosto evidente, concepito per rubare gli account o per infettare i computer delle vittime, ma nella febbre del gioco una mente giovane si fa sedurre facilmente, per cui se avete figli che giocano a Fortnite conviene avvisarli che chiunque prometta loro V-Buck gratis o a prezzo scontato, per esempio nelle chat del gioco, è un truffatore. I V-buck si comprano soltanto tramite i negozi online ufficiali.

Conviene inoltre bloccare gli acquisti in-app sui dispositivi usati per giocare, per evitare che i giovani giocatori spendano grandi cifre senza accorgersene, e impostare dei limiti automatici di orario e di tempo di gioco quotidiano, per scongiurare l’instaurarsi di dipendenze e delle “facce da Fortnite”, ossia dei visi assonnati che ciondolano sui banchi di scuola dopo troppe sessioni di gioco notturne.

Se volete farvi un’idea di questo gioco, delle sue regole e dei suoi contenuti, anche in termini di ritmo frenetico, di violenza e di interazione con altri giocatori, potete semplicemente andare su Youtube e digitare “Fortnite gameplay”: troverete un’infinità di video di sessioni di gioco e anche di spiegazione quasi maniacale delle sue funzioni a volte intenzionalmente nascoste, e capirete perché il suo mix di sparatutto e costruzione in stile Minecraft è così accattivante e fa perdere la cognizione del tempo. Buon divertimento.


Fonti aggiuntive: Ars Technica, BoingBoing, Polygon, Forbes, VG24/7.

2018/05/29

Alan Bean e i colori della Luna

Alan Bean nel suo studio a Houston, ottobre 2008. Credit: Carolyn Russo.

La recente scomparsa dell’astronauta lunare Alan Bean ha fatto riemergere molti ricordi di chi l’ha conosciuto. Fra i tanti ce n’è uno che mi ha colpito particolarmente ed è stato raccontato su Twitter da Phil Metzger (@DrPhiltill), esperto di planetologia, cofondatore dei laboratori di ricerca Swamp Works del Kennedy Space Center e attualmente docente all’UCF Florida Space Institute. Lo segnalo, riassumendolo qui di seguito, non solo perché rivela un aspetto forse poco noto dell’astronauta Alan Bean ma anche perché mette in luce una questione scientifica e astronautica sorprendente e raramente considerata: un allunaggio “sporca” l’intera Luna.

Nel 2010 Metzger contattò Alan Bean per chiedergli informazioni su una cosa che l’astronauta aveva visto sulla Luna. Lo scienziato stava svolgendo ricerche sul modo in cui il getto dei razzi proietta la polvere lunare durante gli allunaggi.

Le sue informazioni migliori sull’argomento provenivano dalla missione Apollo 12, durante la quale Pete Conrad e, appunto, Alan Bean fecero atterrare il proprio modulo lunare a soli 160 metri dalla sonda Surveyor 3, atterrata due anni e mezzo prima. La sonda, ormai inattiva, era rimasta esposta all’ambiente lunare per tutto questo tempo. Uno degli obiettivi di Apollo 12 era dimostrare un allunaggio di precisione e staccare dei pezzi dalla Surveyor per riportarli sulla Terra, in modo da scoprire il modo in cui l’ambiente lunare faceva deteriorare i vari tipi di materiali e di componenti dei veicoli spaziali.

Secondo il piano della missione, il modulo lunare sarebbe dovuto atterrare a questa distanza dalla Surveyor per ridurre al minimo l’effetto di sabbiatura a getto che si sarebbe verificato per via del grande motore di discesa del modulo lunare, il cui getto avrebbe spazzato via il terreno e la polvere della Luna. Ma 160 metri di distanza non furono sufficienti.

La missione Apollo 12 fu quella che allunò più vicino al terminatore lunare, ossia alla linea di confine fra la regione illuminata della Luna e quella buia: Conrad e Bean atterrarono in un punto e in un momento in cui il Sole era alto solo 5° sopra l’orizzonte locale. In altre parole, nel luogo di allunaggio era passata da poco l’alba.

Questo ebbe un grande effetto sull’allunaggio. Il modulo lunare di Apollo 12 parve sollevare molta più polvere, con il proprio motore di discesa, di qualunque altra missione: così tanta che gli astronauti non riuscirono neanche a vedere il terreno sotto il proprio veicolo. Conrad raccontò in seguito che non riusciva a capire se sotto di loro ci fosse un macigno o un cratere, per cui corse il rischio e atterrò alla cieca, rischiando di morire insieme a Bean. Eppure nelle registrazioni della loro discesa si sente Bean che incoraggia Conrad ad atterrare nonostante tutto.

Secondo Metzger, però, Apollo 12 in realtà non sollevò più polvere delle altre missioni, ma fu il Sole basso sull’orizzonte a rendere apparentemente più opaca la polvere: per illuminare la superficie, infatti, la luce del Sole dovette attraversare la coltre di particelle finissime molto più obliquamente (attraversando uno spessore circa doppio) rispetto agli altri allunaggi.

Metzger e i suoi colleghi stimarono, dopo molti anni di ricerca, che ogni allunaggio spostò più di una tonnellata di terreno lunare, scagliandola a velocità fra 400 m/s e 3000 m/s. Le particelle più fini volarono più velocemente e più lontano, nel vuoto lunare.

Tre chilometri al secondo sono un valore particolarmente significativo, perché è superiore alla velocità di fuga lunare (qualunque oggetto viaggi a questa velocità non ricade più sulla Luna). Questo significa, dice Metzger, che ogni allunaggio può aver generato un anello di polvere spazzata definitivamente via dalla Luna e immessa in orbita intorno al Sole.

Cosa più importante, questo valore significa che sulla Luna non esiste una distanza di sicurezza: qualunque punto della superficie lunare, non importa quanto lontano dal sito di allunaggio, verrà investito dalla polvere scagliata dal getto del motore. Man mano che aumenta la distanza dal punto di allunaggio diminuirà la quantità di polvere che vi arriva, ma è possibile che anche gli antipodi vengano raggiunti da qualche particella di polvere sollevata.

La missione Apollo 12 fornì un’occasione assolutamente unica di misurare concretamente questa polvere scagliata: dopo l’allunaggio, Conrad e Bean raggiunsero a piedi la sonda Surveyor e ne tranciarono via alcuni pezzi che erano stati esposti al violento flusso di polvere prodotto dal modulo lunare atterrato a soli 160 metri di distanza.

Nell’avvicinarsi alla Surveyor, Bean commentò via radio al Controllo Missione che se non ricordava male gli avevano detto che la Surveyor era bianca. Il Controllo Missione, perplesso, gli chiese di che colore fosse invece secondo Bean. L’astronauta rispose che era marrone.

Queste sue parole fecero discutere: cosa c’era, nell’ambiente lunare, che potesse alterare così tanto il colore della sonda? La teoria prevalente fu che le radiazioni presenti avessero alterato la composizione chimica della vernice. Questa teoria rimase indiscussa per circa quarant’anni.

Nel 2008 Metzger andò a Houston a prendere i campioni della sonda Surveyor raccolti da Apollo 12, tenendoli in una speciale cassaforte, con molte misure di sicurezza, perché erano tesori nazionali inestimabili. Li analizzò con numerosi metodi moderni, che non erano disponibili durante gli studi condotti quarant’anni prima, subito dopo il programma Apollo: microscopi elettronici a scansione, scanner laser,  spettroscopia di fotoionizzazione a raggi X e spettroscopia elettronica a dispersione.

Metzger e colleghi scoprirono che la superficie della vernice era stata penetrata da particelle di terreno lunare grandi come granelli di sabbia (100 micron) che viaggiavano a circa 400 m/s. Ciascuna particella aveva prodotto un forellino nella vernice e si poteva scorgere una particella annidata in fondo a ciascun forellino.

Questa è un’immagine di un frammento di alluminio verniciato di bianco proveniente dalla Surveyor: si nota un foro di passaggio di un bullone, dove una rondella proteggeva la vernice, che quindi è ancora bianca. Il contrasto è stato aumentato per chiarezza.


L’ombra semicircolare è quella prodotta dalla testa del bullone che c’era nel foro: l’ombra è rimasta, anche se il bullone non c’è più. Quest’ombra fantasma è un effetto della sabbiatura prodotta dal flusso intenso della polvere lunare scagliata dall’allunaggio di Conrad e Bean a 160 metri di distanza dalla Surveyor.

Tutte le zone esposte al getto di polvere divennero più chiare, mentre tutte quelle protette rimasero scure. Era questo il colore marrone descritto da Bean sulla Luna.

Le ricerche precedenti avevano triangolato queste ombre e avevano dimostrato che indicavano la direzione del modulo lunare.

Le ricerche di Metzger e colleghi nel 2010 dimostrarono che il colore marrone non era stato prodotto dalle radiazioni, come avevano ipotizzato i ricercatori precedenti: le ombre erano fatte di polvere di Luna. Il colore marrone era polvere lunare già presente sulla sonda Surveyor prima dell’arrivo di Apollo 12. Il getto di sabbiatura della polvere lunare prodotto dall’allunaggio di Apollo 12 asportò dalla Surveyor più polvere di quanta ne depositò, e questo risultato fu una grande sorpresa.

Metzger e colleghi analizzarono la composizione chimica della polvere e scoprirono che conteneva minerali differenti sul lato est rispetto al lato ovest della Surveyor. Questa polvere, insomma, era ricca di misteri, per cui Metzger e i suoi pubblicarono un articolo scientifico intitolato appunto Further Analysis on the Mystery of the Surveyor III Dust Deposits.

Dopo aver cercato altri indizi negli archivi della missione, Metzger e colleghi si resero conto che dovevano parlare direttamente con Alan Bean per capire esattamente cosa avesse visto mentre camminava verso la Surveyor sulla Luna esclamando che era marrone. Un amico li mise in contatto telefonico.

Bean fu cortesissimo, dimostrando un grande senso dell’umorismo, e parve godersi la chiacchierata a proposito di quello che aveva visto sulla Luna. Ovviamente alcuni dei suoi ricordi dei dettagli erano ormai sbiaditi, ma fu in grado di confermare gli aspetti principali di quello che aveva visto e che servivano ai ricercatori. La conversazione durò, senza fretta, per circa un’ora; finita la discussione tecnica, Bean volle parlare delle sue opere artistiche e raccontò che aveva costruito in casa un diorama in scala del sito di allunaggio di Apollo 12 che occupava un’intera stanza. Ci teneva alla fedeltà dei suoi quadri, per cui prendeva misure precise sul diorama per assicurarsi che tutte le viste in prospettiva fossero corrette.

Bean raccontò il suo uso dei colori nei suoi quadri, notando che la maggior parte della gente vede solo grigi sulla Luna, ma lui l’aveva vista piena di colori, e i suoi quadri mostrano tutti questi colori nel terreno lunare. Spiegò anche che usava gli scarponi lunari e gli attrezzi geologici per creare rilievi nella pittura, parlando dei suoi quadri con passione per una decina di minuti. Poi Alan Bean disse una cosa che Metzger non dimenticherà mai.

L’astronauta disse che non era più un ingegnere ma un artista e che prendeva molto sul serio la propria arte. Disse che aveva in mente tutti questi quadri che voleva mettere su tela prima di morire. Si stava dedicando totalmente a raccontare la storia del programma Apollo prima che fosse troppo tardi. Sapeva che gli restava poco tempo e che il mondo aveva bisogno di vedere le missioni Apollo attraverso gli occhi di un artista. E così Bean concluse dicendo: “Non mi posso permettere di farmi coinvolgere di nuovo nell’ingegneria. Devo concentrarmi sull’arte. Per cui non... mi... chiami... mai... più”.

Metzger ci rimase male. Si chiese se avesse sbagliato a contattare l’astronauta, se avesse sottratto al mondo un’opera d’arte insostituibile portando via a Bean un’ora del suo tempo, eppure il tono della conversazione fino a quel momento aveva dato l’impressione che l’astronauta ci tenesse a parlare con i ricercatori, ma che lo volesse fare solo quella volta e mai più.

Metzger nota che mentre Alan Bean camminava in un mondo di grigi a perdita d’occhio vide solo colori: rossi, blu, gialli, viola, verdi, e quel veicolo spaziale marrone che ci si aspettava fosse bianco. Ci fu chi la considerò una questione tecnica di polvere sollevata: Alan Bean la vide come una questione cromatica.

Foto AS12-46-6790.


Lo scienziato conclude così: “Ogni colore nel cuore di Alan era là, sulla Luna, nei suoi crateri, nelle sue rocce, nelle sue colline, perché in quel mondo stava camminando un essere umano, un artista, e dovunque vanno gli esseri umani c’è colore. Tutto il colore. Vorrò sempre bene ad Alan perché mi disse di non chiamarlo mai più. Davvero. Quello che stava facendo con l’arte era più importante di quello che stavo facendo io con la scienza e l’ingegneria, e lui lo sapeva, e aveva bisogno che lo capissimo anche noi alla NASA e che rispettassimo questo fatto. Ci sarà sempre tempo per far atterrare un veicolo spaziale sulla Luna per studiare come scaglia la polvere. Non ci sarà mai un altro momento in cui il primo gruppo di esseri umani che ha camminato su un altro mondo trasformerà quel senso di meraviglia in arte. Voglio bene ad Alan per averlo capito e per averlo difeso. La mia speranza è che tutti i quadri che aveva nel cuore siano arrivati alle sue tele prima che si esaurisse il suo tempo. Anche se io non camminerò sulla Luna, spero di poter vedere colori come li vedeva Alan ovunque io vada. E spero che condivideremo la sua passione e la sua dedizione a continuare a creare quadri -- ciascuno a modo proprio -- fino alla fine.”


Qui sotto trovate i tweet originali di Metzger.

I'd like to share the story of a personal interaction I had Alan Bean, Apollo Moon-walker and artist. In 2010, I needed more information about something Alan had seen when he was on the Moon. I was researching how rocket exhaust blows soil and dust during lunar landings. /1

2/ The best information on this topic was from Apollo 12, when Pete Conrad and Alan Bean landed their Lunar Module 160 m away from the old Surveyor 3 ("S3") spacecraft. S3 had sat on the Moon deactivated for about 2 and a half years exposed to the lunar environment.

3/ The Ap12 mission was planned to land near S3 to (1) demonstrate precision landing and (2) to cut pieces off S3 and bring them back to Earth to see how the lunar environment degrades various types of materials and spacecraft parts.

4/ They planned to land the Ap12 Lunar Module ("LM") about 500 ft away from S3 to minimize the amount of sandblasting that would occur to the S3 as the LM's big descent engine blew the lunar soil and dust. It turns out 500 ft wasn't nearly enough!

5/ Ap12 was also unique among the Apollo mission for how close they landed near the Moon's terminator line, which is the line that separates day and night on the surface. They landed where the sun was only 5 degrees above the horizon, so the local time was barely after sunrise.

6/ It turns out thus had a huge effect on the landing operations. At least, that is my own theory about what happened. You see, Ap12 blew more dust with its descent engine than the other 5 lunar landings. (Or, maybe it just it _looked_ that way.) It was so bad that...

7/ ...that they couldn't see the ground under all that dust. Pete Conrad later said he couldn't tell if there was a boulder or a crater in a bad spot, so he just took the risk and landed in the blind. There was a real risk of death, but they didn't come so close just to abort.

8/ You can find the Ap12 landing video online (YouTube?) and you can hear Alan Bean's distinctive voice encouraging Pete to just go ahead and put it down in the final seconds. Remember Pete's words about landing blind as you listen to Alan encouraging him.

9/ It was never explained why Ap12 blew so much dust compared to the other missions, but I hypothesized that it didn't really. Instead the dust just _looked_ more opaque because the sun was so close to the horizon its light traveled thru twice the dust to illuminate the surface.

10/ In any case, a LOT of dust was blown. My team later estimated after many year's research that well over a ton of soil was blown by each landing. It was blown at 400 m/s up to 3 km/s. Larger particles went slower. Fine dust flew faster & farther in the lunar vacuum,

11/ Moon junkies might recognize the significance of that last number: 3 km/s is higher than lunar escape velocity! That means a dust ring may have been blown completely off the Moon into solar orbit with each Moon landing. More importantly, there is no safe distance on the Moon.

12/ What I mean is that for every distance away from an LM landing site, there were dust particles that blew to that distance. At very long distances the amount of impacting dust became extremely tiny, but even on the back side of the Moon you might get hit by some ejected dust.

13/ Alan Bean's mission gave us an absolutely unique chance to really measure this blowing dust. After landing, Pete and Alan walked over to the S3 spacecraft and cut off pieces that had been subjected to the intense sandblasting of their LM landing just 160 m away.

14/ As Alan rounded the large "Surveyor Crater" and approached the S3 spacecraft he said to mission control via radio, "I thought you said this spacecraft is supposed to be white." (Not exact quote - I'm going from memory here.) Mission Control asked "Why? What color is it?"

15/ Alan said "It's brown!" This set off a lot of discussion back here on Earth. What did the lunar environment do to that spacecraft to change it from white to brown??? The leading theory was that radiation changed the chemistry of the paint. That theory held for 40 years.

16/ Around me 2008 I traveled to Houston and officially checked out all the white painted pieces that had been cut off the S3 spacecraft and returned to Earth by Ap12. I had to keep them in a special safe with lots of security since they are truly priceless national treasures.

17/ We analyzed those pieces using many modern methods that were not available 40 years earlier, right after the Apollo program, when earlier researchers had tried to study them. We used Scanning Electron Microscopes, laser scanners, X-ray photoionization spectroscopy,...

18/ ...and electron dispersive spectroscopy. We discovered the paint's surface was penetrated by sand-sized (100 micron) lunar soil particles travelling about 400 m/s. Each one made a pinhole in the paint, and we could see the soil particle lying in the bottom of each tiny hole.

19/ Give me a moment to see if I can download the picture of this...

20/ Aha! I found it and just now did some contrast enhancing. (Modern technology is amazing.) This was cut off off Surveyor 3 by Alan Bean and Pete Conrad. It is aluminum with white paint. You can see a bolt hole where a washer covered & protected the paint so it is still white.

21/ Now there are some SUPER interesting things we discovered in this, and it drove is to call Alan Bean by phone 40 years after his mission to discuss what it all means. For one, consider that semi-circular shadow next to the bolt hole...

22/ That is the shadow of the head of the bolt that used to be in that hole. The funny thing is that the bolt is now gone but its shadow is still there. Is it a ghost shadow? No. It is a sandblasted shadow formed by the intense spray of dust when Alan and Pete landed 160 m away.

23/ Everwhere that got sandblasted got turned lighter in color. Everywhere that was protected by shadowing stayed darker. That's the brown color Alan reported seeing on the Moon. Earlier researchers triangulated these shadows and proved that they point back to the Apollo LM.

24/ What my team did in 2010 is prove that the brown color was not really the result of radiation as prior researchers believed. Instead, we proved the shadows are actually MADE out of lunar dust. All the brown color is lunar dust that was already on S3 before the Ap12 arrived.

25/ The sandblasting spray of lunar dust from the Apollo landing actually removed more dust from S3 than it put onto S3. That discovery was shocking. We analyzed the chemistry of that dust and we discovered it had different minerals on the east versus west sides of the Surveyor.

26/ This story got overly long, so I'll get to the best part. We were amazed by all the mysteries of the dust on the Surveyor, and we even wrote a paper in 2010 where we called it a mystery. [link]

27/ We scoured the historical records of the mission for any more clues. We eventaully realized we needed to talk to Alan Bean himself to understand exactly what he saw as he walked toward S3 on the Moon and exclaimed to Houston about its brown color. So a friend set up the call.

28/ Alan was extremely nice. He had a great sense of humor and seemed to truly enjoy talking about his observations on the Moon. Of course his memories of some details had faded, but he was able to confirm the main things about what he saw, which we needed confirmed.

29/ We talked casually without any rush for about an hour. After we had finished the technical discussion he wanted to tell us about his art. He told us that he had set up a size-scaled diarama of the Apollo 12 landing site in his home, filling up an entire room.

30/ He cares about accuracy in his paintings so he takes precise measurements from the diarama to make sure all the perspective views at just right. He told us about the use of colors in his paintings. He said most people see only gray on the Moon, but he saw it full of color.

31/ His paintings show all colors in the lunar soil. (I found it interesting that he was the one who reported the color of the Surveyor spacecraft. He was indeed tuned into colors while on the Moon's surface.) He also told us about the texturing of his paintings.

32/ He uses boots and Apollo soil tools like the ones he used on the Moon to impress surface texture into the paint. He continued talking avout his art with passion for about 10 minutes. Then he wound down and finished by saying this, which I will never forget...

33/ He said he is not an engineer anymore, but an artist, and he takes his art extremely seriously. He said he has all these paintings in his head which he needed to get onto canvas before he died. He was devoted to telling the story of the Apollo program before it was too late.

34/ He knew he had limited time left in this world, and the world needs to see the Apollo missions through the eyes of an artist. He ended with, "I can't allow myself to get dragged back into engineering. I have to focus on art. So Don't...Ever...Call. Me...Again." Pow.

35/ Honestly it hurt when he said that. Did I make a mistake contacting him? Did I steal irreplaceable art from the world by taking an hour of his time? The tone of the conversation until that moment tells me he _wanted_ to talk with us. But only just that once, and never again.

36/ Second, that when walking in a world of never-ending gray he saw only color. Reds, blues, yellows, purples, greens...and the brown spacecraft that was supposed to be white. Some saw it as an engineering question of blowing dust. Alan saw it as a question of color.

37/ Every color in Alan's heart was there on the Moon, in its craters and rocks and hills, because a human was walking in that world -- an artist -- and wherever humans go there is color. All the color.

38/ And third, I will always love Alan because he told me to never call him again. Truly. What he was doing in art was more important than what I was doing in science and engineering, and he knew it, and he needed us in NASA to know it, too, and to respect it.

39/ There will always be more time to land spacecraft on the Moon to study how they blow dust. There will never be another time when the first set of humans that walked on another world turns the wonderment of that experience into art. I love Alan that he saw this and defended it.

40/40 My hope is that every painting he had in his heart made it onto his canvas before time ran out. Though I won't walk on the Moon, I hope I can see colors like Alan did everywhere I go. And I hope we'll share his passion & focus to keep painting--in our own ways--to the end.


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2018/05/27

Ci ha lasciato l’astronauta lunare Alan Bean

Le voci non confermate che circolavano da alcuni giorni si sono purtroppo rivelate corrette: è morto Alan Bean, uno dei dodici uomini che hanno camminato sulla Luna. Aveva 86 anni.

Dopo l’avventura lunare di Apollo 12, vissuta insieme a Pete Conrad nel 1969, pochi mesi dopo il primo storico allunaggio, Bean partecipò anche a una missione a bordo della stazione spaziale Skylab nel 1973, stabilendo un nuovo record di durata di una singola missione.

Pittore da sempre, dopo la sua carriera astronautica aveva messo al servizio dell’arte la sua esperienza eccezionale di aver visto con i propri occhi le luci e i colori di un mondo alieno. I suoi quadri sono esposti in numerosi centri spaziali e sono raccolti presso Alanbean.com.

Chi lo ha conosciuto e ha seguito le sue missioni lo ricorda come una persona sempre modesta, positiva e solare, che combinava una grande competenza con un senso dell’umorismo che rendeva leggere anche le situazioni più difficili. Io ho avuto l’onore di incontrarlo una volta, a una cena di gala in Florida: me lo sono trovato davanti, in fila come tutti gli altri al buffet, mentre chiacchierava e regalava sorrisi a tutti. Lo ricorderò per sempre così, con la sua voce inconfondibile, immortalata nelle registrazioni delle sue missioni, e con la sua arte spaziale altrettanto colma di gioia ed entusiasmo.

Dei dodici moonwalker ne restano oggi in vita solo quattro: Charlie Duke, Dave Scott, Harrison Schmitt e Buzz Aldrin. E non c’è nessuna indicazione seria che potranno passare il testimone a una nuova generazione di esploratori lunari.

La NASA ricorda Alan Bean in un annuncio ufficiale qui. Goodbye, Beano.

Is Anyone Out There? (2006)

Fast Times on the Ocean of Storms (1989).

La firma autografa di Alan Bean nella mia copia di Painting Apollo: First Artist on Another World, Smithsonian Books (2009).


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Podcast del Disinformatico del 2018/05/25

È disponibile per lo scaricamento il podcast della puntata del 25 maggio scorso del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera. Tutti i podcast più recenti sono ascoltabili in streaming e scaricabili da questa pagina del sito della RSI. Buon ascolto!

2018/05/26

Tesla Model 3 si schianta, conducente incolpa l’Autopilot

Ultimo aggiornamento: 2018/05/27 15:00.


YouYou Xue, un proprietario di una Tesla Model 3 americana che stava girando l’Europa per un tour personale per presentare l’auto ai tanti europei che l’hanno prenotata, ha avuto un incidente del quale incolpa il sistema di guida assistita, denominato Autopilot, mentre procedeva verso sud sull’autostrada E65 in Grecia, vicino a Florina, diretto verso Kozani. Il conducente è incolume e l’auto non ha preso fuoco. Non sono coinvolte altre auto.

Secondo quanto postato da Xue, il veicolo procedeva a 120 km/h con l’Autopilot attivo quando ha sterzato improvvisamente verso destra senza preavviso e si è scontrata con lo spartitraffico in corrispondenza di un’uscita. Una ruota è completamente distrutta e la portiera del conducente non si apriva correttamente.






Electrek ha raccolto un’altra dichiarazione di Xue, che dice che l’auto ha sterzato verso destra cinque metri prima che la fiancata sinistra colpisse il lato destro dello spartitraffico visibile in questa foto:



Lo spartitraffico è visibile a destra della corsia in quest’altra foto:



Xue ha segnalato l’incidente direttamente a Elon Musk via Twitter, parlando di malfunzionamento dell’Autopilot:


Electrek ha raccolto una dichiarazione di Tesla che traduco qui sotto:

“Anche se apprezziamo l’impegno di You You Xue nel far conoscere la Model 3, era stato informato che Tesla non ha ancora una presenza in Europa orientale e che lì non sono disponibili connettività o assistenza per i veicoli. Inoltre la Model 3 non è ancora stata approvata e omologata per la guida al di fuori degli Stati Uniti e del Canada. Anche se non siamo stati in grado di recuperare dati dal veicolo, visto che l’incidente si è verificato in una zona non supportata, Tesla è sempre stata molto chiara che il conducente deve restare responsabile dell’auto in ogni momento durante l’uso dell’Autopilot. Ci dispiace che sia avvenuto questo incidente e siamo contenti che You You sia salvo.”


Per quel che ne so, questo è il primo incidente in Autopilot di una Model 3.

La prima impressione è che l’Autopilot, basato in gran parte sul riconoscimento visivo della segnaletica orizzontale, abbia seguito per errore le linee bianche di demarcazione della corsia di uscita invece di quelle, più sbiadite, della corsia di marcia e quindi abbia (dal suo punto di vista) “corretto” all’ultimo momento la propria traiettoria prima che il conducente potesse intervenire, ma è solo una congettura.

È tutto quello che so per il momento; aggiornerò questo articolo se ci saranno novità.


2018/05/26 14:40


C’è una dichiarazione più dettagliata di Xue, che cito integralmente qui sotto. Mi manca il tempo di tradurla, ma in sintesi:

  • L’Autopilot era impostato con un limite di 120 km/h, pari al limite di velocità dell’autostrada.
  • La strada a due corsie per ciascun senso di marcia era asciutta, sgombra, ben illuminata, con segnaletica orizzontale ben mantenuta e ben illuminata.
  • Nella zona dell’incidente c’era una biforcazione: la corsia di destra diventava una corsia di uscita. L’auto era nella corsia di sinistra.
  • Circa 8 metri prima dello spartitraffico della biforcazione, la Model 3 ha sterzato improvvisamente e con molta forza verso destra. Xue stava guardando il navigatore sul telefonino ed è stato colto di sorpresa. Ha tentato di correggere la sterzata, ma è intervenuto troppo tardi e così ha colpito di striscio il bordo destro dello spartitraffico.
  • Xue riconosce il fatto che stava tenendo una sola mano sul volante invece di tenerne due come raccomanda Tesla durante l’uso dell’Autopilot e che non stava monitorando costantemente il veicolo, ma dice che l’incidente è stato “causato direttamente da un grave malfunzionamento del software Autopilot, che non ha interpretato correttamente la strada” e “sarebbe potuto capitare a chiunque non si aspetti che un’auto che procede a velocità elevata in linea retta faccia una deviazione improvvisa e senza preavviso dalla propria traiettoria”. Ammette che dopo decine di migliaia di chilometri d’uso dell’Autopilot senza problemi significativi, era diventato troppo fiducioso nel software.
  • Probabilmente la riflessione più significativa di YouYou Xue a proposito dell’idea generale dell’Autopilot è questa: “L’Autopilot viene commercializzato come una funzione di assistenza al conducente che riduce lo stress e aumenta la sicurezza. Tuttavia si può argomentare che la vigilanza necessaria per usare il software, come per esempio tenere entrambe le mani sul volante e monitorare costantemente il sistema per eventuali malfunzionamenti o comportamenti anormali, richiede un’attenzione significativamente maggiore rispetto alla guida normale del veicolo senza usare l’Autopilot.” In altre parole, in questo livello ibrido di guida assistita in pratica il conducente deve monitorare l’auto come se l’avesse messa in mano a un principiante. Inoltre Xue dice che se l’Autopilot implica un rischio, anche modesto, di interpretare male una biforcazione ben segnalata e di andarvi a sbattere contro “non dovrebbe essere testata in beta sulle strade pubbliche e da comuni consumatori”.

Statement
Re: Model 3 crash on Autopilot

Statement regarding collision
26 May 2018
FLORINA, GREECE
Thank you everyone for your kind wishes and messages of support following the collision late yesterday night. This is an absolutely devastating loss for me and brings a great journey to a sudden end.

I was driving southbound on highway E65 near the city of Florina, Greece. I was headed towards Kozani, Greece, where I planned to charge and spend the night. At this time, I was not tired after having 8 hours of sleep the previous night. I engaged Autopilot upon entering the highway after crossing the border between Macedonia (FYROM) and Greece. My Autopilot maximum speed was set at approximately 120 km/h, the speed limit for this highway. The highway was well-marked, well-maintained, and well-lit. The conditions were dry, and there was no traffic around me. The highway was two lanes in each direction, separated by a concrete median. The highway in my direction of travel divided at a fork, with the #2 right lane changing into the exit lane, and the #1 left lane remaining the lane for thru traffic. I was travelling in the #1 lane.

My left hand was grasping the bottom of the steering wheel during the drive, my right hand was resting on my lap. The vehicle showed no signs of difficulty following the road up until this fork. As the gore point began, approximately 8m before the crash barrier and end of the fork, my Model 3 veered suddenly and with great force to the right. I was taking a glance at the navigation on my phone, and was not paying full attention to the road. I was startled by the sudden change in direction of the car, and I attempted to apply additional grip onto the steering wheel in an attempt to correct the steering. This input was too late and although I was only a few inches from clearing the crash barrier, the front left of the vehicle near the wheel well crashed into the right edge of the barrier, resulting in severe damage.

I was not harmed in the collision, and no medical attention has been sought. I was wearing my seatbelt before and during the collision. None of the airbags deployed.

My Model 3 is not drivable as the front left wheel is completely shattered, and the axle is out of alignment. The damage is severe on the left of the front bumper, running to the front lip of the driver’s door, and is moderately severe from there to the left of the back bumper. The vehicle has been towed to a shop, and at 09:00 today, I will accompany the vehicle on a tow truck to Thessaloniki. I am towing the car there under recommendation from locals as more resources are available there, including resources to repatriate the vehicle back to the United States. I will make a decision soon as to whether or not it makes sense to bring this car back to the United States in an attempt to fix it, as the cost to repair the vehicle may substantially exceed its value after repair or salvage value.

Tesla states in an on-screen warning that both hands should be on the wheel when Autopilot is activated. Furthermore, Tesla states that drivers should be paying attention and monitoring the performance of Autopilot at all times. It is likely true that if all drivers obeyed the warnings surrounding this software, that most of the collisions we hear about in the press would never happen. Autopilot has limitations that currently can only be overcome through human intervention. For example, it cannot detect stationary objects, which explains collisions where Model S has rear-ended stationary vehicles parked on the side of the road.

By looking at my navigation and by not having both hands on the wheel, I was not paying full attention to the road while the vehicle was in Autopilot and was not following Tesla’s directions in regards to the correct use of the software. I want to make it clear that I take responsibility in regards to my actions. With that being said, I do not believe that there are many Tesla owners who, when using Autopilot, always keep both hands on the wheel and provide their undivided attention to monitoring the road and the software. This collision was directly caused by the Autopilot software seriously malfunctioning and misinterpreting the road. This collision could have happened to anyone who does not expect a car travelling at a fast speed in a straight line to suddenly and without warning, veer off course. After tens of thousands of kilometres worth of Autopilot driving without major incidents, I have learned to trust the software. Autopilot provides users with a strong sense of security and reliability as it takes you to your destination and navigates traffic on your behalf. Clearly, I had become too trusting of the software.

Autopilot is marketed as a driver assistance feature that reduces stress and improves safety. However, the vigilance required to use the software, such as keeping both hands on the wheel and constantly monitoring the system for malfunctions or abnormal behaviour, arguably requires significantly more attention than just driving the vehicle normally without use of Autopilot. Furthermore, I believe that if Autopilot even has the small potential of misreading a clearly marked gore point, and has the potential to drive into a gore point and crash into a barrier, it should not be tested in beta, on the open road, and by normal consumers. My experience is not unique as many drivers have reported similar behaviour from Autopilot, and a fatal crash involving Autopilot on a Model X may have been caused by a disturbingly similar malfunction.

Many Tesla fans will likely dismiss this as fully my fault, but I implore those who believe so to take a full step back and put themselves in my shoes, as a driver who had used this amazing software for so long, and who could not have anticipated such a sudden and violent jerk of the wheel to one direction while travelling at a fast speed. I hope that my fellow owners will be less dismissive of various incidents regarding Autopilot, and understand that the general public views these severe collisions differently from the owner community. Tesla is moving quickly into the mass market, and potential customers in that segment aren’t going to ask, “why were both of his hands not on the wheel while the car was in Autopilot?”, rather, they are going to ask “why did the car swerve into the gore point without warning?”. The autonomous driving movement as well as the Tesla community can only get stronger when we tackle these questions and resolve the issues behind them.

I love my Teslas and I have owned a Tesla since 2014. I am upset with myself for being part of the growing list of individuals who have been involved in collisions while their Tesla was on Autopilot. I strongly believe in the capability of self-driving vehicles to not only eliminate all collisions on the road but to revolutionise our society. However, malfunctions like this greatly reduce the public’s confidence in a technology that should indeed be tested and rolled out to the public as soon as it is safe for use. I do not want to cause Tesla damage to its brand or image as I wholly support its mission and I am a big supporter. I only hope that Tesla will investigate this incident to determine what went wrong with the software, and make improvements that will enhance other people’s experiences with the car.

I am very grateful to be alive after what could have easily been a fatal collision. This incident was not more severe thanks to an excellent crash barrier on the Greek highway. I want to thank everyone again for your messages of support. I am honoured to have had this opportunity to spread the EV movement not only around my country but around the world. In closing, I want to address some of my critics who have used this collision to laugh at me or to otherwise make fun of this incident. On this road trip, there have indeed been crazy posts where I push the limit of my car and I have only done these things to share my excitement about my Model 3 with others. Please understand that there was nothing out of the ordinary occurring before this collision. I was not sleeping at the wheel, I was not tired, I was not eating at the wheel (which by the way, I have not done before), no videos were being filmed - the vehicle was being operated normally. I am truly sorry and deeply regret that some of my actions have caused a bad taste in people’s mouths, I ask those people to judge my road trip thus far as a whole and not by my craziest or worst moments. I have met with over 8000 people on the road in three continents and 25 countries, and have demonstrated that not only is it possible to drive an EV across the world, it is absolutely exhilarating and brings along great adventure along the way. I have also seen the potential and power of the EV owners community, which when leveraged, can make a great difference in our world. I ask those who disapprove of my actions to reconsider their stance, and I want to see what positive things can come of this collision.

What happens next on this road trip is uncertain. I will keep everyone posted.



2018/05/27 7:05


Ho aggiunto una sintesi della dichiarazione estesa di YouYou Xue. Personalmente, dopo questo incidente, dopo gli altri che ho raccontato in questo blog e dopo le mie esperienze personali con l’Autopilot, se deciderò di dare seguito alla mia prenotazione della Model 3 non acquisterò l’Autopilot e non lo userò finché avrà questo genere di difetto. Le Tesla restano delle ottime auto elettriche a lunga autonomia, con una rete di ricarica senza pari, ma il loro Autopilot non è, a mio parere, pronto per l’uso e rischia di causare incidenti, invece di prevenirli, perché “ragiona” in modo totalmente diverso da un essere umano, per cui condizioni che sarebbero ovvie da gestire per il più scalcinato dei guidatori lo mandano in crisi, e questo rende difficile capire quando potrebbe fallire inaspettatamente.


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2018/05/25

Le parole di Internet: adversarial attack

Fonte: Wired.
Noi abbiamo le illusioni ottiche, i computer hanno gli adversarial attack: è questa l’espressione che indica in informatica un contenuto (un’immagine, un video, un suono o un malware) che noi riconosciamo senza problemi ma confonde i sistemi di riconoscimento automatico. 

L’immagine qui accanto, per esempio, viene riconosciuta dalle persone senza alcun problema: sono due uomini in piedi, su una distesa innevata, in posa mentre sciano. Ma il sistema di riconoscimento delle immagini Google Cloud Vision, spiega Wired, lo ha identificato con il 91% di certezza come un cane.

Trovate altri esempi qui: è particolarmente notevole il gatto scambiato per del guacamole. E se volete quelli acustici, divertitevi qui.

È insomma chiaro che i sistemi di riconoscimento automatico per ora “pensano“ in maniera molto diversa dagli esseri umani: non avendo conoscenza del mondo fisico, ragionano soltanto sui pixel e non possono valutare cose come il contesto o la plausibilità di un’immagine o di un suono.

Le foto dei gattini sono utili: sviluppano l’intelligenza artificiale


Finalmente avete una giustificazione tecnica per pubblicare foto di gattini (ammesso che sentiate il bisogno di averne una): Facebook ha annunciato di aver utilizzato ben 3,5 miliardi di foto pubbliche di Instagram, corredate da 17.000 hashtag digitati dagli utenti per etichettarle, allo scopo di addestrare sistemi di riconoscimento delle immagini.

È la più vasta serie di foto mai usata in un progetto del genere: dieci volte più grande di quella usata da Google di recente.

Questo ha permesso al sistema di Facebook di ottenere un risultato record nell’identificazione e nell’etichettatura automatica delle immagini di circa 1000 categorie, comprese le ruote di auto, le calze di Natale e naturalmente i gatti, arrivando a riconoscere correttamente nell’85.4% dei casi, contro il risultato precedente di Google, che era arrivato all’83.1% (comunque un valore più che rispettabile).

Questi sistemi di riconoscimento sono utili ai non vedenti, per esempio, perché descrivono automaticamente il contenuto grafico di un post, ma servono anche per fare una preselezione delle immagini inaccettabili (pornografia, violenza) e, secondo i piani di Facebook, della propaganda criminale e terroristica. Ma questo è niente rispetto alla possibilità di dire che postiamo gattini per la scienza.


Fonte: Wired.

Videocitofono online un po' troppo pettegolo

La sicurezza dei campanelli o videocitofoni digitali è ancora tutta da inventare: si tratta di oggetti indubbiamente utili, perché consentono di vedere chi c’è alla porta tramite lo smartphone, sia quando siamo in casa sia quando siamo lontani da casa, come ho raccontato di recente, ma essendo connessi a Internet è importante assicurarsi che non abbiano difetti di progettazione che consentano a un malintenzionato di abusarne via Internet.

The Information segnala il caso del “campanello smart” della Ring, azienda acquisita di recente da Amazon per un miliardo di dollari: un uomo di Miami, in Florida, Jesus Echezarreta, dopo aver chiuso la relazione con il proprio partner, ha cambiato la password di questo campanello, eppure l’ex partner è riuscito comunque a scaricare video dal dispositivo e persino a farlo suonare nel cuore della notte. Tutto tramite smartphone.

L’azienda ha risolto questa falla a gennaio scorso, ma il difetto di progettazione era grave: se un utente era già connesso al campanello tramite l’app, il software del Ring gli consentiva di restare connesso anche dopo un cambio di password. Una progettazione intelligente, invece, avrebbe obbligato tutti a riconnettersi. È un po’ come cambiare la serratura alla porta di casa e poi scoprire che si apre anche usando le chiavi di quella vecchia.

Anche dopo la correzione apportata da Ring, comunque, i test indicano che un utente resta collegato anche fino a ventiquattro ore dopo il cambio di password. Se state pensando di installare questi dispositivi, valutate bene a chi affidarne l’accesso.

Facebook pubblica finalmente gli standard interni per approvare o rimuovere contenuti

Pubblicazione iniziale: 2018/05/15. Ultimo aggiornamento: 2018/05/25 8:40.

Se usate Facebook, probabilmente vi sarà capitato di notare che alcuni post vengono rimossi con un avviso che spiega che non rispettano gli “standard della comunità”. Avrete anche notato che questi standard vengono applicati in maniera spesso incomprensibile e incoerente.

Per esempio, nel 2013 Facebook bloccò l’intero profilo del museo francese Jeu de Paume perché aveva pubblicato una singola foto in bianco e nero di un nudo femminile parziale. Nello stesso periodo, invece, Facebook ritenne che fotografie di un cane trascinato dietro un’automobile fino a lasciare una scia di sangue sotto il suo corpo fossero conformi agli “standard della comunità”, nonostante le segnalazioni.

Per anni Facebook ha bloccato e rimosso arbitrariamente immagini di donne che allattano ma ha lasciato passare, e tuttora lascia passare, post nei quali si istiga all’odio e si promuove il bullismo. Facebook aveva risposto a queste contestazioni introducendo nuove regole nel 2015, ma le cose non erano cambiate granché all’atto pratico.

Ora Facebook ci riprova: promette di aver compiuto un passo avanti verso la risoluzione di questi problemi, pubblicando finalmente questi standard interni, validi “in tutto il mondo per tutti i tipi di contenuti”. Li trovate, tradotti anche in italiano, presso www.facebook.com/communitystandards (vengono visualizzati nella lingua che usate per Facebook).

Vale la pena di leggerli per tentare di capire quali sono i limiti, non sempre intuitivi, di quello che Facebook ritiene accettabile. Per esempio, il social network boccia le minacce, ma solo se sono personali e credibili; vieta le immagini di nudo dei bambini, postate spesso dai genitori con buone intenzioni; non accetta il bullismo, a meno che riguardi personaggi pubblici.

I discorsi di incitazione all’odio occupano una sezione particolarmente corposa di questi standard e vengono vietati se si tratta di attacchi diretti alle persone sulla base di “razza, etnia, nazionalità di origine, religione, orientamento sessuale, sesso, genere o identità di genere, disabilità o malattia” e se si tratta di discorsi violenti o disumanizzanti o di incitazione all’esclusione o alla segregazione.

Le immagini di violenza, invece, vengono gestite da Facebook aggiungendo “un'etichetta di avviso ai contenuti particolarmente forti o violenti in modo che non possano essere visualizzati dai minori di 18 anni”: chi le vuole vedere dovrà cliccarvi sopra intenzionalmente.

Secondo questi nuovi standard, è “permessa anche la pubblicazione di fotografie di dipinti, sculture o altre forme d'arte che ritraggono figure nude.” I musei possono tirare finalmente un sospiro di sollievo, insomma.

Un’altra novità importante è la prossima introduzione di una procedura di appello contro le decisioni dei valutatori di Facebook: se un post, una foto o un video viene rimosso perché considerato in violazione degli standard, questa decisione non sarà più definitiva, ma verrà offerta la possibilità di chiedere un riesame più approfondito da parte di un addetto in carne e ossa, in genere entro 24 ore; se il riesame riscontrerà che la rimozione era errata, i contenuti rimossi verranno ripristinati. Questa facoltà di appello varrà non solo per i contenuti rimossi, ma anche per quelli segnalati ma non rimossi.

Riuscirà Facebook a mantenere queste promesse? Lo scopriremo presto. Butac.it segnala che in queste ore sul social network circola un’accusa infamante nei confronti di Nadia Toffa, la conduttrice delle Iene, che (secondo quest’accusa) starebbe addirittura recitando, pagata dalle case farmaceutiche, per sponsorizzare le cure convenzionali contro il cancro. Secondo Facebook, in quale categoria rientra il complottismo che accusa per nome le persone in questo modo?

Perché mai mi dovrebbero rubare la rubrica degli indirizzi mail?

Fonte: Squawker.org.
Ultimo aggiornamento: 2018/05/28 17:30.

Una delle domande che mi capitano più spesso nelle mie conferenze pubbliche sulla sicurezza informatica di base riguarda l’incomprensione dei moventi dei criminali informatici.

Perché dovrei preoccuparmi più di tanto di proteggere il mio account social o di e-mail, mi chiedono, visto che non contiene nulla di compromettente o da nascondere? Mal che vada, se me lo rubano me ne creo un altro, tanto è gratis.

La risposta è che non si tratta di avere qualcosa da nascondere, ma di avere qualcosa da proteggere. Proteggere contro gli usi inaspettati che ne può fare un criminale informatico anche solo leggermente inventivo. Vi racconto un caso che mi è capitato di recente.

Ho ricevuto una chiamata di una signora che aveva ricevuto una mail da un conoscente, che chiamerò Mario, redatta con uno stile e un linguaggio insoliti. La signora si è accorta dell’anomalia e si è insospettita, per cui non ha aperto l’allegato alla mail ma ha chiamato direttamente Mario chiedendogli se avesse inviato lui quella mail. Mario ha risposto di no e ha aggiunto, perplesso, che stava ricevendo lo stesso genere di segnalazioni e di domande da molti suoi amici e colleghi.

Era insomma chiaro che un criminale informatico aveva ottenuto accesso alla mail di Mario e stava usando questo accesso per tentare un attacco più ampio. Non gli interessava affatto leggere le mail del conoscente, che è la cosa che viene in mente a tutti quando si pensa a una violazione di un account di posta, ma voleva semplicemente accedere alla rubrica degli indirizzi di Mario, per usarla come trampolino dal quale infettare i suoi contatti.

Questi contatti, infatti, avrebbero ricevuto una mail-trabocchetto dall’indirizzo di Mario, ossia da qualcuno che conoscono e di cui si fidano, e quindi buona parte di loro si sarebbe fidata ciecamente della mail e avrebbe aperto l’allegato al messaggio, esponendosi quindi al rischio d’infezione da parte del malware contenuto nell’allegato.

Questa è una tecnica frequentissima nel settore: il criminale si procura da prima un appiglio modesto e poi lo usa per lanciare un attacco più profondo, che gli consente di monetizzare l’appiglio iniziale. Il malware nell’allegato, infatti, era un ransomware, per cui al criminale sarebbe bastato mettere a segno, fra i tanti utenti presenti nella rubrica di Mario, una o due infezioni per ottenere un riscatto di qualche centinaio di euro.

In altre parole, dobbiamo proteggere i nostri account con password robuste e differenziate (e, se possibile, con l’autenticazione a due fattori) non soltanto per proteggere noi stessi, ma anche per proteggere i nostri amici, colleghi, familiari e conoscenti. Non dimentichiamocelo.

2018/05/23

Ci vediamo oggi a Pisa o domani a Chianciano?

Oggi alle 14 sarò al Dipartimento di Informatica, aula Gerace, a Pisa per parlare di tecniche di indagine contro le fake news a chiusura del Seminario di Cultura Digitale (link).

Stasera alle 19 sarò invece all’apericena che si terrà all’ex cinema Lumiére, sempre a Pisa, per una conferenza intitolata Non solo virus: le trappole di Internet (link).

Domani, invece, sarò a Chianciano per partecipare come traduttore e conferenziere alla Starcon 2018, raduno di fantascienza e scienza. La mia conferenza sarà dedicata al film The Martian e ai suoi errori scientifici che possono diffondere miti ingannevoli a proposito di Marte e dei voli spaziali.

2018/05/22

Podcast del Disinformatico del 2018/05/18

È disponibile per lo scaricamento il podcast della puntata del 18 maggio scorso del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera. Tutti i podcast più recenti sono ascoltabili in streaming e scaricabili da questa pagina del sito della RSI. Buon ascolto!

2018/05/18

Rotta verso la FedCon, per incontrare il cast di Battlestar Galactica e non solo

Ultimo aggiornamento: 2018/05/21 7:40.

Inizia oggi a Bonn la ventisettesima FedCon, uno dei più grandi raduni di fantascienza d’Europa: stavolta, dopo tanti anni, non perdo quest’appuntamento, anche perché fra i tanti ospiti c’è il cast di Battlestar Galactica quasi al completo.

Tanto per fare un elenco parziale: Jason Isaacs (Star Trek Discovery, Harry Potter), Daphne Zuniga (Balle Spaziali), Robert Picardo, Brent Spiner, John DeLancie e Jonathan Frakes (Star Trek The Next Generation, The Orville, Independence Day, Torchwood).

Ci saranno anche tante conferenze scientifiche e fantascientifiche, una delle quali sarà tenuta da Samantha Cristoforetti. Il programma completo è qui (PDF).

La Fedcon finisce il 21 maggio: se siete da quelle parti, non perdetevi un’occasione rara di incontrare altri appassionati e gli attori e i tecnici che hanno dato vita alle vostre storie preferite.

Io vado a fare indigestione di fantascienza: scusate se nei prossimi giorni sarò un po’ assente da questo blog e i commenti verranno a volte approvati solo a fine giornata. Pubblicherò qui man mano gli aggiornamenti di quest’avventura.


2018/05/19


Eccomi arrivato, dopo 730 km di viaggio (non in auto elettrica, ma per questa volta con una normale auto a benzina), con un paio di soste per ricaricare l’equipaggio. Ci fermiamo in un posto a caso, Waldlaubersheim, e scopriamo che è un Supercharger Tesla: mi sa che sono naturalmente attratto dalle colonnine di ricarica. Buono a sapersi per la prossima volta, se ci andiamo in elettrico (prima che me lo chiediate: sì, viaggio fattibile, con due soste di ricarica rispettivamente di 35 e 40 minuti, perfette per una pausa pranzo/cena; ci abbiamo messo 20 minuti a far benzina a causa della coda al distributore). L’albergo a Bonn ha due punti di ricarica Tipo 2 gratuiti nel parcheggio interno. Impressionante il numero di pale eoliche lungo la strada in Germania.

Tornando alla fantascienza: ecco una bella foto di gruppo degli ospiti della FedCon. Quanti ne riconoscete?




Qualche esempio di cosa succede in FedCon (sì, quella è Daphne Zuniga, la principessa Vespa del film):





2018/05/20


Qualche foto veloce di questo vorticoso, meticolosamente organizzato mix di fantascienza, conferenze scientifiche (oltre a Samantha Cristoforetti c’è anche l’ESA, con uno stand accoglientissimo e una presentazione meravigliosa di Mark McCaughrean sulle dimensioni del cosmo e l’esplorazione robotica dello spazio):

Jonathan Frakes.

Jonathan Frakes e Brent Spiner.

Spiner e Frakes se la spassano.

Brent Spiner è un comico nato.

Daphne Zuniga.

Il cast di Battlestar Galactica.

Grace Park.

Grace Park, la contorsionista.

L’incontenibile Katee Sackhoff.

Katee Sackhoff, Michael Hogan, Reka Sharma, Mary McDonnell, Edward James Olmos.

Tahmoh Penikett, James Callis, Tricia Helfer, Michael Trucco.

Alessandro Juliani, Aaron Douglas, Grace Park, Tahmoh Penikett.

Kandyse McClure, Alessandro Juliani, Aaron Douglas.

Samantha Cristoforetti è contenta di parlare a un pubblico che capisce le citazioni di fantascienza della sua presentazione e nota che qui chi recita di andare nello spazio è in borghese e chi ci è andato davvero è in divisa: cosplay alla rovescia.

Samantha racconta la propria prima missione nello spazio.

Sam risponde alle domande del pubblico. Notate lo sfondo.

Tricia Helfer e James Callis.

Tricia Helfer.

Numero Sei non si prende molto sul serio.


2018/05/21


Oggi è l’ultimo giorno di FedCon. Ieri ho intervistato Katee Sackhoff (Starbuck/Scorpion) e sono successe altre cose eccezionali, ma questa è un’altra storia. Intanto vado a fare un’altra scorpacciata di fantascienza alla Starcon di Chianciano e poi vi racconto. So say we all.

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L’irresistibile, improvvisatissimo “Brent and Johnny Morning Show” (altri video sono nella pagina Youtube della Fedcon:



Samantha Cristoforetti:

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