Ecco a voi un nuovo articolo scritto per questo blog dall’amico Paolo G. Calisse, astronomo che ha lavorato per vari progetti come ALMA, Simons Observatory, CTAO e primo italiano a trascorrere un anno intero al Polo Sud, sempre lavorando come astronomo al locale osservatorio. – Paolo
Esperienze da pallonari
di Paolo G. Calisse
Alla fine degli anni ’80 partecipai al lancio di alcuni palloni stratosferici scientifici in Italia, dalla ormai dismessa base ASI di Trapani Milo, e in Francia, dalla base CNES di Aire s/r l’Adour. Approfitto di questa esperienza personale per chiarire alcuni aspetti di questi dispositivi, di cui si è parlato molto sulla scia dei recenti avvistamenti. Alcuni aspetti sono cambiati radicalmente da allora, o variano da un sito di lancio all’altro e a seconda della tecnologia usata, ma il sistema è rimasto più o meno lo stesso.
Intanto precisiamo: qui si parla di palloni stratosferici per missioni di lunga durata. Il diametro di questi palloni, che raggiungono una quarantina di km di quota ed oltre, pari ad una pressione atmosferica di 4 hPa (ettopascal, l’unità di pressione usata in genere), può raggiungere i 160 metri di diametro, più o meno quello del Colosseo, il più grande anfiteatro costruito dai romani. Il volume può arrivare al 1.700.000 m3 di Big 60 (vedi foto). Il carico utile, paracadute, avionica, etc. a parte, può raggiungere diverse tonnellate di peso (ma pregiudicando in parte la quota di volo e la durata) e la linea di volo oltre 300 m di lunghezza.
I voli cui ho partecipato erano tutti di palloni zero-pressure, in altre parole un'apertura in basso garantiva che la pressione interna del gas restasse uguale a quella esterna, come avviene con le mongolfiere, ed era solo la densità più bassa del gas contenuto rispetto all’atmosfera circostante a fare ascendere il pallone in quota e ad impedire che lo stesso gas fuoriuscisse. Questi palloni sono costituiti di sottilissimo mylar e riempiti in genere di idrogeno piuttosto che di elio, in modo da massimizzare la spinta idrostatica e quindi il carico e/o la quota.
Quando invece si parla di palloni meteo (weather balloon in inglese), si parla – in genere – di piccoli palloni pressurizzati di lattice, di un paio di metri di diametro che possono essere lanciati da un singolo operatore o due o anche da un sistema automatico di lancio. Ne ho lanciati alcuni dall’Antartide ed è una procedura abbastanza semplice. In genere ascendono in verticale per poi esplodere ad una certa quota, portando come carico una radiosonda del peso di qualche etto che trasmette a terra alcuni dati meteorologici durante l’ascensione. A volte la radiosonde viene recuperato, ma di solito viene perduta. Se ne lanciano circa 900 da tutto il mondo, due volte al giorno, e i dati raccolti costituiscono un'informazione essenziale ai modelli software impiegati per produrre le previsioni del tempo.
Ci sono anche palloni di misura intermedia le cui missioni durano in genere poche ore, molto utili per testare strumentazione da lanciare in orbita. Ne lanciai uno per testare un sistema di acquisizione dati disegnato da me e gli diedi il nome della mia compagna, di allora e di oggi...
Esistono infine quelli superpressurizzati, cioè sigillati e mantenuti ad una pressione superiore a quella ambiente, che possono mantenere la quota per centinaia di giorni. In questo caso la pressione può cambiare a causa dell’insolazione diurna, e quindi anche la loro quota di crociera. Le foto pubblicate del "pallone cinese" sembrerebbero indicare che si tratta proprio del caso di questo tipo di pallone. Da notare che, essendo il materiale più spesso per resistere alla pressione interna a parità di volume questi palloni consentono un carico massimo inferiore a quelli zero-pressure.
I palloni per uso scientifico vengono lanciati da un numero limitato di siti al mondo. Molto noto quello di McMurdo in Antartide, la Long Duration Balloon Facility (LSDB) da cui vengono lanciati ogni estate australe molti strumenti scientifici che, grazie al vortice polare, rientrano più o meno alla base dopo uno o più "giri" intorno al polo.
Il lancio dei palloni stratosferici cui ho partecipato avveniva di solito appena prima dell’alba o la sera dopo il tramonto, nel momento in cui in molti luoghi, fateci caso, vi è spesso un breve periodo di calma di vento. Il pallone viene tirato fuori un'ora o poco più prima del lancio dalla grossa cassa di legno che lo contiene e steso su una lunga striscia di plastica. Poi viene attaccato l’enorme paracadute necessario per il rientro della gondola (così viene di solito indicato il carico, rigorosamente in inglese) e l'avionica di bordo. Quindi la gondola stessa viene appesa ad una grossa e potente gru semovente. In totale, il tutto può essere lungo oltre 300 m.
Dal momento in cui si stende il pallone non si può più tornare indietro senza sprecare il pallone, quindi bisogna avere la certezza che non si alzerà il vento e si possa lanciare. Quindi si comincia a pompare idrogeno attraverso dei lunghi manicotti attaccati in alto. Questi comincia piano piano ad innalzarsi, ma resta in genere quasi sgonfio, perché il gas si espanderà completamente solo alla quota massima, quando la pressione esterna sarà una frazione minima di quella al livello del suolo.
Una volta che il pallone era caricato della giusta quantità di gas, dopo un breve conto alla rovescia, veniva dato l’ordine di lancio. A quel punto tutto procedeva rapidamente: nel nostro caso la gru cominciava ad accelerare a grande velocità verso il pallone, a volte impennandosi su due ruote. Mi rimarrà sempre impressa l’immagine di questo oggetto enorme che si eleva, il rumore della gru lanciata a tutta velocità e la grande concitazione del momento. Il sincronismo di tutte queste operazioni è essenziale, anche perché la grande quantità di idrogeno rende la situazione intrinsecamente pericolosa. Basta un errore e può avvenire una catastrofe. Una volta mi raccontarono che un operatore rimase impigliato in una corda del paracadute: potete immaginare che fine fece (1).
(1) Sorprendentemente, non sono molti i filmati e le foto disponibili online di un lancio, ma se si vuole comprendere la sequenza di lancio un buon esempio è fornito dalla Canadian Space Agency qui. Un altro è il film prodotto per il lancio di BLAST, il Balloon-Borne Large Aperture Sub-millimeter Telescope dalla Long Duration Balloon Facility LDBF) a McMurdo, in Antartide. Il film è a pagamento ma già dal trailer si comprende come funziona più o meno un lancio. L'unica differenza rispetto ai lanci cui ho partecipato è che in questo caso lo strumento viene mantenuto immobile mentre il pallone si innalza in cielo.
Un'altra volta, proprio alla base di Trapani Milo, si verificò una piccola fuga di gas tra la flangia metallica superiore, che “chiude” il pallone, e lo strato di mylar nei primi istanti dell’ascensione. Nessuno se ne accorse ma dopo un po’ la carica elettrostatica creata dal getto di idrogeno tra flangia e mylar provocò una scintilla ed il getto di idrogeno prese fuoco. Niente Hindenburg, ci vuole il giusto mix di H2 ed O2 per quello, ed era già giorno al lancio, per cui la fiamma era quasi invisibile. Però il pallone ricadde a terra, distruggendo il telescopio X a bordo, frutto del lavoro di anni di un gruppo italiano che guardò la scena con orrore da poche centinaia di metri, fece dietrofront e senza dire nulla si incamminò verso l’hangar. Pare che una partita di palloni di una marca molto nota (famosa per la costruzione di canotti gonfiabili...) avesse questo difetto.
Ci fu anche un gruppo che progettò un piccolo telescopio tenuto in equilibrio in cima a questa flangia invece che appeso al pallone, in modo da avere la visuale completamente libera. Si chiamava appunto Top Hat ("cappello a cilindro"), ma non ebbe grande successo e l’idea venne accantonata a quanto ne sappia.
Una volta superata una certa quota i palloni seguono le correnti a getto o comunque le correnti prevalenti di alta quota (c'è una differenza tra le due) ed è possibile prevedere dove andranno. Intendiamoci, la previsione non è perfetta, ma oggi i modelli sono estremamente più accurati. Girava voce tra “pallonari” (lanciatori di palloni) negli anni ‘80 che se si lanciava per esempio da Palestine in Texas il NORAD li avrebbe abbattuti se si avvicinavano a certe aree sensibili. Ad una verifica più attenta, oggi che è disponibile internet, potrebbe essersi trattato di un caso di “balla” lanciata da... “pallonari”. Ma a quanto si diceva ai tempi accadde più volte. Non so cosa si usasse per abbatterli, dato che la quota di volo era MOLTO più elevata di quella raggiungibile dal proverbiale F-16. Lo sviluppo degli U-2 fu anche dovuto alla necessità di avere un controllo più puntuale della traiettoria rispetto a quello dei palloni, e di proteggerli dalla contraerea.
La previsione della traiettoria di un pallone stratosferico era possibile già allora con una notevole precisione. Alla fine degli anni '80 collaborai al lancio di un telescopio su pallone chiamato ARGO dalla base dell'Agenzia Spaziale Italiana di Trapani-Milo. La quota elevata e la relativa economicità dei lanci di pallone, oltre alla possibilità di recuperare il carico, rendono queste piattaforme estremamente interessanti per l'astronomia, soprattutto a certe lunghezze d'onda alle quali l'atmosfera è per lo più opaca. L'esperimento era diretto dal Prof. Paolo de Bernardis, dell'Università di Roma La Sapienza, che aveva grande esperienza nel lancio di palloni e che anni dopo avrebbe lanciato dalla base di McMurdo in Antartide il telescopio BOOMERAnG, un esperimento di cosmologia che ebbe un enorme successo (e che è un capolavoro anche per l’acronimo usato: Balloon Observations Of Millimetric Extragalactic Radiation And Geophysics, visto che ritornava vicino alla zona di lancio guidato dal vortice polare e aveva a bordo anche un magnetometro ad alta sensibilità che giustificava la G finale...).
Per il progetto ARGO avevo curato per intero il disegno e la costruzione del sistema di acquisizione dati: hardware, software e sistema di controllo termico pressurizzato, non banale a quella quota. Tutto digitale, una novità visto che prima di allora il gruppo impiegava un registratore a nastro Nagra, di cui si recuperava la bobina. E tutto fatto in laboratorio con le poche risorse a disposizione, cercando di minimizzare il peso e la potenza elettrica richiesta (l'alimentazione era a base di costosissime batterie al Litio). Una volta testato il sistema nella base ASI, salutai i miei colleghi, presi un aereo e volai in Spagna, in una località dell’Andalusia vicino a Huelva, sulla costa atlantica. Lì vicino c’era una base militare, El Arenosillo, dalla quale si lanciavano missili suborbitali, dove si attendeva l’arrivo del pallone, guidato appunto da una corrente a getto transmediterranea (2).
(2) Dalla stessa base potrebbero essere lanciati quest'anno i primi razzi suborbitali recuperabili europei, i Miura. Vedremo!
Era agosto, faceva un caldo bestiale ma confesso con un po’ di imbarazzo che si trattò di una bellissima “vacanza". La mattina infatti chiamavo la base di Trapani-Milo per sapere se avevano lanciato. Per due settimane mi risposero di no a causa delle condizioni meteo non favorevoli o di qualche problema tecnico. A quel punto prendevo la macchina e andavo a vedere qualcosa nei dintorni, o a leggere un libro in piscina. Così visitai per bene Sevilla, Cadiz, Huelva, ecc.
Un giorno però la vacanza terminò: la sera prima infatti, alle 22:45, il telescopio era stato lanciato. Raggiunta la quota di crociera il pallone “salì” sulla corrente a getto e si incamminò verso la Spagna...
Il giorno dopo ad Arenosillo cominciammo a ricevere la telemetria del pallone. E' importante seguirlo per controllare i dati di "housekeeping", che misurano le condizioni di volo (temperatura, quota, etc.) e per raccogliere almeno alcuni dati nel caso il mio sistema non avesse funzionato. Ma anche per verificare la direzione e prevedere quando dare il segnale di sgancio della gondola, che "taglia" anche il pallone, in modo che cada a terra e non rappresenti un pericolo per la navigazione aerea. Il momento dello sgancio della gondola va deciso con cura, in quanto determina dove il pallone atterrerà. Bisogna infatti minimizzare la possibilità che cada su centri abitati, nell'oceano, o in corsi d'acqua, anche se questa possibilità non è mai nulla.
Il pallone si avvicinava sempre più, seguendo perfettamente la traiettoria prevista. Nella piccola control room vicino alla spiaggia fissavamo con attenzione i vari monitor e rack di elettronica. Ad un certo momento però dissi, nel mio stentato spagnolo: "ragazzi, scusate, ma se sta lì... non dovrebbe essere perfettamente visibile ad occhio nudo??". Uscimmo, era il tramonto e il pallone proveniva da Est. Guardando in cielo si vedeva chiaramente un grosso cerchio bianco, illuminato perfettamente dal Sole. Non grande come la Luna ma MOLTO più grande e brillante di qualsiasi oggetto visibile in cielo. Abbastanza inquietante, direi. Perché lo racconto: perché questo dimostra che la stabilità delle correnti a getto permetteva anche allora di prevedere abbastanza agevolmente il punto di arrivo. La distanza tra Milo e e Arenosillo è infatti di circa 1.700 km, ma il pallone era giunto a non più di una decina di km dal punto di arrivo previsto, un errore del 5 per mille!
Aspettammo ancora un po' e poi, in base ai venti locali, inviammo il comando di sgancio. A quella quota la pressione è talmente bassa che il carico viene giù praticamente in caduta libera per circa 20 km, appeso all'enorme paracadute, che rimane chiuso. Proprio per questo sono stati usati palloni per avere qualche decina di secondi di "microgravità" a basso costo. Lo vedemmo quindi volare giù come un sasso, fino a quando quasi di colpo il paracadute bianco e rosso si aprì, e cominciò a fluttuare di nuovo nel cielo.
Al momento dell'apertura del paracadute, a circa 20 km di quota, gli accelerometri di bordo registrarono, se non ricordo male, accelerazioni di 9 g, non poco per la struttura. Il pallone invece, squarciato, cambiò improvvisamente forma, cominciando a sciabolare nel cielo. Si racconta che una volta, in Francia, un pallone atterrò su un casolare di campagna, coprendolo completamente: la mattina il contadino aprì la finestra e scoprì di essere avvolto in un involucro di costosissimo mylar - quasi 10 ettari - perfetto per coprire una serra. Sembra che si mise d’accordo con il CNES, l'agenzia spaziale francese, che non avrebbe denunciato i danni se gli fosse stato permesso di tenerselo per sé.
Ma torniamo in Andalusia. Il problema è che non fummo i soli a guardare quell'insolito fenomeno. Tutta la regione, incluse molte cittadine, ci fece caso. Molti, impauriti, intasarono le linee telefoniche chiamando la Guardia Civil, convinti che fossero arrivati gli alieni. Noi avevamo comunicato la cosa e quindi teoricamente non ci sarebbero stati problemi ma il carico veleggiò appeso al suo grosso paracadute bianco e rosso, passando sopra alcuni remoti villaggi di una zona rurale vicino Cadiz. Alcuni contadini lo videro, caricarono le loro cose sul carretto trainato da un asino e lasciarono casa terrorizzati.
Il giorno dopo, all'alba, una lunga carovana di auto, camion, gru etc. partì alla ricerca del telescopio, localizzato da una ricognizione aerea la sera precedente ad Ovest di un antico paesino Andaluso, Montellano. Un'altra volta, in Francia, ero andato anch'io a cercare la gondola con un piccolo Piper bielica in una zona remota dei Pirenei. Divertentissimo, ma questa volta avevo un altro incarico: dovevo smontare il sistema di acquisizione dati per riportarlo a Roma, e purtroppo non potei partecipare alla ricerca, che includeva voli a bassissima quota per scattare foto delle condizioni della gondola.
Attraverso la rete di strade bianche della finca (fattoria), raggiungemmo finalmente il punto più vicino possibile al telescopio, che giaceva accanto ad un boschetto: la scena sembrava presa da un film di fantascienza di serie B. Eccolo li, col suo grande specchio di alluminio, il telaio lucente inclinato su un lato. Con il camion non ci si poteva avvicinare di più, e la distanza, un duecento metri, andava coperta a piedi sul terreno appena arato.
Scendere dal camion, prendere qualche foto, smontare il sistema di acquisizione, impacchettarlo e tornare a casa. Semplice no?
Non esattamente.
Una piccola mandria di giovani tori da corrida, probabilmente incuriositi dal curioso manufatto, pascolava a una decina di metri dal telescopio. La zona veniva infatti utilizzata per l'allevamento di tori Miura da combattimento. Guardai le sagome di quegli enormi bovini. Erano talmente grossi e neri da sembrare letteralmente buchi tagliati nel paesaggio. Seduto accanto al posto di guida di uno dei camion, guardai l'autista e chiesi "e adesso come si fa?". Costui, un omaccione con la faccia rotonda, mi guardò ridendo, mi diede alcune “amichevoli" pacche sulla spalla e rispose "No te preocupes. ¡Muévete lentamente y no les mires a los ojos!" ("Non ti preoccupare, muoviti piano e non guardarli mai negli occhi!").
Facile a dirsi! Cercai di assicurarmi che non ci fossero pericolosi malintesi dovuti al mio incerto castigliano. Guardai con particolare orrore la piccola cassetta degli attrezzi che mi ero portato dall’Italia per fare il mio lavoro, dipinta di... rosso (3). Ma ero giovane e un po' ingenuo, e mi scocciava mostrare di essere un fifone al camionista spagnolo, e alla fine scesi dal camion.
(3) Si, oggi lo so che i tori non sono sensibili al rosso. Ma ai tempi i telefoni cellulari non esistevano, ed assicurarsi che ai tori mancassero i conetti nella retina non era proprio facile...
Mi incamminai incerto tra le zolle. La piccola mandria – 7 o 8 di quei bestioni – smise di ruminare e mi guardò con l'aria di una gang che guarda avvicinarsi un fighetto in giacca e cravatta col Rolex al polso, alle tre di notte, nel Bronx.
Percorsi quei 200 metri circa in un silenzio glaciale, col cuore in gola, evitando con cura di intercettare anche solo per sbaglio lo sguardo di uno di loro, sotto il sole cocente dell’estate andalusa (45 gradi) chiedendomi se per caso i cari amici spagnoli volessero solo fare una battuta e fossero rimasti sconcertati al vedere che ese italiano imbécil ci avesse creduto veramente!
Giunto alla gondola, notai qualche familiare LED acceso. Buon segno, pensai. Cominciai a controllare con nonchalance lo stato del telescopio e a scattare foto con la mia vecchia Nikkormat. Avvertivo il respiro pesante e l'odore di muschio degli enormi bestioni neri, che avevano ripreso a ruminare a pochi metri di distanza. C'era qualche danno prodotto dal Sole concentrato dal primario su alcuni cavi, ma niente di irrecuperabile. Il terreno era morbido per l'aratura, gli impattatori di cartone ondulato, che si schiacciavano all'atterraggio, avevano protetto la struttura dall'impatto e l'atterraggio non aveva prodotto gravi danni, anche grazie alla mancanza di vento. Presi cacciavite e chiavi inglesi, muovendomi piano e cercando di non creare troppo disturbo alla mandria, e cominciai a smontare il sistema di acquisizione e a smontare i dischi rigidi.
Raccolsi tutto e con molta, moltissima calma mi incamminai verso il camion. Vedevo le facce dei "cari" colleghi spagnoli fissarmi al sicuro della cabina del camion. L'impressione è che ridacchiassero, ma non feci molta attenzione a questi dettagli visto che stavo camminando volgendo le spalle ad una mandria di tori da corrida.
Tutto andò bene, comunque: gli spagnoli avevano ragione. Di nuovo al sicuro nel camion, con i preziosi dischi rigidi in mano, altre pacche sulle spalle, altre gran risate. Un grosso elicottero agganciò la grossa struttura e la caricò sul pianale del camion. Sulla via del ritorno ci fermammo in una piccola trattoria di campagna a mangiare bocadillos e a bere vino tinto per festeggiare il successo della missione. Me ne stavo un po' da una parte a guardare gli spagnoli (capivo poco cosa dicevano). E sarà per la tensione accumulata, e magari per il contributo offerto dall'ottimo tinto, ma ricordo ancora quel pranzo sotto la pergola per il totale stato di flow mentale in cui mi trovai. Ero sopravvissuto, tutto era andato a buon fine, i dati erano al sicuro, pronti per essere analizzati. Fatto sta che non dimenticherò mai quel meraviglioso momento di assoluta felicità.