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2017/07/28
I nativi digitali sono davvero differenti? Probabilmente no
Ultimo aggiornamento: 2017/07/28 18:15.
“Non esistono nativi digitali”: un titolo secco e deciso per un articolo pubblicato su Discover Magazine da Nathaniel Scharping ieri, che riprende un termine, nativo digitale, coniato nel 2001 dall’educatore Marc Prensky in un saggio diventato molto popolare.
Il saggio diceva che il modo in cui gli studenti di oggi pensano ed elaborano le informazioni è radicalmente differente rispetto ai loro predecessori, a causa dell’uso intensivo di videogiochi, computer, smartphone e altri dispositivi digitali. Di conseguenza, diceva Prensky, è necessario cambiare i metodi educativi per tenere conto di questa fondamentale differenza.
Ma dal 2001 sono passati molti bit sotto i modem e soprattutto sono state pubblicate molte ricerche che indicano che i cosiddetti “nativi digitali” non sono più bravi degli “immigrati digitali” nell’usare i programmi e le funzioni dei computer (per esempio quella di ECDL/AICA) e non sono più bravi nel multitasking. In compenso i “nativi digitali” si valutano molto più competenti informaticamente rispetto agli “immigrati”: il doppio dei nativi crede di essere competente rispetto agli immigrati.
Non solo: il cervello umano dei “nativi” è come quello degli “immigrati”. Gestisce bene un solo compito complesso per volta. In termini informatici, è un monoprocessore che può fare task switching ma non multitasking. I “nativi” danno solo l’impressione di fare tante cose contemporaneamente perché in realtà commutano rapidamente da una all’altra, ma le fanno tutte male e alla fine non risparmiano tempo esattamente come tutti gli altri, e questa commutazione continua ha un costo dovuto alla continua interruzione dei processi di pensiero. Uno studio del 2006 indica che parlare al telefono mentre si guida è come guidare in stato di ubriachezza. E di ricerche in questo senso ce ne sono tante altre, segnalate nell’articolo di Discover Magazine.
Conviene quindi lasciar perdere i miti e per esempio disattivare il più possibile le notifiche non indispensabili dei nostri dispositivi, il cui scopo non è renderci più efficienti, ma riportarci il più possibile nei social network per generare traffico che fa incassare i proprietari di questi servizi.
“Non esistono nativi digitali”: un titolo secco e deciso per un articolo pubblicato su Discover Magazine da Nathaniel Scharping ieri, che riprende un termine, nativo digitale, coniato nel 2001 dall’educatore Marc Prensky in un saggio diventato molto popolare.
Il saggio diceva che il modo in cui gli studenti di oggi pensano ed elaborano le informazioni è radicalmente differente rispetto ai loro predecessori, a causa dell’uso intensivo di videogiochi, computer, smartphone e altri dispositivi digitali. Di conseguenza, diceva Prensky, è necessario cambiare i metodi educativi per tenere conto di questa fondamentale differenza.
Ma dal 2001 sono passati molti bit sotto i modem e soprattutto sono state pubblicate molte ricerche che indicano che i cosiddetti “nativi digitali” non sono più bravi degli “immigrati digitali” nell’usare i programmi e le funzioni dei computer (per esempio quella di ECDL/AICA) e non sono più bravi nel multitasking. In compenso i “nativi digitali” si valutano molto più competenti informaticamente rispetto agli “immigrati”: il doppio dei nativi crede di essere competente rispetto agli immigrati.
Non solo: il cervello umano dei “nativi” è come quello degli “immigrati”. Gestisce bene un solo compito complesso per volta. In termini informatici, è un monoprocessore che può fare task switching ma non multitasking. I “nativi” danno solo l’impressione di fare tante cose contemporaneamente perché in realtà commutano rapidamente da una all’altra, ma le fanno tutte male e alla fine non risparmiano tempo esattamente come tutti gli altri, e questa commutazione continua ha un costo dovuto alla continua interruzione dei processi di pensiero. Uno studio del 2006 indica che parlare al telefono mentre si guida è come guidare in stato di ubriachezza. E di ricerche in questo senso ce ne sono tante altre, segnalate nell’articolo di Discover Magazine.
Conviene quindi lasciar perdere i miti e per esempio disattivare il più possibile le notifiche non indispensabili dei nostri dispositivi, il cui scopo non è renderci più efficienti, ma riportarci il più possibile nei social network per generare traffico che fa incassare i proprietari di questi servizi.
2016/03/05
“Mah, io prendo le app da Aptoide e non mi è mai successo niente”. Fino al momento in cui succede
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete incoraggiarmi a scrivere ancora (anche con un microabbonamento).
Vado spessissimo nelle scuole a mostrare le trappole dei dispositivi digitali, troppo insicuri e pettegoli specialmente quando vengono usati in modo incauto, e una delle situazioni più frequenti che incontro è l’uso di Aptoide per installare app a scrocco sui dispositivi Android. Quando dico che non è prudente perché gli store alternativi a quello ufficiale contengono molte app infette (se sono fuori da Google Play ci sarà pure un motivo) arriva puntuale l’obiezione di uno che dice che lo fa da una vita ma non gli è mai successo niente.
Certo, gli rispondo. Non succede niente fino al momento in cui succede. Un po’ come andare in moto senza casco: non ti fai niente fino al momento in cui cadi e batti la testa.
Stamattina mi è arrivata una dimostrazione perfetta di questa disinvoltura di tanti “nativi digitali”: la mail di panico di un giovane utente che ha installato Aptoide per il solito motivo (“volevo avere un videogioco gratis”). Ora si trova con “app rallentate, surriscaldamento eccessivo della batteria e ieri e oggi schermate di pubblicità di giochi e siti non adatti alla mia età (pornografici,..)”.
Queste sono le schermate che mi ha mandato: falsi avvisi antivirus, che probabilmente inducono a installare ulteriore malware, e un classico sito erotico.
Questi sono i consigli che gli ho dato: ditemi se ho dimenticato qualcosa.
– Segnati su carta (non nelle note) tutte le password che usi sul telefonino
– Fai una copia dei dati (musica/foto/documenti) che hai sul telefonino
– Azzera il telefonino facendo il ripristino di fabbrica (trovi le istruzioni con Google)
– Ricarica tutti gli account e le app (ma non Aptoide, ovviamente)
– Ricarica tutti i dati
– Installa un antivirus per Android (per esempio quello di Sophos, gratuito)
– Cambia tutte le password dei servizi che usi e segnatele (sempre su carta)
– Se hai associato una carta di credito al telefonino infetto o a uno degli account che usi su quel telefonino, tieni d'occhio l'estratto conto o blocca la carta
– D'ora in poi scarica solo app da Google Play; se sono a pagamento, pagale usando una tessera prepagata Google Play
– Non installare mai più Aptoide o altra roba del genere :-)
Vado spessissimo nelle scuole a mostrare le trappole dei dispositivi digitali, troppo insicuri e pettegoli specialmente quando vengono usati in modo incauto, e una delle situazioni più frequenti che incontro è l’uso di Aptoide per installare app a scrocco sui dispositivi Android. Quando dico che non è prudente perché gli store alternativi a quello ufficiale contengono molte app infette (se sono fuori da Google Play ci sarà pure un motivo) arriva puntuale l’obiezione di uno che dice che lo fa da una vita ma non gli è mai successo niente.
Certo, gli rispondo. Non succede niente fino al momento in cui succede. Un po’ come andare in moto senza casco: non ti fai niente fino al momento in cui cadi e batti la testa.
Stamattina mi è arrivata una dimostrazione perfetta di questa disinvoltura di tanti “nativi digitali”: la mail di panico di un giovane utente che ha installato Aptoide per il solito motivo (“volevo avere un videogioco gratis”). Ora si trova con “app rallentate, surriscaldamento eccessivo della batteria e ieri e oggi schermate di pubblicità di giochi e siti non adatti alla mia età (pornografici,..)”.
Queste sono le schermate che mi ha mandato: falsi avvisi antivirus, che probabilmente inducono a installare ulteriore malware, e un classico sito erotico.
Questi sono i consigli che gli ho dato: ditemi se ho dimenticato qualcosa.
– Segnati su carta (non nelle note) tutte le password che usi sul telefonino
– Fai una copia dei dati (musica/foto/documenti) che hai sul telefonino
– Azzera il telefonino facendo il ripristino di fabbrica (trovi le istruzioni con Google)
– Ricarica tutti gli account e le app (ma non Aptoide, ovviamente)
– Ricarica tutti i dati
– Installa un antivirus per Android (per esempio quello di Sophos, gratuito)
– Cambia tutte le password dei servizi che usi e segnatele (sempre su carta)
– Se hai associato una carta di credito al telefonino infetto o a uno degli account che usi su quel telefonino, tieni d'occhio l'estratto conto o blocca la carta
– D'ora in poi scarica solo app da Google Play; se sono a pagamento, pagale usando una tessera prepagata Google Play
– Non installare mai più Aptoide o altra roba del genere :-)
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2015/11/20
“Nativi digitali” sempre meno competenti per colpa di tablet e smartphone?
Se siete fra quelli che comprano tablet e smartphone al neonato perché così diventerà sicuramente un cittadino digitale competente, forse ho una brutta notizia da darvi. Secondo uno studio condotto in Australia per la valutazione delle competenze degli studenti di 12 e 16 anni su un campione di 10.500 individui, la crescente diffusione degli smartphone e dei tablet nelle case e nelle scuole sta ritardando lo sviluppo delle competenze informatiche.
I risultati mostrano infatti un declino drastico rispetto agli stessi dati raccolti nel 2008 per i dodicenni; i dati per i sedicenni sono al minimo storico. Come si spiega? Secondo gli autori della ricerca, i dispositivi mobili usati oggi dai giovani richiedono competenze differenti e modalità d’insegnamento altrettanto diverse rispetto al passato. Per esempio, oggi sono più importanti le competenze nella comunicazione online ed è meno indispensabile la capacità di modificare fisicamente i dispositivi, sempre più da usare a scatola chiusa e senza parti sostituibili.
Parte della colpa dei questi risultati, sempre secondo i ricercatori, spetta al fatto che in questi anni il programma scolastico per l’insegnamento dell’informatica non è stato adeguato ai nuovi scenari tecnologici che sono emersi man mano e quindi i parametri di valutazione potrebbero non essere più realistici. In tal caso, niente panico: non ci sarebbe in corso un rincitrullimento giovanile collettivo ma semmai sarebbero i test a essere tutti da rifare. Sia come sia, i documenti della ricerca sono disponibili qui e qui in formato PDF in inglese.
I risultati mostrano infatti un declino drastico rispetto agli stessi dati raccolti nel 2008 per i dodicenni; i dati per i sedicenni sono al minimo storico. Come si spiega? Secondo gli autori della ricerca, i dispositivi mobili usati oggi dai giovani richiedono competenze differenti e modalità d’insegnamento altrettanto diverse rispetto al passato. Per esempio, oggi sono più importanti le competenze nella comunicazione online ed è meno indispensabile la capacità di modificare fisicamente i dispositivi, sempre più da usare a scatola chiusa e senza parti sostituibili.
Parte della colpa dei questi risultati, sempre secondo i ricercatori, spetta al fatto che in questi anni il programma scolastico per l’insegnamento dell’informatica non è stato adeguato ai nuovi scenari tecnologici che sono emersi man mano e quindi i parametri di valutazione potrebbero non essere più realistici. In tal caso, niente panico: non ci sarebbe in corso un rincitrullimento giovanile collettivo ma semmai sarebbero i test a essere tutti da rifare. Sia come sia, i documenti della ricerca sono disponibili qui e qui in formato PDF in inglese.
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2015/03/06
Ci vediamo stasera a San Marino?
Questa sera alle 20.30 sarò a Domagnano (San Marino), alla Sala Montelupo, per parlare di alfabetizzazione informatica dei cittadini in vista delle smart city. Un po' di teoria, un occhio alle esperienze già fatte altrove, e molta pratica sull'uso consapevole delle tecnologie digitali mobili. Tutti i dettagli sono sulla pagina Facebook dedicata a #Digitocracy.
2014/06/20
Leggere su uno schermo ci rende stupidi?
Avete notato anche voi che quello che leggete su uno schermo (di computer o tablet o telefonino) vi rimane meno impresso di quello che leggete su carta? Non è una vostra impressione: secondo molte ricerche, leggere su uno schermo ci rende in un certo senso inevitabilmente stupidi.
Non date la colpa al fatto che non siete “nativi digitali” e siete stati abituati da bambini a usare la carta, mentre lo schermo è arrivato dopo e quindi è meno naturale: la stessa differenza è stata notata anche fra i giovani.
È stato osservato ripetutamente, a livello di ricerca, che su uno schermo la velocità di lettura e la profondità di comprensione del testo sono inferiori rispetto alla carta: un dato che impensierirà chi vede il tablet sostituire il libro di testo nelle scuole. Nel corso degli anni, con il miglioramento della qualità e leggibilità degli schermi, la differenza si è ridotta, ma il problema rimane.
Una possibile spiegazione, riassunta su Discover, è che la lettura non è un processo astratto di semplice ingestione di parole: il suo contorno influisce sui processi cognitivi. Per esempio, si è visto che un font poco leggibile paradossalmente migliora la comprensione del testo. È come se il cervello, facendo fatica a leggere le lettere, si attivasse maggiormente per capire meglio anche il senso di quelle lettere. Invece un testo scritto in un font ad alta leggibilità viene analizzato più superficialmente.
Inoltre si sostiene che un libro cartaceo offre stimoli sensoriali che mancano quando si usa uno schermo: il suo peso lo rende subliminalmente più importante rispetto a una pagina eterea sullo schermo di un tablet, il suo spessore ci dice a che punto siamo del testo e la sua suddivisione in pagine fisiche ci offre una chiara mappa spaziale delle informazioni. Sappiamo tutti come si sfoglia un libro, perché c'è uno standard unico: per contro, manipolare uno schermo, con i suoi comandi non sempre intuitivi e differenti da un dispositivo all'altro, è una distrazione che ostacola la comprensione. L'interfaccia standardizzata e intuitiva, insomma, è fondamentale.
Non è sempre così, tuttavia: si è visto che i dislessici si trovano meglio con un e-reader che con la carta, probabilmente perché il dispositivo consente di impaginare il testo in righe corte che facilitano la scansione delle frasi.
Queste ricerche offrono insomma spunti importanti per chiunque progetti una pubblicazione su qualunque supporto e sono un monito a non abbracciare ciecamente la tecnologia pensando che il passaggio allo schermo sia inevitabile e che la vecchia carta vada buttata via. Perlomeno non prima di averne catturato tutti i trucchi cognitivi che ci può offrire.
Fonti aggiuntive: Sciencedirect (1), Wired, Utexas.edu, Princeton.edu, Sciencedirect (2), Kau.se.
Non date la colpa al fatto che non siete “nativi digitali” e siete stati abituati da bambini a usare la carta, mentre lo schermo è arrivato dopo e quindi è meno naturale: la stessa differenza è stata notata anche fra i giovani.
È stato osservato ripetutamente, a livello di ricerca, che su uno schermo la velocità di lettura e la profondità di comprensione del testo sono inferiori rispetto alla carta: un dato che impensierirà chi vede il tablet sostituire il libro di testo nelle scuole. Nel corso degli anni, con il miglioramento della qualità e leggibilità degli schermi, la differenza si è ridotta, ma il problema rimane.
Una possibile spiegazione, riassunta su Discover, è che la lettura non è un processo astratto di semplice ingestione di parole: il suo contorno influisce sui processi cognitivi. Per esempio, si è visto che un font poco leggibile paradossalmente migliora la comprensione del testo. È come se il cervello, facendo fatica a leggere le lettere, si attivasse maggiormente per capire meglio anche il senso di quelle lettere. Invece un testo scritto in un font ad alta leggibilità viene analizzato più superficialmente.
Inoltre si sostiene che un libro cartaceo offre stimoli sensoriali che mancano quando si usa uno schermo: il suo peso lo rende subliminalmente più importante rispetto a una pagina eterea sullo schermo di un tablet, il suo spessore ci dice a che punto siamo del testo e la sua suddivisione in pagine fisiche ci offre una chiara mappa spaziale delle informazioni. Sappiamo tutti come si sfoglia un libro, perché c'è uno standard unico: per contro, manipolare uno schermo, con i suoi comandi non sempre intuitivi e differenti da un dispositivo all'altro, è una distrazione che ostacola la comprensione. L'interfaccia standardizzata e intuitiva, insomma, è fondamentale.
Non è sempre così, tuttavia: si è visto che i dislessici si trovano meglio con un e-reader che con la carta, probabilmente perché il dispositivo consente di impaginare il testo in righe corte che facilitano la scansione delle frasi.
Queste ricerche offrono insomma spunti importanti per chiunque progetti una pubblicazione su qualunque supporto e sono un monito a non abbracciare ciecamente la tecnologia pensando che il passaggio allo schermo sia inevitabile e che la vecchia carta vada buttata via. Perlomeno non prima di averne catturato tutti i trucchi cognitivi che ci può offrire.
Fonti aggiuntive: Sciencedirect (1), Wired, Utexas.edu, Princeton.edu, Sciencedirect (2), Kau.se.
2013/12/10
Per favore, non chiamateli “nativi digitali”
Poco dopo, in una felice coincidenza, è stata pubblicata una ricerca della Bicocca sulle competenze informatiche giovanili e così ci ho ragionato un po', ho raccolto un po' di dati e ho ampliato il concetto in un articolo per Agenda Digitale e che segnalo qui con colpevole ritardo.
2013/10/15
Le foto “temporanee” di Snapchat non sono temporanee. Ma che sorpresa
Questo articolo vi arriva grazie alla gentile donazione di “multijog” ed è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale.
Sarebbe anche ora di piantarla di chiamarli “nativi digitali”, questi giovani d'oggi. Come se avessero chissà quale naturale, istintiva dimestichezza con il funzionamento degli aggeggi digitali. Certo, cliccano icone colorate e pigiano bottoni, ma con pochissime eccezioni non sanno un bel nulla dei principi di base dell'informatica. Chiedi loro anche solo cos'è un tag HTML e ti guardano come comparse prelevate di peso da Idiocracy.
Nativi dei miei stivali. Non che gli adulti siano molto meglio, s'intende; ma almeno non vengono etichettati coniando espressioni tanto trendy quanto vuote di significato.
L'unica accezione decente di “nativo digitale” sarebbe “persona che è nata quando le tecnologie digitali già erano capillarmente diffuse”, con la precisazione “ma non per questo ci capisce automaticamente qualcosa”. Ma è raro sentirla usata così. Mamme e papà adoranti contemplano il loro pargoletto che tocca iconcine sullo schermo touch e credono che questo faccia di lui un informatico provetto. Più in là gli faranno vedere Rocco invades Poland e penseranno che questo lo renderà un ginecologo sensibile e premuroso.
Fine del pistolotto da vecchietto. Passiamo alle cose concrete.
Prendiamo il caso di Snapchat, l'app che promette di mandare delle foto che scompaiono dal telefonino del destinatario entro un certo numero di secondi senza che sia possibile salvarle. Questi “nativi digitali” (e non solo loro, perché lo fanno anche molti adulti) si bevono la promessa e si mandano foto stra-intime con Snapchat pensando che vengano cancellate poco dopo e che sia impossibile salvarle. Che gonzi.
Se avessero un briciolo di conoscenza dell'informatica, saprebbero che un dato digitale è fatto apposta per essere duplicato facilmente e che una volta arrivato su un dispositivo che è al di fuori del loro controllo non ha alcuna garanzia di cancellazione. I bit son fatti così, e non c'è promessa di venditore che tenga.
Puntualmente, infatti, arriva l'app che permette di salvare le foto che non dovevano essere salvabili. Stavolta si chiama Snaphack. La trovate, almeno per ora, sull'App Store di Apple, accompagnata da un bel “ve l'avevamo detto” cantato dal Coro dei Nativi Analogici.
Fra l'altro, secondo Ars Technica SnapChat non purga affatto le foto dal dispositivo del destinatario dopo la loro scadenza: si limita a cambiarne l'estensione a .nomedia (nella cartella RECEIVED_IMAGES_SNAPS, su Android) e poi le cancella senza sovrascriverle o cifrarle. Per cui un po' di competenza nel recupero di file cancellati da un filesystem Android permette di recuperarle (anche se non è facilissimo, secondo TechCrunch). Utente avvisato, mezzo salvato.
Maggiori info: Business Insider, Heavy, BBC.
Sarebbe anche ora di piantarla di chiamarli “nativi digitali”, questi giovani d'oggi. Come se avessero chissà quale naturale, istintiva dimestichezza con il funzionamento degli aggeggi digitali. Certo, cliccano icone colorate e pigiano bottoni, ma con pochissime eccezioni non sanno un bel nulla dei principi di base dell'informatica. Chiedi loro anche solo cos'è un tag HTML e ti guardano come comparse prelevate di peso da Idiocracy.
Nativi dei miei stivali. Non che gli adulti siano molto meglio, s'intende; ma almeno non vengono etichettati coniando espressioni tanto trendy quanto vuote di significato.
L'unica accezione decente di “nativo digitale” sarebbe “persona che è nata quando le tecnologie digitali già erano capillarmente diffuse”, con la precisazione “ma non per questo ci capisce automaticamente qualcosa”. Ma è raro sentirla usata così. Mamme e papà adoranti contemplano il loro pargoletto che tocca iconcine sullo schermo touch e credono che questo faccia di lui un informatico provetto. Più in là gli faranno vedere Rocco invades Poland e penseranno che questo lo renderà un ginecologo sensibile e premuroso.
Fine del pistolotto da vecchietto. Passiamo alle cose concrete.
Prendiamo il caso di Snapchat, l'app che promette di mandare delle foto che scompaiono dal telefonino del destinatario entro un certo numero di secondi senza che sia possibile salvarle. Questi “nativi digitali” (e non solo loro, perché lo fanno anche molti adulti) si bevono la promessa e si mandano foto stra-intime con Snapchat pensando che vengano cancellate poco dopo e che sia impossibile salvarle. Che gonzi.
Se avessero un briciolo di conoscenza dell'informatica, saprebbero che un dato digitale è fatto apposta per essere duplicato facilmente e che una volta arrivato su un dispositivo che è al di fuori del loro controllo non ha alcuna garanzia di cancellazione. I bit son fatti così, e non c'è promessa di venditore che tenga.
Puntualmente, infatti, arriva l'app che permette di salvare le foto che non dovevano essere salvabili. Stavolta si chiama Snaphack. La trovate, almeno per ora, sull'App Store di Apple, accompagnata da un bel “ve l'avevamo detto” cantato dal Coro dei Nativi Analogici.
Fra l'altro, secondo Ars Technica SnapChat non purga affatto le foto dal dispositivo del destinatario dopo la loro scadenza: si limita a cambiarne l'estensione a .nomedia (nella cartella RECEIVED_IMAGES_SNAPS, su Android) e poi le cancella senza sovrascriverle o cifrarle. Per cui un po' di competenza nel recupero di file cancellati da un filesystem Android permette di recuperarle (anche se non è facilissimo, secondo TechCrunch). Utente avvisato, mezzo salvato.
Maggiori info: Business Insider, Heavy, BBC.
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