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Il Disinformatico: 2016

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2016/12/31

Il cinico business delle bufale, quarta parte: le proposte di Pitruzzella. Una buona, due pessime

Credit: ignoto al momento.
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi (Paypal/ricarica Vodafone/wishlist Amazon) per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2017/01/02 08:40.

Giovanni Pitruzzella, presidente dell’Antitrust italiano, ha rilasciato un’intervista al Financial Times nella quale ha delineato tre proposte di contrasto alla diffusione delle false notizie (o “bufale”). Il FT le riassume dicendo che Pitruzzella propone ai paesi dell’Unione Europea di “costituire enti indipendenti – coordinati da Bruxelles e ispirati al modello delle agenzie antitrust – che potrebbero” fare tre cose:

1. “etichettare rapidamente le notizie false”
2. “toglierle dalla circolazione”
3. “imporre sanzioni se necessario”

Un sunto italiano delle dichiarazioni di Pitruzzella è per esempio sul Sole 24 Ore e su Repubblica (che si concentra soprattutto sul commento polemico di Beppe Grillo). Se vi interessa la mia opinione di debunker di lungo corso, la trovate qui sotto [2017/01/02: quelle dei colleghi debunker David Puente e Maicolengel di Bufale un tanto al chilo sono rispettivamente in La lotta alle fake news è un attacco alla libertà di parola? Citano la censura per far rumore e Il minculpop e il giornalismo stronzo e approfondiscono la questione con esempi concreti tratti dalla realtà mediatica italiana].


1. “etichettare rapidamente le notizie false”: Sì, ma perché farlo solo per Internet? Le bufale mica stanno solo lì


Sono a favore di un sistema che consenta agli utenti di sapere al volo se una notizia che stanno leggendo è considerata attendibile o no. Non è semplice, perché non tutte le notizie si prestano a un debunking netto (“Il politico X ha detto Y” è facile da smentire o confermare, per esempio; “tornare alla lira salverebbe l’Italia” molto meno), ma per molte false notizie è tecnicamente fattibile. Gli strumenti tecnici di verifica esistono già, e ci sono già anche alcune soluzioni informatiche di “etichettatura”, come This Is Fake.

Ma questa etichettatura deve valere per tutta l’informazione digitale, compresa quella delle testate giornalistiche e dei siti web, non solo per quella dei social network, dei blog e dei singoli utenti come sembra proporre Pitruzzella. Perché anche i giornali e i siti web pubblicano false notizie, spesso sapendo di aver omesso il minimo controllo sulle fonti (questo mio blog ne ospita molti esempi) o addirittura sapendo di commettere un falso (il recentissimo caso del Guardian che taglia e rimonta le dichiarazioni di Julian Assange rilasciate a Stefania Maurizi per farlo sembrare un pazzo filo-Putin è emblematico).

Il modello da usare, secondo me, non è quello delle agenzie antitrust, lente e burocratiche, ma quello snello e veloce degli antivirus, che segnalano i siti che disseminano malware. Perché per i virus come per le notizie false, la velocità di reazione è tutto.

Sarei d’accordo, quindi, su una sorta di “bollino” di qualità sulle notizie online: ma che valga per tutti, non solo per alcuni. Altrimenti si difende la casta degli editori e dei malgiornalisti e si incriminano solo i cittadini utenti del Web e dei social network, e questo sarebbe inaccettabile. Le bufale sono un danno sociale, ma i social network non devono essere il capro espiatorio.


2. “toglierle dalla circolazione”: NO. Sarebbe censura


Qui sono completamente in disaccordo con Pitruzzella, per ragioni tecniche ed etiche. Sul piano tecnico, impedire la circolazione in Rete di una notizia (vera o falsa) è semplicemente impraticabile. Non è teoria: abbiamo sotto gli occhi il fallimento pluriennale dei tentativi dell’industria musicale e cinematografica di impedire la circolazione di musica e film. Sappiamo già come va a finire quando si tenta di togliere un’informazione da Internet.

Sul piano etico, qualunque tentativo di “togliere dalla circolazione” va chiamato col suo nome: censura. Dire, come fa Pitruzzella, che si potrebbe “continuare a usare un’Internet libera e aperta” intanto che qualcuno decide di “togliere dalla circolazione” dei contenuti è una contraddizione. Qualunque tentativo di censura richiederebbe forme di sorveglianza di massa assolutamente intollerabili in una società che vuole dichiararsi democratica. Per maggiori dettagli, citofonare Cina.

La censura, inoltre, finirebbe per presentare come martiri i siti che venissero colpiti da provvedimenti per “toglierli dalla circolazione”: essere censurati è il sogno proibito di ogni complottista. È, per lui, la conferma che sta dicendo qualcosa di vero e che fa male ai “poteri forti”.

Al posto della censura, semmai, sarebbe opportuno incoraggiare la pubblicazione di informazioni corrette e verificate. I sostenitori delle “scie chimiche”, per esempio, non si contrastano chiudendo i loro siti: è proprio quello che vogliono per sentirsi eroi dell’aria fritta. È molto meglio pubblicare un buon debunking: i Protocolli dei Savi di Sion e il loro antisemitismo strisciante, per fare un esempio più serio, non si combattono vietandone la circolazione, ma dimostrando che sono dei falsi dilettanteschi.


3. “imporre sanzioni se necessario”: NO. I bufalari di professione e i propagandisti se ne fregherebbero, esattamente come fanno oggi gli editori


A prima vista l’idea di multare i siti che diffondono notizie false sembra pratica: colpirli nel portafogli parrebbe un buon deterrente. Ma in realtà una sanzione favorirebbe soltanto i gruppi editoriali e spezzerebbe le gambe alle testate giornalistiche minori, ai giornalisti indipendenti e agli utenti comuni. Sarebbe uno strumento di repressione delle notizie scomode al pari delle “querele temerarie” che già sono una spada di Damocle per molti giornalisti.

Multare Facebook? Non fatemi ridere: Facebook ha ricavi per sette miliardi di dollari a trimestre. Persino una sanzione come quella proposta spettacolarmente in Germania (500.000 euro per post) sarebbero trascurabili per un colosso del genere: l’equivalente, se ho calcolato bene, di nove minuti dei suoi ricavi.

Le sanzioni sarebbero inefficaci anche contro i gruppi editoriali, che spesso addirittura le mettono in preventivo, sapendo che comunque guadagneranno di più di quello che pagheranno di sanzione. Un esempio per tutti: Chi e Novella 2000 (RCS e Mondadori) sono state condannate a marzo 2016 a risarcire 40.000 euro ciascuna per la pubblicazione di foto private di George Clooney ed Elisabetta Canalis. Quanto pensate che abbiano guadagnato con le copie vendute in più grazie alle foto illegali?

E cosa succederebbe agli organi di propaganda, come Russia Today, finanziati direttamente dai governi? Nulla. Chi mai volete che infligga multe a un governo come quello russo o americano?

Anche l’ipotesi di disporre delle sanzioni proporzionate ai ricavi, emersa nei commenti dopo la pubblicazione iniziale di questo articolo, mi sembra poco praticabile. Quale giudice, o quale commissione di esperti, si sentirebbe di infliggere prontamente multe da vari miliardi di euro che possano seriamente impensierire colossi come Facebook? Questa responsabilità rallenterebbe eccessivamente le attività di qualunque sistema antibufale e quindi lo renderebbe inefficace.

Personalmente applicherei, come dicevo, il modello snello e veloce delle società antimalware: segnalazione rapida, su basi concordate fra vari esperti, avviso su schermo per gli utenti (che possono decidere se usare o no l’app segnalabufale) e basta. Alle sanzioni e a tutto il resto potrà semmai pensare l’apparato giuridico convenzionale.

2016/12/30

Windows 10, niente più Schermo Blu della Morte. Sarà verde

Ci sono notizie che a volte sembrano delle barzellette: Microsoft ha annunciato (tramite Matthijs Hoekstra, Senior Program Manager per la Windows Enterprise Developer Platform) che le versioni Insider di Windows 10 non avranno più il classico, famosissimo Schermo Blu della Morte che caratterizza da tempo immemorabile le schermate di crash di Windows. Non l’avranno perché Windows 10 non andrà più in crash? No, semplicemente la schermata di crash sarà... verde.

Il cambiamento di colore può parere una presa in giro, ma si sospetta che sia basato su intenzioni serie: dato che le versioni stabili di Windows 10 continueranno ad avere la schermata di crash blu consueta, è possibile che il colore differente serva a consentire al supporto tecnico di Microsoft di riconoscere facilmente, anche da immagini a bassissima qualità, la versione di Windows coinvolta e quindi di assegnare la giusta priorità ai clienti.

La versione Insider, infatti, è concepita solo per la sperimentazione e non va usata negli ambienti di produzione: i crash sono attesi e non devono essere un problema per chi la usa.

Per chi sentisse nostalgia dello Schermo Blu della Morte, eccone uno gigante, durante la proiezione di Rogue One. Il bello è che la schermata parla di dump of physical memory in corso, proprio in un film la cui trama è incentrata sul tentativo di scaricare una grande quantità di dati informatici (i piani della Morte Nera).

Altri esempi di Blue Screen of Death o BSOD avvenuti in pubblico, segnalati anch’essi da Bleeping Computer, sono qui su Reddit.

Ransomware, a volte c’è speranza

Il ransomware è una brutta bestia: ne ho parlato spesso in questo blog e ho visto personalmente i danni e le angosce che può causare quando colpisce una piccola o media azienda, magari una di quelle che pensa di essere stata sufficientemente diligente perché fa i backup ogni giorno sul disco di rete (che però viene attaccato e cifrato anch’esso).

È un errore comune: per salvarsi dal ransomware, il backup dovrebbe essere invece su un supporto che viene fisicamente scollegato alla fine dell’operazione di copia.

Ma per fortuna a volte anche i creatori di ransomware fanno errori. Prendete quelli di CryptXXX, uno dei ransomware più popolari di questo periodo, che oltre a cifrare i dati e chiedere un riscatto ruba anche le password. La prima versione è comparsa ad aprile del 2016, ma nel giro di pochi giorni gli esperti di sicurezza hanno approntato uno strumento gratuito di recupero dei dati.

I criminali hanno messo in circolazione un’altra versione, ma anche questa è stata prontamente debellata dagli esperti di Kaspersky. E così i creatori di CryptXXX hanno creato una terza versione, che ha colpito centinaia di migliaia di vittime, generando profitti illeciti per circa 50.000 dollari in meno di due settimane.

Indovinate cos’è successo? Gli esperti hanno da poco reso disponibile Rannoh Decryptor, un nuovo strumento di recupero gratuito che batte anche la terza versione di CryptXXX oltre alle due precedenti. È uno dei tanti rimedi che trovate raccolti presso NoMoreRansom.org.

Ovviamente questo non vuol dire che si possono abbandonare le buone tecniche di prevenzione perché tanto c’è il software che recupera tutto: non tutti i ransomware sono contrastabili in questo modo e spesso lo strumento di recupero arriva giorni o mesi dopo l’attacco, per cui nel frattempo i dati di lavoro restano bloccati e quindi la produzione è costretta a fermarsi.

Tuttavia ci sono dei casi in cui l’attacco del ransomware colpisce dati preziosi che però non è urgente riavere: è il caso, particolarmente crudele, dei computer personali sui quali c’è l’unica copia dei video o delle foto di famiglia. In circostanze come questa può valere la pena di conservare il disco rigido colpito dal ransomware, scollegarlo in modo che non possa essere alterato ulteriormente, e ricollegarlo solo quando diventa disponibile un software di recupero.

Un’ultima raccomandazione: scaricate gli strumenti di recupero soltanto da siti affidabili (per esempio quelli di marche note di antivirus o da NoMoreRansom.org), perché i criminali fabbricano e diffondono anche falsi strumenti di recupero che in realtà infettano chi casca nella trappola.


Fonte: Tripwire.



Se il testimone cruciale di un omicidio è la casa “smart”

Ultimo aggiornamento: 2017/01/03 14:50.

Negli Stati Uniti, specificamente nello stato dell’Arkansas, c’è un uomo, James Andrew Bates, che è accusato di aver strangolato l’amico, Victor Collins, trovato morto in una vasca da bagno della casa del sospettato a fine novembre 2015. Cosa c’entra questo con Internet e l’informatica? C’entra eccome, perché l’innocenza o colpevolezza del signor Bates dipende da un testimone decisamente particolare: la casa stessa, che è un’abitazione “smart”, i cui dispositivi digitali interconnessi possono aver registrato dei dati estremamente importanti intorno all’ora del delitto.

La casa di Bates è infatti dotata di un dispositivo Echo di Amazon, un apparecchio che risponde ai comandi vocali del proprietario e fa da assistente virtuale: una sorta di Siri o di OK Google, ma senza lo smartphone. I suoi sette microfoni sono molto sensibili e permettono di captare le voci anche a una notevole distanza dal dispositivo.

Gli inquirenti hanno ordinato ad Amazon di fornire eventuali dati o registrazioni sonore acquisiti dal dispositivo e riguardanti la sera del delitto, perché Echo è sempre in ascolto, in attesa che qualcuno pronunci una parola chiave (solitamente è Alexa) e quindi può aver captato, conservato e trasmesso ad Amazon degli spezzoni di conversazioni o dell’audio di casa che potrebbero chiarire la dinamica degli eventi. Va ricordato, infatti, che Amazon conserva sui propri computer tutti questi spezzoni audio.

In effetti la polizia ha dichiarato di aver estratto dei dati dal dispositivo, senza però precisare quali, e Amazon ha fornito agli inquirenti i dettagli dell'account dell’accusato e dei suoi acquisti, ma non ha rilasciato le informazioni che Echo ha registrato sui server dell’azienda.

La casa “smart” è al centro di queste indagini anche per un altro dispositivo: un contatore dell’acqua “intelligente”, che ha registrato l’uso di circa 530 litri d’acqua fra l’una e le tre del mattino del giorno del delitto. Secondo gli inquirenti, questa notevole quantità sarebbe stata usata per lavar via dal patio della casa le tracce di quello che era successo. E sulla scena del delitto ci sono anche altri dispositivi della cosiddetta Internet delle cose: un termostato Nest, un sistema d’allarme Honeywell, un dispositivo di monitoraggio senza fili delle condizioni meteo e degli apparati WeMo per il controllo dell’illuminazione. Ciascuno di questi apparecchi registra data, ora e condizioni di attivazione e spegnimento.

Tutti insieme, questi sorveglianti digitali potrebbero decidere la sorte dell’accusato: uno scenario che fino a pochi anni fa sarebbe sembrato fantascientifico, ma è ormai una realtà sempre più diffusa, anche se spesso non ce ne rendiamo conto. Da tempo i nostri smartphone tracciano la nostra posizione, i braccialetti di fitness registrano l’attività fisica e molte automobili hanno una “scatola nera” che consente di ricostruire fedelmente la dinamica degli incidenti invece di dover dipendere dai ricordi imprecisi dei testimoni. L’importante è sapere chi e cosa ci sorveglia e avere accesso a questi dati, in modo che il Grande Fratello sia, ogni tanto, un fratello maggiore che ci protegge.


Fonti: Cnet, Engadget, The Register, The Information.






Internet ricorda Carrie Fisher



La scomparsa improvvisa di Carrie Fisher, la Principessa Leia di Star Wars, ha avuto una risonanza particolare su Internet. La mitologia di Star Wars è parte integrante della cultura della Rete e per tantissimi internauti e internaute la figura della principessa che sa cavarsela da sola invece di essere la solita damigella da salvare è stata un modello di riferimento fondamentale.


Le commemorazioni di Carrie Fisher stanno avvenendo non solo in giro per il mondo, con veglie alla luce delle spade laser, ma anche online, non solo con la pubblicazione di tante magnifiche fotografie e GIF animate tratte dalla carriera dell’attrice e scrittrice ma anche con veri e propri tributi live nei videogiochi.

Nel gioco Star Wars: The Old Republic della BioWare, per esempio, i giocatori si stanno radunando nella zona denominata House Organa (il palazzo del casato della Principessa Leia) sul pianeta Alderaan e si stanno inchinando in tributo nell’edificio e anche dinanzi a un simulacro della Principessa creato da un gamer. Questi raduni improvvisati di giocatori e giocatrici provenienti da tutto il mondo sono documentati anche in video.


Intorno a Carrie Fisher sono già nate le prime bufale: per esempio, circola in Rete un’immagine di una pagina di copione de L’Impero colpisce ancora che reca, si dice, le correzioni e i miglioramenti apportati dalla Fisher, che era nota appunto per la sua bravura nella revisione di copioni. Ma in realtà le correzioni in quella pagina sono opera del regista, Irvin Kershner; nella trilogia originale di Star Wars Carrie Fisher contribuì solo ai dialoghi del terzo film, Il Ritorno dello Jedi.




Un'altra bufala circolante in Rete riguarda i fiori lasciati accanto alla stella di Carrie Fisher sul celeberrimo marciapiedi della Hollywood Walk of Fame:


L’omaggio è reale e lo è anche la fotografia, ma la stella non appartiene a Carrie Fisher: è una stella generica adattata al volo dai fan, come si nota dalla scritta molto irregolare. L’attrice, infatti, non aveva una propria stella: farne dedicare una mentre si è in vita costa circa 30.000 dollari, e molte celebrità non tengono affatto a questo simbolo. E per tradizione una celebrità che muore senza avere una stella sulla Walk of Fame non potrà riceverne una per almeno cinque anni dopo la scomparsa.

Alcuni nuovi fan della saga, inoltre, stanno facendo polemica con chi scrive Leila invece di Leia negli articoli commemorativi, perché non sanno che nel doppiaggio italiano della trilogia originale i nomi di alcuni personaggi furono cambiati: da Leia a Leila, da Han Solo a Ian Solo, da Darth Vader a Dart Fener, da R2D2 a C1P8 e da C3PO in D3BO.



Una storia vera che riguarda Carrie Fisher, invece, è che ha chiesto di essere ricordata nei necrologi dicendo che è “annegata nel chiaro di luna, strozzata dal suo stesso reggiseno”, come hanno fatto in molti nell’annunciarne la morte. L’origine della strana richiesta è spiegata nel suo libro Wishful Drinking, a pagina 88:

George [Lucas] viene da me il primo giorno delle riprese [di Star Wars] e mi dice “Non puoi indossare un reggiseno sotto quel vestito [la celebre tunica bianca]... perché nello spazio non si usa la biancheria intima”. Giuro che è vero e che lo dice con così tanta convinzione! ... Ecco perché non puoi indossare un reggiseno secondo George. Vai nello spazio e diventi senza peso. Fin qui va bene, no? Ma poi il corpo ti si gonfia, e il reggiseno no – per cui finisci strozzata dal tuo stesso reggiseno. Credo che questo sarebbe un necrologio fantastico, per cui dico ai miei amici più giovani che non importa come muoio: voglio che venga scritto che sono annegata nel chiaro di luna, strozzata dal mio stesso reggiseno.”

Obbedisco alla mia principessa.


Fonti aggiuntive: Gizmodo, Carrie Fisher su Twitter, Comicbook.com, Snopes.

Sì, le smart TV sono infettabili. E sbloccarle non è facile

Il giorno di Natale su Twitter è comparsa una segnalazione molto insolita: la fotografia di una smart TV della LG infettata e brickata (bloccata) da un ransomware come quelli descritti da MELANI. Lo schermo mostrava un finto avviso dell’FBI che richiedeva un riscatto per sbloccare il dispositivo. Spegnendo e riaccendendo il televisore, si ricaricava il ransomware.

Si sapeva già che esisteva il rischio teorico d’infezione anche per le smart TV, visto che sono in sostanza dei computer carrozzati a forma di televisore, ma questa è stata una delle prime dimostrazioni concrete del problema.



La segnalazione proveniva dal Kansas, specificamente da Darren Cauthon, un informatico, e riguardava la smart TV di un familiare. La cosa più irritante, secondo Cauthon, era che il televisore non era ripristinabile perché la LG non voleva rivelare la procedura apposita, assente dal manuale, e chiedeva circa 340 dollari per la riparazione (non a domicilio, ma presso un centro assistenza LG): praticamente il costo di un televisore nuovo.

Ho contattato Cauthon, che mi ha spiegato che si tratta di una smart TV LG 50GA6400, un modello che usa Android come sistema operativo e che risale al 2014. Il televisore si è probabilmente infettato, ha detto Cauthon, usandola per scaricare un’app per guardare film. A metà di un film la smart TV si è bloccata. Non è chiaro se l’app sia stata scaricata da Google Play o da altre fonti.

L’immagine della smart TV bloccata è diventata virale in poco tempo, con mezzo milione di visualizzazioni, inducendo finalmente LG a darsi da fare e fornire a Darren Cauthon le semplici istruzioni di reset del televisore senza farsi pagare. L’informatico ha dimostrato il ripristino in un video.


Le smart TV più recenti non usano Android ma WebOS, per cui è difficile che questo genere d’infezione possa avvenire su dispositivi nuovi, anche se Trend Micro segnala che gli attacchi di ransomware alle smart TV capitano regolarmente; ma fa impressione che un televisore di un paio d’anni fa sia così vulnerabile e obsolescente e che il produttore chieda 300 dollari per premere letteramente due tasti per sbloccare la TV.

Come regola generale, alla luce di questo episodio, è consigliabile collegare a Internet le smart TV solo se strettamente indispensabile e solo per navigare in siti attendibili, senza visitare siti poco raccomandabili e soprattutto senza installare app di origine sconosciuta.


Fonti aggiuntive: BleepingComputer,

2016/12/29

Il cinico business delle bufale. Terza parte: Repubblica e il nipote finto passante

Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi (Paypal/ricarica Vodafone/wishlist Amazon) per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2016/12/31 15:30.

È troppo facile e semplicistico dare a Internet e ai social network la colpa del dilagare delle false notizie. Sicuramente la Rete e Facebook contribuiscono al fenomeno; ma le testate giornalistiche, che si atteggiano a verginelle sante e senza macchia, hanno la loro dose di colpa. Ne abbiamo visto un esempio pochi giorni fa con Affaritaliani.it, testata giornalistica online; oggi ne vediamo un altro con Repubblica, testata “tradizionale” che dal cartaceo si è estesa al digitale, per documentare come la fabbricazione di notizie sia ben radicata anche nel giornalismo classico, tanto da non essere neanche vista come un problema o un tradimento della fiducia dei lettori.

Di conseguenza, qualunque iniziativa (governativa o commerciale) contro le false notizie che abbia effetto solo su Internet e non tocchi l’intero sistema della diffusione di notizie è miope, assurda e inammissibile.

Caso mai non fosse chiaro: se qualcuno pensa che io possa sostenere o lasciar correre un tentativo di censurare Internet o progetti che assegnano alla stampa “tradizionale” un ruolo di guardiano e arbitro dell’informazione corretta, non ha capito nulla di me e dei miei vent’anni di debunking fatti senza risparmiare nessuno. Chi avesse bisogno di chiarirsi le idee può leggere questo.

Detto questo, vi propongo una piccola storia di ordinaria bufalocrazia.

––––––

Il 27 dicembre è morta la popolarissima attrice e scrittrice Carrie Fisher. Repubblica ha pubblicato sulla propria pagina Facebook ufficiale un servizio giornalistico video di Silvia Bizio [2016/12/31: successivamente rimosso; URL CDN originale], nel quale la giornalista va davanti alla casa di Carrie Fisher, gira un video di cinque minuti in stile “selfie con telefonino” e nota con commiserazione che non ci sono nugoli di fan piangenti o altre manifestazioni di lutto. Cosa piuttosto difficile, visto che la casa sta su una trafficatissima strada principale senza marciapiedi, ma lasciamo stare. Lasciamo stare anche la qualità del servizio e i suoi sorrisetti, le sue frasi smozzicate, le sue risatine e le sue immagini traballanti. Pura aria fritta, ma pazienza.

La cosa importante è che nel video Silvia Bizio dice che “c’è soltanto un fan, un ragazzo, un sedicenne... his name is Marco. Marco, tell us”. “Marco” è un nome abbastanza insolito da trovare in California, ma sorvoliamo anche questo (almeno per ora).

Il ragazzo racconta le proprie impressioni in inglese. La Bizio gli chiede “Why was Carrie Fisher and Guerre Stellari [sic] so important to you?”. Marco, stranamente, non si ferma a chiedere cosa mai vogliano dire le parole italiane “Guerre Stellari”, ma risponde disinvolto, come se sapesse l’italiano. Che strano.

Lei non lo ringrazia né gli rivolge più la parola, ma prosegue in italiano, sbagliando anche il titolo del film (è Il risveglio della Forza, non La Forza si risveglia). E finisce ridendo. Sì: Carrie Fisher è morta e Silvia Bizio se la ride in pubblico, davanti a casa della morta, sulla pagina Facebook di Repubblica.

Al momento in cui ho fatto lo screenshot qui sopra (le 23:06 italiane del 27/12), il video di Repubblica aveva già avuto 41.000 visualizzazioni, accompagnate da commenti non molto lusinghieri. Mentre scrivo la stesura iniziale di queste righe (mezzogiorno del 29/12) è arrivato a oltre 432.000 visualizzazioni.

Un brutto servizio, insomma; non certo una pagina di grande giornalismo. Cose che càpitano e che ho rimproverato a Repubblica. La storia sarebbe chiusa, se non fosse per un dettaglio che trasforma un brutto servizio da quasi mezzo milione di clic in una falsificazione.

Infatti mi viene segnalato da un lettore che il ragazzo intervistato da Silvia Bizio, somiglia sorprendentemente a Marco Bizio, nipote della giornalista.

“Marco” nel video di Silvia Bizio per Repubblica
(immagine schiarita per ridurre le ombre).

Marco Bizio nel suo profilo Facebook pubblico.

Intervistare un familiare spacciandolo per un passante qualsiasi sarebbe davvero squallido, per cui prima di sbilanciarmi chiedo pubblicamente chiarimenti a Repubblica e alla diretta interessata. Ed è qui che la cosa si fa interessante.







Altri miei tweet restano senza risposta, complice il fuso orario. La Bizio risponde qualche ora dopo:



Notate che la giornalista dice “non è mio figlio”, ma invece di chiarire rispondendo “è mio nipote”, svicola dicendo che è “un piccolo fan”. Un piccolo fan che lei conosce. Insomma, il passante intervistato per caso (come sembra dal video), l’unica persona davanti alla casa di Carrie Fisher in quel momento, è in realtà una persona che Silvia Bizio conosce. Che mirabile coincidenza. Chiedo chiarimenti.







Notate che la Bizio continua a eludere la questione. Così insisto:



La risposta è illuminante e dà l’impressione che la Bizio si renda perfettamente conto di aver violato la deontologia professionale e stia cercando di coprire la falsificazione:







Di nuovo Silvia Bizio cerca di non ammettere i fatti ricorrendo a giri di parole:







Notate che Silvia Bizio minimizza: “Tutto qui”. Nascondere a oltre quattrocentomila spettatori che il “passante” è in realtà suo nipote e che tutta l’intervista è combinata con un parente per lei è liquidabile con un “tutto qui”. Come se imbrogliare gli spettatori fosse una cosa normale. Deontologia, questa sconosciuta.

Ed è così che Repubblica – non un blog, non un utente Facebook, ma una testata giornalistica – fabbrica scientemente una bufala. E dico Repubblica perché la redazione è ben al corrente di questo episodio. Gliel’ho segnalato io, prima di pubblicare questo articolo, ma il video è ancora lì e le sue visualizzazioni acchiappaclic continuano ad aumentare. Se rimane al suo posto, vuol dire che Repubblica ne avalla il contenuto.



Si potrebbe obiettare che questo è un caso tutto sommato minore, ed è vero: ma è un caso chiaro e semplice di falsificazione giornalistica, che è emerso solo perché qualcuno ha avuto il colpo di fortuna di riconoscere il nipote della giornalista e di segnalarmelo. Se Repubblica accetta disinvoltamente che i suoi giornalisti mentano su queste cose e falsifichino un servizio pur di portarsi a casa mezzo milione di clic, come facciamo a fidarci che Repubblica non lo faccia anche su questioni più importanti? Quante altre frodi giornalistiche come questa possono esserci state senza che ce ne siamo accorti?

È questo il danno di incidenti come questo: minano il rapporto di fiducia con i lettori. E una volta persa, quella fiducia, è difficile riconquistarla.

Mi spiace, Repubblica, ma stavolta è Internet a fare le pulci ai giornali. E la diffusione di Internet non vi permette di farla franca come un tempo. Ve la siete cercata. Godetene i frutti.

Fonte: Mediobanca, 2016.


2016/12/31 00:30 – Repubblica rimuove il servizio


Mi arrivano segnalazioni che il video è stato rimosso oggi (ne ho comunque una copia) e che Repubblica ha postato questa dichiarazione su Facebook:

“Nei giorni scorsi, in un FbLive davanti all'abitazione di Carrie Fisher a Los Angeles, la collega Silvia Bizio ha intervistato un minorenne, senza specificare che fosse suo nipote.
Pur comprendendo la buona fede del ragazzo, sicuramente fan di "Star Wars" e competente sull'argomento, riteniamo che questo servizio giornalistico non risponda ai nostri canoni di informazione.
Repubblica ha quindi deciso di rimuovere il video dalla pagina Facebook.
Il video non è stato mai pubblicato su Repubblica.it.”


Notate la precisazione “il video non è mai stato pubblicato su Repubblica.it”. Vero: ma il video è stato pubblicato sulla pagina Facebook ufficiale di Repubblica. Quella con il logo di Repubblica e il bollino di autenticità. Esattamente come l’annuncio di rimozione. Boh.

2016/12/28

Antibufala mini: il “mecha” coreano

Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2016/12/30 2:35.

Repubblica ha pubblicato un articolo su un robot gigante, “alto quattro metri”, chiamato Method, che sarebbe da lanciare sul mercato “entro il 2017 ad un prezzo di 7,9 milioni di euro”. Sarebbe stato realizzato in Corea del Sud da Yang Jin-Hom, “presidente della Hankook Mirae Technology”.

I video non sembrano generati usando effetti digitali: il “mecha” pare esistere realmente, ma la sua effettiva capacità di muoversi è tutta da verificare. Nei video pubblicati da Repubblica e in quelli segnalati da Discover e da Foxtrot Alpha muove le braccia o si sposta lentamente sulle gambe, ma non fa mai entrambe le cose contemporaneamente ed è comunque sempre vincolato a dei cavi. I movimenti delle braccia, inoltre, sono sempre piuttosto simmetrici, e questo nasconde il fatto che un movimento asimmetrico sposta fortemente il baricentro di un bipede e quindi servirebbe un meccanismo di compensazione ed equilibrio che qui, a quanto pare, manca.

In altre parole: questo “robot” sembra più che altro una marionetta animatronica molto sofisticata. Come trovata pubblicitaria è indubbiamente efficace, ma chiunque si aspetti di poterlo usare prossimamente in modo autonomo, come gli esoscheletri di Avatar, farebbe bene a prepararsi a una delusione. O perlomeno a preparare le pastiglie contro il mal di mare. Avete visto come oscilla la cabina quando il mecha “cammina”?

2016/12/27

Addio, Principessa Leila


Forse, più tardi, troverò le parole. Non ora.

2016/12/26

Il cinico business delle bufale. Seconda parte: Affaritaliani.it

L’articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale. Ultimo aggiornamento: 2016/12/27 10:25.

È facile interpretare le recenti iniziative governative di vari paesi contro le false notizie come un’operazione di creazione del consenso popolare che consenta la censura della Rete e della libertà di espressione dei comuni cittadini. Può anche darsi che l’intento sia davvero questo. Sarebbe un intento decisamente miope e idiota, perché le false notizie non sono un problema soltanto di Internet: i principali disseminatori di “bufale” sono i media tradizionali e le testate giornalistiche regolarmente registrate.

Certo, un post di un utente comune con una foto falsa di Aleppo può fare trecentomila condivisioni, ma è nulla in confronto ai milioni di telespettatori di un servile “dibattito” sul fatto del giorno, alla tiratura quotidiana di un giornale o alle visite al sito Web di una testata giornalistica. Per fare un esempio, il Daily Mail britannico, fabbrica incessante di bufale mediche e di false notizie razziste, alle quali il giornalismo in lingua italiana si abbevera costantemente, tira un milione e mezzo di copie giornaliere, che vengono lette da sei milioni e mezzo di persone, e quattordici milioni di visitatori giornalieri tramite PC (dati Newsworks, dicembre 2016).

Rispetto alla potenza di fuoco di testate come queste, una condivisione di un cittadino comune sui social è una scoreggia in un uragano. In altre parole, se qualcuno pensa che il problema delle false notizie sia colpa dei singoli cittadini e che la soluzione sia rimettere la comunicazione in mano alle testate giornalistiche registrate, sta sbagliando di grosso.

Faccio un piccolo esempio di questo concetto prendendo un caso sul quale vado a colpo sicuro e al riparo da ogni dubbio sulla mia competenza sulla materia trattata per una ragione molto semplice: l’argomento della falsa notizia sono io. Scusatemi, quindi, se questo articolo può sembrare un po’autoreferenziale.

––

Affariitaliani.it è una testata giornalistica regolarmente registrata; ha un direttore responsabile. Sulla sua home page questo è dichiarato a chiare lettere: “Testata giornalistica registrata - Direttore responsabile Angelo Maria Perrino - Reg. Trib. di Milano n° 210 dell'11 aprile 1996 - P.I. 11321290154”. Dovrebbe quindi attenersi alle norme sulla stampa e alla deontologia professionale, che include la diligente verifica delle fonti e dei fatti: quello che adesso si chiama pomposamente fact-checking.

Ma guardate cosa ha scritto Affaritaliani.it, in un articolo a firma di Giuseppe Vatinno (ex deputato), a proposito di me in questo articolo (linko la copia salvata su Archive.is per non regalare clic pubblicitari e per garantirmi da eventuali modifiche).

  • “Paolo Attivissimo assunto dalla Boldrini. Ma le tasse le paga in Svizzera” scrive Vatinno nel titolo. Considerato che vivo in Svizzera, lavoro in Svizzera e collaboro con la Radiotelevisione Svizzera da più di dieci anni, dove altro dovrei pagare le tasse? Nel Camerun? 

  • Vatinno afferma che sulle bufale ho costruito “una sorta di impero mediatico e di lucrosi guadagni...”. Piccola nota di fact-checking: no. Se Vatinno ha delle prove di questi “lucrosi guadagni”, è pregato di pubblicarle, anche perché io non li ho ancora visti. Ho un “impero mediatico” e manco lo so. Mo’ me lo segno, direbbe Troisi.

  • Vatinno prosegue: “seguendo il richiamo del soldo, l’Attivissimo prese a collaborare con il nuovo giornale di Belpietro, “La Verità””. Altra piccola nota di fact-checking: La Verità non mi paga. Non scrivo per La Verità. Il giornale di Belpietro ha semplicemente il permesso di ripubblicare su carta quello che scrivo in questo blog, sotto licenza Creative Commons. Se Vatinno avesse fatto il proprio lavoro secondo deontologia, prima di scrivere questa panzana avrebbe verificato.

  • E ancora: “lo Stato italiano deve pagargli costose trasferte dalla Svizzera all’Italia. Ma come? Un esperto informatico come lui non può usare Skype per le riunioni? Invece no. Taxi, aerei, Hotel (magari di lusso), magnate nei migliori ristoranti romani e poi ancora taxi, altri aerei, altre magnate. Insomma un bel po’ di soldi pubblici che se ne andranno per un lavoro che si può, per definizione, fare da casa (sempre in Svizzera però…).” Terza piccola nota di fact-checking: la mia collaborazione con la Camera è stata svolta proprio usando Skype e Hangouts. Sono andato a Roma una sola volta, in treno, per moderare il convegno sulle false notizie il 29 novembre scorso, perché moderare un convegno via Skype è un tantinello impossibile. L’ottima amatriciana che ho mangiato a Roma la sera prima del convegno me la sono pagata io. Se Vatinno vuole esaminare lo scontrino, basta che chieda. 

Questo, vorrei sottolineare, è un articolo pubblicato su una testata giornalistica, sulla quale vigila (in teoria) un direttore responsabile e che vive di clic pubblicitari. Non è il delirio di un utente Facebook o di un blogger in libertà. E non è firmato da un cittadino qualsiasi, ma da un ex deputato.

Non mi si venga a dire che il problema delle false notizie è solo un problema di Internet o dei social network.

2016/12/24

Podcast del Disinformatico del 2016/12/23

È disponibile per lo scaricamento il podcast della puntata di ieri del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera. Buon ascolto e Buone Feste!

2016/12/23

Cose informatiche da fare a Natale (o prima di Natale)

Capita sempre più spesso di fare acquisti natalizi su Internet, e così la società di sicurezza informatica Sophos ha pubblicato un promemoria in dodici punti su come tenersi in sicurezza durante le feste. Ecco un assaggio dei temi principali.

Pulizia delle password. La pausa di Natale è una buona occasione per fare riordini di vario genere. Magari ci sta anche quello delle password, che devono essere differenti per ciascun sito, per evitare che un sito violato permetta a un criminale di rubarvi tutti gli account. Non è difficile, se usate un password manager che crea e si ricorda per voi tutte le password usando codici complicatissimi.

Aggiornamenti. Se ricevete in regalo qualche dispositivo digitale che si connette a Internet, per prima cosa aggiornate il suo software, per evitare che s’infetti. Fatelo subito.

Cambiate le password predefinite dei nuovi dispositivi. Molti dispositivi che potreste ricevere come regalo hanno delle password standard che sono note a tutti i malandrini della Rete: cambiatele, dunque, prima di affacciarvi a Internet. La raccomandazione vale in particolare per telecamerine di sorveglianza, monitor per bebè, televisori, lettori DVD e Blu-Ray, console di gioco e decoder TV.

Lucchetti nello shopping. Se andate su un sito a fare acquisti, controllate che accanto al nome del sito, nella casella dell’indirizzo del browser, ci sia un lucchetto chiuso: indica che la connessione al sito è cifrata e che nessuno può intercettarla per leggere i dati della vostra carta di credito.

Attenzione alle false mail degli spedizionieri. I criminali informatici in questo periodo sanno che stiamo ricevendo tanti regali per posta o tramite spedizionieri, per cui hanno avviato campagne di ransomware e rubapassword basate su mail che sembrano provenire dalle Poste o simili e sembrano annunciare l’arrivo di un pacco, sapendo che molti utenti si aspettano mail di questo genere e quindi le apriranno e soprattutto ne apriranno gli allegati infettanti.

Yahoo: come sono sfruttabili dati rubati di tre anni fa?

Il disastro del miliardo di account Yahoo violati annunciato di recente ha un’unica circostanza attenuante: essendo avvenuto tre anni fa, nel frattempo molti utenti hanno comunque cambiato le proprie password o hanno smesso di usare i propri account Yahoo. Ma questo non vuol dire che quest’enorme collezione di dati non sia sfruttabile e non faccia gola ai grandi criminali informatici.

I dati sottratti sono stati venduti al mercato nero ad almeno tre acquirenti distinti, ciascuno dei quali avrebbe pagato circa 300.000 dollari, stando alle fonti del New York Times. Gli acquirenti sarebbero due spammer e un altro gruppo interessato allo spionaggio.

Ma cosa se ne fanno, questi criminali, di account che hanno probabilmente password obsolete? Una risposta è che di solito gli utenti cambiano periodicamente le password, ma raramente cambiano le risposte alle domande di recupero password (anche perché domande del tipo “Come si chiamava tua madre da nubile?” di solito hanno risposte che non variano nel tempo).

Questo significa che i malfattori possono rubare gli account anche se non hanno la password aggiornata: usano le risposte alle domande di recupero, che fanno parte dei dati trafugati a Yahoo. Non solo: dato che appunto le risposte alle domande non cambiano, possono usare quelle che avete immesso in Yahoo per rubarvi anche account che avete altrove e che dipendono dalle stesse domande. Di conseguenza, sarebbe una buona idea prendere l’abitudine di rispondere con dati di fantasia alle domande di recupero (segnandosi ovviamente in un luogo sicuro le risposte).

Ma c’è un motivo ancora più significativo per l’acquisto di dati come quelli sottratti a Yahoo: Bloomberg segnala che fra i dati ci sono quelli di oltre 150.000 dipendenti governativi e militari statunitensi. Per una potenza straniera, mettere le mani su “nomi, password, numeri di telefono, domande di sicurezza, date di nascita e indirizzi di e-mail di riserva” di “personale attuale e passato della Casa Bianca, membri del Congresso USA e loro assistenti, agenti dell’FBI, dell’NSA, della CIA” e altri ancora, elencati da Bloomberg, è altamente desiderabile.


Fonte aggiuntiva: Sophos.

Cose informatiche da non fare in volo: far credere di avere un Samsung Galaxy Note 7 “incendiario”

Credit: PhoneArena.
L’articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale. Ultimo aggiornamento: 2016/12/27 13:25.

 Il 20 dicembre scorso il volo 358 della Virgin America da San Francisco a Boston è stato il teatro di un problema di telefonia mobile piuttosto insolito. Un passeggero, Lucas Wojciechowski, stava cercando il Wi-Fi di bordo con il proprio computer quando si è accorto che a bordo c’era, oltre al Wi-Fi standard, un’altra rete senza fili di nome Samsung Galaxy Note7_1097.

Un nome che mette i brividi, visto che il Samsung Galaxy Note 7 è stato vietato a bordo degli aerei di linea statunitensi dal Dipartimento dei Trasporti per via della sua spiacevole tendenza a prendere fuoco spontaneamente. E se c’è una cosa che non piace né ai piloti né ai passeggeri, è un incendio a bordo, come già accaduto per colpa di questo dispositivo elettronico difettoso.

Lucas ha dapprima segnalato su Twitter la propria scoperta e poi, sempre su Twitter, ha raccontato il seguito.

Dopo circa un’ora di volo, l’equipaggio ha fatto un annuncio ai passeggeri, chiedendo che l’eventuale possessore del telefonino incendiario si facesse riconoscere. Silenzio inquieto in cabina passeggeri.

Un quarto d’ora dopo, l’equipaggio ha minacciato di accendere le luci (erano le 23 locali) e di perquisire tutti i bagagli in cabina fino a trovare lo smartphone sospetto. Ancora silenzio.

Dopo un’altra quindicina di minuti è intervenuto personalmente il comandante, avvisando che se il proprietario del telefonino non si fosse fatto avanti sarebbe stato necessario far atterrare anticipatamente l’aereo e farlo perquisire, causando disagi a tutti. Trovarsi nel cuore della notte in un aeroporto inatteso dopo un’emergenza (in Wyoming, secondo The Register), ha spiegato il comandante, sarebbe stato “terribile. Non c’è aperto nulla nel terminal. Nulla.”

Queste parole, dettate dal protocollo della compagnia aerea per la gestione dei telefonini a rischio d’incendio, hanno finalmente convinto i passeggeri a collaborare, ed è emerso con sorpresa che non c’era a bordo nessun Samsung Galaxy Note 7: semplicemente, uno dei passeggeri aveva attivato la funzione hotspot Wi-Fi del proprio telefonino e le aveva assegnato il nome Samsung Galaxy Note7_1097. Non si sa bene se si sia trattato di un nome scelto automaticamente dal telefonino o se sia stata invece una scelta intenzionale del proprietario.

L’episodio si è concluso felicemente, senza atterraggi d’emergenza, ma ha portato alla luce il fatto che anche il nome di un Wi-Fi oggi è sufficiente a rischiare un’emergenza di un aereo di linea. Quindi se prendete un aereo, gestite responsabilmente il vostro smartphone. Tenetelo spento, se non vi serve, e controllate anche che la funzione hotspot Wi-Fi non si attivi con qualche nome che possa creare inquietudini.

Fate come me: usate come nome NSA oppure CIA.

Telefonino nuovo? Mettetegli un cane da guardia. Ma pensateci bene

Se per Natale vi capita di ricevere in regalo uno smartphone nuovo e costoso, c’è purtroppo il rischio che qualcuno ve lo rubi. C’è chi installa apposite app di tracciamento per gestire questo tipo di situazione spiacevole, ma c’è anche chi usa queste app in maniera inconsueta. Uno studente di cinematografia olandese, Anthony van der Meer, dopo aver subìto il furto di un iPhone, ha deciso installare Cerberus su un Android e ha lasciato che il telefonino gli venisse rubato, per poi documentare come veniva utilizzato. Il risultato è un documentario di 21 minuti, Find My Phone.


Cerberus resiste ai reset e ai cambi di SIM che di solito rendono inservibili i normali sistemi di tracciamento degli smartphone rubati o smarriti, e consente di accedere da remoto ai file presenti nel dispositivo e accenderne la fotocamera e il microfono. Così lo studente è riuscito a pedinare, fotografare e ascoltare le conversazioni del ladro (o di qualcuno che aveva successivamente acquisito il suo smartphone-esca). Lo ha seguito nei suoi viaggi e spostamenti in Olanda e in altri paesi. Ha intercettato le chiamate dell’uomo a una linea erotica e registrato una lunga conversazione fra il sorvegliato e una donna. Ha imparato a conoscerne le abitudini e i comportamenti.

Il sorvegliato non era affatto quello che lo studente si aspettava: aveva una vita, una religione, delle amicizie, dei problemi. Poi van der Meer è andato a visitare di persona il luogo dove abitava il presunto ladro, scoprendo che spesso dormiva in un rifugio per senzatetto o a casa di amici e incontrandolo faccia a faccia.

Van der Meer è rimasto così scosso dalla sua intrusione nella vita di un’altra persona che ha finito per mandare al “ladro” del credito telefonico, visto che la sua sorveglianza tramite Cerberus consumava molto credito per la trasmissione di dati.

Lascio i dettagli e l’epilogo della vicenda alla vostra visione di Find my Phone, ma l’esperimento dello studente mostra la potenza dei sistemi di sorveglianza incorporabili nei telefonini e pone seri problemi di legalità. Come nota Sophos, installare un sistema di tracciamento sui propri dispositivi è lecito, ma usarlo per sorvegliare le persone (per esempio installandolo sul telefonino del partner o del coniuge) è indubbiamente illegale.

C’è anche un altro rischio: le persone sorvegliate vengono trattate come colpevoli fino a prova contraria, dimenticando che potrebbero anche essere innocenti, avendo trovato il telefonino o avendolo ricevuto senza conoscerne la provenienza furtiva, come è già successo in alcuni casi analoghi di utilizzo di sistemi antifurto.

Il trailer sbagliato di Tom Cruise diventa la suoneria più irritante del momento

Non durerà a lungo, per cui guardatela finché c’è: è la versione IMAX del trailer di The Mummy, pubblicata per errore dalla Universal Pictures senza la colonna sonora musicale e quasi tutti gli effetti audio.

Confrontatela con quella giusta e considerate il risultato piuttosto comico di Tom Cruise che nel mezzo di una scena drammaticissima grida istericamente nel silenzio assoluto. I suoi strilli decisamente sopra le righe sono diventati una suoneria particolarmente irritante.


La Universal sta cercando di far rimuovere da Internet tutte le copie del video sbagliato, ed è un peccato, perché per quanto ridicolo è comunque un modo per far parlare del film, anche se mancano alcuni mesi prima della sua uscita.


Fonti: BBC, SMH, Gizmodo, Daily Dot.

2016/12/22

Piccolo manuale di debunking: l’attentato di Berlino e l’importanza di chiedere “Se fosse vero...”

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Ripubblico qui una serie di miei tweet di rapido debunking: scusate concisione, punteggiatura e scurrilità.

1. Per chi trova "sospetta" la scoperta tardiva dei documenti dell'attentatore di Berlino. Supponiamo che qualcuno voglia piazzare i doc...

2. ...per creare una falsa pista. Perché far comparire i documenti 24 ore dopo? Se vuoi fare false piste, li fai comparire _subito_.

3. Chi pensa che la comparsa dei doc 24h dopo sia prova di complotto presume che i cospiratori siano, per dirla tutta, dei perfetti coglioni

4. Forse chi sostiene queste tesi di complotto sta misurando gli altri con il proprio metro.

5. Fare debunking non è difficile: basta chiedersi "Se fosse vera la tesi di complotto, che cosa implicherebbe?"

6. Se si arriva a una conclusione assurda, la tesi di complotto è una cretinata. Semplice.

/ fine

Mini-debunking delle foto false della “bambina di Aleppo”

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Da Pandora TV.
Ripubblico qui una serie di miei tweet scritti di getto stasera in risposta alle richieste di debunking. Perdonate concisioni e imprecisioni.

1. Girano in Rete delle immagini di una bambina col vestito apparentemente insanguinato. Sono false, e su questo siamo tutti d'accordo.


2. Il fotografo è stato beccato in Egitto insieme ai suoi complici.

3. C'è chi sta usando questo episodio per dire che tutte le immagini prodotte su #Aleppo dai media sono false o inattendibili.

4. Questo è un ragionamento illogico: il fatto che una foto sia falsa non significa che lo sian tutte. Le foto vanno autenticate una per una.

5. Ci sono foto attendibili (provenienti da fotoreporter di indubbia reputazione), ma ci sono (da sempre) anche le foto fatte da sciacalli.

6. Se non ci sono prove che queste foto false sono state commissionate dai media, un'ipotesi ragionevole è che siano opera di sciacalli.

7. Un falsario professionista non avrebbe usato sangue finto palesemente finto; i media avrebbero commissionato foto meno palesemente false.

8. Siete in Egitto; sapete che media pagano x foto-shock. Idea imprenditoriale: prendere bambina, imbrattarla di finto sangue, vendere foto.

9. Prendere un singolo caso come pretesto per dire "tutte le foto dei media sono false" è una cretinata.

10. È come dire "Una volta ho visto del cioccolato confezionato a forma di cacca. Quindi tutte le cacche son di cioccolato! Gnam, gnam!"

11. Fine del mini-debunking.



.

2016/12/20

Boldrini, bufale e “debunker di stato”: vediamo di capirci


Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Pubblicazione iniziale: 2016/12/20 5:41. Ultimo aggiornamento: 2017/01/06 12:30.

Da quando ho moderato un convegno sulle bufale a Montecitorio organizzato dalla Presidenza della Camera e sono stato citato dalla Presidente della Camera, Laura Boldrini, nel suo appello contro le false notizie che intossicano l’informazione, si è scatenata contro di me una notevole orda di, uhm, cordiali interlocutori come quelli mostrati qui sopra, che mi hanno rivolto alcune accuse piuttosto bislacche. Su Twitter sono arrivati personaggi spettacolari.

C’è gente che è andata persino a rivangare le mie preferenze informatiche ai lontani tempi di Windows Vista pur di trovare qualcosa su cui incazzarsi con me; altri che si sono accaniti per ore su una mia battuta sull’economia senza capire che era una battuta e come se litigare con me potesse cambiare le sorti del mondo e i loro tweet fossero l’ultimo baluardo contro i poteri forti. Gente convinta che twittare, e soprattutto twittare contro di me, sia come pigliar pallottole in guerra.

Link all’originale.


In confronto gli sciachimisti sono stati dei galantuomini impeccabili e meritevoli del premio Nobel. È stato molto educativo.

Siccome ripetere le stesse risposte alle stesse accuse è un tantinello noioso, lo faccio qui una volta per tutte, così ce le leviamo di torno e posso dare un link pronto in risposta ai futuri eroi di Twitter.


Sono diventato un debunker di stato, “arruolato” dalla Boldrini?


Link all’originale.
Risposta breve: LOL, no.

Risposta lunga: No. La Presidenza della Camera mi ha semplicemente chiesto di moderare una mattina di dibattito sulle bufale (fatto) e la Presidente Boldrini mi ha citato fra gli esperti che le daranno una mano nella sua iniziativa per contenere i danni causati dalle false notizie arruffapopolo e acchiappaclic. Tutto qui. Insieme a me la Boldrini ha citato Michelangelo Coltelli (Bufale un tanto al chilo), David Puente (Davidpuente.it) e Walter Quattrociocchi (CSSLab dell'IMT di Lucca).

Non sono stato arruolato, assunto, messo sotto contratto, messo a libro paga o iscritto al Nuovo Ordine Mondiale con una stretta di mano segreta e il sacrificio di una capra. La Presidenza mi ha chiesto informalmente se mi interessava collaborare a queste due specifiche iniziative e io altrettanto informalmente ho detto di sì, perché mi sembrano esperienze interessanti e potrebbero essere utili a molti.

Ma a parte queste due iniziative, sto andando avanti a fare il mio lavoro solito di giornalista informatico professionista che collabora da più di dieci anni con la Radiotelevisione Svizzera. Vivo da altrettanto tempo a Lugano dopo essere stato a lungo un contribuente tartassato del Fisco italiano (per questo ho lasciato l’Italia, dove arrivavo a stento a fine mese). Per cui le eventuali lusinghe della politica italiana mi lasciano del tutto indifferente. Finita questa parentesi, tornerò a fare quello che facevo prima.

Del resto, le menti migliori di Internet sanno che io sono da tempo immemorabile al soldo dei Rettiliani e della CIA, per cui prendere ordini da una Presidente della Camera sarebbe un abbassamento di grado, no?


Quanto mi pagano?


Link all’originale.
Zero. Nada. Niente. Non ho chiesto alcun compenso e la Presidenza della Camera non me ne dà. Mi rimborsa le spese di viaggio e basta; sono andato a Roma per questo incarico una sola volta e il resto della collaborazione si fa via Skype, Hangout e simili.

Non voglio che ci siano di mezzo dei soldi, perché altrimenti ci saranno i soliti diversamente furbi che diranno che faccio questo e quello per denaro. Lo dicono lo stesso, ma almeno posso dire loro che sono degli imbecilli che dicono balle.

Faccio debunking da anni non per denaro, ma perché mi piace farlo e spero di poter essere utile. Lo faccio perché mi preoccupa la marea di cazzate socialmente pericolose diffuse dai complottisti e dagli speculatori acchiappaclic, dentro e fuori dai giornali e dalle TV, spesso con la complicità consapevole o inconsapevole dei politici. Cazzate che per esempio fanno crollare le vaccinazioni, creano paure infondate e fanno arricchire i truffatori.

Sì, avete capito bene: non faccio debunking per i soldi. Anche perché ci si guadagna poco. Oltretutto fare debunking non è il mio lavoro principale: mi guadagno da vivere principalmente facendo tutt’altro (il traduttore tecnico brevettuale, se proprio volete saperlo). Questo mi consente di essere indipendente e di dire le cose come stanno anche quando ci sono di mezzo le bufale pubblicate da politici o dai giornali o dai canali TV. Se volete degli esempi, cercate le etichette giornalismo spazzatura o leggi idiote in questo blog.



Ti dai alla politica?


Grazie, no, non ci penso nemmeno. Moderare un convegno e fare una consulenza con la Presidenza della Camera non significa darsi alla politica. Se un chimico fa l’analisi delle acque potabili a Montecitorio, mica entra in politica. Inoltre collaboro con la Presidenza, ossia con l’istituzione, a prescindere da chi ricopre questo ruolo.

Ho accettato l’invito della Presidenza perché consente di far arrivare i concetti del debunking e la conoscenza dei meccanismi ingannevoli delle bufale a un pubblico molto vasto, che normalmente non verrebbe raggiunto via Internet e per questo è più indifeso. Quando David Puente ed io abbiamo smascherato una delle tante fabbriche di false notizie che lavorano per denaro, la notizia è finita su tutti i principali giornali, raggiungendo in un solo giorno alcuni milioni di persone, allertandole all’esistenza di questo fenomeno poco conosciuto. Questo è un risultato che non sarebbe stato possibile ottenere usando canali online tradizionali.

Forse è un gesto politico, in effetti, ma nel senso alto del termine: quello di rendersi utili ai cittadini.



Faccio il censore?


No, manco morto: io segnalo semplicemente i siti che pubblicano bufale (e lo faccio anche quando il sito è quello di Repubblica o del Corriere). Ma non li censuro e non voglio che vengano censurati: preferisco che gli utenti di Internet li possano vedere, riconoscere come bufalari e poi decidere se vogliono evitarli. Se vi raccontano balle, non volete saperlo?

In realtà di solito sono i siti stessi a censurarsi da soli quando si sentono sputtanati, come è successo per esempio per Liberogiornale o Repubblica.

Per darvi un’idea di quanto mi stia in odio la censura, tenete presente che io insegno a eluderla, sia in questo blog, sia nei corsi di giornalismo informatico che tengo per esempio per i colleghi della Radiotelevisione Svizzera.



Sto prestando il fianco a un attacco alle libertà di Internet?


Se vi sembra strano che ci sia di colpo tutto questo interesse per le bufale da parte dei governi e dei media tradizionali, non siete i soli. Non siete i soli a sospettare che si tratti di una manovra per avere consenso popolare per introdurre nuove forme di censura e controllo di Internet, oppure per dare la colpa delle false notizie agli utenti di Internet e distrarre da un fatto fondamentale: i più grandi propagatori di balle sono i media tradizionali, per incompetenza o per calcolo, come ho segnalato tante volte in questo blog.

Programmi di panzane totali come Voyager o Mistero non sono video fatti da acerbi Youtuber: sono produzioni professionali delle reti televisive mainstream. E raggiungono, ad ogni puntata, un numero di persone che fa impallidire qualunque sito Internet. I siti di giornali come il Corriere ospitano pagine come quelle di Flavio Vanetti, per il quale ogni tafano che passa davanti all’obiettivo è un disco volante che arriva dal Pianeta Papalla. Agenzie di stampa come ADNKronos pubblicano idiozie come gli articoli che promuovono il “respirianesimo” (l’idea suicida di vivere senza cibo, “nutrendosi” solo di aria e sole), dando loro autorevolezza e credibilità.

Sono ben consapevole del fatto che la segnalazione dei siti che pubblicano bufale per denaro può essere strumentalizzata come giustificazione per tentativi (stupidi) di censura o schedatura degli utenti. Per questo non perdo occasione, come è successo anche al convegno di Montecitorio, per ricordare che questo non è un problema di Internet: è un problema dei giornalisti avidi di scoop e sensazionalismi, che ci sono anche nella carta stampata, alla radio e alla TV. E lì possono fare assai più danni di quanto si possa fare su Internet.



Perché non debunko questa o quell’altra cosa quando me lo chiedono?


Perché non sono una scimmietta ammaestrata che fa lo spettacolino a comando. Come ho già detto qui sopra, non sono pagato per fare debunking: è una passione, per cui decido io se mi va di farlo e a quale argomento dedicarmi. Non perdete tempo a scrivermi dicendo “Debunkami questo!”. E tenete presente che mi occupo solo di vicende concrete, non di opinioni.

Quindi è inutile (e anche piuttosto stupido) insinuare che non debunko una certa storia perché non voglio dare contro il potente di turno che è coinvolto. Se non lo faccio, è semplicemente perché:

a) non ho tempo: sto lavorando ad altro e il debunking non è il mio lavoro principale
b) il tema non mi interessa
c) è al di fuori del mio campo di competenza
d) non è una faccenda importante.

Fra l’altro, non sono mica l’unico debunker al mondo: ce ne sono molti altri, più bravi di me. Potete benissimo rivolgervi a loro.


Ma chi sono io per fare il debunker? Che titoli ho?


C’è chi s’inviperisce perché non ho una laurea apposita per fare debunking (sono diplomato in lingue, se ci tenete a saperlo; ho iniziato a lavorare come traduttore ancora prima di diplomarmi) dimenticandosi che non esiste una Facoltà di Debunking e che quindi lamentarsi che non ho titoli per fare debunking è una stupidaggine. Io ho oltre vent’anni d’esperienza nel settore, ho lavorato con alcuni fra i più grandi esperti del campo e comunque mi appoggio sempre a esperti degli specifici argomenti di cui mi occupo. Se avete di meglio da offire, fatevi avanti.


Ma il mio account Twitter è pieno di follower falsi perché li ho comprati?


Figuriamoci se ho tempo, voglia o bisogno di comprare follower. I fake sono un problema diffuso di Twitter: si attaccano spontaneamente agli account popolari e non ci sono metodi sicuri per filtrarli automaticamente (se ne conoscete, sono tutt’orecchi).

Comunque secondo il test che cito qui (e che ho commissionato io a Twitteraudit) il 56% dei miei follower è reale. Anche togliendo il 43% di falsi, mi restano 181.000 follower reali. È un problema?

Un criticone, @Frangit2000, ha insinuato pubblicamente questa balla dei fake, così ho chiesto ai miei follower di scrivergli educatamente spiegando che non erano fake. La risposta dei follower è stata epica: sono ormai giorni che @frangit2000 è sommerso di tweet individuali che gli dicono “non sono un fake”. Non so come ringraziarvi.


Ma perché me la prendo solo con le bufale del partito X e trascuro quelle del partito Y?


La cosa buffa è che vengo criticato dai twittatori di destra perché non faccio debunking sulle bufale della sinistra e dai twittatori di sinistra perché non debunko le cazzate di destra. Mai una gioia.

In tutti i miei anni di debunking ho cercato di non sottolineare l’affiliazione politica dei vari esponenti di cui verificavo le affermazioni, per cui faccio un po’ fatica a stilare un elenco di bufalari di destra, di centro e di sinistra: ne trovate un elenco parziale qui sotto. Se mi potete dare una mano sfogliando il Disinformatico e segnalandomi altri esempi, ve ne sarò grato.

– Italo Sandi, deputato dei Democratici di Sinistra, 2003 (scie chimiche)
– Piero Ruzzante, deputato dei Democratici di Sinistra, 2003 (scie chimiche)
– Severino Galante, deputato dei Comunisti Italiani, 2005 (scie chimiche)
– Davoli, Uras e Pisu (consiglieri di Rifondazione Comunista), 2006 (scie chimiche)
– Beppe Grillo, 2006 (cellulari cuociuova)
– Gianni Nieddu, senatore dell'Ulivo, 2006 (scie chimiche)
– Amedeo Ciccanti, senatore dell'UdC, 2007 e 2009 (scie chimiche)
– Katia Bellillo (deputata dei Comunisti Italiani e già ministro agli Affari Regionali e alle Pari Opportunità), 2007 (scie chimiche)
– Beppe Grillo, 2008 (Biowashball)
– Sandro Brandolini, deputato del Partito Democratico, 2008 (scie chimiche)
– Antonio Di Pietro, deputato dell'Italia dei Valori, 2008 (scie chimiche)
– Antonio La Forgia, Alessandro Bratti e Manuela Ghizzoni (Partito Democratico), 2009 (scie chimiche)
– Oskar Peterlini, senatore del Südtiroler Volkspartei, 2009 (scie chimiche)
– Domenico Scilipoti, deputato di Iniziativa Responsabile, 2011 (scie chimiche)
– Giuseppe Vatinno, deputato di Italia dei Valori, 2012 (interrogazione parlamentare sugli UFO)
– Roberto Zaffini (Lega Nord), 2013 (scie chimiche)
– Paolo Bernini, deputato Movimento 5 Stelle, 2013 (chip sottopelle segreti)
– Carlo Sibilia, deputato Movimento 5 Stelle, 2014 (negazione degli sbarchi sulla Luna)
– Bartolomeo Pepe (senatore, gruppo Grandi Autonomie e Libertà), 2016 (antivaccinismo)
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