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2016/02/28
50 anni fa la NASA perdeva due astronauti: Charles Bassett ed Elliott See
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete incoraggiarmi a scrivere ancora (anche con un microabbonamento).
È il 28 febbraio 1966. La NASA, con il programma Gemini, sta imparando tutto quello che serve sapere per poter mandare degli astronauti sulla Luna: come camminare e lavorare in assenza di peso, come effettuare rendez-vous e attracchi fra due veicoli spaziali. Molti membri degli equipaggi delle missioni Gemini viaggeranno poi fino alla Luna: Neil Armstrong, Buzz Aldrin, Tom Stafford, John Young e Gene Cernan, per citarne alcuni.
Ma l’equipaggio della Gemini IX, costituito da Elliot See e Charles Bassett II, non avrà questa possibilità. See, 38 anni, e Bassett, 34 anni, partono intorno alle sette di mattina dalla base di Ellington, diretti allo stabilimento della McDonnell a St. Louis, a bordo di un addestratore T-38, accompagnati dall’equipaggio di riserva, Tom Stafford e Gene Cernan, su un altro T-38. Devono trascorrere a St. Louis una decina di giorni per ispezionare la loro capsula Gemini ed addestrarsi nel simulatore.
Alla partenza il tempo è ottimo, ma a St. Louis piove; le nuvole sono basse (a 600 metri di quota) e la visibilità è scarsa. All’arrivo sopra la base aerea di Lambert Field, poco prima delle nove, i due jet si trovano troppo vicini alla fine della pista d’atterraggio e così See vira a sinistra, stando sotto le nuvole, mentre Stafford si arrampica e rientra nelle nubi per tentare un altro avvicinamento, cosa che gli riesce senza problemi.
Ma la virata di See porta il suo T-38 vicino all’Edificio 101 della McDonnell, dove i tecnici stanno lavorando proprio alla capsula Gemini che dovrà portare See e Bassett nello spazio. Rendendosi forse conto di star perdendo quota troppo rapidamente, See accende i postbruciatori e tenta di virare bruscamente a destra, ma è troppo tardi: l’aereo colpisce il tetto dell’edificio con un’ala e si schianta, incendiandosi e uccidendo Bassett e See. Frammenti del loro aereo colpiscono la capsula Gemini. See viene sbalzato fuori dall'aereo; il suo cadavere viene ritrovato in un parcheggio adiacente. La testa di Bassett viene trovata incastrata fra le travi del tetto dell’Edificio 101. Se l’aereo fosse stato leggermente più basso, avrebbe distrutto la capsula e soprattutto ucciso decine di specialisti che vi lavoravano, mettendo in crisi l’intero progetto di arrivare alla Luna.
Non è il primo incidente che tronca la vita di un astronauta: era già successo con Theodore Freeman nel 1964. Ma è la la prima volta che la NASA si trova costretta a rimpiazzare l’equipaggio primario di una missione con quello di riserva. Stafford e Cernan voleranno nello spazio con la Gemini IX e diventeranno i primi ad effettuare con successo tre rendez-vous; in seguito voleranno insieme fino alla Luna con Apollo 10.
L’incidente aereo innesca un effetto domino che cambia il corso della storia: senza la morte di Bassett e See, per esempio, Buzz Aldrin non sarebbe stato scelto come membro di riserva per Gemini IX e non avrebbe volato con la Gemini XII a novembre del 1966; probabilmente non sarebbe stato il pilota del modulo lunare di Apollo 11 e quindi non sarebbe stato il secondo uomo a camminare sulla Luna. Inoltre Gene Cernan probabilmente non sarebbe stato l’ultimo uomo sulla Luna. Aldrin, amico e vicino di casa di Bassett, non dimenticherà mai che la sua presenza nei libri di storia è frutto di questa tragedia.
See e Bassett verranno sepolti al Cimitero Nazionale di Arlington, uno vicino all’altro. I loro nomi non sono noti ai più, forse perché sono morti prima di andare nello spazio, ma sono incisi nello Space Mirror Memorial al Centro Spaziale Kennedy, insieme a tutti gli altri astronauti deceduti nello svolgimento del proprio compito, e sono stati portati sulla Luna dagli astronauti di Apollo 15 nella targa che accompagna la statuetta Fallen Astronaut collocata nei pressi della Hadley Rille.
Per aspera ad astra.
Fonti: NASA, AmericaSpace.
È il 28 febbraio 1966. La NASA, con il programma Gemini, sta imparando tutto quello che serve sapere per poter mandare degli astronauti sulla Luna: come camminare e lavorare in assenza di peso, come effettuare rendez-vous e attracchi fra due veicoli spaziali. Molti membri degli equipaggi delle missioni Gemini viaggeranno poi fino alla Luna: Neil Armstrong, Buzz Aldrin, Tom Stafford, John Young e Gene Cernan, per citarne alcuni.
Ma l’equipaggio della Gemini IX, costituito da Elliot See e Charles Bassett II, non avrà questa possibilità. See, 38 anni, e Bassett, 34 anni, partono intorno alle sette di mattina dalla base di Ellington, diretti allo stabilimento della McDonnell a St. Louis, a bordo di un addestratore T-38, accompagnati dall’equipaggio di riserva, Tom Stafford e Gene Cernan, su un altro T-38. Devono trascorrere a St. Louis una decina di giorni per ispezionare la loro capsula Gemini ed addestrarsi nel simulatore.
Alla partenza il tempo è ottimo, ma a St. Louis piove; le nuvole sono basse (a 600 metri di quota) e la visibilità è scarsa. All’arrivo sopra la base aerea di Lambert Field, poco prima delle nove, i due jet si trovano troppo vicini alla fine della pista d’atterraggio e così See vira a sinistra, stando sotto le nuvole, mentre Stafford si arrampica e rientra nelle nubi per tentare un altro avvicinamento, cosa che gli riesce senza problemi.
Ma la virata di See porta il suo T-38 vicino all’Edificio 101 della McDonnell, dove i tecnici stanno lavorando proprio alla capsula Gemini che dovrà portare See e Bassett nello spazio. Rendendosi forse conto di star perdendo quota troppo rapidamente, See accende i postbruciatori e tenta di virare bruscamente a destra, ma è troppo tardi: l’aereo colpisce il tetto dell’edificio con un’ala e si schianta, incendiandosi e uccidendo Bassett e See. Frammenti del loro aereo colpiscono la capsula Gemini. See viene sbalzato fuori dall'aereo; il suo cadavere viene ritrovato in un parcheggio adiacente. La testa di Bassett viene trovata incastrata fra le travi del tetto dell’Edificio 101. Se l’aereo fosse stato leggermente più basso, avrebbe distrutto la capsula e soprattutto ucciso decine di specialisti che vi lavoravano, mettendo in crisi l’intero progetto di arrivare alla Luna.
Non è il primo incidente che tronca la vita di un astronauta: era già successo con Theodore Freeman nel 1964. Ma è la la prima volta che la NASA si trova costretta a rimpiazzare l’equipaggio primario di una missione con quello di riserva. Stafford e Cernan voleranno nello spazio con la Gemini IX e diventeranno i primi ad effettuare con successo tre rendez-vous; in seguito voleranno insieme fino alla Luna con Apollo 10.
L’incidente aereo innesca un effetto domino che cambia il corso della storia: senza la morte di Bassett e See, per esempio, Buzz Aldrin non sarebbe stato scelto come membro di riserva per Gemini IX e non avrebbe volato con la Gemini XII a novembre del 1966; probabilmente non sarebbe stato il pilota del modulo lunare di Apollo 11 e quindi non sarebbe stato il secondo uomo a camminare sulla Luna. Inoltre Gene Cernan probabilmente non sarebbe stato l’ultimo uomo sulla Luna. Aldrin, amico e vicino di casa di Bassett, non dimenticherà mai che la sua presenza nei libri di storia è frutto di questa tragedia.
See e Bassett verranno sepolti al Cimitero Nazionale di Arlington, uno vicino all’altro. I loro nomi non sono noti ai più, forse perché sono morti prima di andare nello spazio, ma sono incisi nello Space Mirror Memorial al Centro Spaziale Kennedy, insieme a tutti gli altri astronauti deceduti nello svolgimento del proprio compito, e sono stati portati sulla Luna dagli astronauti di Apollo 15 nella targa che accompagna la statuetta Fallen Astronaut collocata nei pressi della Hadley Rille.
Per aspera ad astra.
Fonti: NASA, AmericaSpace.
2016/02/27
Podcast del Disinformatico del 2016/02/26
È disponibile per lo scaricamento il podcast integrale della puntata di ieri del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera. C'è anche la versione senza musica. Buon ascolto!
2016/02/26
Come prendere il controllo di una Nissan Leaf via Internet: sicurezza zero
Le automobili sono sempre più informatizzate e interconnesse, per cui è nato il nuovo problema della sicurezza informatica su quattro ruote. Il ricercatore di sicurezza Troy Hunt ha scoperto una falla sorprendente nel servizio di gestione via Internet delle auto elettriche Nissan Leaf: ha intercettato il traffico di dati dell’app sulla propria rete Wi-Fi e ha visto con stupore che la comunicazione fra app e automobile non è protetta e non ha alcuna password: l’accesso a un’auto o a un’altra dipende soltanto da quale VIN, il numero univoco di identificazione di ogni vettura, si immette nell’URL.
Nissan Connect, l'app fornita da Nissan per monitorare a distanza lo stato di carica e gestire l'aria condizionata e il riscaldamento, è dunque totalmente priva di autenticazione ed è facilissimo prendere il controllo di una Leaf altrui se se ne conosce il VIN.
E il VIN è in bella mostra nell’angolo inferiore del parabrezza.
Hunt ha dimostrato il problema sulla Nissan Leaf di un collega, Scott Helme, con il consenso di quest’ultimo, scoprendo inoltre che è possibile accedere ai dati personali degli utenti e ricostruire i loro spostamenti, e ha avvisato Nissan, che per ora non ha corretto la falla. Intanto gli appassionati di auto elettriche sono arrivati indipendentemente alla stessa scoperta, creando delle app alternative migliori di quelle della Nissan, per cui è solo questione di tempo prima che qualcuno abusi della sicurezza inesistente della Leaf.
E se vi sembra che accendere per dispetto il riscaldamento o l’aria condizionata sia tutto sommato una burla da poco, tenete presente che si tratta di un’auto elettrica, per cui queste accensioni, specialmente se ripetute, scaricano la batteria: sono, in sostanza, l’equivalente di poter accendere il motore di un’auto tradizionale fino a svuotarne il serbatoio.
2016/03/05: Nei giorni scorsi Nissan ha rimosso l’app da Internet. Secondo le segnalazioni dei lettori, il riscaldamento della Leaf può essere acceso a distanza soltanto quando l’auto è sotto carica, per cui la falla non può essere sfruttata per scaricare completamente la batteria. Restano confermate le falle di privacy che permettono di sapere in dettaglio la cronologia degli spostamenti dell’auto e quindi del suo conducente.
Fonti aggiuntive: The Register.
Nissan Connect, l'app fornita da Nissan per monitorare a distanza lo stato di carica e gestire l'aria condizionata e il riscaldamento, è dunque totalmente priva di autenticazione ed è facilissimo prendere il controllo di una Leaf altrui se se ne conosce il VIN.
E il VIN è in bella mostra nell’angolo inferiore del parabrezza.
Hunt ha dimostrato il problema sulla Nissan Leaf di un collega, Scott Helme, con il consenso di quest’ultimo, scoprendo inoltre che è possibile accedere ai dati personali degli utenti e ricostruire i loro spostamenti, e ha avvisato Nissan, che per ora non ha corretto la falla. Intanto gli appassionati di auto elettriche sono arrivati indipendentemente alla stessa scoperta, creando delle app alternative migliori di quelle della Nissan, per cui è solo questione di tempo prima che qualcuno abusi della sicurezza inesistente della Leaf.
E se vi sembra che accendere per dispetto il riscaldamento o l’aria condizionata sia tutto sommato una burla da poco, tenete presente che si tratta di un’auto elettrica, per cui queste accensioni, specialmente se ripetute, scaricano la batteria: sono, in sostanza, l’equivalente di poter accendere il motore di un’auto tradizionale fino a svuotarne il serbatoio.
2016/03/05: Nei giorni scorsi Nissan ha rimosso l’app da Internet. Secondo le segnalazioni dei lettori, il riscaldamento della Leaf può essere acceso a distanza soltanto quando l’auto è sotto carica, per cui la falla non può essere sfruttata per scaricare completamente la batteria. Restano confermate le falle di privacy che permettono di sapere in dettaglio la cronologia degli spostamenti dell’auto e quindi del suo conducente.
Fonti aggiuntive: The Register.
Antibufala: la foto del ladro con lo scanner per carte di credito senza contatto
Sta creando un certo panico, e un numero elevatissimo di condivisioni su Facebook, una foto che mostra un uomo che tiene in mano un terminale portatile di pagamento per carte di credito. Secondo la descrizione che accompagna l'immagine, si tratterebbe della prova fotografica del fatto che ci sono criminali che vanno in giro a rubare i dati delle carte di credito sfruttando la nuova tecnologia contactless, che consente di effettuare pagamenti semplicemente avvicinando la carta al terminale, senza dover digitare PIN, e quindi consente al criminale di prelevare soldi dalle carte di credito delle persone vicine.
Ma in realtà, come spiega Buzzfeed, la foto non documenta la presenza di un ladro contactless: ritrae Oleg Gorobets, manager della società di sicurezza informatica Kaspersky. In altre parole, è una messinscena.
Gli esperti, inoltre, dicono che questo genere di furto è tecnicamente difficilissimo: non basta un terminale normale ma serve un dispositivo dotato di un'antenna speciale e soprattutto c’è il problema che un eventuale furto sarebbe completamente tracciabile. Per i più prudenti, comunque, esistono degli astucci metallici per carte di credito contactless che schermano completamente da eventuali attacchi di questo tipo.
Ma in realtà, come spiega Buzzfeed, la foto non documenta la presenza di un ladro contactless: ritrae Oleg Gorobets, manager della società di sicurezza informatica Kaspersky. In altre parole, è una messinscena.
Gli esperti, inoltre, dicono che questo genere di furto è tecnicamente difficilissimo: non basta un terminale normale ma serve un dispositivo dotato di un'antenna speciale e soprattutto c’è il problema che un eventuale furto sarebbe completamente tracciabile. Per i più prudenti, comunque, esistono degli astucci metallici per carte di credito contactless che schermano completamente da eventuali attacchi di questo tipo.
Apple vs. FBI: perché Apple si rifiuta di sbloccare l’iPhone di un terrorista?
Tim Cook, CEO di Apple, ha rilasciato una lunga intervista alla ABC News che contiene una spiegazione molto eloquente ed appassionata del rifiuto di Apple di sbloccare l'iPhone del terrorista Syed Farook, che con la moglie ha ucciso quattordici persone a San Bernardino, in California, lo scorso dicembre.
Il problema di fondo, spiega Cook, è che dal punto di vista tecnico è impossibile sbloccare quell’iPhone senza creare uno strumento (una speciale versione di iOS senza funzioni di sicurezza) che sarebbe in grado di sbloccare qualunque iPhone al mondo. Questa chiave universale sarebbe incredibilmente desiderabile per qualunque organizzazione criminale o per qualunque governo e quindi chiunque la custodisse sarebbe costantemente attaccato dai migliori intrusi informatici del mondo, compresi quelli assoldati dai governi stranieri.
Di conseguenza prima o poi il passepartout sfuggirebbe alla custodia di chiunque, compresa quella di Apple (che è l’unica in grado di crearlo, perché gli iPhone accettano soltanto software firmato digitalmente da Apple) e sicuramente di quella delle autorità federali americane, che (lo ha sottolineato Cook) si sono già fatte sfuggire i dati sensibili di milioni di americani in una serie imbarazzante di attacchi informatici.
Verrebbe insomma compromessa completamente la sicurezza di centinaia di milioni di utenti onesti che affidano ai propri telefonini informazioni sensibili come, per esempio, dati di lavoro, messaggi confidenziali o (altro esempio citato da Cook) i luoghi in cui si trovano i loro figli.
L’unico modo per evitare che la chiave universale finisca in mani ostili è non crearla affatto. Tim Cook l’ha definita “l’equivalente software del cancro”: paragone biologicamente poco calzante ma sicuramente efficace dal punto di vista emotivo.
Non è soltanto una questione di difendere l’immagine di affidabilità dei prodotti Apple, perché Tim Cook ha fatto notare che se si accetta il principio che un tribunale è in grado di ordinare ad Apple di scrivere un software del genere può ordinarlo a qualunque altro fabbricante di telefonini.
La questione, insomma, non è se sbloccare o no il telefonino di un terrorista, come molti la presentano, ma è se creare un grimaldello che mina alla base la sicurezza di milioni di persone. E non va dimenticato che l’iPhone del terrorista è ora inaccessibile per colpa dell’FBI, che ha maldestramente cambiato la password dell’account iCloud associato a quel telefonino: se non l’avesse fatto, l’iPhone – spiega Cook – avrebbe depositato una copia del proprio contenuto sui server iCloud, dai quali Apple avrebbe potuto consegnarla alle autorità inquirenti.
In tutta questa vicenda pesa parecchio l’assenza di un’altra sigla di tre lettere molto celebre: NSA. A quanto risulta dagli atti, stranamente gli inquirenti finora non hanno chiesto aiuto a questi maestri dell’intrusione. È perché l’NSA non è in grado di scavalcare la sicurezza dei prodotti Apple, oppure perché è in grado di farlo ma non vuole che si sappia? Entrambi i casi sono imbarazzanti: il primo implica inadeguatezza e rivela i limiti delle capacità dell’NSA, mentre il secondo implica che nessuno può fidarsi dell’iPhone (specialmente imprenditori, giornalisti, politici o governanti stranieri).
E per chi trova che questa questione tecnica sia troppo nebulosa e complicata e che un’azienda non dovrebbe avere il diritto di creare un dispositivo che renda inaccessibili alle forze dell’ordine i dati di un criminale o di un terrorista, propongo un paragone più semplice: se valesse questo principio, allora sarebbe illegale anche qualunque distruggidocumenti che producesse pezzetti che il governo non è in grado di rimettere insieme.
Il problema di fondo, spiega Cook, è che dal punto di vista tecnico è impossibile sbloccare quell’iPhone senza creare uno strumento (una speciale versione di iOS senza funzioni di sicurezza) che sarebbe in grado di sbloccare qualunque iPhone al mondo. Questa chiave universale sarebbe incredibilmente desiderabile per qualunque organizzazione criminale o per qualunque governo e quindi chiunque la custodisse sarebbe costantemente attaccato dai migliori intrusi informatici del mondo, compresi quelli assoldati dai governi stranieri.
Di conseguenza prima o poi il passepartout sfuggirebbe alla custodia di chiunque, compresa quella di Apple (che è l’unica in grado di crearlo, perché gli iPhone accettano soltanto software firmato digitalmente da Apple) e sicuramente di quella delle autorità federali americane, che (lo ha sottolineato Cook) si sono già fatte sfuggire i dati sensibili di milioni di americani in una serie imbarazzante di attacchi informatici.
Verrebbe insomma compromessa completamente la sicurezza di centinaia di milioni di utenti onesti che affidano ai propri telefonini informazioni sensibili come, per esempio, dati di lavoro, messaggi confidenziali o (altro esempio citato da Cook) i luoghi in cui si trovano i loro figli.
L’unico modo per evitare che la chiave universale finisca in mani ostili è non crearla affatto. Tim Cook l’ha definita “l’equivalente software del cancro”: paragone biologicamente poco calzante ma sicuramente efficace dal punto di vista emotivo.
Non è soltanto una questione di difendere l’immagine di affidabilità dei prodotti Apple, perché Tim Cook ha fatto notare che se si accetta il principio che un tribunale è in grado di ordinare ad Apple di scrivere un software del genere può ordinarlo a qualunque altro fabbricante di telefonini.
La questione, insomma, non è se sbloccare o no il telefonino di un terrorista, come molti la presentano, ma è se creare un grimaldello che mina alla base la sicurezza di milioni di persone. E non va dimenticato che l’iPhone del terrorista è ora inaccessibile per colpa dell’FBI, che ha maldestramente cambiato la password dell’account iCloud associato a quel telefonino: se non l’avesse fatto, l’iPhone – spiega Cook – avrebbe depositato una copia del proprio contenuto sui server iCloud, dai quali Apple avrebbe potuto consegnarla alle autorità inquirenti.
In tutta questa vicenda pesa parecchio l’assenza di un’altra sigla di tre lettere molto celebre: NSA. A quanto risulta dagli atti, stranamente gli inquirenti finora non hanno chiesto aiuto a questi maestri dell’intrusione. È perché l’NSA non è in grado di scavalcare la sicurezza dei prodotti Apple, oppure perché è in grado di farlo ma non vuole che si sappia? Entrambi i casi sono imbarazzanti: il primo implica inadeguatezza e rivela i limiti delle capacità dell’NSA, mentre il secondo implica che nessuno può fidarsi dell’iPhone (specialmente imprenditori, giornalisti, politici o governanti stranieri).
E per chi trova che questa questione tecnica sia troppo nebulosa e complicata e che un’azienda non dovrebbe avere il diritto di creare un dispositivo che renda inaccessibili alle forze dell’ordine i dati di un criminale o di un terrorista, propongo un paragone più semplice: se valesse questo principio, allora sarebbe illegale anche qualunque distruggidocumenti che producesse pezzetti che il governo non è in grado di rimettere insieme.
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Antibufala: Giove visibile a occhio nudo solo l’8 marzo
L’articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale. Ultimo aggiornamento: 2016/02/27 12:10.
“L’8 marzo Giove sarà visibile a occhio nudo da tutti i punti della Terra” scrive Internazionale. La notizia, presentata con i toni dell'evento raro, è riportata anche da El País: “Júpiter será visto desde cualquier punto de la Tierra el 8 de marzo”, e circola nei social network in varie lingue. Ma è una bufala.
Giove, infatti, è visibile a occhio nudo quasi sempre, e lo è da tutte le principali zone abitate della Terra: non è visibile nei periodi nei quali è dalla parte opposta del Sole rispetto alla Terra e dai luoghi nei quali è troppo basso sull’orizzonte (per esempio al Polo Nord o Sud).
Il pianeta è anzi normalmente uno degli oggetti più brillanti del cielo notturno: in questi giorni è particolarmente facile identificarlo perché è visivamente molto vicino alla Luna. Ma se è visibile, lo è anche senza ricorrere a un telescopio.
La particolarità astronomica dell’8 marzo non è che Giove sarà visibile, ma che in quella data sarà alla distanza minima dalla Terra, ossia 663 milioni di chilometri, come risulta consultando Wolfram Alpha, e quindi sarà leggermente più luminoso rispetto alla norma.
Inoltre, trovandosi in quel periodo in opposizione al Sole, ossia nel punto della volta celeste opposto al Sole, sarà ben visibile per tutta la notte. Godiamoci quindi lo spettacolo, osservando per esempio il veloce moto dei suoi satelliti con un buon binocolo o un piccolo telescopio, e lasciamo perdere la bufala: Giove è (quasi) sempre un magnifico astro brillante nel cielo.
“L’8 marzo Giove sarà visibile a occhio nudo da tutti i punti della Terra” scrive Internazionale. La notizia, presentata con i toni dell'evento raro, è riportata anche da El País: “Júpiter será visto desde cualquier punto de la Tierra el 8 de marzo”, e circola nei social network in varie lingue. Ma è una bufala.
Giove, infatti, è visibile a occhio nudo quasi sempre, e lo è da tutte le principali zone abitate della Terra: non è visibile nei periodi nei quali è dalla parte opposta del Sole rispetto alla Terra e dai luoghi nei quali è troppo basso sull’orizzonte (per esempio al Polo Nord o Sud).
Il pianeta è anzi normalmente uno degli oggetti più brillanti del cielo notturno: in questi giorni è particolarmente facile identificarlo perché è visivamente molto vicino alla Luna. Ma se è visibile, lo è anche senza ricorrere a un telescopio.
La particolarità astronomica dell’8 marzo non è che Giove sarà visibile, ma che in quella data sarà alla distanza minima dalla Terra, ossia 663 milioni di chilometri, come risulta consultando Wolfram Alpha, e quindi sarà leggermente più luminoso rispetto alla norma.
Inoltre, trovandosi in quel periodo in opposizione al Sole, ossia nel punto della volta celeste opposto al Sole, sarà ben visibile per tutta la notte. Godiamoci quindi lo spettacolo, osservando per esempio il veloce moto dei suoi satelliti con un buon binocolo o un piccolo telescopio, e lasciamo perdere la bufala: Giove è (quasi) sempre un magnifico astro brillante nel cielo.
2016/02/22
Antibufala: suoni segreti captati dagli astronauti lunari!
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori e con il contributo tecnico di @RiccardoDeias, @pd_76 e @Solincos. Se vi piace, potete incoraggiarmi a scrivere ancora (anche con un microabbonamento). Pubblicazione iniziale: 2016/02/22 22:04. Ultimo aggiornamento: 2019/03/23 23:30.
Oggi (22 febbraio) ricorre il ventennale del volo spaziale di due italiani insieme: il 22 febbraio 1996 partivano per lo spazio Maurizio Cheli e Umberto Guidoni sullo Shuttle. Sarebbe magari carino parlare dell’eredità delle loro esperienze in occasione dell’anniversario. Macché: i giornalisti di Repubblica, Il Giornale, La Stampa si buttano a pesce invece su un’altra storia spaziale e rifilano ai loro lettori una panzana datata 1969, copiandola dai media fuffaroli americani senza la minima verifica.
La balla pubblicata da queste testate racconta che quando la missione Apollo 10 era dietro la Luna gli astronauti captarono un suono “simile a una musica” che “non fu divulgato per quarant’anni. La Nasa, incapace di spiegare il fenomeno, secretò e archiviò tutto quello che la radio dell’astronave aveva registrato in quel lasso di tempo e rese pubbliche le trascrizioni delle conversazioni avvenute solo nel 2008” (Repubblica).
La Stampa, nella sezione Tuttoscienze, pubblica un articolo a firma di Fulvio Cerutti che dice che l’episodio è “rimasto top secret sino al 2008” ed è un “fenomeno a cui non è mai stata trovata una spiegazione” (l’articolo è stato parzialmente corretto dopo la mia segnalazione).
Il Giornale, a firma di Franco Iacch, scrive che “l’episodio top secret... è stato declassificato in parte solo nel 2008 (con pesanti censure)” e che gli astronauti nelle loro cuffie udirono “urla”. Iacch conclude scrivendo che “Le registrazioni integrali captate dall’Apollo 10 rimangono top secret”.
Il Corriere pubblica sull’argomento un video con didascalia che dice che il “suono, registrato e trascritto dalla Nasa, è rimasto top secret fino al 2008”. Il link è stato successivamente cambiato.
Ne parla anche Panorama con un articolo di Sabrina Pieragostini, scrivendo che “per decenni l’ente spaziale ha preferito mantenere nascosta la notizia”.
Come mai tutto questo improvviso e simultaneo interesse del giornalismo italiano per un’oscura vicenda di quasi cinquant’anni fa? Semplice: hanno tutti fatto copiaincolla dai media americani, in particolare dalle pagine di notizie bislacche dell’Huffington Post (traduzione italiana qui), che stanno pompando la storia per promuovere una nuova serie televisiva del Science Channel, intitolata NASA’s Unexplained Files. Se guardate i suoi video promozionali (uno e due) vedrete che il ritmo del montaggio rivela chiaramente che si tratta di un programma di spazzatura sensazionalista alla stregua di Alieni Nuove Rivelazioni. E se ascoltate bene l’inglese, noterete che le dichiarazioni degli intervistati, fra i quali c’è anche l’astronauta lunare Al Worden, sono state palesemente rimontate ad arte per farle sembrare a sostegno del mistero.
Solo che non c'è nessun mistero. A parte quello di come facciano, certi giornalisti nostrani ed esteri, a guardarsi allo specchio la mattina senza vergognarsi, a furia di ingannare i propri lettori pubblicando fandonie senza uno straccio di controllo dei fatti.
Infatti è una balla che l’episodio sia rimasto segreto fino al 2008, nonostante lo scriva anche ANSA: come confermato dalla mia esperienza personale nella raccolta di documentazione spaziale storica e come ribadito dalla NASA su Tumblr (e anche qui), l’audio e le trascrizioni della missione Apollo 10 sono pubblicamente disponibili sin dal 1973 a chiunque ne facesse richiesta presso i National Archives statunitensi. Nel 2012 audio e trascrizioni sono stati inoltre pubblicati online per lo scaricamento libero. Lo spezzone audio in questione è questo (a 2:51 e 7:43); le trascrizioni delle registrazioni a bordo di Apollo 10 sono disponibili qui come scansioni degli originali (uno dei brani in questione è a pagina 241) e qui come trascrizioni digitali.
Ecco quello che dissero gli astronauti durante il quinto giorno di volo, il 23 maggio 1969:
In originale:
Fra l’altro, la vicenda è talmente “top secret” che ne parlò apertamente nel 1974 l’astronauta di Apollo 11 Mike Collins nel suo libro Carrying the Fire, dicendo (nel capitolo 13) che gliel’avevano raccontata, prima che partisse per la Luna, proprio gli astronauti di Apollo 10. Per chi è troppo pigro per consultare un libro, inoltre, tutta la faccenda era già stata sbufalata pubblicamente sette anni fa su Internet da ApolloHoax, come segnalato da Metabunk. Quelli di NASA’s Unexplained Files evidentemente hanno preferito far finta di niente e i giornalisti italiani ed esteri si sono accodati.
È falso anche che “non è mai stata trovata una spiegazione”: fu trovata già nel 1969, spiega Collins nel suo libro. I suoni erano il risultato di normali interferenze fra le radio VHF del modulo lunare e del modulo di comando (le due parti indipendenti nelle quali si divideva il veicolo spaziale per effettuare l’allunaggio).
Se i giornalisti di Repubblica, Corriere, Il Giornale e La Stampa avessero dato un'occhiata alle trascrizioni e ascoltato l’audio originale, invece di fare un pigrissimo copiaincolla dagli articoli di fuffa altrui, si sarebbero accorti che i suoni sono banalissimi (niente “urla”) e che oltretutto gli astronauti li considerano talmente poco misteriosi che subito dopo averli notati si mettono a parlare d’altro. Anzi, uno di loro, John Young, già propone una spiegazione al momento: “Probably due to the VHF ranging, I guess” (“Probabilmente è colpa del rilevamento di distanza VHF, immagino”) e poi cambia discorso. Uno di loro, Gene Cernan, contattato oggi dalla NASA, ha detto chiaro e tondo: “Non mi ricordo che quell’episodio mi abbia emozionato abbastanza da prenderlo sul serio. Probabilmente era soltanto interferenza radio. Se avessimo pensato che fosse qualcosa di diverso, lo avremmo riferito a tutti nei briefing dopo il volo. Non ci abbiamo più pensato per niente.” Lo ha ribadito anche a Fox News.
Se i suddetti giornalisti si fossero soltanto presi la briga di fare una telefonatina a un esperto, si sarebbero accorti di essere stati fregati da una campagna promozionale per un programma-fuffa e avrebbero evitato di propinare ai loro lettori una nuova fregnaccia spaziale. Sarebbe bastato, per esempio, consultare la discussione sull’argomento di Collectspace, noto forum di esperti del settore, oppure mandare un tweet a Luigi Pizzimenti, storico delle missioni Apollo (suo il libro Progetto Apollo: Il sogno più grande dell’uomo), curatore del Padiglione Spazio presso il Museo del Volo Volandia e presidente dell'Associazione per la Divulgazione Astronomica e Astronautica, per entrare in contatto tramite lui con Al Worden, l’astronauta intervistato dal programma del Science Channel, e avere subito una smentita secca della pseudonotizia: “I don't think there is any mystery to the event” (“Non credo che ci sia alcunché di misterioso nell’evento”), ha scritto Worden a Pizzimenti. Worden ha detto molto altro su questa faccenda: ne trovate un resoconto completo qui nel blog di Pizzimenti.
Luigi, fra l’altro, riassume bene il disappunto che prova chi fa vera ricerca storica dell’esplorazione spaziale quando legge queste scempiaggini. Mi scrive in una mail (che cito qui col suo permesso):
Seguite quindi il consiglio di Luigi: scrivete alle redazioni di questi giornali e chiedete loro di giustificare, o almeno rettificare, le balle che vi hanno propinato. E chiedetevi se è questo il modo di fare giornalismo.
Oggi (22 febbraio) ricorre il ventennale del volo spaziale di due italiani insieme: il 22 febbraio 1996 partivano per lo spazio Maurizio Cheli e Umberto Guidoni sullo Shuttle. Sarebbe magari carino parlare dell’eredità delle loro esperienze in occasione dell’anniversario. Macché: i giornalisti di Repubblica, Il Giornale, La Stampa si buttano a pesce invece su un’altra storia spaziale e rifilano ai loro lettori una panzana datata 1969, copiandola dai media fuffaroli americani senza la minima verifica.
La balla pubblicata da queste testate racconta che quando la missione Apollo 10 era dietro la Luna gli astronauti captarono un suono “simile a una musica” che “non fu divulgato per quarant’anni. La Nasa, incapace di spiegare il fenomeno, secretò e archiviò tutto quello che la radio dell’astronave aveva registrato in quel lasso di tempo e rese pubbliche le trascrizioni delle conversazioni avvenute solo nel 2008” (Repubblica).
La Stampa, nella sezione Tuttoscienze, pubblica un articolo a firma di Fulvio Cerutti che dice che l’episodio è “rimasto top secret sino al 2008” ed è un “fenomeno a cui non è mai stata trovata una spiegazione” (l’articolo è stato parzialmente corretto dopo la mia segnalazione).
Il Giornale, a firma di Franco Iacch, scrive che “l’episodio top secret... è stato declassificato in parte solo nel 2008 (con pesanti censure)” e che gli astronauti nelle loro cuffie udirono “urla”. Iacch conclude scrivendo che “Le registrazioni integrali captate dall’Apollo 10 rimangono top secret”.
Il Corriere pubblica sull’argomento un video con didascalia che dice che il “suono, registrato e trascritto dalla Nasa, è rimasto top secret fino al 2008”. Il link è stato successivamente cambiato.
Ne parla anche Panorama con un articolo di Sabrina Pieragostini, scrivendo che “per decenni l’ente spaziale ha preferito mantenere nascosta la notizia”.
Come mai tutto questo improvviso e simultaneo interesse del giornalismo italiano per un’oscura vicenda di quasi cinquant’anni fa? Semplice: hanno tutti fatto copiaincolla dai media americani, in particolare dalle pagine di notizie bislacche dell’Huffington Post (traduzione italiana qui), che stanno pompando la storia per promuovere una nuova serie televisiva del Science Channel, intitolata NASA’s Unexplained Files. Se guardate i suoi video promozionali (uno e due) vedrete che il ritmo del montaggio rivela chiaramente che si tratta di un programma di spazzatura sensazionalista alla stregua di Alieni Nuove Rivelazioni. E se ascoltate bene l’inglese, noterete che le dichiarazioni degli intervistati, fra i quali c’è anche l’astronauta lunare Al Worden, sono state palesemente rimontate ad arte per farle sembrare a sostegno del mistero.
Solo che non c'è nessun mistero. A parte quello di come facciano, certi giornalisti nostrani ed esteri, a guardarsi allo specchio la mattina senza vergognarsi, a furia di ingannare i propri lettori pubblicando fandonie senza uno straccio di controllo dei fatti.
Infatti è una balla che l’episodio sia rimasto segreto fino al 2008, nonostante lo scriva anche ANSA: come confermato dalla mia esperienza personale nella raccolta di documentazione spaziale storica e come ribadito dalla NASA su Tumblr (e anche qui), l’audio e le trascrizioni della missione Apollo 10 sono pubblicamente disponibili sin dal 1973 a chiunque ne facesse richiesta presso i National Archives statunitensi. Nel 2012 audio e trascrizioni sono stati inoltre pubblicati online per lo scaricamento libero. Lo spezzone audio in questione è questo (a 2:51 e 7:43); le trascrizioni delle registrazioni a bordo di Apollo 10 sono disponibili qui come scansioni degli originali (uno dei brani in questione è a pagina 241) e qui come trascrizioni digitali.
Ecco quello che dissero gli astronauti durante il quinto giorno di volo, il 23 maggio 1969:
102:13:02 Cernan: Quella musica suona persino spaziale, vero? Lo senti? Quel fischio?
102:13:06 Stafford: Sì.
102:13:07 Cernan: Whooooooooooo.
102:13:12 Young: Anche tu hai sentito quel fischio?
102:13:14 Cernan: Sì. Sembra, sai, musica spaziale.
102:13:18 Young: Chissà cos’è.
[...]
102:17:58 Cernan: Accidenti, quella è davvero musica strana.
102:18:01 Young: Dovremo scoprire cos’è. Non ci crederà nessuno.
102:18:07 Cernan: No. È un fischio, sai, come una cosa spaziale.
102:18:10 Young: Probabilmente è colpa del rilevamento di distanza VHF, immagino.
In originale:
102:13:02 Cernan: That music even sounds outer-spacey, doesn't it? You hear that? That whistling sound?
102:13:06 Stafford: Yes.
102:13:07 Cernan: Whooooooooooo.
102:13:12 Young: Did you hear that whistling sound, too?
102:13:14 Cernan: Yeah. Sounds like - you know, outer-space-type music.
102:13:18 Young: I wonder what it is.
[...]
102:17:58 Cernan: Boy, that sure is weird music.
102:18:01 Young: We're going to have to find out about that. Nobody will believe us.
102:18:07 Cernan: No. It's a whistling, you know, like an outer space-type thing.
102:18:10 Young: Probably due to the VHF ranging, I'd guess.
Fra l’altro, la vicenda è talmente “top secret” che ne parlò apertamente nel 1974 l’astronauta di Apollo 11 Mike Collins nel suo libro Carrying the Fire, dicendo (nel capitolo 13) che gliel’avevano raccontata, prima che partisse per la Luna, proprio gli astronauti di Apollo 10. Per chi è troppo pigro per consultare un libro, inoltre, tutta la faccenda era già stata sbufalata pubblicamente sette anni fa su Internet da ApolloHoax, come segnalato da Metabunk. Quelli di NASA’s Unexplained Files evidentemente hanno preferito far finta di niente e i giornalisti italiani ed esteri si sono accodati.
È falso anche che “non è mai stata trovata una spiegazione”: fu trovata già nel 1969, spiega Collins nel suo libro. I suoni erano il risultato di normali interferenze fra le radio VHF del modulo lunare e del modulo di comando (le due parti indipendenti nelle quali si divideva il veicolo spaziale per effettuare l’allunaggio).
Se i giornalisti di Repubblica, Corriere, Il Giornale e La Stampa avessero dato un'occhiata alle trascrizioni e ascoltato l’audio originale, invece di fare un pigrissimo copiaincolla dagli articoli di fuffa altrui, si sarebbero accorti che i suoni sono banalissimi (niente “urla”) e che oltretutto gli astronauti li considerano talmente poco misteriosi che subito dopo averli notati si mettono a parlare d’altro. Anzi, uno di loro, John Young, già propone una spiegazione al momento: “Probably due to the VHF ranging, I guess” (“Probabilmente è colpa del rilevamento di distanza VHF, immagino”) e poi cambia discorso. Uno di loro, Gene Cernan, contattato oggi dalla NASA, ha detto chiaro e tondo: “Non mi ricordo che quell’episodio mi abbia emozionato abbastanza da prenderlo sul serio. Probabilmente era soltanto interferenza radio. Se avessimo pensato che fosse qualcosa di diverso, lo avremmo riferito a tutti nei briefing dopo il volo. Non ci abbiamo più pensato per niente.” Lo ha ribadito anche a Fox News.
Se i suddetti giornalisti si fossero soltanto presi la briga di fare una telefonatina a un esperto, si sarebbero accorti di essere stati fregati da una campagna promozionale per un programma-fuffa e avrebbero evitato di propinare ai loro lettori una nuova fregnaccia spaziale. Sarebbe bastato, per esempio, consultare la discussione sull’argomento di Collectspace, noto forum di esperti del settore, oppure mandare un tweet a Luigi Pizzimenti, storico delle missioni Apollo (suo il libro Progetto Apollo: Il sogno più grande dell’uomo), curatore del Padiglione Spazio presso il Museo del Volo Volandia e presidente dell'Associazione per la Divulgazione Astronomica e Astronautica, per entrare in contatto tramite lui con Al Worden, l’astronauta intervistato dal programma del Science Channel, e avere subito una smentita secca della pseudonotizia: “I don't think there is any mystery to the event” (“Non credo che ci sia alcunché di misterioso nell’evento”), ha scritto Worden a Pizzimenti. Worden ha detto molto altro su questa faccenda: ne trovate un resoconto completo qui nel blog di Pizzimenti.
Luigi, fra l’altro, riassume bene il disappunto che prova chi fa vera ricerca storica dell’esplorazione spaziale quando legge queste scempiaggini. Mi scrive in una mail (che cito qui col suo permesso):
“È mai possibile che si pubblichino bufale senza nessun riscontro scientifico? Sono stufo di rispondere in prima persona a domande generate da lettori, che perplessi, mi scrivono se ciò che hanno letto è vero. Per favore: rivolgetevi direttamente a chi scrive cose non vere e non confermate. Esiste una miriade di missioni spaziali in corso e tante in preparazione, lasciate perdere il Programma Apollo e parlate di attualità, magari andando sul posto, verificando le notizie di persona. Perché cercare sempre qualcosa che non esiste per parlare a sproposito del Programma Apollo? Perché ci sono giornalisti che scrivono di cose che non conoscono? Perché parlano di persone che non hanno mai conosciuto? Perché una volta tanto non prendono la valigia e vanno di persona a chiedere come sono andate le cose? Ve lo dico io: perché costa fatica, denaro e tanto lavoro e poi ci vuole passione, tanta passione, e solitamente chi scrive queste bufale tempo e passione non ne ha, ma deve semplicemente riempire uno spazio vuoto.”
Seguite quindi il consiglio di Luigi: scrivete alle redazioni di questi giornali e chiedete loro di giustificare, o almeno rettificare, le balle che vi hanno propinato. E chiedetevi se è questo il modo di fare giornalismo.
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2016/02/20
Apple vs. FBI: il commento di Edward Snowden
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Edward Snowden poco fa ha tweetato parole pesanti come macigni sulla controversia legale fra FBI e Apple che ho riassunto qui. Le traduco qui sotto.
Edward Snowden poco fa ha tweetato parole pesanti come macigni sulla controversia legale fra FBI e Apple che ho riassunto qui. Le traduco qui sotto.
Journalists: Crucial details in the @FBI v. #Apple case are being obscured by officials. Skepticism here is fair: pic.twitter.com/lEVEvOxcNm— Edward Snowden (@Snowden) 19 Febbraio 2016
Giornalisti: i funzionari governativi stanno occultando dettagli fondamentali nel caso FBI contro Apple. Qui è giusto essere scettici:
[traduzione del testo contenuto nell’immagine che accompagna il tweet:]
1) L’FBI ha già tutti i tabulati delle comunicazioni del sospettato – con chi ha parlato e come lo ha fatto – perché questi dati sono già custoditi dai fornitori di servizi, non sul telefonino stesso.
2) L’FBI ha già ricevuto backup completi di tutti i dati del sospettato fino ad appena 6 settimane prima del reato.
3) Copie dei contatti del sospettato con i suoi colleghi – la cosa alla quale l’FBI afferma di essere interessata – sono disponibili in duplicato sui telefonini di quei colleghi.
4) Il telefonino in oggetto è un telefono di lavoro fornito dal governo, soggetto al consenso di monitoraggio; non è un dispositivo segreto di comunicazione per terroristi. I telefonini “operativi” che si ritiene nascondano informazioni incriminanti, recuperati dall’FBI durante una perquisizione, sono stati fisicamente distrutti, non “protetti da Apple”.
5) Esistono mezzi alternativi per ottenere accesso a questo dispositivo – e ad altri – che non richiedono l’assistenza del fabbricante.
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Il Delirio del Giorno: le “scie chimiche” causano 12 milioni di morti l’anno a New York
posso darti le prove dei milioni di morti ogni anno a causa delle scie chimiche. Nei soli Usa parliamo di 40 milioni di morti ogni anno per le scie chimiche di cui ben 12 milioni l’anno nella sola città di new york.
Ho con me i documenti che lo attestano .
se mi darai modo te li fornirò ma prima voglio le scuse che devi a quello che tu chiami complottismo.
Commento inviato da “juventin87” a questo articolo, 2016/02/19 19:11
L'area metropolitana di New York ha 19 milioni di abitanti. D’accordo che i newyorchesi sono notoriamente scorbutici e asociali, ma credo che se ne sparissero dodici milioni l’anno qualcuno lo noterebbe. Attendo con malcelata impazienza le “prove” e i “documenti”.
2016/02/19
Ospedale USA paga 17.000 dollari di riscatto per riavere i propri dati
L’articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale. Ultimo aggiornamento: 2016/02/19 23:25.
Il ransomware si sta rivelando una forma di attacco informatico tristemente efficace nel portar via soldi alle vittime: dagli Stati Uniti arriva la notizia che un ospedale, il Hollywood Presbyterian Medical Center, è stato preso in ostaggio da un ransomware che ne ha paralizzato i sistemi informatici al punto che è stato necessario tornare a registrare i pazienti su carta e recuperare le cartelle cliniche cartacee e la rete informatica è rimasta ferma per oltre una settimana.
Alla fine, dopo dieci giorni di paralisi, i dirigenti dell’ospedale si sono arresi e hanno pagato il riscatto ai criminali che gestivano il ransomware: 40 bitcoin, che al cambio attuale sono circa 17.000 dollari. Il presidente e CEO dell’ospedale ha detto che “il modo più rapido ed efficiente per ripristinare i nostri sistemi e le nostre funzioni amministrative era pagare il riscatto e ottenere la chiave di decifrazione”. È andata tutto sommato bene, visto che la richiesta iniziale di riscatto era di circa 3,6 milioni di dollari [2016/02/19 23:25: questo importo è stato smentito in un comunicato dell’ospedale].
L’attacco con ransomware a un’azienda o a un’istituzione sembra essere la moda del momento fra i criminali, probabilmente perché è più remunerativo rispetto all’attacco a privati: un altro esempio arriva sempre dagli Stati Uniti, in questo caso da Conway, nel South Carolina, dove la rete informatica scolastica delle Horry County Schools è stata colpita con la stessa tecnica che ha messo in ginocchio l’ospedale californiano: buona parte dei dati cifrati dagli aggressori è stata recuperata dai backup, ma resta una ventina di server che ancora contengono file presi in ostaggio, per cui gli amministatori hanno stanziato 8500 dollari per pagare la richiesta di riscatto. I responsabili della rete scolastica hanno detto che sono disposti a pagare perché si tratta di una cifra modesta rispetto alle ore-uomo già sprecate nel tentativo (vano) di risolvere il problema.
Fonti: Ars Technica, Wbtw.com, Los Angeles Times, Ars Technica.
Il ransomware si sta rivelando una forma di attacco informatico tristemente efficace nel portar via soldi alle vittime: dagli Stati Uniti arriva la notizia che un ospedale, il Hollywood Presbyterian Medical Center, è stato preso in ostaggio da un ransomware che ne ha paralizzato i sistemi informatici al punto che è stato necessario tornare a registrare i pazienti su carta e recuperare le cartelle cliniche cartacee e la rete informatica è rimasta ferma per oltre una settimana.
Alla fine, dopo dieci giorni di paralisi, i dirigenti dell’ospedale si sono arresi e hanno pagato il riscatto ai criminali che gestivano il ransomware: 40 bitcoin, che al cambio attuale sono circa 17.000 dollari. Il presidente e CEO dell’ospedale ha detto che “il modo più rapido ed efficiente per ripristinare i nostri sistemi e le nostre funzioni amministrative era pagare il riscatto e ottenere la chiave di decifrazione”. È andata tutto sommato bene, visto che la richiesta iniziale di riscatto era di circa 3,6 milioni di dollari [2016/02/19 23:25: questo importo è stato smentito in un comunicato dell’ospedale].
L’attacco con ransomware a un’azienda o a un’istituzione sembra essere la moda del momento fra i criminali, probabilmente perché è più remunerativo rispetto all’attacco a privati: un altro esempio arriva sempre dagli Stati Uniti, in questo caso da Conway, nel South Carolina, dove la rete informatica scolastica delle Horry County Schools è stata colpita con la stessa tecnica che ha messo in ginocchio l’ospedale californiano: buona parte dei dati cifrati dagli aggressori è stata recuperata dai backup, ma resta una ventina di server che ancora contengono file presi in ostaggio, per cui gli amministatori hanno stanziato 8500 dollari per pagare la richiesta di riscatto. I responsabili della rete scolastica hanno detto che sono disposti a pagare perché si tratta di una cifra modesta rispetto alle ore-uomo già sprecate nel tentativo (vano) di risolvere il problema.
Fonti: Ars Technica, Wbtw.com, Los Angeles Times, Ars Technica.
“Scie chimiche”, risponde l’Ufficio Federale dell’Ambiente svizzero
È un po’ che non parlo delle cosiddette “scie chimiche” per mancanza di novità, ma oggi torno sull’argomento perché è stata resa pubblica una risposta dell’Ufficio Federale dell’Ambiente svizzero (UFAM) alla richiesta di un attivista sostenitore di questa tesi. Concordo con Metabunk che si tratta di una delle risposte ufficiali più complete e meglio scritte in questo campo. Ecco la traduzione dal tedesco della parte saliente:
Se il link all’interrogazione parlamentare citato qui sopra non funziona, ce n’è una copia su Archive.org (anche in italiano).
Per quanto riguarda le sue preoccupazioni riguardanti le scie chimiche, possiamo rassicurarla. La tesi delle cosiddette “scie chimiche” circola su Internet all’incirca dal 2004. A volte è stata anche ripresa dai media. I siti Internet e gli articoli che se ne occupano vengono spesso citati dai cittadini preoccupati. Condivideremmo queste preoccupazioni se ci fossero dei fatti che confermassero la tesi delle scie chimiche. Tuttavia in tutti questi anni non abbiamo trovato alcuna prova che vengano spruzzate sistematicamente sostanze tramite aerei. Inoltre le seguenti argomentazioni contraddicono la tesi delle scie chimiche:
– Il traffico aereo è aumentato enormemente negli ultimi decenni. Di conseguenza le scie di condensazione sono diventate molto più frequenti. A seconda della temperatura e delle condizioni del vento, le scie di condensazione possono persistere a lungo nel cielo e manifestare interruzioni improvvise e vistose forme a ventaglio (i cosiddetti cirri).
– A causa del monitoraggio permanente dello spazio aereo, l'irrorazione sistematica di sostanze chimiche da parte di voli segreti è concretamente impossibile. Eventuali violazioni ripetute dello spazio aereo non verrebbero ignorate, se non altro per via dei rischi conseguenti per il traffico aereo.
Secondo le informazioni a nostra disposizione, la tesi delle scie chimiche è priva di qualunque fondamento pratico. In Svizzera le autorità per la sorveglianza dello spazio aereo, per la salute e per l’ambiente interverrebbero immediatamente se ci fossero indicazioni dell’uso di tali metodi.
In questo senso il Consiglio Federale ha già risposto, il 12 settembre 2007, all’interrogazione “Emissioni di aeromobili” di Luc Recordon (può reperire la risposta al seguente link: http://www.parlament.ch/D/Suche/Seiten/geschaefte.aspx?gesch_id=20073387). Tale risposta è tuttora valida. Il Consiglio Federale, in detta risposta, dichiara: “Perlomeno nello spazio aereo europeo, la tesi delle scie chimiche è priva di fondamento, sia perché l’irrorazione segreta e sistematica di sostanze chimiche è proibita, sia perché essa è all’atto pratico impossibile a causa del monitoraggio permanente dello spazio aereo. Tutti gli aereomobili nello spazio aereo europeo devono attenersi a un piano di volo dettagliato che viene monitorato dal controllo del traffico aereo. In Svizzera lo spazio aereo controllato arriva alla quota di circa 20 chilometri. Anche un solo volo di prova non autorizzato e non identificabile farebbe scattare immediatamente una missione d’intercettazione da parte delle forze aeree svizzere. Se “attività di scie chimiche” siano in corso o si siano svolte al di fuori dell’Europa è al di là delle conoscenze del Consiglio Federale.”
Nella sua lettera lei cita anche i metodi di geoingegneria (per esempio l’immissione di aerosol di zolfo nella stratosfera) mirati a influire sul clima. Questo in considerazione del fatto che il riscaldamento globale potrebbe diventare completamente incontrollabile e che soltanto una misura del genere potrebbe prevenire un riscaldamento catastrofico. In effetti sono in corso delle ricerche che sono anche descritte nel documento informativo dell’UFAM che lei cita. Tuttavia questo non significa che oggi vengano usati tali metodi su vasta scala o che esistano piani per usarli in futuro. Qualunque uso sistematico futuro di tali metodi dovrebbe in ogni caso essere esaminato in dettaglio e coordinato a livello internazionale. Non siamo al corrente di alcuna proposta concreta, da parte di paesi o enti, per l’uso di tali metodi su vasta scala. L’UFAM è scettico su questi metodi ed esaminerebbe con molta attenzione tali proposte per via dei possibili effetti collaterali gravi. Al momento attuale non c’è motivo di usare tali metodi. Gli attuali negoziati in corso alla conferenza sul clima a Parigi hanno lo scopo di prevenire un riscaldamento significativo della Terra tramite una riduzione coordinata globale dei gas serra. Questa, e non l’influsso sul clima su vasta scala, è la strada da seguire anche dal punto di vista dell’UFAM.
Se il link all’interrogazione parlamentare citato qui sopra non funziona, ce n’è una copia su Archive.org (anche in italiano).
Podcast del Disinformatico del 2016/02/19
È disponibile per lo scaricamento il podcast della puntata di oggi del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera. Buon ascolto!
Perché Apple va contro l’FBI sull’antiterrorismo?
L’articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale. Ultimo aggiornamento: 2016/02/19 18:20.
Non capita spesso che una multinazionale difenda i diritti dei cittadini dalle ingerenze del loro governo; di solito è il contrario. Eppure è questo il senso della lettera aperta che Tim Cook, boss di Apple, ha pubblicato in risposta alla richiesta dell’FBI, appoggiata dall’ordine del giudice, di sbloccare un iPhone 5c appartenuto a Syed Farook, che insieme alla moglie Tashfeen Malik ha ucciso 14 persone a dicembre 2015 a San Bernardino, in California. I due sono periti poco dopo in un conflitto a fuoco con la polizia e ora l'FBI vuole accedere all’iPhone di Farook nell’ambito delle proprie indagini, ma non ha la password del dispositivo. Non ce l’ha neanche Apple: l’unico ad averla era Farook.
L’FBI non può tentare tutte le password possibili: ci vorrebbe troppo tempo, perché l’iPhone 5c impone una pausa lunghissima fra i tentativi e c’è il rischio che lo smartphone sia stato impostato in modo da cancellare i dati dopo dieci tentativi sbagliati. Inoltre i dati sul telefonino, in particolare foto e messaggi, sono cifrati e serve un codice di decifrazione.
Gli inquirenti vogliono che Apple scriva una versione su misura di iOS che tolga a quello specifico telefonino le pause obbligate e la cancellazione dei dati, in modo che possano tentare rapidamente tutte le password possibili e alla fine trovare quella giusta.
Come spiega bene The Register, Apple si rifiuta di collaborare per non stabilire un precedente legale pericoloso e preoccupante (lo hanno sottolineato anche Sundar Pichal, CEO di Google, in una serie di tweet; e il consiglio di redazione del New York Times in un editoriale), ma anche perché la protezione della privacy e della sicurezza dei propri clienti è uno dei punti fondamentali della propria immagine commerciale per distinguersi dai concorrenti: in sostanza, acconsentire alla richiesta dell'FBI dimostrerebbe che i suoi telefonini non sono così sicuri come sembrano.
Va detto, a questo proposito, che l’iPhone in questione è un 5c, che non ha le ulteriori protezioni (per esempio la Secure Enclave) introdotte nei modelli successivi. Le autorità federali statunitensi stanno chiedendo ad Apple di dimostrare che è in grado di creare versioni insicure del proprio sistema operativo, minando così alla base la fiducia dei suoi clienti, che si chiederebbero se gli aggiornamenti di iOS contengono falle intenzionali di sicurezza su richiesta governativa.
C'è poi la questione che se Apple accetta la richiesta del governo statunitense rischia di trovarsi di fronte a richieste analoghe di altri governi, che magari hanno una visione molto particolare del concetto di terrorismo e potrebbero citare questo precedente per forzare la mano ad Apple.
Fra l’altro, l’FBI sta chiedendo ad Apple di sabotare la sicurezza generale dei clienti iPhone in cambio di una manciata di dati di utilità discutibile per le indagini: gli inquirenti hanno già ricevuto da Apple i backup del telefonino in questione fino al 19 ottobre, per cui mancano soltanto i dati delle ultime settimane prima dell’attentato, e il telefonino è quello dato a Farook dal Dipartimento per la Salute di San Bernardino per lavoro; i suoi due telefonini privati li ha distrutti preventivamente. Sembra poco plausibile che Farook usasse il telefonino di lavoro per contattare dei terroristi invece di usare i suoi telefonini privati. Questo fa pensare che i dati realmente importanti fossero sui cellulari distrutti e che quello sopravvissuto contenga informazioni poco significative.
Non capita spesso che una multinazionale difenda i diritti dei cittadini dalle ingerenze del loro governo; di solito è il contrario. Eppure è questo il senso della lettera aperta che Tim Cook, boss di Apple, ha pubblicato in risposta alla richiesta dell’FBI, appoggiata dall’ordine del giudice, di sbloccare un iPhone 5c appartenuto a Syed Farook, che insieme alla moglie Tashfeen Malik ha ucciso 14 persone a dicembre 2015 a San Bernardino, in California. I due sono periti poco dopo in un conflitto a fuoco con la polizia e ora l'FBI vuole accedere all’iPhone di Farook nell’ambito delle proprie indagini, ma non ha la password del dispositivo. Non ce l’ha neanche Apple: l’unico ad averla era Farook.
L’FBI non può tentare tutte le password possibili: ci vorrebbe troppo tempo, perché l’iPhone 5c impone una pausa lunghissima fra i tentativi e c’è il rischio che lo smartphone sia stato impostato in modo da cancellare i dati dopo dieci tentativi sbagliati. Inoltre i dati sul telefonino, in particolare foto e messaggi, sono cifrati e serve un codice di decifrazione.
Gli inquirenti vogliono che Apple scriva una versione su misura di iOS che tolga a quello specifico telefonino le pause obbligate e la cancellazione dei dati, in modo che possano tentare rapidamente tutte le password possibili e alla fine trovare quella giusta.
Come spiega bene The Register, Apple si rifiuta di collaborare per non stabilire un precedente legale pericoloso e preoccupante (lo hanno sottolineato anche Sundar Pichal, CEO di Google, in una serie di tweet; e il consiglio di redazione del New York Times in un editoriale), ma anche perché la protezione della privacy e della sicurezza dei propri clienti è uno dei punti fondamentali della propria immagine commerciale per distinguersi dai concorrenti: in sostanza, acconsentire alla richiesta dell'FBI dimostrerebbe che i suoi telefonini non sono così sicuri come sembrano.
Va detto, a questo proposito, che l’iPhone in questione è un 5c, che non ha le ulteriori protezioni (per esempio la Secure Enclave) introdotte nei modelli successivi. Le autorità federali statunitensi stanno chiedendo ad Apple di dimostrare che è in grado di creare versioni insicure del proprio sistema operativo, minando così alla base la fiducia dei suoi clienti, che si chiederebbero se gli aggiornamenti di iOS contengono falle intenzionali di sicurezza su richiesta governativa.
C'è poi la questione che se Apple accetta la richiesta del governo statunitense rischia di trovarsi di fronte a richieste analoghe di altri governi, che magari hanno una visione molto particolare del concetto di terrorismo e potrebbero citare questo precedente per forzare la mano ad Apple.
Fra l’altro, l’FBI sta chiedendo ad Apple di sabotare la sicurezza generale dei clienti iPhone in cambio di una manciata di dati di utilità discutibile per le indagini: gli inquirenti hanno già ricevuto da Apple i backup del telefonino in questione fino al 19 ottobre, per cui mancano soltanto i dati delle ultime settimane prima dell’attentato, e il telefonino è quello dato a Farook dal Dipartimento per la Salute di San Bernardino per lavoro; i suoi due telefonini privati li ha distrutti preventivamente. Sembra poco plausibile che Farook usasse il telefonino di lavoro per contattare dei terroristi invece di usare i suoi telefonini privati. Questo fa pensare che i dati realmente importanti fossero sui cellulari distrutti e che quello sopravvissuto contenga informazioni poco significative.
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Aggiornamento di Adobe Creative Cloud cancella(va) i dati degli utenti Mac
Di solito raccomando di installare sempre prontamente gli aggiornamenti del software, ma stavolta non lo posso fare. C'è stato infatti un brutto inciampo per Adobe: l'ultimo degli aggiornamenti periodici della suite di elaborazione grafica Adobe Creative Cloud cancellava per sbaglio i dati degli utenti Mac. Specificamente cancellava quelli contenuti nella prima cartella in ordine alfabetico che trovava nella directory di root del Mac: un posto dove spesso vengono scritti dati importanti per la gestione del sistema oppure copie di sicurezza dei dati dell’utente, per cui perdere una cartella senza accorgersene (e in maniera così inattesa) può essere decisamente spiacevole.
Come faccia un aggiornamento a contenere un’istruzione che cancella la prima cartella che trova senza nemmeno controllarne il nome è un mistero che è meglio non sondare, ma il problema ora è stato risolto con un nuovo aggiornamento.
Se usate questa suite e avete installato l’aggiornamento difettoso, che è la versione 3.5.0.206, controllate di non aver perso nulla; se non l'avete ancora installato, siete fortunati e potete procedere con l’installazione dell’aggiornamento corretto che è stato rilasciato da Adobe.
Fonti: The Register, BBC, Backblaze, Adobe.
Come faccia un aggiornamento a contenere un’istruzione che cancella la prima cartella che trova senza nemmeno controllarne il nome è un mistero che è meglio non sondare, ma il problema ora è stato risolto con un nuovo aggiornamento.
Se usate questa suite e avete installato l’aggiornamento difettoso, che è la versione 3.5.0.206, controllate di non aver perso nulla; se non l'avete ancora installato, siete fortunati e potete procedere con l’installazione dell’aggiornamento corretto che è stato rilasciato da Adobe.
Fonti: The Register, BBC, Backblaze, Adobe.
Non impostate la data del vostro iPhone all’1/1/1970
L’articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale. Ultimo aggiornamento: 2016/02/19 8:15.
Durante la puntata precedente del Disinformatico radiofonico su ReteTre è arrivata in diretta la segnalazione di un ascoltatore, Benat, che diceva che stava circolando un messaggio che invitava i proprietari di iPhone a impostare la data dell’1/1/1970 e riavviarlo per ricevere un “uovo di Pasqua” ma era in realtà un inganno piuttosto pesante: chi seguiva quest’invito si trovava con lo smartphone completamente bloccato e impossibile da riavviare o ripristinare. L’unico rimedio era riportarlo a un negozio per l’assistenza tecnica. Durante la diretta non c’è stato tempo di verificare la segnalazione, per cui ho promesso di parlarne nella puntata successiva e di scriverne qui.
L’inganno è reale, quindi non impostate il vostro iPhone al primo gennaio 1970: se è un modello 5s o superiore, dopo un riavvio si bloccherà completamente. La stessa avvertenza vale per gli iPad Air e iPad Mini 2 e per gli iPod touch di sesta generazione. Apple raccomanda di non impostare date di maggio 1970 o precedenti e dice che un aggiornamento software imminente permetterà di prevenire il problema.
L’unico modo noto finora per sbloccare un dispositivo bloccato in questa maniera è lasciare che la sua batteria si scarichi completamente, oppure aprirlo (cosa non facile) e scollegare la batteria.
Lo scherzo è nato presso 4chan, famoso (o famigerato) luogo online di raduno di internauti che hanno una propensione per le provocazioni, le trasgressioni e gli scherzi di dubbio gusto.
Ma perché gli iCosi hanno questo strano comportamento? E come mai ce l’hanno soltanto certi modelli? La spiegazione esatta è per ora ignota, ma è presumibilmente legata a due fatti indiscussi: il primo è che tutti i dispositivi colpiti hanno processori a 64 bit e il secondo è che l’1/1/1970 non è una data a caso ma è il giorno d’inizio della cosiddetta epoca Unix, ossia è la data dalla quale i sistemi operativi basati su Unix (come appunto iOS) iniziano per convenzione a contare il tempo, rappresentandolo come il numero di secondi trascorso da allora (per la precisione dalle 0:00:00 dell’1/1/1970).
In attesa di eventuali chiarimenti da Apple, la teoria prevalente sul problema di data degli iCosi è quindi che le loro versioni a 64 bit sbagliano a gestire i calcoli del tempo quando la data è vicina allo zero dell'epoca Unix. Tom Scott ipotizza che ci sia di mezzo un integer underflow: una sorta di millennium bug legato alla gestione delle date in Unix. Comunque stiano le cose, lasciate stare la data del vostro dispositivo: il tempo è una cosa seria.
Fonti aggiuntive: Gizmodo, Catb.org, Apple, Ars Technica.
Durante la puntata precedente del Disinformatico radiofonico su ReteTre è arrivata in diretta la segnalazione di un ascoltatore, Benat, che diceva che stava circolando un messaggio che invitava i proprietari di iPhone a impostare la data dell’1/1/1970 e riavviarlo per ricevere un “uovo di Pasqua” ma era in realtà un inganno piuttosto pesante: chi seguiva quest’invito si trovava con lo smartphone completamente bloccato e impossibile da riavviare o ripristinare. L’unico rimedio era riportarlo a un negozio per l’assistenza tecnica. Durante la diretta non c’è stato tempo di verificare la segnalazione, per cui ho promesso di parlarne nella puntata successiva e di scriverne qui.
L’inganno è reale, quindi non impostate il vostro iPhone al primo gennaio 1970: se è un modello 5s o superiore, dopo un riavvio si bloccherà completamente. La stessa avvertenza vale per gli iPad Air e iPad Mini 2 e per gli iPod touch di sesta generazione. Apple raccomanda di non impostare date di maggio 1970 o precedenti e dice che un aggiornamento software imminente permetterà di prevenire il problema.
L’unico modo noto finora per sbloccare un dispositivo bloccato in questa maniera è lasciare che la sua batteria si scarichi completamente, oppure aprirlo (cosa non facile) e scollegare la batteria.
Lo scherzo è nato presso 4chan, famoso (o famigerato) luogo online di raduno di internauti che hanno una propensione per le provocazioni, le trasgressioni e gli scherzi di dubbio gusto.
Ma perché gli iCosi hanno questo strano comportamento? E come mai ce l’hanno soltanto certi modelli? La spiegazione esatta è per ora ignota, ma è presumibilmente legata a due fatti indiscussi: il primo è che tutti i dispositivi colpiti hanno processori a 64 bit e il secondo è che l’1/1/1970 non è una data a caso ma è il giorno d’inizio della cosiddetta epoca Unix, ossia è la data dalla quale i sistemi operativi basati su Unix (come appunto iOS) iniziano per convenzione a contare il tempo, rappresentandolo come il numero di secondi trascorso da allora (per la precisione dalle 0:00:00 dell’1/1/1970).
In attesa di eventuali chiarimenti da Apple, la teoria prevalente sul problema di data degli iCosi è quindi che le loro versioni a 64 bit sbagliano a gestire i calcoli del tempo quando la data è vicina allo zero dell'epoca Unix. Tom Scott ipotizza che ci sia di mezzo un integer underflow: una sorta di millennium bug legato alla gestione delle date in Unix. Comunque stiano le cose, lasciate stare la data del vostro dispositivo: il tempo è una cosa seria.
Fonti aggiuntive: Gizmodo, Catb.org, Apple, Ars Technica.
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2016/02/16
Podcast del Disinformatico: li preferite con la musica o senza?
Mi avete scritto e tweetato in molti chiedendo come mai nelle ultime due puntate del Disinformatico radiofonico c’è la musica che prima veniva tagliata: è una scelta della redazione per uniformità con gli altri programmi di ReteTre. Questo nuovo formato vi piace di più, di meno, o vi è indifferente? Fatemelo sapere con questo sondaggio via Twitter: vorrei capire se le contrarietà che ho ricevuto sono un sentimento condiviso. Grazie!
Sondaggio: preferite i podcast del Disinformatico di @retetre con la musica o senza?— Paolo Attivissimo (@disinformatico) 16 Febbraio 2016
Sì, una cometa passerà “vicino” alla Terra a marzo. MORIREMO TUTTI
Non ho foto di comete adatte alla notizia, per cui metto la foto di un gatto, che ci sta sempre bene. |
Moriremo tutti, sì; ma di noia. Il 23 marzo la cometa P/2016 BA14 raggiungerà la propria distanza minima dalla Terra, pari a circa tre milioni e mezzo di chilometri, grosso modo nove volte la distanza fra la Terra e la Luna, ma il suo passaggio non causerà alcun effetto e non ci sarà nulla da vedere: si stima che sarà un oggetto di magnitudine 13 (21 assoluta), quindi completamente invisibile a occhio nudo.
Il pericolo comportato da questo passaggio “ravvicinato” è zero. O meglio, c’è il pericolo che i soliti catastrofisti a caccia di notizie acchiappaclic ne approfittino bassamente. Per cui pubblico qui quest’antibufala astronomica preventiva includendo i dati del Minor Planet Center, riferimento mondiale per asteroidi e comete. L’MPC, fra l’altro, segnala che altre comete si sono avvicinate alla Terra più di questa e non siamo morti. Neanche di noia.
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2016/02/14
Torna “Ti porto la Luna”: una roccia lunare in tour in Italia
Siamo pazzi. L’anno scorso Luigi Pizzimenti ed io, con l’aiuto di tanti altri matti malati di Luna, abbiamo fatto una cosa che nessuno aveva mai pensato di fare prima: andare alla NASA a Houston, dove sono conservati i campioni di roccia lunare raccolti dagli astronauti delle missioni Apollo, e chiederne uno in prestito per portarlo in giro per l’Italia, presso scuole, teatri e osservatori, per raccontare la storia straordinaria di quella roccia e degli uomini che l’hanno portata sulla Terra.
La NASA ha detto sì (non a me, ma a Luigi, che è accreditato per il prelievo e il trasporto di questi campioni inestimabili) e abbiamo fatto diciannove tappe in meno di un mese: è stato un tour de force intensissimo, incredibilmente impegnativo, ma premiato dall’entusiasmo di migliaia di persone di tutte le età.
E siccome siamo pazzi, lo rifacciamo.
La roccia sarà in tour dal primo aprile al 30 maggio 2016 e la sua storia verrà raccontata da Luigi insieme al sottoscritto, al giornalista Paolo D’Angelo, grande conoscitore delle missioni spaziali, e a Paolo Miniussi, direttore dell'associazione Octobersky.
Come per la prima edizione, anche per Ti porto la Luna 2016 l’incontro con la roccia lunare sarà accompagnato da riprese e immagini rare e restaurate, che riveleranno aspetti inattesi e poco conosciuti di un’avventura che diventa sempre più eccezionale man mano che passano gli anni – troppi – che ci separano da quel breve periodo, fra il 1969 e il 1972, nel quale abbiamo osato lasciare, sia pure per qualche istante, la nostra culla cosmica.
In una coincidenza molto simbolica, che ci ricorda appunto quanto passa veloce il tempo, la roccia che verrà portata in tour sarà una di quelle raccolte dalla missione Apollo 14, quella di cui fece parte l’astronauta Edgar Mitchell recentemente scomparso proprio in occasione del quarantacinquesimo anniversario del suo volo nello spazio verso la Luna. Specificamente si tratta del campione 14310,221 (019), i cui dati geologici sono pubblicati dalla NASA qui, qui e qui e da Virtual Microscope qui. E se volete un assaggio di un articolo scientifico di analisi di questa specifica roccia, provate a leggere Role of water in the evolution of the lunar crust; an experimental study of sample 14310; an indication of lunar calc-alkaline volcanism, di Ford, C. E., Biggar, G. M., Humphries, D. J., Wilson, G., Dixon, D., e O'Hara, M. J., pubblicato nei Proceedings of the Lunar Science Conference nel 1972. Poi ditemi se è pensabile che non solo tutta questa documentazione sia stata inventata, come sostengono i teorici del complotto, ma che sia stata inventata senza che i geologi di tutto il mondo se ne siano accorti. In quasi cinquant’anni.
Se volete saperne di più sul tour Ti porto la Luna 2016, consultate il calendario degli appuntamenti e i dettagli organizzativi qui sul blog di Luigi Pizzimenti, seguite Luigi su Twitter (@luigipizzimenti) e usate gli hashtag #tiportolaluna2016 oppure #tiportolaluna.
Ad astra!
La NASA ha detto sì (non a me, ma a Luigi, che è accreditato per il prelievo e il trasporto di questi campioni inestimabili) e abbiamo fatto diciannove tappe in meno di un mese: è stato un tour de force intensissimo, incredibilmente impegnativo, ma premiato dall’entusiasmo di migliaia di persone di tutte le età.
E siccome siamo pazzi, lo rifacciamo.
La roccia sarà in tour dal primo aprile al 30 maggio 2016 e la sua storia verrà raccontata da Luigi insieme al sottoscritto, al giornalista Paolo D’Angelo, grande conoscitore delle missioni spaziali, e a Paolo Miniussi, direttore dell'associazione Octobersky.
Come per la prima edizione, anche per Ti porto la Luna 2016 l’incontro con la roccia lunare sarà accompagnato da riprese e immagini rare e restaurate, che riveleranno aspetti inattesi e poco conosciuti di un’avventura che diventa sempre più eccezionale man mano che passano gli anni – troppi – che ci separano da quel breve periodo, fra il 1969 e il 1972, nel quale abbiamo osato lasciare, sia pure per qualche istante, la nostra culla cosmica.
In una coincidenza molto simbolica, che ci ricorda appunto quanto passa veloce il tempo, la roccia che verrà portata in tour sarà una di quelle raccolte dalla missione Apollo 14, quella di cui fece parte l’astronauta Edgar Mitchell recentemente scomparso proprio in occasione del quarantacinquesimo anniversario del suo volo nello spazio verso la Luna. Specificamente si tratta del campione 14310,221 (019), i cui dati geologici sono pubblicati dalla NASA qui, qui e qui e da Virtual Microscope qui. E se volete un assaggio di un articolo scientifico di analisi di questa specifica roccia, provate a leggere Role of water in the evolution of the lunar crust; an experimental study of sample 14310; an indication of lunar calc-alkaline volcanism, di Ford, C. E., Biggar, G. M., Humphries, D. J., Wilson, G., Dixon, D., e O'Hara, M. J., pubblicato nei Proceedings of the Lunar Science Conference nel 1972. Poi ditemi se è pensabile che non solo tutta questa documentazione sia stata inventata, come sostengono i teorici del complotto, ma che sia stata inventata senza che i geologi di tutto il mondo se ne siano accorti. In quasi cinquant’anni.
Se volete saperne di più sul tour Ti porto la Luna 2016, consultate il calendario degli appuntamenti e i dettagli organizzativi qui sul blog di Luigi Pizzimenti, seguite Luigi su Twitter (@luigipizzimenti) e usate gli hashtag #tiportolaluna2016 oppure #tiportolaluna.
Ad astra!
2016/02/13
Lezioni di giornalismo avanzato: “Big Ben” è un grosso orologio, non l’inizio dell’Universo
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete incoraggiarmi a scrivere ancora (anche con un microabbonamento). Ultimo aggiornamento: 2016/02/13 11:45.
Il Giornale ci insegna come si fa il giornalismo pubblicando un articolo intitolato “Vi spiego cosa sono le onde gravitazionali” in cui la giornalista, Serena Pizzi, intervista Giovanni Prodi, “uno dei massimi esperti della materia... fisico sperimentale e professore di fisica all’Università di Trento”.
Potreste aspettarvi che un giornale serio, per intervistare un esperto su un argomento complesso e scientifico come le onde gravitazionali, mandi qualcuno che abbia almeno un’infarinatura di fisica o di astronomia. Macché: ci manda qualcuno che non sa la differenza fra Big Ben (la celeberrima campana che per estensione dà il nome anche al celeberrimo orologio montato sulla celeberrima torre a Londra) e Big Bang (l’espansione esplosiva che ha dato origine all’universo).
Dice infatti la Pizzi: “I fenomeni dell'Universo, da questo momento, saranno più comprensibili? E il Big Ben?”
Su, Paolo, non infierire, direte voi. Un errore di battitura può capitare a tutti. Un momento di distrazione, un calo di zuccheri, un caffé di troppo. Ma non è un errore, perché la stessa perla ricompare più avanti, insieme ad altri tre svarioni (cinque se includiamo quelli tecnici): “I segnali che abbiamo raccolto ieri appartengono ad un universo di 1 miliardi e tre anni fa da noi. Per riuscire ad arrivare agli anni del Big Ben bisgonerà potenziare i nostri strumenti.” Questo è quello che la Pizzi fa dire al povero Prodi.
L’errore di confondere Big Ben e Big Bang è uno dei più ricorrenti nel giornalismo italiano: un vero e proprio pons asinorum. Gli anni passano, l’errore resta.
Lezione di giornalismo avanzato: Ricordati che Big Ben è un orologio e Big Bang è un concetto di astrofisica. Ah, e Big Babol è una cicca e non c’entra un c*zzo con gli altri due.
E poi i giornalisti si chiedono perché gli scienziati sono spesso riluttanti a farsi intervistare.
Screenshot e copia su Archive.is per documentare il tutto:
Se non trovate tutti e cinque gli svarioni nella frase finale della Pizzi, la soluzione è nei commenti.
Aggiornamento (2016/02/13 11:45): L’articolo de Il Giornale è stato corretto, ma solo per la parte riguardante il Big Ben/Bang.
L’origine dell’universo secondo Il Giornale e Serena Pizzi. Credit: Wikipedia. |
Potreste aspettarvi che un giornale serio, per intervistare un esperto su un argomento complesso e scientifico come le onde gravitazionali, mandi qualcuno che abbia almeno un’infarinatura di fisica o di astronomia. Macché: ci manda qualcuno che non sa la differenza fra Big Ben (la celeberrima campana che per estensione dà il nome anche al celeberrimo orologio montato sulla celeberrima torre a Londra) e Big Bang (l’espansione esplosiva che ha dato origine all’universo).
Dice infatti la Pizzi: “I fenomeni dell'Universo, da questo momento, saranno più comprensibili? E il Big Ben?”
Su, Paolo, non infierire, direte voi. Un errore di battitura può capitare a tutti. Un momento di distrazione, un calo di zuccheri, un caffé di troppo. Ma non è un errore, perché la stessa perla ricompare più avanti, insieme ad altri tre svarioni (cinque se includiamo quelli tecnici): “I segnali che abbiamo raccolto ieri appartengono ad un universo di 1 miliardi e tre anni fa da noi. Per riuscire ad arrivare agli anni del Big Ben bisgonerà potenziare i nostri strumenti.” Questo è quello che la Pizzi fa dire al povero Prodi.
L’errore di confondere Big Ben e Big Bang è uno dei più ricorrenti nel giornalismo italiano: un vero e proprio pons asinorum. Gli anni passano, l’errore resta.
Lezione di giornalismo avanzato: Ricordati che Big Ben è un orologio e Big Bang è un concetto di astrofisica. Ah, e Big Babol è una cicca e non c’entra un c*zzo con gli altri due.
E poi i giornalisti si chiedono perché gli scienziati sono spesso riluttanti a farsi intervistare.
Screenshot e copia su Archive.is per documentare il tutto:
Se non trovate tutti e cinque gli svarioni nella frase finale della Pizzi, la soluzione è nei commenti.
Aggiornamento (2016/02/13 11:45): L’articolo de Il Giornale è stato corretto, ma solo per la parte riguardante il Big Ben/Bang.
Asteroide scoperto ieri è passato stamattina a 85.000 km dalla Terra
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Il Minor Planet Center, centro di avvistamento di asteroidi, ha segnalato stanotte che l’asteroide 2016 CM194 sarebbe passato a 0.22 distanze lunari dalla Terra (0.20 DL dalla superficie terrestre), ossia a circa 85.000 km, stamattina alle 7.53 UT (8:53 ora dell’Europa centrale). Le dimensioni stimate sono fra 5 e 19 metri e la velocità è di 6,3 km/s.
I dettagli pubblicati dall’MPC indicano alcuni aspetti interessanti:
– per chi teme una congiura del silenzio, basta guardare quanti osservatori sono stati coinvolti nel tracciamento dell’oggetto;
– per chi teme che non siamo sufficientemente attrezzati per avvistare in tempo eventuali asteroidi in rotta di collisione, va notato che questo asteroide è stato avvistato per la prima volta ieri e quindi non ci sarebbe stato preavviso sufficiente per fare qualunque intervento di deviazione o di preparazione nella zona d’impatto;
– immettendo i parametri noti nel simulatore d’impatti dell’Imperial College e ipotizzando il caso peggiore (asteroide ferroso, quindi massiccio e compatto, e angolo d’impatto di 90°) si ottiene un cratere di circa 500 metri piuttosto devastante; ipotizzando il caso più probabile (asteroide poroso e angolo d’impatto di 45°) si ottiene una frammentazione dell’asteroide nell’atmosfera, senza formazione di cratere ma con pioggia di frammenti e un’onda di pressione quasi trascurabile.
Buona giornata.
Il Minor Planet Center, centro di avvistamento di asteroidi, ha segnalato stanotte che l’asteroide 2016 CM194 sarebbe passato a 0.22 distanze lunari dalla Terra (0.20 DL dalla superficie terrestre), ossia a circa 85.000 km, stamattina alle 7.53 UT (8:53 ora dell’Europa centrale). Le dimensioni stimate sono fra 5 e 19 metri e la velocità è di 6,3 km/s.
I dettagli pubblicati dall’MPC indicano alcuni aspetti interessanti:
– per chi teme una congiura del silenzio, basta guardare quanti osservatori sono stati coinvolti nel tracciamento dell’oggetto;
– per chi teme che non siamo sufficientemente attrezzati per avvistare in tempo eventuali asteroidi in rotta di collisione, va notato che questo asteroide è stato avvistato per la prima volta ieri e quindi non ci sarebbe stato preavviso sufficiente per fare qualunque intervento di deviazione o di preparazione nella zona d’impatto;
– immettendo i parametri noti nel simulatore d’impatti dell’Imperial College e ipotizzando il caso peggiore (asteroide ferroso, quindi massiccio e compatto, e angolo d’impatto di 90°) si ottiene un cratere di circa 500 metri piuttosto devastante; ipotizzando il caso più probabile (asteroide poroso e angolo d’impatto di 45°) si ottiene una frammentazione dell’asteroide nell’atmosfera, senza formazione di cratere ma con pioggia di frammenti e un’onda di pressione quasi trascurabile.
Buona giornata.
2016/02/12
Podcast del Disinformatico del 2016/02/12
È disponibile per lo scaricamento il podcast della puntata di oggi del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera. Buon ascolto!
Falla di Facebook permetteva di rubare gli account: risolta
La raccomandazione di non considerare privata qualunque cosa immessa in un social network ha trovato una dimostrazione molto ingegnosa pochi giorni fa: è infatti emerso che Facebook aveva una falla che consentiva di leggere e vedere tutto il contenuto degli account altrui.
La falla è stata scoperta a luglio 2015 da un ricercatore di sicurezza britannico, noto con il nomignolo finite, che l’ha tenuta segreta e segnalata a Facebook, ricevendo una ricompensa di circa 7500 dollari. Ricompensa meritata, visto che scoprire e sfruttare la falla richiedeva un ingegno davvero notevole e una creatività altrettanto sviluppata.
Finite ha infatti scoperto un modo di iniettare del contenuto creato da lui all’interno delle pagine generate da Facebook e soprattutto di far credere a Facebook che si trattasse di contenuto creato da Facebook e non dal ricercatore di sicurezza: in gergo tecnico, un classico cross-site scripting.
Fin qui nulla di straordinario: quello che merita una lode particolare è il contenuto iniettato da finite, ossia un’immagine. Siccome il testo viene (giustamente) filtrato da Facebook, perché potrebbe essere interpretato come istruzioni da eseguire, mentre le immagini sono considerate innocue, finite ha creato un’immagine in formato PNG, quindi compressa, che una volta interpretata e scompattata da Facebook diventa testo e specificamente diventa uno script che Facebook interpreta come proprio e quindi esegue senza restrizioni, permettendo di prendere il controllo degli account altrui. Geniale.
I dettagli sono raccontati da finite qui. L’immagine che ha adoperato è quella mostrata qui sopra, ma non provate a usarla: Facebook ha chiuso subito la falla che veniva sfruttata tramite quest’immagine.
La falla è stata scoperta a luglio 2015 da un ricercatore di sicurezza britannico, noto con il nomignolo finite, che l’ha tenuta segreta e segnalata a Facebook, ricevendo una ricompensa di circa 7500 dollari. Ricompensa meritata, visto che scoprire e sfruttare la falla richiedeva un ingegno davvero notevole e una creatività altrettanto sviluppata.
Finite ha infatti scoperto un modo di iniettare del contenuto creato da lui all’interno delle pagine generate da Facebook e soprattutto di far credere a Facebook che si trattasse di contenuto creato da Facebook e non dal ricercatore di sicurezza: in gergo tecnico, un classico cross-site scripting.
Fin qui nulla di straordinario: quello che merita una lode particolare è il contenuto iniettato da finite, ossia un’immagine. Siccome il testo viene (giustamente) filtrato da Facebook, perché potrebbe essere interpretato come istruzioni da eseguire, mentre le immagini sono considerate innocue, finite ha creato un’immagine in formato PNG, quindi compressa, che una volta interpretata e scompattata da Facebook diventa testo e specificamente diventa uno script che Facebook interpreta come proprio e quindi esegue senza restrizioni, permettendo di prendere il controllo degli account altrui. Geniale.
I dettagli sono raccontati da finite qui. L’immagine che ha adoperato è quella mostrata qui sopra, ma non provate a usarla: Facebook ha chiuso subito la falla che veniva sfruttata tramite quest’immagine.
La vostra prossima suoneria? Createla con le onde gravitazionali
L’articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale. Ultimo aggiornamento: 2016/02/13 01:00.
Ieri è stato il grande giorno della scoperta delle onde gravitazionali. Una rivoluzione straordinaria per l’astronomia, che ora ha un canale di esplorazione aggiuntivo oltre alla luce, alle onde radio e ai raggi X già usati dai rispettivi tipi di telescopio per sondare il cosmo. Ma a qualcuno è venuta spontanea la solita, inevitabile domanda: in pratica, questa scoperta cosa cambia?
La risposta seria è che è raro che la ricerca di punta porti a risultati pratici immediati, ma lo fa quasi sempre a lungo termine. Per esempio, i raggi X sembravano una bizzarria fino a quando ci si è resi conto che potevano essere usati per la medicina e la chirurgia e le radiografie non sono diventate subito un'abitudine. Le reazioni nucleari sembravano inutili curiosità fino a quando il mondo ha scoperto con orrore che una singola bomba atomica aveva distrutto la città di Hiroshima. E così via.
Ma la risposta meno seria è che stavolta c'è davvero un risultato pratico subito pronto: la suoneria più cool dell'universo. Ieri, infatti, è stata presentata la conversione in suono dell’onda gravitazionale captata. Eccola:
È un suono inquietante e suggestivo, specialmente se si considera la sua origine straordinaria: due lontanissimi buchi neri, corpi celesti alla cui gravità non sfugge neppure la luce, ciascuno trenta volte più massiccio del nostro Sole, che si sono scontrati e fusi insieme un miliardo e trecento milioni di anni fa, liberando in un istante cinquanta volte più potenza di tutte le stelle nell’universo osservabile e creando un’onda che corre fra le stelle da oltre un miliardo di anni, piegando lo spazio e il tempo, ossia la struttura stessa dell’universo, al suo passaggio.
Convertite questo video in un file audio e usatelo come suoneria. Così quando vi chiederanno che cos’è, potrete rispondere con disinvoltura che è il suono dello scontro stellare più potente mai registrato, o se preferite di due stelle giganti che s’accoppiano fino a diventare una cosa sola.
Non vi convince? Troppo nerd? È sempre meglio di quel petulante e onnipresente fischiettìo che si usa di solito per annunciare l’arrivo di un messaggio.
Ieri è stato il grande giorno della scoperta delle onde gravitazionali. Una rivoluzione straordinaria per l’astronomia, che ora ha un canale di esplorazione aggiuntivo oltre alla luce, alle onde radio e ai raggi X già usati dai rispettivi tipi di telescopio per sondare il cosmo. Ma a qualcuno è venuta spontanea la solita, inevitabile domanda: in pratica, questa scoperta cosa cambia?
La risposta seria è che è raro che la ricerca di punta porti a risultati pratici immediati, ma lo fa quasi sempre a lungo termine. Per esempio, i raggi X sembravano una bizzarria fino a quando ci si è resi conto che potevano essere usati per la medicina e la chirurgia e le radiografie non sono diventate subito un'abitudine. Le reazioni nucleari sembravano inutili curiosità fino a quando il mondo ha scoperto con orrore che una singola bomba atomica aveva distrutto la città di Hiroshima. E così via.
Ma la risposta meno seria è che stavolta c'è davvero un risultato pratico subito pronto: la suoneria più cool dell'universo. Ieri, infatti, è stata presentata la conversione in suono dell’onda gravitazionale captata. Eccola:
È un suono inquietante e suggestivo, specialmente se si considera la sua origine straordinaria: due lontanissimi buchi neri, corpi celesti alla cui gravità non sfugge neppure la luce, ciascuno trenta volte più massiccio del nostro Sole, che si sono scontrati e fusi insieme un miliardo e trecento milioni di anni fa, liberando in un istante cinquanta volte più potenza di tutte le stelle nell’universo osservabile e creando un’onda che corre fra le stelle da oltre un miliardo di anni, piegando lo spazio e il tempo, ossia la struttura stessa dell’universo, al suo passaggio.
Convertite questo video in un file audio e usatelo come suoneria. Così quando vi chiederanno che cos’è, potrete rispondere con disinvoltura che è il suono dello scontro stellare più potente mai registrato, o se preferite di due stelle giganti che s’accoppiano fino a diventare una cosa sola.
Non vi convince? Troppo nerd? È sempre meglio di quel petulante e onnipresente fischiettìo che si usa di solito per annunciare l’arrivo di un messaggio.
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Amazombi!
Avete presente che si dice sempre che bisogna leggere bene e fino in fondo le clausole di ogni contratto che si accetta? E avete presente che non lo fa nessuno, specialmente per i contratti dei servizi su Internet? Amazon ha pensato di approfittare di questa diffusissima cattiva abitudine per nascondere una chicca contrattuale notevole: la clausola anti-zombi.
Non sto scherzando: è realmente presente una clausola che parla di zombi, una sorta di easter egg o di ricompensa per chi si prende la briga di leggere le condizioni di Amazon Web Services almeno fino alla cinquantasettesima clausola compresa.
Questa clausola infatti parla di usi accettabili di un motore per giochi 3D di Amazon e dei suoi materiali e dice che questi materiali “non sono concepiti per l’uso con sistemi critici per la sopravvivenza o la sicurezza, come l’uso nell’azionamento di apparati medici, sistemi di trasporto automatici, veicoli autonomi, aerei o controllo del traffico aereo, impianti nucleari, veicoli spaziali con equipaggio, o uso militare in relazione al combattimento non simulato.” Fin qui sembra una restrizione standard, ma poi la clausola prende una piega decisamente bizzarra: “Tuttavia questa restrizione non si applica al verificarsi (certificato dai Centri per il Controllo delle Patologie degli Stati Uniti o dall’ente ad essi successore) di un’infezione virale ad ampia diffusione, trasmessa mediante morsi o contatto con fluidi corporei, che induca i cadaveri umani a rianimarsi e cercare di consumare carne umana, sangue, cervelli o tessuto nervoso di esseri umani viventi e che probabilmente causerà la caduta della civiltà organizzata”.
In altre parole, Amazon, in un contratto legalmente vincolante, sta parlando seriamente di zombi.
Questo è l'originale:
Umorismo per avvocati geek. Ringrazio i tanti lettori che mi hanno segnalato questa chicca.
Non sto scherzando: è realmente presente una clausola che parla di zombi, una sorta di easter egg o di ricompensa per chi si prende la briga di leggere le condizioni di Amazon Web Services almeno fino alla cinquantasettesima clausola compresa.
Questa clausola infatti parla di usi accettabili di un motore per giochi 3D di Amazon e dei suoi materiali e dice che questi materiali “non sono concepiti per l’uso con sistemi critici per la sopravvivenza o la sicurezza, come l’uso nell’azionamento di apparati medici, sistemi di trasporto automatici, veicoli autonomi, aerei o controllo del traffico aereo, impianti nucleari, veicoli spaziali con equipaggio, o uso militare in relazione al combattimento non simulato.” Fin qui sembra una restrizione standard, ma poi la clausola prende una piega decisamente bizzarra: “Tuttavia questa restrizione non si applica al verificarsi (certificato dai Centri per il Controllo delle Patologie degli Stati Uniti o dall’ente ad essi successore) di un’infezione virale ad ampia diffusione, trasmessa mediante morsi o contatto con fluidi corporei, che induca i cadaveri umani a rianimarsi e cercare di consumare carne umana, sangue, cervelli o tessuto nervoso di esseri umani viventi e che probabilmente causerà la caduta della civiltà organizzata”.
In altre parole, Amazon, in un contratto legalmente vincolante, sta parlando seriamente di zombi.
Questo è l'originale:
57.10 Acceptable Use; Safety-Critical Systems. Your use of the Lumberyard Materials must comply with the AWS Acceptable Use Policy. The Lumberyard Materials are not intended for use with life-critical or safety-critical systems, such as use in operation of medical equipment, automated transportation systems, autonomous vehicles, aircraft or air traffic control, nuclear facilities, manned spacecraft, or military use in connection with live combat. However, this restriction will not apply in the event of the occurrence (certified by the United States Centers for Disease Control or successor body) of a widespread viral infection transmitted via bites or contact with bodily fluids that causes human corpses to reanimate and seek to consume living human flesh, blood, brain or nerve tissue and is likely to result in the fall of organized civilization.
Umorismo per avvocati geek. Ringrazio i tanti lettori che mi hanno segnalato questa chicca.
Antibufala: il video antigravità degli OK Go
Ultimo aggiornamento: 2016/02/18 22:40.
Il nuovo video degli OK Go, intitolato Upside Down, Inside Out, parte subito dichiarando che “Quello che state per vedere è reale. Lo abbiamo girato in gravità zero, in un vero aereo, in cielo. Non ci sono fili o green screen”. Seguono tre minuti abbondanti di evoluzioni spettacolari e impossibili che fanno davvero sembrare che gli OK Go abbiano annullato la gravità. Molti si stanno chiedendo come possa essere vera l’affermazione del gruppo musicale, noto per i suoi video stracolmi di illusioni ottiche e di effetti ottenuti dal vivo, senza trucchi digitali. È una bufala?
Non proprio. La tecnica descritta dagli OK Go, ossia usare un aereo per creare un effetto identico all’assenza di peso, è reale e documentata da decenni: la adoperano gli astronauti per allenarsi all’assenza di peso che troveranno nello spazio. Basta lanciare l’aereo su una traiettoria che lo faccia arrampicare in cielo e poi ridurre la spinta dei motori: il velivolo traccia un arco parabolico e poi inizia a cadere, e durante questo periodo di caduta libera a bordo si ha l’effetto dell’assenza di peso (non assenza di gravità: la gravità c'è ancora ed è infatti quella che attira l’aereo verso terra, ma siccome i passeggeri cadono alla stessa velocità con la quale cade l'aereo, gli oggetti e le persone a bordo fluttuano come se non ci fosse gravità).
Fin qui, insomma, il video degli OK Go è realistico, ma c’è un piccolo problema: i periodi di caduta libera ottenibili con gli aerei durano al massimo una ventina di secondi (per non schiantarsi al suolo) e sono seguiti da un periodo di alcuni minuti nel quale i piloti fanno rialzare l’aereo dalla sua traiettoria diretta verso il suolo, con un’accelerazione che aumenta il peso degli occupanti. Nel video, invece, ci sono circa tre minuti di assenza di peso ininterrotti. Allora c’è un trucco?
Ebbene sì: il video è stato realizzato in spezzoni brevi che poi sono stati uniti in fase di montaggio, come sottolinea su Facebook persino la NASA. Secondo la spiegazione pubblicata sul sito ufficiale degli OK Go, si tratta di una ripresa singola di 45 minuti, che include otto periodi consecutivi di assenza di peso di circa 27 secondi intervallati da alcuni minuti di condizioni normali: questi minuti sono stati tolti dal video e gli stacchi non si vedono grazie a un piccolo ritocco digitale di morphing. Se li volete scovare senza troppa fatica, sono a 0:46, 1:06, 1:27, 1:48, 2:09, 2:30 e 2:50.
Avrete forse notato che fra uno stacco e l’altro non passano 27 secondi, ma 21: è esatto, perché le riprese sono state accelerate in post-produzione in modo da far corrispondere i 27 secondi di assenza di peso ai 21 delle varie sezioni della canzone. Gli OK Go, durante il volo, riproducevano la canzone rallentandola di quasi il 30%.
Le riprese si sono svolte su un grande aereo apposito del Centro di Addestramento per Cosmonauti vicino a Mosca, all’interno del quale è stata costruita una finta fusoliera d’aereo di linea, ben più lavabile dei normali interni di un velivolo. Geniale e divertente.
2016/02/18: È stato pubblicato un video che mostra in dettaglio quello che è successo dietro le quinte, comprese le complicazioni di nausea e vomito e il rallentamento della musica per adattarla alla durata dei periodi di assenza di peso, e spiega la teoria del volo parabolico.
Fonti aggiuntive: Nofilmschool, S7 Airlines, Buzzfeed, Redbull.com.
Il nuovo video degli OK Go, intitolato Upside Down, Inside Out, parte subito dichiarando che “Quello che state per vedere è reale. Lo abbiamo girato in gravità zero, in un vero aereo, in cielo. Non ci sono fili o green screen”. Seguono tre minuti abbondanti di evoluzioni spettacolari e impossibili che fanno davvero sembrare che gli OK Go abbiano annullato la gravità. Molti si stanno chiedendo come possa essere vera l’affermazione del gruppo musicale, noto per i suoi video stracolmi di illusioni ottiche e di effetti ottenuti dal vivo, senza trucchi digitali. È una bufala?
Non proprio. La tecnica descritta dagli OK Go, ossia usare un aereo per creare un effetto identico all’assenza di peso, è reale e documentata da decenni: la adoperano gli astronauti per allenarsi all’assenza di peso che troveranno nello spazio. Basta lanciare l’aereo su una traiettoria che lo faccia arrampicare in cielo e poi ridurre la spinta dei motori: il velivolo traccia un arco parabolico e poi inizia a cadere, e durante questo periodo di caduta libera a bordo si ha l’effetto dell’assenza di peso (non assenza di gravità: la gravità c'è ancora ed è infatti quella che attira l’aereo verso terra, ma siccome i passeggeri cadono alla stessa velocità con la quale cade l'aereo, gli oggetti e le persone a bordo fluttuano come se non ci fosse gravità).
OK Go - Upside Down & Inside Out
Hello, Dear Ones. Please enjoy our new video for "Upside Down & Inside Out". A million thanks to S7 Airlines. #GravitysJustAHabit
Pubblicato da OK Go su Giovedì 11 febbraio 2016
Fin qui, insomma, il video degli OK Go è realistico, ma c’è un piccolo problema: i periodi di caduta libera ottenibili con gli aerei durano al massimo una ventina di secondi (per non schiantarsi al suolo) e sono seguiti da un periodo di alcuni minuti nel quale i piloti fanno rialzare l’aereo dalla sua traiettoria diretta verso il suolo, con un’accelerazione che aumenta il peso degli occupanti. Nel video, invece, ci sono circa tre minuti di assenza di peso ininterrotti. Allora c’è un trucco?
Ebbene sì: il video è stato realizzato in spezzoni brevi che poi sono stati uniti in fase di montaggio, come sottolinea su Facebook persino la NASA. Secondo la spiegazione pubblicata sul sito ufficiale degli OK Go, si tratta di una ripresa singola di 45 minuti, che include otto periodi consecutivi di assenza di peso di circa 27 secondi intervallati da alcuni minuti di condizioni normali: questi minuti sono stati tolti dal video e gli stacchi non si vedono grazie a un piccolo ritocco digitale di morphing. Se li volete scovare senza troppa fatica, sono a 0:46, 1:06, 1:27, 1:48, 2:09, 2:30 e 2:50.
Avrete forse notato che fra uno stacco e l’altro non passano 27 secondi, ma 21: è esatto, perché le riprese sono state accelerate in post-produzione in modo da far corrispondere i 27 secondi di assenza di peso ai 21 delle varie sezioni della canzone. Gli OK Go, durante il volo, riproducevano la canzone rallentandola di quasi il 30%.
Le riprese si sono svolte su un grande aereo apposito del Centro di Addestramento per Cosmonauti vicino a Mosca, all’interno del quale è stata costruita una finta fusoliera d’aereo di linea, ben più lavabile dei normali interni di un velivolo. Geniale e divertente.
2016/02/18: È stato pubblicato un video che mostra in dettaglio quello che è successo dietro le quinte, comprese le complicazioni di nausea e vomito e il rallentamento della musica per adattarla alla durata dei periodi di assenza di peso, e spiega la teoria del volo parabolico.
Fonti aggiuntive: Nofilmschool, S7 Airlines, Buzzfeed, Redbull.com.
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Mini-centrale idroelettrica francese comandabile da chiunque via Internet
Collegare i dispositivi a Internet, in modo da poterli comandare da lontano, è sicuramente molto utile. Ma bisogna collegarli come si deve, pensando alla sicurezza, altrimenti ci si ritrova con situazioni come questa, scovata in Francia dal motore di ricerca Shodan: una mini-centrale idroelettrica che è stata collegata a Internet così maldestramente che chiunque può prenderne il controllo da lontano, come ho visto fare in queste ore, con conseguenze facilmente immaginabili.
Vediamo quali errori sono stati commessi, così possiamo imparare come non si configura l’Internet delle Cose.
1. Non si deve contare su un indirizzo IP “segreto”. Molti utenti (e amministratori di dispositivi) pensano ancora che un indirizzo IP, se non viene divulgato, sia un fattore di sicurezza perché se nessuno conosce l'indirizzo di un dato dispositivo quel dispositivo è introvabile. Non è così: motori di ricerca appositi, come Shodan, permettono di cercare dispositivi in base al loro tipo e alla loro posizione geografica. Sapendo qual è la marca e il modello del dispositivo e dove si trova, scoprire il suo indirizzo IP di controllo è banale. Vale anche il contrario: per esempio, secondo Utrace.de risulta che la centrale idroelettrica mostrata qui sopra (di cui non pubblico l’indirizzo IP per ovvie ragioni) è situata dalle parti di Tolosa, in Francia. Altri indizi suggeriscono più precisamente la località di Aiguillon.
2. Non si deve abilitare una connessione remota aperta a tutti e senza password. La centrale idroelettrica in questione è accessibile via Internet a chiunque sappia il suo indirizzo IP e usi una normale applicazione di gestione remota come VNC. Non viene neppure richiesta una password di accesso alla connessione VNC: ci si collega e basta. Ciliegina sulla torta, la connessione non è cifrata contro eventuali intercettazioni. Ciliegina sulla ciliegina, la centrale fa collegare chiunque ne digiti l'indirizzo IP anche in un normale browser.
3. Non si devono memorizzare sul computer remoto i nomi degli utenti e le password di accesso. Chi avvia una sessione VNC con il computer che gestisce la centrale idroelettrica di questo esempio non deve neppure tentare di indovinare i nomi degli utenti autorizzati, perché sono stati memorizzati nel browser del computer remoto. Insieme alle password. Così ho visto utenti accedere ai controlli della centrale e alla configurazione degli utenti semplicemente cliccando nella casella del nome utente e lasciando che il completamento automatico proponesse il nome dell’utente e poi la sua password.
4. Non si devono usare password stupidamente evidenti. Nel caso della centrale, ho visto che i visitatori hanno scoperto che almeno un account ha la password uguale al nome utente.
Sono rimasto alcune ore a osservare l’andirivieni dei visitatori sulla connessione di controllo remoto e ho visto fare di tutto, compreso cliccare sui comandi della centrale. Mi sono ovviamente posto il problema di come avvisare il responsabile della centrale, ma nelle scorribande dei visitatori non ho visto alcuna informazione di contatto, per cui ho inviato una mail alle aziende citate nelle schermate di configurazione della centrale. Ho inoltre creato sul desktop del computer remoto un file di stampa di nome "ATTENTION VOUS ETES ACCESSIBLES PAR INTERNET". Speriamo in bene.
Vediamo quali errori sono stati commessi, così possiamo imparare come non si configura l’Internet delle Cose.
1. Non si deve contare su un indirizzo IP “segreto”. Molti utenti (e amministratori di dispositivi) pensano ancora che un indirizzo IP, se non viene divulgato, sia un fattore di sicurezza perché se nessuno conosce l'indirizzo di un dato dispositivo quel dispositivo è introvabile. Non è così: motori di ricerca appositi, come Shodan, permettono di cercare dispositivi in base al loro tipo e alla loro posizione geografica. Sapendo qual è la marca e il modello del dispositivo e dove si trova, scoprire il suo indirizzo IP di controllo è banale. Vale anche il contrario: per esempio, secondo Utrace.de risulta che la centrale idroelettrica mostrata qui sopra (di cui non pubblico l’indirizzo IP per ovvie ragioni) è situata dalle parti di Tolosa, in Francia. Altri indizi suggeriscono più precisamente la località di Aiguillon.
2. Non si deve abilitare una connessione remota aperta a tutti e senza password. La centrale idroelettrica in questione è accessibile via Internet a chiunque sappia il suo indirizzo IP e usi una normale applicazione di gestione remota come VNC. Non viene neppure richiesta una password di accesso alla connessione VNC: ci si collega e basta. Ciliegina sulla torta, la connessione non è cifrata contro eventuali intercettazioni. Ciliegina sulla ciliegina, la centrale fa collegare chiunque ne digiti l'indirizzo IP anche in un normale browser.
3. Non si devono memorizzare sul computer remoto i nomi degli utenti e le password di accesso. Chi avvia una sessione VNC con il computer che gestisce la centrale idroelettrica di questo esempio non deve neppure tentare di indovinare i nomi degli utenti autorizzati, perché sono stati memorizzati nel browser del computer remoto. Insieme alle password. Così ho visto utenti accedere ai controlli della centrale e alla configurazione degli utenti semplicemente cliccando nella casella del nome utente e lasciando che il completamento automatico proponesse il nome dell’utente e poi la sua password.
4. Non si devono usare password stupidamente evidenti. Nel caso della centrale, ho visto che i visitatori hanno scoperto che almeno un account ha la password uguale al nome utente.
Sono rimasto alcune ore a osservare l’andirivieni dei visitatori sulla connessione di controllo remoto e ho visto fare di tutto, compreso cliccare sui comandi della centrale. Mi sono ovviamente posto il problema di come avvisare il responsabile della centrale, ma nelle scorribande dei visitatori non ho visto alcuna informazione di contatto, per cui ho inviato una mail alle aziende citate nelle schermate di configurazione della centrale. Ho inoltre creato sul desktop del computer remoto un file di stampa di nome "ATTENTION VOUS ETES ACCESSIBLES PAR INTERNET". Speriamo in bene.
2016/02/11
L’ultima prova di Albert Einstein
Ultimo aggiornamento: 2016/02/24.
L’ultimo atto della caccia alle onde gravitazionali, la cui esistenza venne teorizzata da Albert Einstein 100 anni fa, intorno al 1916, potrebbe concludersi proprio oggi.
La caccia cominciò alla fine degli anni '60, con alcuni esperimenti effettuati anche in Italia. Una Barra di Weber, l’antenna gravitazionale che si pensava fosse in grado di rivelare le onde gravitazionali, è visibile ancora oggi all’ingresso del dipartimento di Fisica dell’università di Roma La Sapienza.
In meno di un’ora, alle 15:30 GMT (16:30 ora italiana) di oggi, giovedì 11 febbraio, si terrà una conferenza stampa del LIGO, in cui potrebbe essere comunicata la rivelazione di un evento che confermi l’esistenza di queste onde.
Potete seguirla in diretta cliccando qui o qui (sperando che i server "reggano" la popolarità dell'evento).
Aggiungo i link in chiaro in caso di problemi:
https://www.webcaster4.com/Webcast/Page/219/13131
https://www.youtube.com/user/VideosatNSF/live
Ricordo che nella ricerca ha un ruolo importante anche l’Italia, con un rivelatore vicino a Pisa: VIRGO.
Scriverò se necessario, e se Paolo me lo permette, un articolo con qualche spiegazione del fenomeno e della sua storia, insieme ad un sommario della videoconferenza.
Dicono che sia pessimo giornalismo parlare di sè invece che dei fatti, ma questa volta ho la scusa perfetta: avrete letto senz’altro su tutti i giornali e i website cosa è accaduto: di come David Reitze, LIGO Executive Director (CalTech), abbia esordito nella conferenza stampa di oggi dicendo semplicemente, dopo un secondo di pausa, "We have detected gravitational waves!", "abbiamo rilevato le onde gravitazionali!", e di come il fenomeno sia la firma dell’amplesso finale di una coppia di buchi neri. Così come forse sapete che il fenomeno è avvenuto circa un miliardo di anni fa, in una regione di spazio nella direzione della Nube di Magellano, e si è svolto ad una velocità inaudita, pari a metà di quella della luce.
Probabilmente avrete anche sentito dire che la perturbazione del tessuto stesso dello spazio-tempo, un’increspatura infinitesimale di ampiezza pari ad un millesimo di nucleo atomico, sia l’effetto di un fenomeno che ha liberato in una frazione di secondo l'energia equivalente alla massa di 3 stelle come il Sole – anche qui, secondo la più famosa equazione einsteiniana: E = mc2, dove m è la massa e c = 300.000 km/s è la velocità della luce. Un’energia spaventosa, pari a cinquanta volte quella emessa da tutte le stelle dell’universo nello stesso intervallo di tempo.
Possiamo anche porci delle domande: cosa sarebbe accaduto se un fenomeno del genere fosse avvenuto, invece che ad 1 miliardo di anni luce di distanza, a 50.000 anni luce, dall’altro lato della nostra Galassia? Nonostante l’energia spaventosa liberata, probabilmente non molto, in quanto le onde gravitazionali non vengono assorbite facilmente dalla materia, e proprio per questo continuano a viaggiare indisturbate proprio come l’onda in una piscina. Non sappiamo però cosa si stesse svolgendo intorno alla danza dei due buchi neri. È probabile che un disco di accrescimento di materia venisse ingoiato dalla mostruosa coppia danzante, emettendo fiotti di radiazione mortale a tutte le frequenze. Ma di per sè, difficilmente le onde gravitazionali sono in grado di interagire con la materia corrente (la cosiddetta materia barionica, quella che siamo abituati a vedere con i nostri occhi).
Quello che vorrei provare a condividere è però come sia rimasta la comunità di scienziati in cui avevo la fortuna di trovarmi di fronte a questa scoperta, anche se separata dal centro dell'azione dall'Oceano Atlantico.
Sentii parlare la prima volta della rilevazione delle onde gravitazionali a causa di un esperimento in procinto di essere avviato, agli inizi degli anni settanta, nel dipartimento in cui ero studente. Un gruppo romano cercava di ripetere il successo (mai confermato) di un sistema costituito da una barra di metallo sospesa nel vuoto a temperature prossime allo zero assoluto (-273.14°C). L'idea era che se un gravitone lo avesse attraversato – ricordiamoci che ogni onda va anche pensata come particella secondo la meccanica quantitistica – la contrazione infinitesima dello spazio-tempo sarebbe stata rivelata da un interferometro posto vicino al sistema, che ne avrebbe misurata una microscopica variazione di lunghezza. Il sistema, chiamato Weber Bar dal nome del suo inventore, nonostante tutti gli sforzi per ridurre il rumore di fondo, non riuscì mai a rivelare alcunché.
Da allora si sono succeduti vari esperimenti sempre più complessi. Oggi LIGO è solo il precursore di quella che diventerà presto una sorta di rete di ascolto delle onde gravitazionali sparsa in tutto il mondo e per questo in grado di identificare molto meglio la direzione di provenienza delle eventuali sorgenti. Di questa rete faranno parte rivelatori analoghi situati in Europa come VIRGO – purtroppo ancora in costruzione – ma anche in Giappone, India, eccetera. Anche osservatori astronomici radio convenzionali come il nascente SKA (Square Kilometer Array) saranno un giorno in grado di rilevare onde gravitazionali, almeno quelle prodotte da meccanismi diversi che creano onde talmente lunghe da necessitare la misura del tempo con orologi in grado di non perdere più di un nanosecondo (un miliardesimo di secondo) in circa trent'anni. SKA sarà infatti in grado di misurare ritardi negli arrivi a destinazione del segnale perfettamente periodico generato da lontanissime pulsar, o stelle di neutroni.
Di onde gravitazionali se ne aspettano di tipi e origine diverse, come ha ricordato Reiner Weiss, dell’MIT e uno degli ormai anziani, ma attivissimi, co-fondatori di LIGO. Ci si aspettano onde prodotte durante le prime fasi di origine dell'universo, da sistemi di pulsar binarie, di buchi neri, eccetera. Onde con tempi caratteristiche di millisecondi, di ore, di giorni, di anni e anche decenni, ognuna essendo la firma univoca del fenomeno che le ha prodotte.
Ma soprattutto, da oggi sappiamo che l’essere umano si è dotato finalmente di un metodo completamente nuovo per guardarsi intorno. È come se avessimo abbattuto il diaframma che ci separava da una grotta gigantesca, grande come lo stesso universo, dalla quale ascoltare i suoni prodotti da specie e fenomeni completamente nuovi. E ogni volta che il rapporto tra segnale e rumore verrà raddoppiato, si potrà osservare una zona di universo otto volte più grande di quella, già immensa, a disposizione da oggi, aumentando geometricamente la probabilità di captare segnali generati da onde gravitazionali.
Bene ha fatto lo stesso Rietze a menzionare Galileo e il suo puntare al cielo, quattrocento anni fa, un telescopio in grado di mostrare un universo completamente diverso da quello che conoscevano tutti coloro arrivati prima di lui. Un universo imperfetto, come le gobbe della luna e le macchie solari. Ma l'aspetto che più ha stupito molti di noi, quasi tutti astronomi, è l'enormità del segnale, la pulizia dell'effetto registrato e la capacità di inferire direttamente il risultato, praticamente ad occhio nudo. In genere i risultati della Big Science odierna richiedono un’analisi statistica accurata, che può durare anni, per arrivare a scrivere numeri che abbiano un senso. È il caso dei grandi esperimenti di fisica delle particelle o di cosmologia, come i risultati di satelliti quali WMAP o Planck. In questo caso invece c’è perfetta correlazione con i modelli, comprensione quasi immediata della distanza alla quale è avvenuta la coalescenza dei due buchi neri attraverso la sua ampiezza, e della massa dei due buchi neri a partire dalla variazione della frequenza. La direzione può essere dedotta, sebbene ancora con grandi incertezze dato il numero limitato di antenne disponibili, attraverso il ritardo tra i due interferometri che fanno parte dell'esperimento LIGO.
Mostruoso.
Kip Thorne, figura leggendaria per tutti coloro che sono attivi nel campo, e autore fra l'altro insieme a John Wheeler e Charles Misner, del gigantesco volume intitolato Gravitation (1279 pagine di formule e grafici sulla teoria della gravitazione, con esempi ed esercizi, per lo più impossibili per la gran parte di noi studenti di allora, e che per lo più veniva usato come "pressa" per foglie, vista la mole), a 75 anni suonati ha saputo spiegare chiaramente in conferenza stampa la teoria dietro al fenomeno.
Nell’aula in cui eravamo raccolti ad ascoltare la videoconferenza non c’era molto rumore di fondo. Il mio vicino di banco editava in tempo reale la voce "Detection of Gravitational Waves" su Wikipedia.
Ma è comprensibile. Tutti sappiamo che dietro a queste scoperte, l'idea stessa di vedere o comprendere qualcosa che, piccolo o grande che sia, nessuno ha mai visto o compreso prima di noi sia una delle gioie più grandi riservate a chi se l’è saputa conquistare lavorando duramente, spesso per decenni, come in questo caso. Credo anche che questo suggerisca qualcosa di essenziale sulla nostra natura di esseri umani. Sono convinto che la gran parte degli scienziati vorrebbe in fin dei conti che a tutti noi fosse riservata, almeno una volta, la gioia suprema della scoperta. Che si tratti della scoperta teorica, quella sulla carta, o di quella sperimentale, come nel caso di LIGO. Onestamente non credo che esista gioia maggiore di quella data dal successo della nostra creatività, e l’atmosfera che si respirava in questa videoconferenza, da parte di giovani, adulti ed anziani – soprattutto loro, visto il periodo di incubazione che l'esperimento ha richiesto: un quarto di secolo! – ne è la migliore dimostrazione.
Dev'essere stata questa stessa felicità quella che provò, più e più volte, il giovane Einstein, quando con veri e propri salti mortali mentali riuscì a formalizzare la geometria dello spazio-tempo e ad incatenarla letteralmente alla massa che la occupa nei primi decenni dello scorso secolo. Il solo seguire l’itinerario della sua mente, la capacità di costruire quei 16 numeri che costituiscono i tensori che descrivono la geometria del nostro universo – un potente oggetto matematico di 4 colonne per 4 righe – attraverso le arcinote equazioni di campo partendo dalla conoscenza di uno solo di essi, non dev'essere stata diversa. E' da queste equazioni che discende l’ipotesi dell’esistenza delle onde gravitazionali insieme a tante altre previsioni e scoperte fondamentali.
100 anni esatti per provare, ancora una volta, che Albert Einstein aveva ragione.
Vorrei invitare i più "ardimentosi" tra i lettori di questo blog ad andare a leggere come si arriva alla dimostrazione delle Equazioni di Campo di Einstein, una delle dirette conseguenze delle quali è l'esistenza delle onde gravitazionali.
A meno che non si abbia una buona preparazione in algebra tensoriale è praticamente impossibile seguire per filo e per segno i passaggi, ma anche semplicemente capire di cosa si parla. Comunque sia, visto che si tratta di un'applicazione cristallina di principi del tutto generali, quasi estetici e qualitativi, direi, si può avere un'idea di come questa dimostrazione proceda.
Una dimostrazione, che mi lasciò letteralmente senza fiato quando la vidi mentre ero uno studente di Fisica al III anno, è quella che si trova alle pagine 179-183 del documento pdf (151 del testo) del fondamentale volume Cosmology di Steven Weinberg.
A scando di equivoci, ripeto che è impossibile seguire i passaggi matematici senza una buona preparazione specifica, ma credo che si possa percepire una specie di "aura mistica" nel modo in cui viene effettuata la derivazione, di sottile equilibrio di ipotesi ("guess") su come "dovrebbero" essere fatte (i cinque punti nella figura qui accanto, a pagina 181 del pdf). Non ci sono, come in altri casi nella storia della Fisica, i risultati di esperimenti fondamentali, solo un'applicazione geniale di principi del tutto generali.
Incredibile che una costruzione così apparentemente fragile sia in grado di fornire ancora oggi - vedi le recenti osservazioni di LIGO - risutati sperimentali corretti ed innovativi. Ovvero che si tratti di una teoria "forte", in grado di prevedere moltissimo a dispetto del fatto che parta da principi teorici tutto sommato abbastanza labili e da un insieme di dati decisamente scarso all'epoca, principalmente a causa del fatto che l'interazione gravitazionale è molto debole rispetto, per esempio, a quella elettromagnetica.
p.s. grazie a Paolo Attivissimo per le numerose correzioni e per l'ospitalità.
Grande giornata per l’astronomia: l’annuncio della scoperta delle onde gravitazionali schiude orizzonti di ricerca inimmaginabilmente vasti. Per fare il punto della situazione con competenza, lascio la parola (e la tastiera) all’astronomo Paolo G. Calisse, che ho già ospitato con piacere in questo blog.
Paolo Attivissimo
L’ultimo atto della caccia alle onde gravitazionali, la cui esistenza venne teorizzata da Albert Einstein 100 anni fa, intorno al 1916, potrebbe concludersi proprio oggi.
La caccia cominciò alla fine degli anni '60, con alcuni esperimenti effettuati anche in Italia. Una Barra di Weber, l’antenna gravitazionale che si pensava fosse in grado di rivelare le onde gravitazionali, è visibile ancora oggi all’ingresso del dipartimento di Fisica dell’università di Roma La Sapienza.
In meno di un’ora, alle 15:30 GMT (16:30 ora italiana) di oggi, giovedì 11 febbraio, si terrà una conferenza stampa del LIGO, in cui potrebbe essere comunicata la rivelazione di un evento che confermi l’esistenza di queste onde.
Potete seguirla in diretta cliccando qui o qui (sperando che i server "reggano" la popolarità dell'evento).
Aggiungo i link in chiaro in caso di problemi:
https://www.webcaster4.com/Webcast/Page/219/13131
https://www.youtube.com/user/VideosatNSF/live
Ricordo che nella ricerca ha un ruolo importante anche l’Italia, con un rivelatore vicino a Pisa: VIRGO.
Scriverò se necessario, e se Paolo me lo permette, un articolo con qualche spiegazione del fenomeno e della sua storia, insieme ad un sommario della videoconferenza.
Paolo G. Calisse, 11 febbraio 2016
Prima pagina del lavoro originale di A. Einstein, 1916. |
Aggiornamento alle ore 20:00 GMT
Dicono che sia pessimo giornalismo parlare di sè invece che dei fatti, ma questa volta ho la scusa perfetta: avrete letto senz’altro su tutti i giornali e i website cosa è accaduto: di come David Reitze, LIGO Executive Director (CalTech), abbia esordito nella conferenza stampa di oggi dicendo semplicemente, dopo un secondo di pausa, "We have detected gravitational waves!", "abbiamo rilevato le onde gravitazionali!", e di come il fenomeno sia la firma dell’amplesso finale di una coppia di buchi neri. Così come forse sapete che il fenomeno è avvenuto circa un miliardo di anni fa, in una regione di spazio nella direzione della Nube di Magellano, e si è svolto ad una velocità inaudita, pari a metà di quella della luce.
Probabilmente avrete anche sentito dire che la perturbazione del tessuto stesso dello spazio-tempo, un’increspatura infinitesimale di ampiezza pari ad un millesimo di nucleo atomico, sia l’effetto di un fenomeno che ha liberato in una frazione di secondo l'energia equivalente alla massa di 3 stelle come il Sole – anche qui, secondo la più famosa equazione einsteiniana: E = mc2, dove m è la massa e c = 300.000 km/s è la velocità della luce. Un’energia spaventosa, pari a cinquanta volte quella emessa da tutte le stelle dell’universo nello stesso intervallo di tempo.
Possiamo anche porci delle domande: cosa sarebbe accaduto se un fenomeno del genere fosse avvenuto, invece che ad 1 miliardo di anni luce di distanza, a 50.000 anni luce, dall’altro lato della nostra Galassia? Nonostante l’energia spaventosa liberata, probabilmente non molto, in quanto le onde gravitazionali non vengono assorbite facilmente dalla materia, e proprio per questo continuano a viaggiare indisturbate proprio come l’onda in una piscina. Non sappiamo però cosa si stesse svolgendo intorno alla danza dei due buchi neri. È probabile che un disco di accrescimento di materia venisse ingoiato dalla mostruosa coppia danzante, emettendo fiotti di radiazione mortale a tutte le frequenze. Ma di per sè, difficilmente le onde gravitazionali sono in grado di interagire con la materia corrente (la cosiddetta materia barionica, quella che siamo abituati a vedere con i nostri occhi).
Quello che vorrei provare a condividere è però come sia rimasta la comunità di scienziati in cui avevo la fortuna di trovarmi di fronte a questa scoperta, anche se separata dal centro dell'azione dall'Oceano Atlantico.
Sentii parlare la prima volta della rilevazione delle onde gravitazionali a causa di un esperimento in procinto di essere avviato, agli inizi degli anni settanta, nel dipartimento in cui ero studente. Un gruppo romano cercava di ripetere il successo (mai confermato) di un sistema costituito da una barra di metallo sospesa nel vuoto a temperature prossime allo zero assoluto (-273.14°C). L'idea era che se un gravitone lo avesse attraversato – ricordiamoci che ogni onda va anche pensata come particella secondo la meccanica quantitistica – la contrazione infinitesima dello spazio-tempo sarebbe stata rivelata da un interferometro posto vicino al sistema, che ne avrebbe misurata una microscopica variazione di lunghezza. Il sistema, chiamato Weber Bar dal nome del suo inventore, nonostante tutti gli sforzi per ridurre il rumore di fondo, non riuscì mai a rivelare alcunché.
Da allora si sono succeduti vari esperimenti sempre più complessi. Oggi LIGO è solo il precursore di quella che diventerà presto una sorta di rete di ascolto delle onde gravitazionali sparsa in tutto il mondo e per questo in grado di identificare molto meglio la direzione di provenienza delle eventuali sorgenti. Di questa rete faranno parte rivelatori analoghi situati in Europa come VIRGO – purtroppo ancora in costruzione – ma anche in Giappone, India, eccetera. Anche osservatori astronomici radio convenzionali come il nascente SKA (Square Kilometer Array) saranno un giorno in grado di rilevare onde gravitazionali, almeno quelle prodotte da meccanismi diversi che creano onde talmente lunghe da necessitare la misura del tempo con orologi in grado di non perdere più di un nanosecondo (un miliardesimo di secondo) in circa trent'anni. SKA sarà infatti in grado di misurare ritardi negli arrivi a destinazione del segnale perfettamente periodico generato da lontanissime pulsar, o stelle di neutroni.
Di onde gravitazionali se ne aspettano di tipi e origine diverse, come ha ricordato Reiner Weiss, dell’MIT e uno degli ormai anziani, ma attivissimi, co-fondatori di LIGO. Ci si aspettano onde prodotte durante le prime fasi di origine dell'universo, da sistemi di pulsar binarie, di buchi neri, eccetera. Onde con tempi caratteristiche di millisecondi, di ore, di giorni, di anni e anche decenni, ognuna essendo la firma univoca del fenomeno che le ha prodotte.
Ma soprattutto, da oggi sappiamo che l’essere umano si è dotato finalmente di un metodo completamente nuovo per guardarsi intorno. È come se avessimo abbattuto il diaframma che ci separava da una grotta gigantesca, grande come lo stesso universo, dalla quale ascoltare i suoni prodotti da specie e fenomeni completamente nuovi. E ogni volta che il rapporto tra segnale e rumore verrà raddoppiato, si potrà osservare una zona di universo otto volte più grande di quella, già immensa, a disposizione da oggi, aumentando geometricamente la probabilità di captare segnali generati da onde gravitazionali.
Bene ha fatto lo stesso Rietze a menzionare Galileo e il suo puntare al cielo, quattrocento anni fa, un telescopio in grado di mostrare un universo completamente diverso da quello che conoscevano tutti coloro arrivati prima di lui. Un universo imperfetto, come le gobbe della luna e le macchie solari. Ma l'aspetto che più ha stupito molti di noi, quasi tutti astronomi, è l'enormità del segnale, la pulizia dell'effetto registrato e la capacità di inferire direttamente il risultato, praticamente ad occhio nudo. In genere i risultati della Big Science odierna richiedono un’analisi statistica accurata, che può durare anni, per arrivare a scrivere numeri che abbiano un senso. È il caso dei grandi esperimenti di fisica delle particelle o di cosmologia, come i risultati di satelliti quali WMAP o Planck. In questo caso invece c’è perfetta correlazione con i modelli, comprensione quasi immediata della distanza alla quale è avvenuta la coalescenza dei due buchi neri attraverso la sua ampiezza, e della massa dei due buchi neri a partire dalla variazione della frequenza. La direzione può essere dedotta, sebbene ancora con grandi incertezze dato il numero limitato di antenne disponibili, attraverso il ritardo tra i due interferometri che fanno parte dell'esperimento LIGO.
Mostruoso.
Kip Thorne, figura leggendaria per tutti coloro che sono attivi nel campo, e autore fra l'altro insieme a John Wheeler e Charles Misner, del gigantesco volume intitolato Gravitation (1279 pagine di formule e grafici sulla teoria della gravitazione, con esempi ed esercizi, per lo più impossibili per la gran parte di noi studenti di allora, e che per lo più veniva usato come "pressa" per foglie, vista la mole), a 75 anni suonati ha saputo spiegare chiaramente in conferenza stampa la teoria dietro al fenomeno.
Nell’aula in cui eravamo raccolti ad ascoltare la videoconferenza non c’era molto rumore di fondo. Il mio vicino di banco editava in tempo reale la voce "Detection of Gravitational Waves" su Wikipedia.
Le equazioni di campo di Einstein, nella loro stesura originale. Un monumento alla bellezza della matematica. |
Dev'essere stata questa stessa felicità quella che provò, più e più volte, il giovane Einstein, quando con veri e propri salti mortali mentali riuscì a formalizzare la geometria dello spazio-tempo e ad incatenarla letteralmente alla massa che la occupa nei primi decenni dello scorso secolo. Il solo seguire l’itinerario della sua mente, la capacità di costruire quei 16 numeri che costituiscono i tensori che descrivono la geometria del nostro universo – un potente oggetto matematico di 4 colonne per 4 righe – attraverso le arcinote equazioni di campo partendo dalla conoscenza di uno solo di essi, non dev'essere stata diversa. E' da queste equazioni che discende l’ipotesi dell’esistenza delle onde gravitazionali insieme a tante altre previsioni e scoperte fondamentali.
100 anni esatti per provare, ancora una volta, che Albert Einstein aveva ragione.
Paolo G. Calisse, 11 febbraio 2016
Aggiornamento 24 Febbraio 2016
Vorrei invitare i più "ardimentosi" tra i lettori di questo blog ad andare a leggere come si arriva alla dimostrazione delle Equazioni di Campo di Einstein, una delle dirette conseguenze delle quali è l'esistenza delle onde gravitazionali.
A meno che non si abbia una buona preparazione in algebra tensoriale è praticamente impossibile seguire per filo e per segno i passaggi, ma anche semplicemente capire di cosa si parla. Comunque sia, visto che si tratta di un'applicazione cristallina di principi del tutto generali, quasi estetici e qualitativi, direi, si può avere un'idea di come questa dimostrazione proceda.
Una dimostrazione, che mi lasciò letteralmente senza fiato quando la vidi mentre ero uno studente di Fisica al III anno, è quella che si trova alle pagine 179-183 del documento pdf (151 del testo) del fondamentale volume Cosmology di Steven Weinberg.
A scando di equivoci, ripeto che è impossibile seguire i passaggi matematici senza una buona preparazione specifica, ma credo che si possa percepire una specie di "aura mistica" nel modo in cui viene effettuata la derivazione, di sottile equilibrio di ipotesi ("guess") su come "dovrebbero" essere fatte (i cinque punti nella figura qui accanto, a pagina 181 del pdf). Non ci sono, come in altri casi nella storia della Fisica, i risultati di esperimenti fondamentali, solo un'applicazione geniale di principi del tutto generali.
Alcuni pagagrafi tratti dal volume "Cosmology", di Steven Weinberg, con la derivazione delle Eq. di Campo. |
p.s. grazie a Paolo Attivissimo per le numerose correzioni e per l'ospitalità.
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