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Il Disinformatico: settembre 2019

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2019/09/30

Quattro chiacchiere in libertà a proposito di Star Trek

Qualche giorno fa ho registrato con Juanne Pili una chiacchierata su Star Trek e dintorni: come ho conosciuto la serie, come ne sono scappato via inizialmente, e come mi sono poi innamorato dei personaggi e delle storie di questo universo di fantascienza.

Colgo l’occasione per ricordare che dall’11 al 13 ottobre ci sarà la Reunion, una convention di fantascienza (non solo Star Trek), presso l’Hotel Mediterraneo di Riccione. Io sarò lì come fan e come traduttore. Tutti i dettagli sono qui (nel video ho indicato il nome sbagliato del sito: quello giusto è Starconitalia.it).





Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

2019/09/28

Lunar Orbiter, immagini segrete dalla Luna nel 1967

Ultimo aggiornamento: 2019/10/01 9:50.


Immaginate una fotografia della Luna talmente nitida che per renderne visibili a occhio nudo tutti i dettagli sarebbe necessario stamparla su una superficie grande come la facciata di un edificio di tre piani. Ora immaginate che una foto del genere esista realmente e sia stata tenuta segreta per oltre quarant’anni, ma che un gruppo di ricercatori accampati in un McDonald’s abbandonato l’abbia scoperta, recuperata e rivelata.

Smettete pure di immaginare, perché questa storia è accaduta davvero.


Spie spaziali


Fra il 1966 e il 1967, gli Stati Uniti inviarono verso la Luna cinque sonde di ricognizione, denominate Lunar Orbiter, con l’obiettivo di creare una mappa fotografica dettagliata dalla quale selezionare i luoghi migliori per i futuri allunaggi degli equipaggi delle missioni Apollo.

Una sonda della serie Lunar Orbiter.


La tecnica usata per riportare sulla Terra le immagini della Luna fu decisamente eroica: non disponendo di sensori fotografici digitali, che non erano ancora stati inventati, le sonde Lunar Orbiter fotografarono la superficie selenica su pellicola fotografica da 70 mm. Non esisteva ancora la tecnologia per far tornare sulla Terra queste pellicole, per cui a bordo della sonda fu installato un laboratorio di sviluppo all’interno di un contenitore pressurizzato. Le pellicole furono quindi sviluppate chimicamente, asciugate e poi sottoposte a scansione con un sistema analogico, in maniera completamente automatizzata, a bordo delle sonde. La tecnica è descritta in dettaglio nel documento NASA Lunar Orbiter Photographic Data, NSSDC 69-05, giugno 1969.

Schema del sistema di sviluppo e scansione delle sonde Lunar Orbiter (fonte: NASA).


Le Lunar Orbiter trasmisero via radio verso la Terra il segnale di uscita di queste scansioni, che fu captato dalle grandi antenne della NASA situate in Spagna (Madrid), Australia (Woomera) e California (Goldstone).

Le fotografie furono ricostruite sulla Terra partendo da questi segnali radio e furono usate per preparare gli allunaggi. Alcune furono pubblicate immediatamente, mentre il grosso fu offerto al pubblico nel 1971, dopo i primi sbarchi umani sulla Luna con equipaggio ad opera degli Stati Uniti. Ma la versione che fu presentata al pubblico fu intenzionalmente e fortemente degradata, con un contrasto estremo e con striature molto marcate. La reale qualità delle spettacolari immagini della Luna scattate dal programma Lunar Orbiter rimase segreta.

C’erano infatti due problemi che impedivano alla NASA di rendere pubblici gli originali.

Il primo era che la corsa alla Luna fra Stati Uniti e Unione Sovietica era ancora aperta e i sovietici avrebbero potuto sfruttare gratuitamente le immagini americane per le proprie missioni, senza dover costruire e lanciare delle proprie sonde.

Il secondo era che le fotocamere delle Lunar Orbiter erano fondamentalmente uguali a quelle dei satelliti-spia militari, semplicemente modificate per fare ricognizione fotografica della Luna anziché del territorio nemico sulla Terra, e il governo statunitense non voleva assolutamente far sapere ai russi quanto fosse sofisticata e potente la tecnologia americana di ricognizione satellitare strategica.

Sui giornali uscirono quindi versioni scadenti delle foto e il pubblico, ignaro dell’inganno, si dovette accontentare. Ma alla NASA un gruppo selezionato di esperti sapeva come stavano realmente le cose.


Luna virtuale


Le prime tre missioni della serie Lunar Orbiter fotografarono una ventina di siti lunari ritenuti potenzialmente accettabili per un allunaggio: servivano zone pianeggianti e senza asperità.

Fra l’11 e il 25 maggio 1967, la sonda Lunar Orbiter IV scattò una serie di foto della faccia visibile della Luna. In segreto, le immagini in qualità originale furono stampate e composte per ottenere un mosaico dettagliatissimo della superficie lunare. La risoluzione era talmente elevata che la panoramica complessiva, stampata in una scala sufficiente a rendere visibili i dettagli più piccoli, misurava 12 per 16 metri e fu disposta sul pavimento di una grande sala, nella quale gli analisti e anche gli astronauti entravano scalzi per camminare virtualmente sulla Luna.

Le immagini originali delle Lunar Orbiter stampate e usate alla NASA per scegliere i siti di allunaggio.


Nonostante le dimensioni, alcuni dettagli di queste foto richiedevano comunque l’uso della lente d’ingrandimento. Certe immagini, scattate da una quota di circa 44 chilometri, mostravano dettagli inferiori al metro, e la quinta missione Lunar Orbiter acquisì immagini della faccia nascosta della Luna e dettagli dei siti di allunaggio, producendo una cartografia selenica quasi completa. Ma una volta usate, queste fotografie eccezionali furono archiviate per proteggere i segreti militari della tecnologia che le aveva rese possibili e al pubblico fu presentata solo una copia di qualità ridottissima.

La faccia nascosta della Luna e una falce di Terra. Versione in bassa risoluzione della foto Lunar Orbiter 1117.


La falce di Terra della foto precedente; notate la risoluzione elevatissima.


McMoon


I circa 1500 nastri sui quali erano stati registrati i segnali radio prodotti dalle scansioni di queste pellicole di ricognizione rimasero in magazzino per due decenni. Nel 1986 fu necessario decidere se continuare a conservarli oppure distruggerli. La decisione spettava a Nancy Evans, archivista del Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena, in California. Lei non se la sentì di mandarli al macero e quindi se li portò a casa e li mise nel proprio garage.

Evans e alcuni colleghi, con un piccolo finanziamento della NASA, riuscirono a trovare quattro enormi unità Ampex FR-900, macchine speciali necessarie per leggere i segnali memorizzati sui nastri. Anche queste finirono nel garage dell’archivista. Dopo vent’anni di abbandono erano in pessime condizioni, piene di sporco e ragnatele, ed era necessario restaurarle pezzo per pezzo. Ma per farlo occorreva trovare tecnici che si ricordassero delle tecnologie militari degli anni Sessanta e sapessero ricreare i componenti mancanti, in particolare le testine di lettura, i demodulatori e i convertitori da analogico a digitale. Alcuni ricambi furono trovati su eBay.

Passarono anni, finché nel 2007 il tentativo di recuperare le foto delle Lunar Orbiter fu annunciato pubblicamente sul sito NasaSpaceflight.com e si fecero avanti vari esperti, fra cui Dennis Wingo, presidente dell’azienda aerospaziale SkyCorp, che sfruttò la propria rete di contatti alla NASA per radunare le risorse umane e tecniche necessarie per il progetto, denominato LOIRP (Lunar Orbiter Image Recovery Project), e lo cofinanziò insieme a Keith Cowing, ex dipendente della NASA.

Con l’aiuto di Ken Zin, veterano dell’esercito ed esperto negli apparati di registrazione a nastro militari, riuscirono a riparare un lettore FR-900 e a presentare nel 2009 le prime immagini recuperate, fra le quali spiccava una stupenda immagine obliqua del cratere Copernico.

Una delle prima foto recuperate mostra il cratere Copernico della Luna, ripreso obliquamente dalla sonda Lunar Orbiter 2 il 24 novembre 1966 da una quota di circa 45 km.


Il lavoro fu svolto nei locali di un McDonald’s abbandonato vicino al centro di ricerca Ames della NASA a Mountain View, in California. Il sito fu prontamente ribattezzato “McMoon”.


L’interno del McDonald’s trasformato in laboratorio di recupero. Sul pavimento si notano le bobine di nastro magnetico e un sacco a pelo. Credit: Steve Jurvetson.







Con l’aiuto di studenti della San Jose State University e di veterani della Ampex, fu ricostruito il sistema di catalogazione dei nastri, ciascuno dei quali conteneva una singola immagine. Dal restauro emerse che lo scanner analogico a bordo delle Lunar Orbiter aveva una risoluzione di 5 micron (200 linee per millimetro) e che il segnale era stato trasmesso verso la Terra usando una compressione analogica lossless (priva di perdite).

Convertita in formato digitale, ognuna di queste foto di cinquant’anni fa occupa circa 2 GB e misura circa 19.000 per 16.000 pixel, ben più delle migliori fotocamere digitali professionali di oggi. La qualità delle immagini originali delle Lunar Orbiter, insomma, era infinitamente superiore alle versioni sgranate pubblicate negli anni Sessanta e Settanta, per esempio su Life Magazine.

La Terra vista dalla Luna dalle missioni Lunar Orbiter, nella versione intenzionalmente degradata pubblicata nel 1971 (sopra) e nella versione restaurata (sotto).


Importanza storica


Oggi tutte le circa 2000 immagini delle sonde Lunar Orbiter ricevute sulla Terra e archiviate sui nastri sono state recuperate, restaurate e pubblicate su Internet presso Moonviews.com e presso la NASA qui (sito attualmente in manutenzione, ma archiviato su Archive.org) e qui. Scaricarle non è facile, a causa delle loro dimensioni enormi, ma sono comunque disponibili a chiunque.

Queste fotografie non hanno soltanto un valore storico come reperti di un’era pionieristica e di una tecnologia sorprendentemente all’avanguardia nonostante risalga a cinquant’anni fa: grazie alla loro ricchezza di dettagli, sono un riferimento fondamentale per valutare la frequenza degli impatti meteorici significativi sulla Luna, che è un dato importantissimo per i progetti di ritorno alla Luna con equipaggi e di insediamenti permanenti. Confrontando le immagini di cinque decenni fa con quelle delle sonde attuali, come la Lunar Reconnaissance Orbiter, è infatti possibile rilevare e quantificare i crateri formatisi nell’ultimo mezzo secolo.

Questi dati di riferimento insostituibili sono sopravvissuti soltanto grazie alla scelta morale di un’archivista tenace, Nancy Evans, e alla determinazione dei veterani. Chissà quante altre pagine storiche dell’esplorazione spaziale giacciono impolverate, in attesa di essere recuperate: purtroppo il tempo stringe, perché i supporti si deteriorano, gli apparati di lettura diventano sempre più rari e la memoria vivente di coloro che sanno come farli funzionare se ne sta andando inesorabilmente.

Microfilm delle missioni Lunar Orbiter, dalla mia collezione personale, donatemi dalla Specola Solare di Locarno, Svizzera.

Dettaglio della porzione iniziale di una delle bobine di microfilm delle missioni Lunar Orbiter. Dalla mia collezione personale.


Fonti: BoingBoing, Moonviews, Nasa.gov (archivio foto RAW), World of Indie, Technology Review (con foto del sito di Apollo 14), Business Insider, PetaPixel, Wikipedia, LPI, Nasa.gov, Moonviews (Earthrise su Life Magazine), Moonviews (Apollo 12), Nasa.gov, Time, The Living Moon.


Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta sulla rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA, è stato aggiornato e ampliato rispetto alla pubblicazione iniziale e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

Oggi sarò a Genova per parlare di fake news. Palazzo Ducale, ore 18

Sono stato invitato al Festival dell’Università a Genova per parlare di fake news e scienza. Sarò a Palazzo Ducale, nella Sala del Maggior Consiglio, stasera alle 18. Il programma della manifestazione è qui.

Antibufala mini: la Tesla della polizia “rimasta a secco” durante un inseguimento

Tantissimi giornali in tutto il mondo hanno pubblicato la “notizia” dell’auto elettrica (una Tesla) usata dalla polizia di Fremont che si sarebbe trovata con la batteria scarica durante un inseguimento ad alta velocità. Il Sole 24 Ore ha definito la vicenda “Una nuova brutta figura per Tesla” (copia su Archive.is).

Ma il dipartimento di polizia di Fremont ha spiegato che in realtà l’inseguimento è stato sospeso da parte di tutte e tre le unità coinvolte (non solo dalla Tesla) perché stava diventando un pericolo per la sicurezza pubblica. L’auto elettrica è poi andata a una vicina stazione di ricarica per caricarsi, visto che stava esaurendo la carica ma non era affatto rimasta a secco. Tutto qui.

“In nessun momento la batteria della Tesla è stata un fattore nella nostra capacità di inseguire il sospettato o di svolgere i nostri doveri. Questa situazione, benché imbarazzante, non è diversa dai casi in cui un’auto di pattuglia rimane a corto (o a secco) di carburante”, ha dichiarato il dipartimento di polizia, che è molto contento della sua auto elettrica e prevede di acquistarne un’altra. L’autonomia di 350 km per carica è più che sufficiente per un turno di undici ore di pattuglia, durante il quale mediamente vengono percorsi da 110 a 150 chilometri.

In sintesi:
  • è falso che l’auto abbia esaurito la batteria;
  • non è vero che questo ha consentito al sospettato di scappare;
  • l’inseguimento non è stato sospeso per colpa dell’auto elettrica.

Scrivere che una situazione del genere è “una nuova brutta figura per Tesla” è non solo sbagliato: è stupido e tendenzioso (notate il nuova, che insinua senza prove che si tratti di una situazione ricorrente). Se mi dimentico di far benzina, la brutta figura da cretino la faccio io, non la casa automobilistica.

Avete mai visto un giornale scrivere che una volante della polizia è rimasta a secco e che quindi questa sarebbe “una nuova brutta figura per Alfa Romeo”? Appunto.


Vedremo delle correzioni da parte dei giornali? Ne dubito. Dare addosso alle auto elettriche sembra essere diventato un passatempo molto popolare fra i giornalisti più interessati a ottenere clic che a fornire ai lettori i fatti per i quali, in teoria, sono pagati.


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Antibufala Classic: navette spaziali e sederi di cavallo


Indagine iniziale: 2002/10/22. Ultimo aggiornamento: 2019/09/28.

English abstract

An anecdote claims that the size of the Shuttle engines is based on the width of a horse's posterior. The anecdote says that the Shuttle's Solid Rocket Boosters (SRB) are carried by train from the factory in Utah, and therefore must fit within the dimensions of the tunnels along the line, which are slightly wider than a railcar, and the width of a railcar is determined by the gauge of the tracks, which is based on the gauge of horse carriages, which was determined by the grooves that were built into the roads, which had been built using Roman roads as reference. The Romans built their roads so that they would accommodate a carriage drawn by two horses side by side. Therefore, ultimately, the Shuttle's rocket boosters are sized to match the width of the backside of two horses.

Nice story; pity it's untrue. The gauges referenced in the story are incorrect and any match between horses and Shuttles is very approximate and purely coincidental. The story is debunked thoroughly by Snopes.com.


Ha ripreso a circolare sui social network una storiella divertente, che quasi mi dispiace dover smentire ripubblicandola qui (quasi vent’anni fa ne avevo scritto qui su Attivissimo.net; ho migrato qui l’articolo). Ma bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare (e al cavallo quel che gli spetta), e mi tocca farlo perché mi avete scritto in tanti chiedendo di verificarla. Non c'è alcun nesso vero tra le dimensioni del posteriore di un quadrupede e quelle dei motori della navetta spaziale, come invece sostiene l'aneddoto che circola in Rete:

Quando si vede uno Space Shuttle sulla rampa di lancio, si notano i due booster attaccati al serbatoio principale; questi due propulsori sono due razzi a combustibile solido o SRB. Gli SRB sono stati costruiti dalla Thiokol nei propri stabilimenti situati in Utah. Gli ingegneri che li hanno progettati avrebbero voluto farli un po' più grossi, ma gli SRB dovevano essere trasportati in treno dalla fabbrica alla rampa di lancio. Visto che la linea ferroviaria che collega lo Utah alla base di lancio attraversa nel suo percorso alcune gallerie, i razzi dovevano essere costruiti in modo da passarci dentro. I tunnel ferroviari sono poco più larghi di una carrozza ferroviaria, la cui larghezza è a sua volta dettata dallo scartamento dei binari (distanza tra le due rotaie). Lo scartamento standard degli Stati Uniti è di 4 piedi e 8,5 pollici. (E' la stessa misura europea solo che noi la esprimiamo in millimetri). A prima vista questa misura sembra alquanto strana.

Perché è stata scelta? Perché questa era la misura utilizzata in Inghilterra, e perché le ferrovie americane sono state costruite da progettisti inglesi.

Ma perché gli Inglesi le costruivano in questo modo? Perché le prime ferrovie furono costruite dalle stesse persone che, prima dell'avvento delle strade ferrate, costruivano le linee tranviarie usando lo stesso scartamento.

Ma perché i costruttori inglesi usavano questo scartamento? Perché quelli che costruivano le carrozze dei tram utilizzavano gli stessi componenti e gli stessi strumenti che venivano usati dai costruttori di carrozze stradali, e quindi gli assi avevano la stessa larghezza e lo stesso scartamento.

Bene! Ma allora perché le carrozze utilizzavano questa curiosa misura per la larghezza dell'asse? Perché, se avessero usato un'altra distanza, le ruote delle carrozze si sarebbero spezzate percorrendo alcune vecchie e consunte strade inglesi, in quanto questa era la misura dei solchi scavati dalle ruote sul fondo stradale.

Ma chi aveva provocato questi solchi sulle vecchie strade dell'Inghilterra? Le prime strade di collegamento costruite in Europa (e Inghilterra) furono quelle costruite dall'Impero Romano per le proprie legioni. Prima di allora non vi erano strade che percorrevano lunghe distanze.

E i solchi sulle strade? I carri da guerra romani produssero i primi solchi sulle strade, solchi a cui poi tutti gli altri veicoli dovettero adeguarsi per evitare di rompere le ruote. Essendo i carri da guerra costruiti tutti per conto dell'esercito dell'Impero Romano, essi avevano tutti la stessa distanza tra le ruote.

In conclusione, lo scartamento standard di 4 piedi e 8,5 pollici deriva dalle specifiche originarie dei carri da guerra dell'Impero Romano ed è la misura necessaria a contenere i sederi di due cavalli da guerra.

MORALE

1. la prossima volta che ti capitano in mano delle specifiche tecniche e ti stupisci per il fatto che le misure sembrano stabilite con il culo, magari stai facendo proprio la giusta congettura;

2. la misura standard utilizzata nel più avanzato mezzo di trasporto mai progettato in questo secolo (i booster dello Shuttle) è stata determinata oltre due millenni or sono prendendo a modello due culi di cavallo!!!


Le prime segnalazioni di questo caso sono giunte al Servizio Antibufala a ottobre 2002. La versione inglese di questa storiella è smontata dal noto sito antibufala Snopes.com in questa pagina. In sintesi, le dimensioni dei sederi dei cavalli e quelle dei motori dello Space Shuttle sono legate solo da alcune necessità fisiche e da coincidenze fortuite, non dal filo logico diretto descritto, che fra l'altro contiene varie inesattezze.

Tanto per cominciare, il sedere del cavallo c'entra poco e niente, anche perché 4 piedi e 8,5 pollici sono 144,6 centimetri, e francamente credo che togliendo lo spessore delle ruote e delle fiancate non resti molto spazio per due cavalli messi uno in fianco all'altro. E' un'impressione da verificare, ma non ho a portata di mano cavalli disposti a farsi centimetrare le terga. Se qualcuno è disposto a compiere l'ardua impresa, me lo faccia sapere.

In secondo luogo, lo scartamento USA è frutto del caso, o per meglio dire dell'esito della Guerra di Secessione. Infatti le ferrovie degli stati del Sud usavano ben tre scartamenti diversi; quelli del Nord uno solo, che venne imposto anche al Sud dai vincitori. Se la guerra fosse andata diversamente, ora gli Stati Uniti avrebbero chissà quale scartamento. Quindi la somiglianza fra strade romane e scartamenti americani è pura coincidenza.

Terzo, non è vero che "I tunnel ferroviari sono poco più larghi di una carrozza ferroviaria". Ai lati delle gallerie (anche quelle più strette, a binario unico) c'è lo spazio per la via di fuga, che varia a seconda degli standard e della curvatura della galleria e della lunghezza della carrozza (che essendo rigida, fra l'altro, sporge maggiormente dai binari lungo le curve, e le gallerie ne devono tenere conto). Inoltre a parità di scartamento le carrozze possono avere larghezze diverse: basta Googlare un po', per esempio, per trovare che in Europa si usano varie sagome, denominate UIC.

In altre parole, la larghezza di un tunnel è legata solo approssimativamente allo scartamento dei binari, che a sua volta è solo vagamente simile alla larghezza dei carri romani.

Questo non toglie che la storiella è carina e illustra un principio universale: che ogni tecnologia eredita qualcosa dalle precedenti e dopo un po' si perde traccia del motivo per cui si usano certe misure o certi standard ma si va avanti a usarli lo stesso. E soprattutto che la burocrazia è eterna e cieca.


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Puntata del Disinformatico RSI del 2019/09/27

È disponibile la puntata di ieri del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, condotta da me insieme a Tiki.

Podcast solo audio: link diretto alla puntata.

Argomenti trattati: link diretto.

Podcast audio precedenti: archivio sul sito RSI, archivio su iTunes e archivio su TuneIn, archivio su Spotify.

App RSI (iOS/Android): qui.

Video: lo trovate qui sotto. Se l’embedding non funziona, provate questo link.

Archivio dei video precedenti: La radio da guardare sul sito della RSI.

Buona visione e buon ascolto!


Centro Meteo Italiano: la “tuta spaziale di Louis Armstrong”

A volte non si capisce se il giornalismo verrà ucciso dai giornalisti capra o dai titolisti imbecilli. Forse si accoppieranno tra loro e creeranno un mostro metà capra e metà titolista, la cui orrenda nascita scatenerà l’apocalisse finale. Nel frattempo, contemplate questo spettacolo (copia permanente su Archive.org; copia su Archive.is), offerto da Centro Meteo Italiano, che si dichiara orgoglioso di “contribuire alla audience di Il Messaggero.it”. Fossi in quelli del Messaggero, non so se vorrei questo tipo di “contributo”.

Gìà il titolo, con quel “Tuta spaziale di Louis Armstrong” è da vergogna totale. Santo cielo, bisogna essere supremamente ignoranti per confondere il jazzista (Louis) con il primo uomo sulla Luna (Neil). Però potrebbe essere colpa del titolista, e il povero autore dell'articolo, Alessandro Allegrucci, potrebbe sembrare a prima vista vittima di un sommo Clouseau della titolazione. Ma poi si leggono nel suo testo perle come questa: “Tutti gli appassionati di baseball, uno sport molto popolare negli USA”. Ma non mi dire. Meno male che c’è Allegrucci a informarci, altrimenti chi l’avrebbe mai saputo?

Ma la mazzata finale, quella che frantuma ogni speranza di redenzione, arriva quando ci si accorge che Allegrucci scrive per una sezione intitolata “Astronomia, spazio e astrologia”.

E allora diventa chiaro che qui non è il singolo che sbaglia. È proprio un metodo collettivo.


2019/09/05



Il nome di Armstrong è stato corretto nel titolo (ma non nell’URL) e ho ricevuto una mail di contestazione da parte di una persona che si è qualificata come redattore di Centro Meteo Italiano e ha chiesto la rimozione dei contenuti riferiti a CMI, parlando di lesioni all'onorabilità e minacciando velatamente un’azione legale.

La mia risposta, in sintesi: no. L'erroraccio l'avete fatto voi, non io. Vi siete lesi da soli. Ho concluso chiedendo se non sarebbe stato più elegante ed efficiente scrivere semplicemente "abbiamo sbagliato, ce ne scusiamo con i lettori, staremo più attenti" e ho ricordato l’esistenza dell’Effetto Streisand.



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2019/09/27

Le parole di Internet: supremazia quantistica

L’articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale. Ultimo aggiornamento: 2019/09/27 20:40.

Si parla molto, in questi giorni, di un presunto annuncio da parte di Google di aver raggiunto un traguardo molto importante nell’informatica: la cosiddetta supremazia quantistica.

Si tratta di un annuncio presunto perché il Financial Times dice (paywall) di aver visto su un sito della NASA un articolo tecnico di Google, successivamente ritirato, nel quale i ricercatori dichiarano che Sycamore, uno dei computer quantistici sperimentali di Google, sarebbe riuscito a effettuare un particolare e complicatissimo esperimento di campionamento statistico che il supercomputer più potente del mondo, Summit, impiegherebbe circa diecimila anni a svolgere. Sycamore ci sarebbe riuscito in soli tre minuti e venti secondi.

Ed è questo il significato di “supremazia quantistica”: la capacità, da parte di un computer quantistico, di risolvere problemi che sarebbero in pratica impossibili da affrontare con i computer tradizionali. Secondo l’articolo, si tratterebbe del primo caso di un calcolo effettuabile soltanto su un processore quantistico. Se così fosse, sarebbe una vera e propria rivoluzione informatica. Problemi finora intrattabili, per esempio in campo medico, fisico o crittografico, diventerebbero improvvisamente gestibili.

Il problema è che questo articolo è stato appunto ritirato e rimosso, anche se numerose copie restano in circolazione (per esempio qui), e ci sono opinioni esperte che smentiscono la sua rivendicazione di supremazia, dicendo che Sycamore è progettato per risolvere un singolo problema e quindi non è un computer quantistico generalista.

Staremo a vedere: ma è comunque chiaro che i computer quantistici non sono più un concetto da fantascienza.

Maggiori dettagli sono in questo articolo di Scott Aaronson.

Ransomware da 300.000 franchi, come funziona Ryuk

Ha destato un certo scalpore la notizia di un attacco informatico a una ditta di Manno (Canton Ticino), che è stata bloccata da un ransomware, ossia da un malware che blocca i dati della vittima con una password nota soltanto all’aggressore e chiede un riscatto per sbloccare i dati e consentire di riprendere il lavoro.

Stando alle descrizioni fornite dal co-titolare della ditta, i file erano stati cifrati e rinominati con il suffisso ryuk, ed erano stati chiesti 31 bitcoin di riscatto, ossia circa 300.000 franchi. L’azienda non ha pagato, ma si è dovuta rivolgere a specialisti per recuperare almeno parzialmente i dati e contenere il danno, acquistando nuovi server e reinstallando da zero 25 PC. Alla fine sono andate perse le ordinazioni e le conferme d’ordine di alcuni giorni, ma l’attività è ripresa.

Non sembra trattarsi di un attacco particolarmente mirato: lo stesso genere di malware che usa il suffisso ryuk ha fatto danni un po’ ovunque, toccando oltre 100 organizzazioni governative e imprese nel mondo. A Lake City, in Florida, è stata colpita la pubblica amministrazione, che ha deciso di pagare ben 460.000 dollari di riscatto. Secondo alcune stime, la banda criminale che gestisce Ryuk avrebbe intascato oltre 3,7 milioni di dollari da quando ha iniziato i propri attacchi ad agosto 2018. 

Ma come agisce un malware del genere? Ryuk, spiega Infosec Institute, usa dei trojan come Trickbot o Emotet per impiantarsi nel sistema informatico preso di mira: arriva per esempio via mail, sotto forma di documento Word allegato, in un messaggio che sembra provenire da collaboratori, soci d’affari o conoscenti. Aprendo il documento, la vittima viene invitata ad attivare le macro Office, cosa assolutamente da non fare, perché le macro scaricano e installano il malware vero e proprio, per esempio Emotet, che infetta i computer della vittima sfruttando una falla di sicurezza (di solito una vulnerabilità SMB). A quel punto gli aggressori possono installare il ransomware Ryuk vero e proprio.

Questo ransomware rimane poi dormiente anche a lungo, perlustrando la rete informatica per comprenderne le vulnerabilità. Poi agisce nella maniera standard dei ransomware, cifrando i file della vittima.

Maggiori informazioni sono sul sito di MELANI, la Centrale d’annuncio e d’analisi per la sicurezza dell’informazione della Confederazione Svizzera, di cui riporto i consigli:

• Effettuate regolarmente una copia di sicurezza (backup) dei dati, ad esempio, sul disco rigido esterno. Utilizzate a questo scopo un programma che permetta di effettuare il backup regolarmente (schema nonno-padre-figlio [giornaliero, settimanale, mensile] / minimo due gerarchie). Gli aggressori possono eliminare o cifrare tutti i backup ai quali riescono ad accedere, pertanto è importante che la copia di sicurezza sia salvata offline, ovvero su un supporto esterno (ad esempio su un disco rigido esterno);
• Assicuratevi che i provider che offrono soluzioni cloud generino al meno due gerarchie, analogamente ai salvataggi di dati classici. L'accesso ai backup su cloud deve essere protetto dai ransomware, ad esempio tramite l'utilizzo di un secondo fattore di autenticazione per operazioni sensibili.
• Sia il sistema operativo sia tutte le applicazioni installate sul computer e sul server (ad es. Adobe Reader, Adobe Flash, Java, ecc.) devono essere costantemente aggiornati. Se disponibile, è meglio utilizzare la funzione di aggiornamento automatico;
• Controllate la qualità dei backup e esercitatene l'istallazione in modo che, nel caso di necessità, non venga perso tempo prezioso.
• Proteggete tutte le risorse accessibili da internet (ad es. terminal server, RAS, accessi VPN, ecc.) con l’autenticazione a due fattori (2FA). Mettete un Terminal server dietro un portale VPN.
• Bloccate la ricezione di allegati e-mail pericolosi nel Gateway della vostra mail. Informazioni più dettagliate possono essere trovate alla pagina seguente: https://www.govcert.ch/downloads/blocked-filetypes.txt
• Controllate che i file log della vostra soluzione antivirus non presentino irregolarità.

Come rubare 1300 carte di credito senza usare hardware

Di solito le tecniche di furto dei dati delle carte di credito richiedono l’uso di qualche componente elettronico: uno skimmer per leggere i dati durante l’inserimento nella fessura di un dispositivo di pagamento o un sensore a distanza per catturare i dati di una carta contactless non schermata.

Yusuke Taniguchi, invece, ha usato una tecnica molto differente. Durante il suo lavoro alle casse di un centro commerciale a Koto City, in Giappone, il trentaquattrenne ha semplicemente memorizzato man mano i dati delle carte di oltre 1300 clienti quando gli venivano affidate per la scansione, e poi li ha usati per fare acquisti di merci che poi rivendeva in un negozio di pegni per mantenersi.

Taniguchi ha infatti una memoria particolarmente vivace, che gli permetteva di ricordare il numero della carta, il nome del titolare, la scadenza della carta e il numero di sicurezza presente sul retro nel brevissimo tempo per il quale aveva in mano la carta, per poi trascrivere i dati su un blocco note.

L’uomo è stato acciuffato perché si faceva mandare le merci direttamente presso il proprio indirizzo di casa. La sua memoria prodigiosa, a quanto pare, non era associata a un genio altrettanto vivace.

Come ci si protegge da un commesso con una memoria fotografica del genere? Con la stessa tecnica usata per proteggersi dalle altre frodi: il monitoraggio delle proprie spese, tramite le apposite app o controllando il proprio estratto conto.


Oculus Quest: stanno per arrivare la connessione a PC e il rilevamento delle mani

Il sistema di realtà virtuale Oculus Quest è particolare perché non ha bisogno di sensori esterni o di essere connesso a un computer: è completamente autonomo (a parte una connessione via Wi-Fi e la gestione tramite smartphone) e questo consente una grandissima libertà di movimento.

Si può girare su se stessi senza temere di restare impigliati nei cavi (non ce ne sono) e si può usare un’area di gioco molto ampia (un piano intero di una casa per esempio). Ho un Quest e confermo che è spettacolarmente portatile. Beat Saber senza cavi è una goduria. Vader Immortal giocato in una sala molto ampia è incredibilmente immersivo.

Il suo limite, però, è che non supporta molte app che sono disponibili per altri sistemi, anche della stessa marca, come i Rift. Nessun problema: Oculus ha annunciato Oculus Link, che permette di collegare il Quest a un PC tramite un cavo USB-C e di usare la potenza di calcolo del PC per vedere sul Quest le app disponibili in Oculus Desktop.

In pratica, spiega Engadget, il Quest diventa un visore sul quale vengono mostrate le immagini renderizzate sul PC, con una latenza bassissima. In questo modo Oculus Link fa diventare il Quest l’equivalente di un Oculus Rift (a parte la frequenza di refresh, limitata a 72 Hz ma comunque sufficiente).

Non è l’unica novità annunciata in questi giorni per il Quest: c’è anche il Passthrough, ossia la possibilità di vedere il mondo esterno in 3D attraverso le telecamere incorporate nel visore se si sconfina dall’area di gioco (attualmente la visione è solo 2D). Questa funzione sarà anche attivabile a comando per potersi guardare intorno durante l’uso del Quest.

Inoltre Facebook, proprietaria di Oculus, ha annunciato che le app disponibili per Oculus Go saranno disponibili anche per il Quest.

Ma la chicca più golosa è la possibilità, prevista per il 2020, di fare a meno dei controller da tenere in mano e attivare il hand tracking, ossia il rilevamento delle mani. Interagire con le app usando direttamente i movimenti delle dita delle mani, invece di premere pulsanti su un controller, rende ancora più naturale l’uso della realtà virtuale e consente di evitare il problema frequente del lancio accidentale dei controller.


iOS 13 rivela quante app tracciano la nostra posizione

Uno dei benefici più interessanti di iOS 13 in termini di privacy è che rivela, con un vistoso messaggio sullo schermo, quali app raccolgono dati personali, spesso senza alcun motivo utile a noi. In particolare, questa rivelazione riguarda frequentemente la geolocalizzazione, come qui , qui o in questo tweet:



Si tratta di una delle nuove funzioni del sistema operativo: la “trasparenza della posizione per le app”. Spiega Apple che “Quando un’app usa la tua posizione in background, deve inviarti una notifica, così puoi decidere se modificare i tuoi permessi.”

C’è chi nota che persino l’app del proprio auricolare sembra voler tracciare la localizzazione, e non si capisce quale sia l’utilità per l’utente. Fra l’altro, la notifica sullo schermo è molto vistosa e include anche una mappa dei luoghi nei quali l’app segnalata ha utilizzato la localizzazione.

La notifica consente poi di cambiare le impostazioni di localizzazione delle singole app, scegliendo di consentire la localizzazione soltanto durante l’uso dell’app oppure di consentirla sempre. Nelle Impostazioni, come in passato, è sempre possibile disabilitare permanentemente la localizzazione delle singole app.

2019/09/26

Ci vediamo stasera a Canobbio per parlare di difesa digitale?

Stasera alle 18 sarò all’Aula Magna delle scuole medie di Canobbio, insieme all’avvocato Gianni Cattaneo e con la moderazione di Silvano Petrini (direttore del Centro sistemi informativi del Canton Ticino), su invito del Club Plinio Verda, per la conferenza-dibattito Far West digitale: come difenderci?, che è la quinta serata del ciclo Libertà vs. sicurezza. L’ingresso è libero.


Info: AgendaLugano.ch, Osservatorio Culturale Ticino, InAgenda.ch.

2019/09/25

Tesla, fatti da parte. Anche la mia auto a pistoni (Opel), si aggiornerà. In peggio

Per valori molto piccoli di “sempre”.
La gente mi chiede spesso con preoccupazione se ci si può fidare delle automobili Tesla, visto che sono aggiornabili da remoto.

E se gli hacker ne prendessero il controllo? E se Tesla stessa, essendo (dicono loro), “giovane e piccola”, fallisse e le auto non ricevessero più aggiornamenti per adeguarle alle norme? O se Tesla decidesse di fare dei downgrade?

Considerazioni di per sé ragionevoli, ma basate su un presupposto sbagliato, ossia che le auto “tradizionali” non siano aggiornabili o downgradabili e quindi siano immuni a queste avversità: certo, te le tieni come le hai comprate e non migliorano, ma perlomeno non possono essere menomate a distanza dopo l’acquisto. Non è così.

Vi racconto un caso specifico, di una marca che ha una grande storia alle spalle e che conosco bene: Opel. La conosco bene perché la mia attuale auto a pistoni, una Mokka, è appunto una Opel.

La mia Mokka, come tante altre auto, ha il Wi-Fi a bordo, grazie a una sua SIM. In Svizzera non ha mai funzionato, a causa del mancato accordo con gli operatori telefonici, ma ho comunque pagato l’hardware che avrebbe dovuto fornirmi il servizio. Lo sapevo al momento dell’acquisto e ho sopportato: non era una funzione vitale.

C’è invece un’altra funzione decisamente più importante: quella stessa SIM e l’hardware cellulare e GPS associato consentono all’auto di chiamare i soccorsi automaticamente in caso di incidente. Se i sensori di bordo rilevano un impatto o un cappottamento o l’attivazione degli airbag, o se qualcuno a bordo preme il tasto di soccorso, l’hardware di soccorso trasmette le coordinate geografiche tramite la rete cellulare e consente di parlare con un soccorritore. Ottimo servizio, che può fare la differenza fra la vita e la morte e che per fortuna non ho mai dovuto usare, ma che ho pagato nel prezzo dell’auto. Il servizio è gestito da OnStar.

Oggi mi è arrivata questa comunicazione, che sa un po’ di presa per i fondelli: “OnStar è sempre al tuo fianco”, dice garrula la mail promettendo fedeltà eterna. Ma poi precisa cosa intende OnStar per “sempre”.

Tutti i servizi OnStar e Wi-Fi non saranno più disponibili a partire dal 31 dicembre 2020. Dopo tale data non saranno più disponibili periodi di prova, servizi o abbonamenti a pagamento, incluso l'assistenza in caso di emergenza.



Il servizio cesserà il 31 dicembre dell’anno prossimo. Alla faccia del sempre. Cesserà non solo per me, ma per tutti gli utenti OnStar in tutta Europa, come spiegato nella pagina apposita di OnStar (copia su Archive.org). Non ci sono appelli, ricorsi o alternative. Non è previsto un fornitore di servizio che subentri a OnStar. L’hardware di soccorso diventerà ferraglia inutile, e non ci posso fare nulla. Non mi verranno ridati i soldi che ho pagato per questo optional.

La mia auto “normale”, di una marca “normale”, verrà semplicemente downgradata automaticamente. E senza neanche essere connessa a Internet.

Sul sito di OnStar viene spiegato che è colpa dell’acquisizione di Opel da parte di PSA:

Ad agosto 2017, Groupe PSA ha acquisito i marchi automobilistici Opel e Vauxhall da General Motors. OnStar Europe Limited non faceva parte dell’acquisizione e continua ad essere una sussidiaria di General Motors.
Pertanto, a seguito di questo cambio di proprietà, i servizi OnStar e i servizi Wi-Fi abilitati dalla connessione OnStar (se disponibili nel tuo Paese) cesseranno di essere disponibili per le automobili Opel/ Vauxhall/Cadillac/Chevrolet il 31 dicembre 2020.

PSA a quanto pare non è interessata a mantenere il servizio di soccorso (che peraltro è pagato dal singolo automobilista tramite un canone mensile) o attivarne uno alternativo per i propri clienti esistenti. Per quelli nuovi c’è OpelConnect, ma non si parla di fornire questo nuovo servizio a chi, come me, ha già una Opel.

Grazie, PSA. Me lo ricorderò.

La gente si angoscia per gli hackeraggi e i downgrade ipotetici, e intanto succedono concretamente cose come questa. Tenetelo presente.


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Dopo i cerchi nel grano, i cerchi nel... prato?


Questa è la nuova opera di Francesco Grassi, creata per il film Farmageddon che uscirà domani nei cinema italiani. Francesco è il creatore di numerosi cerchi nel grano, compreso uno al quale ho partecipato di persona insieme alla Dama del Maniero nel 2014.

Le sue tecniche, le origini del fenomeno e la cultura che è nata intorno ai crop circle sono raccontate da Francesco nel suo libro Cerchi nel grano - Tracce di intelligenza.




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Antibufala mini: i bitcoin consumano tanta energia quanto la Svizzera! Sì, però...

È vero, come si dice in giro, che la criptovaluta bitcoin consuma tanta elettricità quanto l’intera Svizzera? Sì.

La dichiarazione arriva dallo studio Cambridge Bitcoin Electricity Consumption Index, realizzato dal centro di ricerca Centre for Alternative Finance dell’Università di Cambridge, nel Regno Unito, ed è una stima basata su una serie molto complessa di assunti. Indica che i computer che gestiscono i bitcoin in tutto il mondo attualmente consumano circa 77 terawattora ogni anno.

Nel 2018 la Svizzera ha consumato circa 57 terawattora, per cui è corretto dire che i bitcoin consumano tanta energia elettrica quanto l’intera Svizzera: anzi, si stima che ne consumino di più.

Per capire se è tanto o è poco e se è dannoso e dobbiamo preoccuparcene è necessario fare qualche confronto. Per esempio, i dispositivi elettrici lasciati sempre accesi ma inattivi nelle abitazioni soltanto negli Stati Uniti consumano quasi tre volte di più dei bitcoin a livello mondiale.

Inoltre i bitcoin rappresentano lo 0,36% del consumo totale mondiale di energia elettrica. Se vogliamo ridurre i consumi e quindi inquinare meno, abolire i bitcoin non farà molta differenza. Ci sono molti altri settori nei quali si possono ottenere risultati ben più significativi.

È invece interessante notare che i bitcoin sono molto meno efficienti, come consumo di energia, rispetto agli altri sistemi di pagamento elettronico tradizionali, come le carte di credito. Una singola transazione con bitcoin consuma quanto quattrocentomila transazioni con carta di credito.


Fonti aggiuntive: Naked Security; CCN; NewsBTC; Forbes; The Verge; BBC.


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2019/09/23

Un astronauta Apollo sarà in Italia a ottobre: Al Worden

Se volete incontrare il primo uomo nella storia a fare una “passeggiata spaziale” nello spazio profondo, a oltre 300.000 chilometri dalla Terra, dopo aver circumnavigato la Luna, è la vostra occasione.

Il colonnello Al Worden, pilota del Modulo di Comando della missione Apollo 15 nel luglio del 1971, sarà in Italia a ottobre.

La prima data annunciata è domenica 6 ottobre: Worden sarà ad Ala di Stura (TO), al Grand Hotel Ala di Stura, per un pranzo di gala.

La prenotazione è obbligatoria e chi prima arriva meglio alloggia (chi si prenota entro il 24/9 paga 80 euro, dopo il prezzo salirà a 130): tutti i dettagli sono nella pagina apposita del sito dell’associazione Asimof che organizza l’evento. Io ci sarò, sia come appassionato delle missioni Apollo sia come traduttore per l’ospite.

Se siete fra i tanti che dicono che vorrebbero tanto incontrare un astronauta lunare, ma non possono permettersi un viaggio in America per farlo, beh, stavolta è l’astronauta a venire a casa vostra. Non avete più scuse. Siateci. Sono occasioni che, una volta passate senza coglierle, si rimpiangono per sempre.



Pubblicherò qui le altre date delle apparizioni di Worden in Italia man mano che verranno confermate.

Ci sarà anche una roccia lunare riportata sulla Terra dalla sua missione.


2019/09/24. Gli appuntamenti finora confermati sono i seguenti:

  • 2 ottobre, ore 21, Tradate, cinema teatro Grassi: incontro con le scuole e i soci Asimof e GAT. Ingresso gratuito senza prenotazione.
  • 3 ottobre, ore 14: inaugurazione alla stampa della mostra “La Luna e poi?” presso la Fabbrica del Vapore (Milano).
  • 4 ottobre, ore 18: evento privato alla Fabbrica del Vapore (Milano).
  • 5 ottobre, ore 10: Fabbrica del Vapore (Milano), inaugurazione della mostra “La Luna e poi?”. Sarà presente anche una rarissima roccia lunare delle missioni Apollo.
  • 5 ottobre, ore 21: Induno Olona (VA), Sala Multimediale del Comune. Conferenza aperta al pubblico (su prenotazione) presso A.S.Far.M. Azienda Speciale Servizi Sociosanitari, via Carlo Maciachini, 9.
  • 6 ottobre, ore 12: Pranzo ASIMOF aperto al pubblico ad Ala di Stura (TO).


2019/09/22

"Whatsapp Gold/Martinelli", falso allarme da cestinare

“Persino io so che è una bufala”.
Mi sono arrivate parecchie segnalazioni di un allarme che circola su WhatsApp:

Oggi la radio parlava di WhatsApp Gold ed è vero. C’è un video che verrà rilasciato domani su WhatsApp e si chiama Martinelli. Non aprirlo. Si Inserisce nel tuo telefono e nulla che fai lo risolverà. Spargi il messaggio se conosci qualcuno. Se ricevi un messaggio per aggiornare Whatsapp Gold * Non aprirlo! Hanno appena annunciato che il virus è serio. Mandalo a tutti!

È una bufala, anzi l’ennesimo caso di bufalovirus: cestinate pure il messaggio e dite a chi ve l’ha mandato di piantarla di credere a qualunque allarme che gli arriva.

Come spiega bene Bufale un tanto al chilo, già nel 2016 circolava un allarme a proposito di un’app truffaldina reale, chiamata WhatsApp Gold, che non è prodotta da WhatsApp. Non installate app di provenienza non ufficiale. Se lo fate, state cercando guai. Invece la storia di “Martinelli”, spiegava Bufale.net l’anno scorso, è un falso allarme che gira almeno da un paio d’anni. Non è dal nome di un file che si capisce se è pericoloso o no, e se la vostra difesa informatica si basa sui nomi dei file, siete messi davvero male.


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2019/09/21

N-1: i piani sovietici segreti per andare sulla Luna

Si parla tanto della “corsa alla Luna” degli anni Sessanta fra Stati Uniti e Unione Sovietica, ma una corsa presuppone corridori da entrambe le parti. Dove sono quelli russi, e soprattutto con che veicoli sarebbero arrivati sulla Luna? Dov’è l’equivalente sovietico del Saturn V, il gigantesco vettore americano capace di portare sulla Luna un equipaggio, di cui sappiamo tutto da sempre?

La risposta, paradossalmente, si trova in qualche ovile del Kazakistan, le cui tettoie e pareti, se esaminate con occhio attento, sono grandi grid fin (alette stabilizzatrici) e pezzi di giganteschi serbatoi in metalli altamente sofisticati.

La copertura di questo gazebo è il fondo di un razzo gigante N-1. Credit: Mark Wade.


Provengono dai resti saccheggiati di uno dei progetti più segreti e ambiziosi dell’epopea spaziale sovietica: l’N-1, il colossale razzo che secondo i piani sovietici avrebbe portato un cosmonauta sulla Luna prima dei rivali americani e, in versione nucleare, avrebbe consentito all’Unione Sovietica di dominare la Terra tramite stazioni spaziali militari, costruire basi permanenti sulla Luna ed esplorare con equipaggi i pianeti interni del Sistema Solare. Ma i suoi pezzi finirono per spargersi nelle immense distese del Kazakistan, all’epoca parte dell’Unione Sovietica, e sono ancora lì oggi, arrugginiti testimoni di un fallimento messo a tacere che cambiò comunque il corso della storia dell’astronautica.

Mentre gli Stati Uniti presentavano al pubblico ogni dettaglio dei propri tentativi spaziali civili, la Russia si isolava in un ossessivo silenzio. Le missioni venivano annunciate solo dopo il loro completamento. Le dirette TV dei lanci dal centro spaziale di Baikonur, che oggi sono normalissime, allora erano impensabili. Persino il nome del capo progettista del programma spaziale, Sergei Korolev, era un segreto di stato. Questo consentiva di nascondere i fallimenti, e nel caso dell’N-1 ci fu molto da nascondere. La sua storia è il vero complotto intorno agli sbarchi sulla Luna.


Trenta motori


Non disponendo di motori ultrapotenti come i cinque F-1 del primo stadio del Saturn V statunitense, i progettisti sovietici, guidati da Vasili Mishin (succeduto a Korolev, morto prematuramente nel 1966) ripiegarono sull’uso di ben trenta motori per il primo stadio dell’N-1: un incubo da coordinare, specialmente con i sistemi di controllo degli anni Sessanta. Solo il Falcon Heavy di SpaceX, nel 2018, si avvicinerà a un numero così elevato di propulsori, accendendone ben 27 al decollo. Questa scelta progettuale, combinata con la decisione di non effettuare collaudi statici a terra per ridurre i costi e accelerare i tempi, fu il tallone d’Achille del progetto N-1.

Confronto dimensionale fra Saturn V-Apollo (a sinistra) e vettore N1-L3 (a destra). La persona in basso è in scala. Credit: Ebs08, Wikimedia.


Un N-1 in allestimento. Alla base si notano, oltre alle persone, le grid fin simili a quelle usate oggi da SpaceX.


Il primo lancio di prova, senza equipaggio, avvenne il 21 febbraio 1969, dopo dieci anni di sviluppo azzoppato da rivalità fra progettisti e tagli ai finanziamenti, imposti dai militari: l’N-1, pesante circa 2760 tonnellate, alto 105 metri e largo 17 alla base, si staccò dalla rampa di lancio, ma i sistemi automatici di controllo rilevarono quasi subito l’incendio di un motore e diedero erroneamente il comando di spegnere tutti e trenta i motori 68.7 secondi dopo il decollo. I controllori del volo furono quindi costretti ad azionare il sistema di autodistruzione 1,3 secondi più tardi. Il grande vettore raggiunse la quota di circa 30.000 metri e poi i suoi frammenti ricaddero al suolo a una quarantina di chilometri di distanza dal punto di lancio.

I servizi di spionaggio britannici rilevarono il tentativo di lancio, mentre quelli statunitensi, i cui satelliti avevano avvistato l’N-1 in allestimento sulla rampa, non se ne accorsero e anzi per anni negarono che il lancio fosse avvenuto.

Un vettore N-1 sulla rampa di lancio, fotografato da un satellite spia statunitense KH-8 il 19 settembre 1968. Credit: USAF.


L’N-1 fu modificato estesamente per evitare il malfunzionamento che aveva portato al disastro, ma fu chiaro sin da subito che le speranze sovietiche di arrivare sulla Luna prima degli americani erano minime: solo un fallimento analogo di una delle rapide tappe del programma Apollo, che a dicembre 1968 aveva già portato un equipaggio intorno alla Luna (Apollo 8) e si apprestava a collaudare il modulo lunare in orbita terrestre (Apollo 9, 3-13 marzo 1969), avrebbe rimesso in gioco il programma spaziale russo.

In una classica manovra di disinformazione, a maggio del 1969 il fisico russo Mstislav Keldysh approfittò di una conferenza stampa dedicata all’atterraggio su Venere della sonda Venera 5 per annunciare la nuova versione ufficiale sovietica, ossia che la Russia aveva scelto di usare soltanto veicoli robotici per l’esplorazione della Luna perché preferiva non rischiare vite umane in quest’impresa. Ma in realtà il lavoro per portare un cosmonauta intorno alla Luna (con una capsula Soyuz lanciata da un vettore Proton-K) e poi sul suolo selenico (con l’N-1) proseguiva alacremente.

Il 3 luglio 1969 fu effettuato un nuovo tentativo di lancio di un N-1 aggiornato, sempre senza cosmonauti a bordo, che si sollevò dalla rampa regolarmente. Ma un quarto di secondo più tardi esplose una pompa in uno dei trenta motori, innescando un incendio. In rapida successione, i motori restanti si spensero automaticamente e il razzo, stracarico di propellente, iniziò a ricadere, inclinato a 45 gradi, ed esplose all’impatto con la rampa di lancio, distruggendola completamente nella più grande esplosione della storia dell’astronautica e ponendo fine a ogni residua speranza sovietica di primato lunare.

La rampa di lancio distrutta.


Questa volta i satelliti spia americani fotografarono la devastazione causata dall’esplosione. Ma l’opinione pubblica mondiale rimase all’oscuro di tutto: il governo statunitense non rivelò le proprie scoperte, sia per non far sapere all’avversario sovietico quanto fossero dettagliate le immagini dei suoi satelliti spia, sia per mantenere una motivazione politica per la corsa alla Luna (che con il ritiro del rivale sarebbe venuta a mancare).

Il Cremlino, da parte sua, mantenne segreto tutto quello che riguardava l’N-1. Il progetto continuò in segreto anche dopo il primo allunaggio di un equipaggio americano, che avvenne a luglio del 1969 con Neil Armstrong e Buzz Aldrin: vi furono altri due lanci del vettore sovietico, ancora una volta senza equipaggio ed entrambi fallimentari.

Il 26 giugno 1971 un rollio incontrollabile portò alla distruzione del vettore dopo circa 50 secondi di volo; il 23 novembre 1972, il razzo funzionò regolarmente fino a 40 chilometri di quota, ma quando mancavano sette secondi allo spegnimento del primo stadio iniziò a subire delle sollecitazioni che portarono alla rottura di alcune linee di alimentazione del propellente e all’esplosione di un motore, che sfociò nella disintegrazione del vettore gigante.

Il modulo lunare russo, il Lunniy Korabl, volò segretamente nello spazio, in orbita intorno alla Terra, quattro volte fra novembre del 1970 e agosto del 1971, con i nomi di copertura Kosmos 379, Kosmos 382, Kosmos 398 e Kosmos 434, lanciato da un vettore Soyuz, e fu considerato pronto per l’uso. L’N-1 fu dotato di motori NK-33 più potenti ed efficienti. I cosmonauti russi continuarono ad addestrarsi per le missioni lunari fino a ottobre del 1973 e il candidato più probabile per l’onore di diventare il primo russo sulla Luna fu il veterano Alexei Leonov, anche se il gruppo di cosmonauti selezionati per la Luna includeva anche Bykovsky, Voronov, Khrunov, Yeliseyev, Makarov, Rukavishnikov e Patsayev. Ma alla fine il programma N-1 fu chiuso formalmente il 2 maggio 1974, senza mai essere stato reso pubblico, e i due vettori già costruiti e non ancora lanciati, insieme a quattro altri esemplari incompleti, furono demoliti.


Rivelazioni


I servizi segreti e i livelli più alti del governo statunitense erano al corrente del progetto N-1 e dei suoi fallimenti, ma decisero di non renderli pubblici. Alcune indiscrezioni trapelarono sui giornali occidentali nel 1969, quando un esperto scientifico britannico, Peter Fairley, diede la notizia di un’esplosione di un vettore gigante sovietico sulla rampa di lancio, notando che un satellite spia americano aveva fotografato i segni della distruzione che ne era conseguita, ma la storia fu considerata come una delle tante dicerie non confermate che circondavano il programma spaziale sovietico e la vita in Unione Sovietica in generale.

Un articolo del quotidiano Il Giorno del 21 novembre 1969 parla di vettori giganti sovietici esplosi. Credit: Gianluca Atti, sua collezione personale.


La rivelazione formale del progetto lunare russo arrivò solo nel 1989, quando i censori sovietici diedero per la prima volta il permesso di parlare pubblicamente del progetto N-1 in una serie di articoli su Izvestiya, Pravda e altre testate.

Oggi l’impresa lunare sovietica è estesamente raccontata da numerosi documentari e da libri riccamente documentati e illustrati, come Pourquoi nous ne sommes pas allés sur la lune, di Vasily Mishin, il quarto volume della monumentale monografia di Boris Chertok Rockets and People e N-1: For the Moon and Mars di Matthew Johnson e Nick Stevens. Dagli archivi, inoltre, sono emersi filmati e fotografie un tempo top secret.

Oltre ai resti degli N-1 disseminati per il Kazakistan e ridotti a un’ingloriosa fine come parti di ovili, di questo coraggioso tentativo di raggiungere la Luna restano ben conservati alcuni esemplari dei moduli lunari sovietici, visitabili nei musei russi e occasionalmente presentati in mostre itineranti in tutto il mondo.

Un modulo di allunaggio sovietico al Science Museum di Londra (2016). Credit: Andrew Gray/Wikipedia


E c’è un’altra, sorprendente reliquia dell’N-1 che ne testimonia la sorprendente modernità.


L’eredità dell’N-1


Il governo sovietico diede l’ordine di distruggere tutti i materiali del progetto N-1, ma dopo il crollo dell’URSS si venne a sapere che una partita di sessanta motori NK-33, che avrebbero dovuto equipaggiare i futuri esemplari dell’N-1, era stata conservata di nascosto.

Questi motori, esaminati dagli esperti statunitensi, risultarono essere straordinari nelle loro soluzioni tecniche (ciclo chiuso) e nelle prestazioni (il più alto rapporto spinta/peso in assoluto per la loro epoca), tanto che furono utilizzati nel 2013, 40 anni dopo la fabbricazione, nei vettori statunitensi Antares della Orbital Sciences, destinati al rifornimento della Stazione Spaziale Internazionale, e poi sviluppati in versioni ancora più efficienti.

E così, alla fine, una parte del sogno infranto russo di arrivare sulla Luna riuscì a contribuire alla storia dell’esplorazione spaziale.


Fonti: Astronautix (1, 2, 3); CIA.gov; Wikipedia.


Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta nel numero 1/2018 della rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

Ci vediamo stasera a Bernareggio (MB) per i Diari della Luna?

Questa sera (21/9) alle 21 sarò a Bernareggio (MB), presso l’Auditorium Europa, insieme agli amici musicisti Luca e Stefano per parlare di Luna in un loro spettacolo recitato e musicato, intitolato Diari della Luna: un esperimento insolito che mi ha incuriosito molto e al quale partecipo per la prima volta.

No, non sarò né musicista né cantante né men che meno ballerino: non preoccupatevi. Sarò la voce narrante di alcune delle immagini più suggestive della Luna e della sua esplorazione da parte degli astronauti. E naturalmente a fine spettacolo sarò a disposizione per fare due chiacchiere e bere insieme una buona birra.

Lo spettacolo fa parte della serata inaugurale dell'Università del Tempo Libero del Comune di Bernareggio. L’ingresso è libero.
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