Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2017/08/29 22:00.
Molti lettori mi hanno scritto perplessi all'idea che il missile nordcoreano lanciato sopra il Giappone poche ore fa possa aver raggiunto i 550 km di quota, secondo quanto riportato da molte fonti giornalistiche italiane. C'è anche chi ha sospettato un errore di conversione o un semplice refuso.
In realtà il dato di 550 km è pubblicato anche dai media di altri paesi, compresa per esempio la BBC, che lo cita descrivendolo come un dato derivato da un'analisi iniziale e nota che questa quota sarebbe inferiore a quella raggiunta da altri lanci nordcoreani ("lower than most previous North Korean tests"). Il lancio nordcoreano del 14 maggio ha raggiunto la quota di 2000 km, secondo dati riportati dalla ABC.
Queste quote sono superiori a quelle della Stazione Spaziale Internazionale (che orbita a circa 400 km), per cui ad alcuni lettori è venuto un altro dubbio: la Corea del Nord potrebbe abbattere la Stazione? Lasciando da parte la follia planetaria di un gesto del genere, bisogna considerare che raggiungere una quota da qualche parte, in un punto a caso, è un conto; raggiungere quella quota in un punto preciso e anche in un istante preciso è tutt'altra cosa. La Stazione si sposta a circa 7,7 km al secondo: senza un sistema di puntamento e di guida eccezionalmente preciso, colpirla con un razzo lanciato da terra è praticamente impossibile. Tutti siamo capaci di lanciare lontano un sasso più o meno in una certa direzione; lanciarlo lontano e centrare esattamente un altro sasso in volo è un tantinello più difficile. I missili antisatellite esistono da tempo (per esempio l'ASM-135 o l’Aegis statunitense o i sistemi analoghi cinesi e russi, per esempio, riassunti qui su GlobalSecurity), ma la sofisticatissima tecnologia di tracciamento, guida e navigazione necessaria per queste intercettazioni non sembra essere alla portata della Corea del Nord.
In teoria il missile potrebbe trasportare una testata esplosiva convenzionale o nucleare e detonare lungo il percorso della Stazione, ma le onde d'urto si propagano poco nel vuoto: sarebbe quindi necessaria un'estrema precisione nel tempo e nello spazio. In alternativa, il missile potrebbe usare una testata a frammentazione, generando una nube di detriti che potrebbero danneggiare seriamente la Stazione se la colpissero, ma lo spazio è grande e le probabilità d'impatto resterebbero modeste e temporanee (un solo passaggio della ISS) perché i detriti non resterebbero in orbita ma ricadrebbero non avendo velocità orbitale. Come nota pgc nei commenti, la nube radioattiva e/o l’impulso elettromagnetico di un’esplosione nucleare nelle vicinanze della ISS potrebbero effettivamente causare problemi significativi.
Per contro, un gesto del genere (un attacco a un avamposto russo, americano ed europeo, fatto oltretutto con un’arma nucleare) probabilmente comporterebbe la rapida morte politica, per non dire militare, del regime della Corea del Nord, per cui non credo che Paolo Nespoli e gli altri astronauti e cosmonauti della Stazione Spaziale Internazionale stiano perdendo il sonno temendo di essere bersagli di questi onanismi politici nordcoreani.
Fra l’altro, Ars Technica ha un’analisi interessante delle ragioni per le quali i sistemi antimissile statunitensi situati nelle vicinanze del Giappone non sono intervenuti.
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2017/09/10 23:40.
Avrete sicuramente sentito o letto storie di blogger e giornalisti che si sono visti querelare per qualche commento pubblicato nei loro blog o siti. Ma avete mai sentito di qualcuno diffidato per non aver pubblicato un commento? Beh, ora sì: il qualcuno sono io.
Racconto questa storia perché credo che sia di manifesto interesse pubblico, essendo questo blog piuttosto seguito, sapere cosa c’è dietro un lavoro come il mio, conoscerne la parte non visibile e capire le motivazioni di scelte che da fuori possono sembrare eccessive, e perché credo che sia importante far sapere che la moderazione dei commenti è un mestiere ben più difficile di quello che molti pensano, con trappole difficili da immaginare. Ora vi racconto cosa mi è successo in questi mesi.
Tutto è iniziato con un articolo che ho pubblicato qualche tempo fa, su un argomento assolutamente non controverso: una questione puramente scientifica. Un commentatore ha inviato dei commenti che sostenevano una tesi di complotto piuttosto originale, ma lo ha fatto in modo civile, per cui ho deciso di pubblicarli, nella speranza (purtroppo vana) che dialogando avrebbe capito l’incoerenza delle sue tesi.
Ne è nato uno scambio pubblico, nel quale il commentatore ha inviato commenti contenenti affermazioni sempre più stravaganti. Io dopo un po’ ho deciso di non rispondergli più ma di approvare comunque i suoi commenti, che sono stati quindi pubblicati, ricevendo le critiche argomentate degli altri lettori.
A un certo punto, però, i commenti di questo commentatore sono diventati veramente gravi e a rischio di querela per diffamazione (non da parte mia, ma di terzi) e hanno iniziato a includere minacce di far chiudere questo blog. Per cui, dopo avergli rivolto ripetuti richiami, ho respinto tutti i suoi ulteriori commenti.
Problema risolto, penserete voi.
Macché: questo commentatore mi ha scritto via mail, chiedendomi un indirizzo PEC o l’indirizzo di residenza al quale inviarmi una raccomandata. Gli ho risposto che poteva benissimo cercarsi da solo il mio indirizzo, visto che non è certo un segreto. Lui ha insistito, e gli ho risposto pacatamente che non avevo alcuna intenzione di partecipare a questa sua crociata vessatoria o di perdervi altro tempo. Ha insistito ancora per paio di giorni, poi più nulla.
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Tutto questo vari mesi fa. Oggi il commentatore mi ha scritto di nuovo, lamentandosi perché un suo nuovo commento non era stato pubblicato. Gli ho spiegato che il commento era stato respinto, perché questo blog è mio, pubblicato sotto la mia responsabilità, per cui sta a me decidere se pubblicare o no un commento. Tutto qui. Nei blog non c’è nessun diritto di vedersi pubblicati: un concetto chiaro ed evidente a ogni frequentatore di Internet, ma a quanto pare non a lui. Siccome avevo già dovuto perdere parecchio tempo su questa vicenda, gli ho chiesto cortesemente e nuovamente di non insistere.
Problema risolto, penserete di nuovo voi.
Macché. Poco fa è mi arrivata la mail certificata (PEC) di diffida di un avvocato. Una diffida partita, noterete, perché non ho pubblicato un commento, visto che per tutti questi mesi il commentatore non ha fatto nulla e proprio oggi, solo dopo che gli ho respinto il commento, è invece stata inviata la diffida.
Questa mail dell’avvocato mi diffida “dall’assumere... inequivocabili condotte di natura diffamatoria” nei confronti del commentatore, chiede la rimozione di alcuni commenti (senza però specificare quali) entro tre giorni, e lamenta una mia “aprioristica inibizione del contraddittorio”. Come se io fossi obbligato legalmente a discutere con il suo cliente.
Il suo cliente, dice inoltre l’avvocato, sarebbe “disposto a soprassedere” se gli venisse “concessa e garantita la possibilità di esprimersi compiutamente”. In altre parole: sta facendo tutto questo solo perché vuole vedere pubblicati qui i suoi commenti. Una proposta di baratto molto rivelatrice.
Seguono le parole di rito su “tutte le più opportune iniziative, sia in sede civile che penale” qualora io non ottemperassi. Nessun riferimento di legge.
Ho composto una risposta precisa e pacata per l’avvocato, visto che sta solo facendo il suo mestiere, e gliel’ho mandata via mail dalla casella sulla quale l‘ho ricevuta, ma ho ottenuto questa simpatica risposta:
Messaggio non recapitato
Impossibile inviare il messaggio a [omissis]pecavvocati.it perché il server remoto non è stato configurato correttamente. Visualizza i dettagli tecnici di seguito per maggiori informazioni.
Risposta:
554 [omissis]: Sender address rejected by smtpproxy: Access denied
Io non ho una PEC, e a quanto pare la casella di mail dell‘avvocato non accetta una mail non PEC. Abitando in Svizzera, non ho alcuna intenzione o necessità di fare acrobazie burocratiche per procurarmi un indirizzo PEC per rispondere a un singolo messaggio.
Per cui pubblico qui la mia risposta come lettera aperta:
Egregio Avvocato,
In risposta alla sua mail di oggi alle 16:59, visto che la sua casella PEC non accetta mail non-PEC ed io non dispongo di una casella di mail PEC, le chiedo pubblicamente e cortesemente di specificare con precisione quale sarebbe il presunto "contenuto ingiurioso" che il suo cliente asserisce di aver rilevato nel mio blog "Il Disinformatico".
I link che lei mi ha fornito nella suddetta mail, infatti, portano genericamente ad articoli e non a singoli commenti.
Se vorrà cortesemente linkarmi o citarmi testualmente i singoli contenuti oggetto di contestazione, li riprenderò in considerazione.
In quanto alla "aprioristica inibizione del contraddittorio... senza alcuna motivazione plausibile", la invito a riferire al suo cliente che, come già spiegatogli, il blog "Il Disinformatico" è soggetto a moderazione; chi invia commenti non ha diritto automatico di pubblicazione e i commenti possono essere respinti senza che al commentatore sia dovuta una motivazione.
Aggiungo che non ho alcun desiderio o interesse, men che meno dovere o obbligo, di intrattenere un contraddittorio personale con il suo assistito, che è naturalmente libero di imbastire ogni e qualsiasi contraddittorio in qualunque altra sede e con qualunque altro interlocutore.
Ritengo inoltre importante sottolineare che le asserzioni fatte pubblicamente dal suo cliente sono non solo prive di qualunque fondamento scientifico, ma anche e soprattutto gravemente lesive dell'onorabilità di tecnici e scienziati di NASA ed ESA, in quanto insinuano una sorta di congiura di tutti questi soggetti per nascondere una presunta verità misteriosa che il suo cliente avrebbe invece scoperto.
Come giornalista, infine, mi corre l'obbligo di sottolineare l'inevitabile "effetto Streisand" che qualunque ulteriore insistenza su questa questione comporterebbe per il suo cliente.
Cordiali saluti
Paolo Attivissimo
Sono un tipo tranquillo. Ma se non mi lasciate in pace, mordo. E non mollo.
2017/08/26 22:20
L’avvocato mi ha inviato una nuova PEC, alla quale ancora una volta non posso rispondere. Ora chiede l’immediata rimozione di questo articolo entro mezzanotte "per le asserzioni di carattere ingiurioso e diffamatorio rivolte al sottoscritto [l’avvocato]" e mi invita a reperire i suoi recapiti di studio.
La mia risposta pubblica:
Egregio Avvocato,
no.
Cordiali saluti
Paolo Attivissimo
2017/08/26 23:10
L’avvocato mi ha inviato poco fa una terza PEC. Dice che sto pubblicando “commenti fortemente ingiuriosi” e ribadisce la richiesta di rimozione di questo articolo. In più offre un indirizzo di mail non-PEC a cui scrivergli.
La mia risposta pubblica:
Egregio Avvocato,
Se ha comunicazioni legali da farmi, le faccia secondo legge. Mi scriva una lettera su sua carta intestata. Il mio indirizzo postale è pubblico, facilmente reperibile e anche verificabile presso le autorità locali.
Nuova PEC. L‘avvocato dice che mi scriverà al mio indirizzo e richiama “le innumerevoli pronunce di merito e di legittimità ben rapportabili al caso di specie tra le quali: Cass. pen. Sez. V, 25-02-2016, n. 12536.”
OK, aspettiamo e vediamo.
2017/08/27 00:02
È passata mezzanotte, ora dell’ultimatum, e come vedete questo articolo è ancora qui. Intanto sono andato a verificare una cosa che forse il cliente non ha ben chiarito al suo avvocato e che potrebbe diventare un epilogo perfetto per questa vicenda. Ma aspetto un po’ a raccontarvela. Buona notte.
2017/08/28 16:50
Nessuna novità da parte dell’avvocato. Il commentatore, invece, ha inviato a questo blog un commento aggressivo e astioso sulla vicenda, che ho respinto. Se è visibilità che cerca, non l’avrà. Se vuole rendersi identificabile, dovrà farlo in altro modo. Ha poi inviato anche una mail (anzi due) grosso modo dello stesso contenuto (non lo so, ho cestinato dopo le prime righe). Non rispondo privatamente a nessuna mail sua o del suo avvocato: visto che hanno deciso che vogliono a tutti i costi una lite legale, dovranno comunicare seguendo le procedure di legge. Chissà se l'avvocato sa che il suo cliente mi sta scrivendo personalmente e se questa interferenza nel suo iter legale gli sta bene. E poi c'è sempre quella questioncella che il cliente forse non ha ancora raccontato al suo avvocato. Ma staremo a vedere.
2017/08/29 19:05
Molti commentatori hanno notato che in tutta la mia narrazione non ho mai citato il nome del commentatore o quello del suo avvocato e non ho mai precisato quale delle tante discussioni con complottisti ospitate da questo blog fosse quella contestata dal commentatore. Nonostante le vessazioni e nonostante il commentatore abbia accusato le persone che lavorano presso NASA ed ESA di essere dei bugiardi e dei cospiratori, ho deciso comunque di tutelare la sua identità e quella del suo avvocato (o presunto tale).
Non solo: il commentatore, in questo blog, si era sempre presentato usando uno pseudonimo: non ha mai usato il proprio nome e cognome. Nessuno dei partecipanti a questo blog conosceva la sua identità o l’ha mai citata pubblicamente. Per cui qualunque ipotetica diffamazione ci fosse stata, sarebbe stata comunque impossibile da collegare al suo vero nome. E come si può diffamare un anonimo?
Ma ora il commentatore si è presentato online con nome e cognome, linkando la discussione originale in questo blog (quella nella quale, dice, sarebbe stato diffamato) e collegando volontariamente il proprio nome e cognome allo pseudonimo usato in quella discussione. Non ha fatto il nome dell’avvocato che mi ha inviato la diffida.
In altre parole:
è stato lui, non io, a rivelare qual è la discussione contestata;
è stato lui, non io, a divulgare il proprio nome e cognome;
è stato lui, non io, ad associare il proprio nome e cognome allo pseudonimo usato nella discussione;
e quindi è stato lui, non io, e consentire a tutti di sapere esattamente che è stato lui a rivolgere, attraverso i commenti del mio blog, accuse di cospirazionismo alla NASA e all’ESA.
Ha fatto tutto da solo. Mi rifiuto comunque, per ora, di pubblicare link ai suoi commenti, di indicare dove si è palesato online, di rivelare il suo pseudonimo o di pubblicare il suo nome, perché questo potrebbe soddisfare la sua smisurata fame di visibilità e di attenzioni e perché credo che a volte sia necessario proteggere le persone dalle conseguenze dei loro atti anche quando non lo vogliono.
A questo punto, comunque, il previsto Effetto Streisand si è realizzato puntualmente: questo mio articolo si avvicina ormai alle cinquantamila visualizzazioni.
Se ci saranno altri sviluppi, vi aggiornerò.
2017/09/04 9:05
Tutto tace. Nessuna comunicazione via mail, nessuna lettera di avvocati nella posta cartacea. Boh. Intanto questo articolo è arrivato a oltre 71.000 visualizzazioni, ossia circa 20.000 in più da quando il commentatore-contestatore ha pubblicato la propria identità. Effetto Streisand decisamente garantito.
2017/09/10 23:40
Ancora nulla. Intanto, per chi mi chiede se ho controllato la validità della PEC usata, per ora posso dire solo che ho usato questo sito, www.inipec.gov.it/cerca-pec, e che risulta valida.
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Ieri Giacomo Talignani, nella sezione Scienze di Repubblica, ha pubblicato un articolo intitolato Svelato il mistero della tavoletta sumera: furono i babilonesi a inventare la trigonometria. Ne trovate una copia archiviata qui su Archive.is. In questo articolo spicca la seguente perla, segnalatami da Alessandro Ronchi:
"Il mistero enorme, finora, era il suo scopo, perché gli antichi scribi hanno svolto il complesso compito di generare e ordinare i numeri sul tablet.
Per gli increduli, lo screenshot, che include il seguito del paragrafo: “La nostra ricerca rivela che Plimpton 322 descrive le forme di triangoli ad angolo retto usando una nuova tipologia di trigonometria basata su rapporti, non angoli e cerchi. È un lavoro matematico affascinante che dimostra un indubbio genio" concludono i ricercatori.”
Ho segnalato pubblicamente a Repubblica questo momento di grande giornalismo, ma non è servito a nulla: il tablet è ancora lì.
Come è possibile che un giornalista pensi che gli antichi scribi avessero i tablet? Bisognerebbe chiederlo a Talignani, ma un indizio è forse questo virgolettato straordinariamente simile presente in un analogo articolo del Guardian e in molte altre fonti online:
“The huge mystery, until now, was its purpose – why the ancient scribes carried out the complex task of generating and sorting the numbers on the tablet. Our research reveals that Plimpton 322 describes the shapes of right-angle triangles using a novel kind of trigonometry based on ratios, not angles and circles. It is a fascinating mathematical work that demonstrates undoubted genius.
Mi dicono che qui scarseggiano gattini, quindi eccone uno.
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Ieri ho avuto l’ardire di esprimere su Twitter un parere sulla propaganda ingannevole che ha portato al voto pro-Brexit (l’ho chiamata“truffa”) ed è successo il finimondo. Se avessi scritto che strappo le ali alle farfalle per decorare le cornici dei miei fotomontaggi hardcore di Madre Teresa stampati su vera pelle di orfanelli albini, probabilmente me la sarei cavata con meno. A quanto pare a tantissimi italiani sta a cuore quello che succede nel Regno Unito.
Prevengo le osservazioni dei nuovi arrivati che non mi conoscono: sono cittadino britannico. Sono nato a York e ci ho vissuto a lungo. Ho diritto a un’opinione, e quest’opinione non deve necessariamente coincidere con la vostra; fatevene una ragione. Tutto qui.
Detto questo, ecco due Deliri del Giorno, anzi tre, al prezzo di uno:
Roberto Bellinazzi (@RobertoErrebi):
Ma come si permette? È una decisione che ha preso democraticamente il popolo inglese. Lei è un predicatore di odio.
Ma come si permette? È una decisione che ha preso democraticamente il popolo inglese. Lei è un predicatore di odio.
Ricordate l’Almanacco dello Spazio, il calendario suddiviso per giorno delle ricorrenze della storia dello spazio che avevo iniziato a gennaio 2016? Beh, è passato un po’ di tempo ed è cresciuto parecchio, grazie anche all’aiuto e al sostegno di molti di voi. Da 280 voci è arrivato a oltre 1300, corredate da quasi 700 illustrazioni, molte delle quali rare.
Se non vi serve sapere altro, potete scaricare la versione più recente (la 1.107) qui su Attivissimo.net. Come promesso, l’Almanacco non è protetto contro la copia; anzi, è liberamente distribuibile e copiabile secondo la licenza Creative Commons inclusa nel testo. Chiedo solo che venga rispettato il mio diritto legale di essere riconosciuto come autore. Per leggerlo potete usare iBooks (per Mac e iCosi) oppure Calibre.
L’Almanacco è cresciuto tanto come numero di voci e ha cambiato struttura (ora c’è un capitolo per ogni giorno dell’anno invece di uno per ogni mese), ma ha subìto una drastica cura dimagrante: da 32 MB, stazza che lo rendeva problematico per alcuni e-reader, è sceso a circa 900 kB. Questo è reso possibile dal fatto che ora le immagini non sono più incorporate nel file EPUB ma sono ospitate sul mio sito, dove posso aggiornarle per tutti molto prontamente; oltretutto mi evita di dover importare a mano 700 foto. So che questo significa che per vedere le immagini il vostro lettore di EPUB deve essere connesso a Internet e che questo potrebbe essere un problema; se la cosa diventa troppo fastidiosa, ditemelo e troveremo una soluzione più adatta a tutti.
Oltre all’Almanacco in formato e-book, ora c’è anche il sito apposito, che ospita le grandi storie dell’esplorazione spaziale man mano che le scrivo e che può essere utile per farvi un’idea dei contenuti dell’Almanacco prima di scaricarlo.
C’è ancora tanto lavoro da fare, e lo aggiungerò man mano, anche per correggere refusi (segnalatemeli, mi raccomando) e per inserire i nuovi eventi dello spazio che avverranno: edizioni aggiornate dell’Almanacco saranno liberamente scaricabili annualmente.
Tutto questo lavoro è possibile grazie anche al contributo di autori come Gianluca Atti (@giaroun), di cui vedete spesso i preziosi ritagli dei giornali italiani d’epoca nell’Almanacco e su Twitter anche nel mio profilo principale (@disinformatico) con l’hashtag #almanaccodellospazio.
Ovviamente scrivere 1300 e passa voci costa tempo e impegno: se l’Almanacco vi piace e volete incoraggiarmi ad ampliarlo, o semplicemente offrirmi l’equivalente di una birra o di una fetta di pizza per farmi sapere che vi è piaciuto, potete fare una donazione specifica (anche piccola, tutto fa brodo) usando PayPal tramite l’apposito pulsante qui sotto: la condividerò con i collaboratori. Il libro è inoltre disponibile per sponsorizzazioni. Grazie!
Chi ha creduto nel progetto sin dall’inizio e ha già contribuito con una donazione per l’Almanacco riceverà gratuitamente e automaticamente a vita le versioni aggiornate man mano che le preparo, senza aspettare un anno.
Se volete ricevere anche voi gli aggiornamenti a vita e subito, man mano che li scrivo, ed essere citati nell’elenco dei donatori presente nel libro, basta che facciate una sola donazione specifica di almeno 10 euro (12 franchi) usando il pulsante qui sopra, mi diate un indirizzo di mail al quale mandarvi gli aggiornamenti e mi diciate come volete essere citati nell’elenco dei donatori (nome e/o cognome, nick o altro). Ad astra!
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Gira sui social network e su WhatsApp l’insinuazione che i venditori ambulanti di Barcellona, i cosiddetti manteros, fossero misteriosamente assenti nel giorno dell’attentato avvenuto nella città il 17 agosto scorso.
L’accusa, gravissima, viene proposta spesso con post come quello qui accanto, che dicono di mostrare “la foto di un giorno qualsiasi sulla Rambla” (una frequentatissima via centrale di Barcellona) e dicono che “Ieri non c’erano i ‘manteros’ [...] erano in sciopero o sapevano qualcosa?”.
Una delle fonti di questa tesi di complotto è la pagina Facebook España libre información, che oltre ad avere una colorazione politica decisamente nazionalista a quanto pare confonde la libertà d’informazione con la libertà di diffondere accuse infamanti e di non controllare l’autenticità di quello che si scrive.
In realtà la foto non risale a “un giorno qualsiasi”, ma a una protesta dei venditori avvenuta nel 2016, come nota El Diario, sottolineando in un articolo dedicato a questa diceria che invece i venditori ambulanti erano già da tempo scarsi sulla Rambla a causa dell’aumentata pressione della polizia (“Los vendedores ambulantes han tenido que abandonar en las últimas semanas la zona alta de las Ramblas debido a la presencia policial en la zona [...] este verano la concentración de vendedores ambulantes en el corazón de la capital catalana ha sido mucho menor, hecho que se debe principalmente a un aumento de la presión policial desde el pasado mes de mayo”). Questa situazione è stata successivamente confermata anche da foto recenti della Rambla pubblicate su Facebook da vari utenti e segnalate da Repubblica.
Il collega David Puente ha segnalato che circola anche un’altra versione della diceria, che usa una foto che non solo risale al 2016 ma mostra tutt’altra zona di Barcellona.
Falsità delle foto a parte, c’è una questione di buon senso: come sarebbe stato possibile avvisare tutti i venditori ambulanti, senza che nessuno si lasciasse sfuggire qualcosa? Questa non è altro che una versione riconfezionata della leggenda metropolitana classica “il giorno dell’attentato il gruppo etnico X era misteriosamente assente (e quindi è coinvolto nell’attentato)”, il cui esempio più tristemente celebre è quello che asserisce che il giorno degli attentati a New York dell’11 settembre 2001 gli ebrei che lavoravano nelle Torri Gemelle non si presentarono al lavoro (falso: ne morirono almeno 119).
In altre parole, questa non è una semplice bufala: è un’azione intenzionale per soffiare sul fuoco della xenofobia e dell’ansia da terrorismo. Diffonderla significa fare il gioco di razzisti e complottisti, quindi non cadete nella trappola di dire “mah, io nel dubbio la inoltro, che male vuoi che faccia?”: fa male. Molto.
Questa storia ha uno strascico piuttosto bizzarro: infatti mi sono trovato a discuterne online nientemeno che con Rita Pavone, che sosteneva su Twitter la veridicità di quest’insinuazione:
La reazione della Pavone è stata leggermente scomposta: mi ha bloccato e ha minacciato di segnalare alla polizia altri utenti che le hanno segnalato (a volte con toni decisamente inaccettabili) il suo errore. Quotidiano.net riassume i punti salienti di questo alterco surreale.
La Pavone, fra l’altro, non si fida della spiegazione di El Diario, ma non c’è solo questa fonte:
Il 19 giugno era alla rambla ed era pieno di ambulanti? Bene, smentisca questo video del 21 giugno, se può: https://t.co/XTslTHSGqg
E ce n’è una che per me è particolarmente diretta, ossia mio nipote Riccardo Carcano Casali, che a Barcellona è uno dei titolari di una agenzia che offre visite turistiche (è questo che intendevo con “ho amici a Barcellona” nello scambio con la Pavone) e mi ha scritto: “Ci occupiamo di giri turistici guidati a piedi per il centro, perciò la città la conosciamo bene in ogni aspetto quotidiano [...] da maggio c'è stato un inasprimento nella lotta ai manteros. La Guardia Civil in particolar modo ha cominciato a passare periodicamente per farli sloggiare da Plaça Catalunya. Loro entravano in metro e poi ritornavano. Ultimamente se ne vedono sempre meno e la loro presenza è quasi nulla. Inoltre la Rambla, sempre come dice El Diario, è uno dei posti dove i controlli sono più severi.”
E a proposito della tesi di complotto che circola, Riccardo nota che “tra le 34 nazionalità coinvolte nell'attentato c'erano tra gli altri anche cittadini marocchini, egiziani, turchi e pachistani, dato che tutti i giorni, compreso quello dell'attentato, un discreto numero di persone provenienti da paesi di cultura musulmana vive e lavora nei pressi della Rambla. Non sono stati avvisati perché cattivi musulmani, perché avevano dimenticato il cellulare a casa o, più semplicemente, questa storia non regge in piedi?”
Non pensavo, sinceramente, che un giorno mi sarei trovato a dire “Rita Pavone mi ha bloccato su Twitter perché le ho segnalato che ha postato una bufala”.
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Sta circolando sui social network un video che mostra, stando alla descrizione che lo accompagna, l’accoglienza coccolosissima offerta da due giovani leonesse alla donna che le aveva adottate ma che poi aveva dovuto cederle allo zoo locale. Sempre secondo la descrizione, le due leonesse non vedono la donna da sette anni.
Ma la storia è una bufala, anzi è spam: si tratta infatti di un video girato non in uno zoo, ma in un rifugio per animali domestici illegali o provenienti da circhi che si trova in Slovacchia, il Malkia Park. E la donna è una delle persone che lavora nel rifugio e quindi gli animali la vedono spesso. Il video originale, datato aprile 2017, è questo: le leonesse si chiamano Malkia e Adelle, e la donna dovrebbe essere Michaela Zimanova.
Questa storia è un ottimo esempio di come l’emozione mette in disparte la razionalità e apre le porte a truffe e spam: l’idea che due leoni coccolino così la loro ex padrona dopo sette anni è tenerissima e rende difficile notare le incongruenze della storia proposta: per esempio, come mai due leoni sono liberi di raggiungere la donna senza che ci sia una gabbia? E se lo zoo è locale, come mai la donna ci ha messo sette anni prima di andarli a trovare?
Questo genere di materiale, ossia video teneri, foto di gattini, animali, eventi storici straordinari o illustrazioni astronomiche spacciate per foto reali, viene infatti rubato agli autori e riconfezionato per farne paccottiglia virale dagli spammer. Questi spammer creano account social sui quali lucrano con un trucco: acquisiscono tanti follower usando quest contenuti pucciosi come esca e poi bombardano i follower di post pubblicitari (pagati agli spammer dagli inserzionisti). Infine cancellano i post pubblicitari dalla propria cronologia, in modo che quando arriva un nuovo follower non li vede e non si accorge che l’account è pieno di spam.
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Domani sera (22 agosto) alle 21:30 sarò al teatro Sanbapolis, in via della Malpensada 88 a Trento, per una conferenza-spettacolo sulle bufale e sulle leggende metropolitane: racconterò casi concreti, meccanismi di produzione e tecniche alla portata di tutti per distinguere fra fatti e bufale nei media moderni. La serata è a ingresso libero; fa parte della settimana di orientamento alla scelta universitaria dell’Università di Trento in collaborazione con quelle di Bolzano, ma è aperta a tutti.
2017/08/22. Ho colto l’occasione per simulare cosa sarebbe successo se avessi dovuto fare questo viaggio con un’auto elettrica (Tesla o Opel Ampera-e): sarei partito da casa col “pieno”, quindi con almeno 350 km di autonomia autostradale, e sarei arrivato a destinazione senza ricaricare e quindi senza alcun aggravio di durata del viaggio. Per prudenza, comunque, avrei potuto rabboccare con una breve pausa di ristoro presso il punto di ricarica di Affi (255 km da casa a Lugano, verificati), trovato tramite le mappe di Lemnet, che offre sia il Supercharger (riservato, come tutti i Supercharger, alle auto Tesla) sia una colonnina da 50 kW accessibile a qualsiasi auto elettrica e a carica gratuita senza tessere o altro (perlomeno secondo i dati di Lemnet; non ho potuto metterla alla prova). Poi avrei percorso i restanti 71 km fino a Trento (dove comunque ci sono sia punti di ricarica Tesla, sia punti di ricarica universali). Il viaggio di ritorno sarebbe stato identico, e una volta a casa avrei messo l’auto sotto carica in garage. Fattibile senza problemi, insomma. E senza gas di scarico.
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Vittorio Dell‘Aquila mi segnala questa perla marittimo-linguistica dell’ANSA. Nell’annunciare il ritrovamento del relitto dell’incrociatore della Seconda Guerra Mondiale USS Indianapolis, ANSA scrive (copia su Archive.is):
Uno dei ricercatori della spedizione di ricerca, Vessel Petrel ha annunciato di avere identificato il luogo del ritrovamento nel nord dell'Oceano Pacifico a 5.500 metri di profondità.
Che strano nome che ha quel ricercatore: Vessel Petrel. Così strano che è una bufala: infatti vessel in inglese significa “nave, vascello”, e Petrel è il nome della nave da ricerca di Paul Allen (quello di fama Microsoft) usata per effettuare il ritrovamento (PaulAllen.com, Fortune.com). Complimenti vivissimi per la profonda conoscenza dell’inglese alla redazione di ANSA.
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Il 15 agosto di quarant’anni fa, nel 1977, l’astronomo statunitense Jerry Ehman scrisse con una biro rossa l’esclamazione “Wow!” accanto a un segnale anomalo ricevuto dal radiotelescopio Big Ear della Ohio State University. Il segnale aveva tutte le caratteristiche che ci si aspettava da un segnale di una civiltà tecnologica extraterrestre. Ma non si è mai più ripetuto, e il mistero sulla sua origine è rimasto per decenni.
Ma Antonio Paris, professore di astronomia al St. Petersburg College, in Florida, di recente ha proposto una soluzione al mistero che ha ottenuto molta visibilità: il segnale, secondo lui, sarebbe stato prodotto per vie naturali da una cometa di passaggio. Ne avevo scritto nel 2008 e ne ho scritto in dettaglio nel numero di luglio scorso de Le Scienze, ma torno ancora brevemente sull’argomento per celebrare il quarantennale di questo rompicapo scientifico.
Vado subito al sodo: la spiegazione proposta da Paris è stata fatta a pezzi dagli esperti (la cometa non era nel punto dal quale provenne il segnale e comunque non era attiva), per cui il mistero rimane. Fra l’altro, i soliti fufologi si sono scatenati per quarant’anni a interpretare i caratteri 6EQUJ5 segnati da Ehman, senza capire che erano semplicemente indicazioni di intensità (1 = minima, Z = massima). All’epoca le stampanti non avevano grandi capacità grafiche, per cui l‘andamento del segnale veniva rappresentato usando lettere e numeri.
Vi propongo un po’ di bibliografia utile per approfondire l’argomento, che è una bella palestra di allenamento al metodo scientifico.
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Foto per gentile concessione di Marco Genocchio. Pubblicazione iniziale: 2017/08/09 18:46. Ultimo aggiornamento: 2019/10/10 20:00.
Stamattina ho provato per un’oretta la Opel Ampera-e, un‘auto puramente elettrica con 520 km di autonomia (secondo gli standard NEDC; 380 km EPA/WLTP), sorprendentemente pratica, rassicurantemente semplice e facile da usare, relativamente abbordabile come prezzo, piacevolissima da guidare e soprattutto disponibile subito. Perlomeno qui in Svizzera.
Cominciamo dai dati di base:
-- batteria a ioni di litio da 60 kWh garantita 8 anni/160.000 km;
-- 42.000 franchi* (circa 37.000 euro) di prezzo base, ma offerta con una formula di leasing che ne riduce drasticamente il costo di gestione (ne parlo più avanti);
-- ricarica di 150 km in circa 30 minuti nei punti di ricarica a 50 kW di qualunque gestore;
-- caricabile (lentamente) anche con un normale impianto elettrico domestico (220 V 6 A);
-- cinque posti comodi;
-- trazione anteriore;
-- motore da 150 kW/204 CV;
-- peso 1691 kg:
-- come già detto, 380 km di autonomia realistica (402 a 105 km/h costanti, nel test di Consumer Reports).
* 2018/10/22: Il prezzo attuale è salito a 52.700 franchi perché viene offerta soltanto la versione più completa e accessoriata.
** 2019/10/10: Il prezzo attuale è sceso a 46.700 franchi.
Le specifiche tecniche complete in italiano sono in questo listino prezzi (PDF); altra documentazione (elenco agenti, depliant, informazioni su impianti di ricarica domestici) è presso questa pagina di download Opel. I dati e i video dei crash test, inoltre, sono qui.
Ringrazio innanzi tutto il Garage Della Santa SA di Bellinzona, che ha organizzato la prova (disponibile a tutti tramite il sito Opel svizzero), che è consistita in una spiegazione dettagliatissima del funzionamento dell’auto da parte del consulente di vendita Alan Zuffi, seguita da una guida in percorso misto: città, autostrada, collina, con tre persone a bordo (io, mia moglie e il mio amico e collega Marco). Il rappresentante Opel ci ha affidato l’auto e ci ha detto di divertirci liberamente (nei limiti di legge), e lo abbiamo fatto, come vedrete nel video in fondo a questo articolo.
I sedili posteriori. Notare le prese USB.
La prima impressione, salendo in auto, è la sua spaziosità sorprendente. È un TARDIS, più grande dentro che fuori: è lunga 4,16 m, quindi compatta per parcheggiare agevolmente in città, ma con un muso corto e spiovente che lascia spazio abbondante per cinque persone e un bagagliaio più che decente (381 litri). Io sono alto un metro e 84, ma mi sono trovato comodo sia davanti che dietro, con una posizione di guida “da furgone” su sedili leggermente più stretti della media ma comunque più che soddisfacenti. Se vi ricordate la vecchia Ampera, con quattro posti (o cinque a patto di non avere le gambe), questa è tutta un’altra storia.
Gli interni non sono lussuosi, ma sono funzionali, con un comodo bracciolo centrale, poggiatesta abbattibili e schienali posteriori ribaltabili. L’interfaccia utente, spina nel fianco di tanti progetti di auto del futuro, che finiscono per essere troppo complicati e fonte di distrazione, è rassicurantemente semplice: icone grandi e intuitive, senza sovraccarico d’informazioni.
Davanti al volante c’è un display interamente digitale, nel quale campeggia grandissima la velocità (essenziale, perché è molto facile superare i limiti grazie alla silenziosità e all’accelerazione notevole di 0-50 km/h in 3,2 secondi e 0-100 km/h in 7,3 secondi). Al centro del cruscotto c’è un grande display secondario, con le funzioni di informazione e intrattenimento, predisposto per Carplay e Android Auto, in modo da usare le risorse dello smartphone del proprietario.
La leva del cambio è poco più di un pomello centrale, un po’ disorientante all’inizio (come vedrete nel video qui sotto) per via del pulsante laterale, necessario per alcuni cambi di marcia, e per via del fatto che non cambia posizione in base alla marcia inserita (torna sempre alla posizione standard), per cui manca l’informazione tattile e visiva su quale marcia sia inserita, anche se sul pomello e sul cruscotto si illumina una lettera indicatrice. Questo, a mio avviso, è un aspetto di ergonomia criticabile, che richiede un po’ più di pratica e di attenzione del normale, ma non è un dramma, visto che alla fine si cambia marcia molto raramente: avanti, indietro, parcheggio.
Ci sono due prese USB per caricare lo smartphone o altri dispositivi e nel bracciolo c’è un alloggiamento con scanalatura per far passare il cavo di carica (in opzione c’è anche la carica a induzione per gli smartphone predisposti).
Il pomello del cambio, con indicazione luminosa della marcia inserita.
Foto tratta dal depliant Opel.
Anti-Tesla? Sì, ma non in quel senso
Spesso la Ampera-e (o Chevrolet Bolt, come viene chiamata negli Stati Uniti, dove è nata ad opera della General Motors, anche se dal design e dagli interni europei non si direbbe grazie alla progettazione in Corea) viene paragonata alla Tesla Model 3.
Non è un paragone corretto: la Model 3 è (per chi sta in Europa, sarà, viste le quasi 500.000 prenotazioni e una catena di montaggio che sta partendo solo ora) non solo una berlina sportiva elettrica: è anche un’auto con con software aggiornabile ed è predisposta per la guida assistita o autonoma. È un computer su quattro ruote, che appassiona qualunque geek malato di tecnologia, con easter egg e novità a getto continuo che arrivano via Internet.
La Ampera-e è l’opposto: è un mini-SUV elettrico a lunga autonomia, punto e basta (e scusate se è poco: un’auto del genere era fantascienza fino a pochi anni fa). Non è un difetto: è una differenza. Una differenza che a molti automobilisti, inquietati e confusi dalla transizione alla trazione elettrica, potrebbe offrire la semplicità rassicurante di cui hanno bisogno.
Il vano motore della Ampera-e.
Mentre le Tesla richiedono uno studio preliminare e possono risultare un po’ eccessive nel loro sfoggio di tecnologia e funzioni e nella loro dipendenza da un monumentale tablet centrale, questa Ampera-e è un’auto che si potrebbe tranquillamente dare in mano a un guidatore che non sa nulla di auto elettriche, di aggiornamenti over the air, di kilowattora e di rigenerazione: la si guida e basta, leggermente disorientati dal totale silenzio quando è ferma al semaforo e inebriati dalla sua accelerazione immediata che spinge contro lo schienale.
Sali, la accendi, guardi il normalissimo cruscotto per sapere quanta autonomia hai e vai: tutto il resto, le geekaggini e le migliorie per fare hypermiling, può venire dopo, quando hai preso dimestichezza. In queste condizioni la migrazione dal motore a pistoni a quello elettrico è a portata di chiunque, specialmente se si è già abituati al cambio automatico.
Se volete un paragone telefonico, la Tesla Model 3 è l’iPhone; la Opel Ampera è lo smartphone Android. Se volete i pareri dei Teslari in proposito, sono qui.
Autonomia e ricarica
Chi guida un’auto elettrica ha tre ansie principali: quanta strada può fare, dove ricaricare e quanto tempo richiederà la carica.
380 km di autonomia reale (secondo lo standard WLTP, migliorabili con una guida morbida e con le funzioni avanzate dell’auto) tolgono qualunque ansia di autonomia per un uso abituale. In città bastano e avanzano, ovviamente; ma si può visitare una località distante 150 km senza preoccuparsi di dover trovare un punto di ricarica e di perdere tempo a ricaricare. Tanto quando si torna a casa il distributore è in casa: si mette l’auto in garage (per chi ce l’ha, s’intende) e la si mette sotto carica per la notte. L’indomani mattina l’auto ha il pieno.
I cavi di ricarica in dotazione, nel doppio
fondo del bagagliaio
La Ampera-e, fra l’altro, non vi farà saltare il contatore: può essere caricata persino su una normale presa a 220 V 6 A, usando il caricatore fornito (incluso nel prezzo) e senza rivoluzionare l’impianto elettrico domestico, a patto di avere molto tempo a disposizione, perché in queste condizioni parsimoniose l’auto carica circa 12 km di autonomia per ogni ora. Se immaginate di tenere acceso un asciugacapelli o un condizionatore, avete un’idea del carico e dei requisiti dell’impianto.
In altre parole: non è strettamente indispensabile installare una colonnina in casa se, come molti, fate una media di 60 km al giorno (Driving and parking patterns of European car drivers – a mobility survey (2012), pag. 63) e lasciate l’auto in garage sotto carica da quando arrivate a casa a quando ripartite per il posto di lavoro. Se avete un po’ di potenza domestica in più, potete dire all’auto di assorbire 10 A e quindi caricare al ritmo di 20 km di autonomia per ogni ora.
Questa carica lentissima e leggera risponde anche, almeno in parte, a uno dei tormentoni della trazione elettrica: tutti chiedono come farà la rete elettrica a sopportare il carico di migliaia o milioni di auto che si caricano contemporaneamente. Semplice: mica tutti fanno 500 km ogni giorno e devono “fare il pieno” ogni giorno e per di più in tutta fretta. Normalmente le auto verranno caricate lentamente, per rabboccare i km fatti quel giorno, e graveranno sulla rete grosso modo quanto gravano i condizionatori d’aria.
A proposito, ricordate il panico quando ci fu il boom dei condizionatori e si temeva che avrebbero fatto schiantare la rete elettrica? La rete fu potenziata e ottimizzata, senza grandi drammi o stravolgimenti. La stessa cosa è fattibile per le auto elettriche.
Ovviamente se siete in giro non avrete nessuna voglia di aspettare 30 ore per fare il pieno abbeverandovi a una presa elettrica standard: per questo ci sono i punti di ricarica rapida di vari fornitori (trovate una mappa europea completissima su LEMnet). Un punto di ricarica da 50 kW offre 150 km di autonomia in circa 30 minuti (dipende da quanto è carica la batteria, perché si carica in fretta quando è quasi scarica e più lentamente man mano che si “riempie”). La Ampera-e ha un connettore CCS, compatibile con un gran numero di punti di ricarica pubblici e commerciali in tutta Europa.
Certo, se dovete fare viaggi da 600 km dovrete quindi prepararvi prudenzialmente ad almeno un paio di soste ben pianificate (Opel offre un’app che informa sulla posizione dei punti di ricarica), e qui i punti di ricarica Tesla (120 kW) sono imbattibili in quanto a velocità, e ovviamente un’auto a benzina/diesel batte tutti. Ma quante volte vi capita di fare viaggi del genere senza mai fare soste? Se la risposta è spessissimo, allora lasciate perdere le auto elettriche e procuratevi una ibrida: per il vostro caso la tecnologia elettrica non è ancora matura.
In tutti gli altri casi, se volete passare all’auto elettrica, che inquina molto meno localmente ed è molto più silenziosa, potete farlo. E farlo senza mortificarvi: anzi, l’Ampera-e è dannatamente divertente da guidare anche in città, con le sue sgommate senza sensi di colpa (non romba e non inquina).
Costi
Lo so, 37.000 euro (prezzo 2017) per un’auto piccolina sono un bel po’ di soldi. Ma al di là dell’investimento a favore dell’ambiente, ci sono due fattori da considerare: le modalità di acquisto e il risparmio di benzina. Entrambi possono comportare risparmi non trascurabili che potrebbero rendere abbordabile anche un prezzo di listino del genere.
Parto dalla benzina: io, facendo 24.000 km/anno, con la mia auto attuale (Opel Mokka) in Svizzera spendo 2650 franchi (circa 2350 euro) l’anno in carburante (tengo traccia accurata di tutti i rifornimenti e chilometraggi). Se vado a caricare presso una colonnina di un centro commerciale (molti, qui dalle mie parti, offrono la carica gratis a chi fa la spesa), risparmio oltre duemila euro l’anno. Se mi abbono a una delle reti di ricarica locali, spendo 206 franchi (il primo anno; 106 i successivi) per caricare illimitatamente.* Duemila euro di risparmio l’anno non sono da disprezzare. Questa drastica riduzione (o azzeramento) dei costi di ”carburante” vale ovviamente per qualunque auto elettrica.
* 2018/10/22 11:20: questa tariffa flat non esiste più e ora si paga a consumo.
L’acquisto è la vera sorpresa: è possibile acquistare una Ampera-e in contanti, ma conviene di gran lunga il leasing, che è a 4 o 5 anni, senza anticipo e senza riscatto, perché l’auto verrà ripresa da Opel. In pratica la si noleggia a lungo termine, per esempio nel mio caso a 680 CHF (575 euro) al mese per 5 anni senza acconto. Se considero il mio risparmio sulla benzina, una cinquantina di franchi in meno di assicurazione e 345 franchi in meno di bollo*, per me significherebbe avere un’auto elettrica a lunga autonomia per cinque anni a 440 CHF (386 euro) al mese. In altre parole, vorrebbe dire che spenderei meno di quello che spendo adessoper la mia auto tradizionale.
*L’imposta di circolazione in Canton Ticino, secondo il calcolatore online del Cantone, dovrebbe ammontare a 177 CHF usando i seguenti parametri: etichetta energia 1OC563, emissioni di CO2 0 g/km, peso a vuoto 1711 kg, peso totale 2056 kg, potenza 150 kW, consumo di energia 14,5 kWh/100 km, equivalente benzina: 1,7 l/100 km. Attualmente spendo 522 CHF per la mia Opel Mokka.
Questo ribalta completamente gli equilibri ai quali siamo abituati, con le auto elettriche che costano molto più di quelle a scoppio. È una formula che oltretutto mette l’acquirente al riparo dall’inevitabile obsolescenza rapida di questo settore in evoluzione rapidissima: fra quattro o cinque anni, se ci sarà disponibile un’altra auto con autonomia maggiore o carica più rapida o con guida autonoma, chi ha comprato un’Ampera-e in leasing non avrà il problema di rivendere quella attuale.
Come dicevo, inoltre, quest’auto è disponibile subito (perlomeno in Norvegia, Olanda e Svizzera): mi è stato detto che se la ordinassi ora la riceverei a ottobre. Di quest’anno. Per contro, la mia prenotazione Tesla (Model 3), fatta più di un anno fa, mi dice che se tutto va bene potrei riceverla verso la fine del 2018. Forse. Per cui potrei prendere la Ampera-e, passare subito a un’auto elettrica, tenerla per qualche anno e poi guardarmi di nuovo in giro con calma per vedere cos’è successo nel frattempo.
Funzioni extra
L’Ampera-e ha molte altre caratteristiche rispetto a quelle che ho descritto qui: potete vederle sul sito della Opel e potete documentarvi in dettaglio nel manuale d’uso in italiano (PDF). Ne segnalo una sola che ho trovato particolarmente curiosa e divertente, oltre che pratica: la frenata da bicicletta (il nome ufficiale è one pedal driving, ma è troppo serioso). Sul retro di una delle razze del volante c’è una levetta piuttosto larga, che fa intervenire la frenata tramite rigenerazione intensa. Mi spiego tra un attimo e sottolineo che questa è una funzione che non è indispensabile imparare subito (ma mi ero documentato prima, per cui ho voluto provarla).
Un’auto elettrica, diversamente da una a carburante fossile, può frenare in due modi: quello tradizionale, tramite il pedale del freno, in cui l’energia di movimento viene dissipata attraverso i freni a disco e si perde; e quello a rigenerazione, in cui il motore viene usato come generatore e l’energia di movimento viene convertita in elettricità che ricarica la batteria. In parole povere, un’auto con motore a scoppio butta via energia a ogni frenata e inquina disseminando particelle dei dischi dei freni, mentre un’auto elettrica recupera un bel po’ di questa energia e non consuma i freni.
Normalmente (ossia quando si preme il pedale del freno) la Ampera-e frena in maniera tradizionale, usando principalmente i freni e aggiungendo un piccolo recupero di energia; ma se premo questa levetta il recupero interviene più intensamente, tanto che in città si può frenare usando anche solo la levetta, senza toccare il pedale del freno e quindi senza consumare i freni, ottenendo un recupero di energia molto elevato. Si può impostare l’intensità della rigenerazione anche tramite la leva del cambio, ma andare in auto e frenare con le mani, come in bicicletta, è divertente, anche se un po’ sconcertante. Mi sono abituato in fretta.
Morale della storia
A questo punto del mio racconto molti di voi si staranno chiedendo che fine ha fatto il fanboy di Tesla che solitamente scrive in questo blog. Ho davvero intenzione di prendere una Opel elettrica al posto di una Tesla?
Dipende. Primo, giusto per capirci, non sono un fanboy: per carità, adoro le Tesla e il loro approccio al futuro dell’automobile, ma il mio obiettivo principale non è comprare un computer su ruote. È, ed è sempre stato, smettere di inquinare o almeno ridurre il mio inquinamento. L’auto elettrica, qualunque auto elettrica che abbia batterie smaltibili e un’autonomia e un costo accettabili, è un passo importante in questa direzione. Per cui se ora Opel me ne propone una subito invece di farmi aspettare, perché no? Mica ho sposato Elon Musk.
Vi terrò aggiornati. Intanto ho montato alla buona questo video che riassume i commenti durante la prova, catturati dalla GoPro che ho montato sul cruscotto. Per evitare equivoci, chiarisco che la persona accanto a me non è il rappresentante Opel, ma è Marco, un mio amico, anche lui interessato alle auto elettriche. Dietro c’è mia moglie Elena, la Dama del Maniero Digitale. Il rappresentante ci ha affidato l’auto e ci ha lasciati liberi di andare.
Aggiornamento: prezzo aumentato di 5700 euro?
A novembre vari siti hanno segnalato che la Ampera-e è aumentata di prezzo di circa 5.700 euro in Norvegia (e, secondo Sicurauto, in tutta Europa) a causa del passaggio di Opel da GM (che produce la Ampera-e negli Stati Uniti) a PSA, secondo le dichiarazioni di un portavoce di Opel in Norvegia. Il prezzo in Svizzera al momento (2017/12/01) risulta invariato a 41.900 franchi.
Aggiornamento: prezzo aumentato ed esemplari contingentati
A dicembre 2017 mi è arrivata conferma che i prezzi della Ampera-e sono stati aumentati anche in Svizzera e che il contingente disponibile è ora più limitato di quanto lo fosse inizialmente: al momento in cui scrivo questo aggiornamento (giugno 2018) Opel.ch la offre a partire da 52.700 franchi IVA inclusa.
Aggiornamento (2018/10/22)
In Svizzera è tuttora disponibile unicamente la versione Excellence, dotata di tutti gli accessori, che costa 52.700 CHF. A questi prezzi, e con i sedili disponibili soltanto in pelle, non fa per me.
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Il 24 settembre debutterà la nuova serie “ufficiale” di Star Trek, intitolata Discovery (sito ufficiale, con tanto di protezione DRM). Aspetto di vederla prima di giudicarla, e nel frattempo mi godo e vi segnalo una nuova puntata di una produzione amatoriale ma perfettamente azzeccata e fedele nella ricostruzione degli ambienti e delle atmosfere della Serie Classica: Star Trek Continues.
La puntata nuova (la nona della produzione) si intitola What Ships Are For. Come al solito, la qualità della produzione è sorprendente (considerato che si tratta di un fanfilm che volutamente riprende lo stile televisivo degli anni Sessanta), ci sono attori ospiti illustri e soprattutto c’è quello che rende Star Trek speciale e particolare rispetto a tante altre serie di fantascienza: un tema di fondo che pesca dall’attualità e la ripropone in versione fantascientifica, permettendo di intrattenere e al tempo stesso far riflettere.
A differenza della serie ufficiale, Star Trek Continues è liberamente fruibile: qui sotto trovate la puntata integrale, pubblicata su Youtube e su Vimeo; le altre sono sul sito della produzione (Startrekcontinues.com), insieme ai blooper. Buona visione.
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Non mi dilungo sui dettagli tecnici della questione Rousseau che è divampata nei media generalisti: li ha già raccontati egregiamente David Puente in una seriediarticoli. Segnalo solo alcuni fatti che forse sono stati poco evidenziati o volutamente confusi.
- Il primo “attacco” non è stato un attacco, ma ha segnalato responsabilmente in privato a Rousseau alcune sue vulnerabilità e le ha pubblicate online solo dopo che erano state corrette. Vulnerabilità, fra l’altro, equivalenti a mettere una serratura di cioccolato sulla porta di casa: limite massimo di 8 caratteri per le password e un banalissimo SQL injection, talmente classico che c’è persino la vignetta di Xkcd apposita (spiegone).
- Non è vero chele informazioni pubblicate su queste vulnerabilità sono state rimosse perché Rousseau o altri hanno preso delle “contromisure”. Beppegrillo.it scrive che “il suo sito [quello del segnalatore] è già scomparso così come i suoi account social, segno che le contromisure contro questi reati funzionano e siamo lieti che siano state così tempestive”. No. La riservatezza professionale mi impedisce di dire altro, ma la chiusura degli account del primo segnalatore non è merito di alcuna “contromisura”. Tant’è vero che gli account sono tornati online. Bullarsi di quello che non si è fatto è boriosamente stupido, per non dir di peggio.
-- L’incursione non ha richiesto talento speciale. Non stiamo parlando di forzare chissà quali ostacoli. Questo era un castello costruito col fango che non ha retto all’uso di un innaffiatoio; è l’equivalente di lasciare la porta di casa socchiusa e i gioielli in bella vista sul tavolino all’ingresso.
-- Lo stesso post su Beppegrillo.it dichiarava che “Sono già state messe in atto tutte le azioni necessarie per impedire il ripetersi di intrusioni informatiche come questa.” Beh, mica tanto e di certo non tutte, dato che qualcun altro è riuscito comunque a entrare subito dopo.
-- Il successivo furto di dati vero e proprio (quello rivendicato da r0gue_0) ha rivelato che Rousseau non ha preso neppure le misure di sicurezza più basilari. Per l’amor del cielo, le password degli utenti erano conservate in chiaro in un database. Lo sanno anche i muri che le password si custodiscono in modo crittografato tale che neanche il gestore del sistema possa decifrarle (hashing e salting), proprio per evitare i danni di massa causati da attacchi come questo. In questo modo, se vengono rubati i dati, perlomeno non sono leggibili (o è enormemente oneroso leggerli).
-- Chi minimizza dicendo che tanto non erano in corso “votazioni” non ha capito la gravità degli eventi oppure sta volutamente mettendo la testa nella sabbia. Evidentemente non ha considerato che comunque l’affiliazione politica è un dato delicato e personale e che inevitabilmente molti utenti di Rousseau avranno usato la stessa password altrove e quindi ora sono esposti al rischio di furto di account e rivelazione di altre informazioni personali. E non ha considerato che la fiducia degli utenti è stata tradita: non stiamo parlando del sito di un circolo di cucito, ma della piattaforma di gestione di uno dei movimenti politici più significativi di un paese. Se questo è il modo in cui si pensa di gestire la democrazia digitale, è meglio lasciar perdere e trovare qualcuno che ci capisca.
-- Chiamare Rousseau “sistema operativo”(come fa Beppegrillo.it a firma di “Associazione Rousseau”) significa dichiarare di essere capre in informatica. Un sistema operativo è del software che dialoga con l’hardware e fa da interprete e servitore per le applicazioni. Windows, Android, MacOS, iOS, Linuxsono esempi di sistemi operativi: Rousseau no. È un sito, un portale, una piattaforma gestionale, ma non un sistema operativo. Chiamarlo sistema operativo è come vedere un cavallo e chiamarlo automobile.
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La notizia che la NASA assume un “responsabile della protezione planetaria” (planetary protection officer) viene presentata in modo decisamente semiserio, come se sull’argomento esistesse una sola battutina possibile:
Ma in realtà si tratta di una notizia reale e seria, anche se spiegata poco chiaramente.
L’offerta di lavoro della NASA chiarisce infatti che l’incarico consiste principalmente nel trovare modi per evitare che le nostre sonde spaziali vadano a contaminare altri mondi. Per esempio, andare a cercare la vita su Marte con una sonda piena di microorganismi terrestri sarebbe un’idea poco intelligente e rischierebbe di far fuori eventuale vita marziana.
Molto secondariamente, la “protezione planetaria” riguarda anche la Terra, nel senso che eventuali campioni di altri mondi riportati sul nostro pianeta dai nostri veicoli spaziali dovranno essere tenuti in opportuno isolamento per evitare contaminazioni.
Planetary protection is concerned with the avoidance of organic-constituent and biological contamination in human and robotic space exploration. NASA maintains policies for planetary protection applicable to all space flight missions that may intentionally or unintentionally carry Earth organisms and organic constituents to the planets or other solar system bodies, and any mission employing spacecraft, which are ntended to return to Earth and its biosphere with samples from extraterrestrial targets of exploration.
Un altro dettaglio importante è che non si tratta di una mansione nuova: come spiega egregiamente The Verge, il problema della contaminazione nei due sensi fu sollevato già nel 1967, con una serie di trattati dell’ONU (United Nations Treaties and Principles on Outer Space), e la NASA ha già una persona che copre questo ruolo. Si chiama Catharine Conley e dirige l’Office of Planetary Protection.
Il clamore dei media è stato tale che la NASA ha dovuto pubblicare un video di chiarimento:
Quindi le risatine sono fuori luogo: oltre alle considerazioni di rispetto verso la natura, lanciare una sonda spaziale costa miliardi. Farlo per poi trovarsi ad analizzare campioni di vita portati maldestramente dalla Terra perché un tecnico ha starnutito vicino alla sonda sarebbe stupido.
Apollo 7 fu il primo volo con equipaggio del programma lunare statunitense che, secondo la sfida lanciata dal presidente Kennedy nel 1961, avrebbe dovuto far arrivare un uomo sulla Luna entro la fine del decennio. Una sfida dichiarata quando gli Stati Uniti avevano totalizzato quindiciminuti di volo suborbitale e i sovietici conquistavano un record spaziale dopo l’altro.
Fu anche il primo volo con equipaggio dopo il disastro di Apollo 1, che era costato la vita a tre astronauti durante una prova generale a terra. E fu la preparazione indispensabile per il primo grande balzo: il volo intorno alla Luna di Apollo 8.
Ma Apollo 7 fu anche il primo “ammutinamento” nello spazio: i tre astronauti, afflitti da un sovraccarico di lavoro e da un raffreddore che in assenza di peso causava congestioni dolorose e altri problemi, decisero di respingere le richieste del Controllo Missione. La NASA non fu particolarmente gentile al loro ritorno. Insomma, c’è tanta storia dietro questo volo spaziale.
Se volete sentire questa storia raccontata dalla viva voce di uno dei suoi protagonisti, Walt Cunningham, sarà in Italia l’11 e 12 novembre 2017, ospite dell’associazione ADAA. Io ci sarò, come appassionato di spazio e come traduttore per Cunningham.
Per saperne di più, contattate Luigi Pizzimenti, organizzatore dell’evento, presso info@adaa.it.
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In un articolo (copia su Archive.is) non firmato intitolato “Putin pronto a schierare 100mila uomini sul Baltico”, La Stampa cita “il New York Times, che svela le manovre militari di Mosca a Belarus, nel mar Baltico”.
Ma Belarus non è una località. È il nome inglese della Bielorussia. Basterebbe cercare su Wikipedia per saperlo. La frase originale del New York Times, tradotta creativamente da La Stampa, è questa: “The troops are conducting military maneuvers known as Zapad, Russian for “west,” in Belarus, the Baltic Sea, western Russia and the Russian exclave of Kaliningrad”.
Fra l’altro, la Bielorussia non è sul Baltico. Di nuovo, basterebbe cercare su Wikipedia per saperlo.
Quindi se volete sapere davvero dove Putin ha o non ha in corso manovre militari, forse non vi conviene fidarvi troppo dell’anonimo articolista de La Stampa, che a quanto pare non ha molta dimestichezza con l’inglese.
Non lamentiamoci: poteva andare peggio. Visto che il titolo del NYT è “Russia’s Military Drills Near NATO Border Raise Fears of Aggression”, c’era il rischio che qualcuno spargesse l’allarme per la presenza inquietante di trapani militari.