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Il Disinformatico: archeoinformatica

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2023/01/12

Podcast RSI - Story: HERT, il computer meno durevole del mondo, e CCS, quello che funziona da 45 anni

logo del Disinformatico

È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate presso www.rsi.ch/ildisinformatico (link diretto) e qui sotto.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite feed RSS, iTunes, Google Podcasts e Spotify.

Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

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[CLIP audio: avvio lento di un computer]

Ci si lamenta spesso che i computer e gli smartphone diventano obsoleti nel giro di pochi anni, spingendo a cambiarli spesso, con tutti i costi connessi, e creando tanta spazzatura elettronica, ma ci sono computer la cui vita utile non si misura in anni e neanche in mesi. Si accendono una sola volta, fanno calcoli frenetici per qualche istante, e poi vengono distrutti. Uno spreco incredibile e a prima vista assurdo, ma da questi computer, in un certo senso, dipende la pace nel mondo.

Questa è la storia di HERT, il computer meno longevo di sempre, e delle sue prestazioni incredibili. Non lo troverete nei negozi: noi comuni mortali non possiamo comperarlo, e c’è un’ottima ragione per questo divieto.

[SIGLA di apertura]

La storia di HERT, perlomeno quella pubblica, inizia intorno alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, ed è stata portata alla luce dal divulgatore scientifico Scott Manley in un video pubblicato recentemente su YouTube.

Si tratta di uno speciale computer per telemetria che aveva dei requisiti molto particolari: doveva trasmettere dati a circa 100 megabit al secondo (che negli anni Novanta erano una velocità notevolissima) ed era dotato di un processore FPGA o field-programmable gate array a 100 MHz. Questi FPGA, a differenza dei normali processori, sono riconfigurabili perché i loro circuiti non vengono fissati durante la fabbricazione e possono essere ridefiniti dal software che ci gira sopra, dando loro una flessibilità impareggiabile: un computer dotato di FPGA, in pratica, può modificare se stesso per adattarsi meglio al compito che deve svolgere. Oggi gli FPGA vanno molto di moda nel campo dell’intelligenza artificiale, ma ai tempi dell’esordio di HERT erano rari e nuovi: il primo FPGA commerciale era stato realizzato solo una decina d’anni prima, nel 1985.

Per contro, la memoria di HERT era davvero miserrima, persino per gli standard di allora: solo 1280 bit (sì, bit, non megabit o gigabit). Ma non era un problema, perché i dati che doveva raccogliere erano pochissimi e quello che contava era che quella poca memoria fosse incredibilmente veloce, perché doveva incamerare i dati di telemetria e passarli al trasmettitore radio che li inviava ai ricercatori del committente.

E il committente che aveva bisogno di questo strano computer era quasi altrettanto strano: era il Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti. Non è il tipo di ente che normalmente si associa all’informatica ad alte prestazioni, ma questo è un caso particolare, perché questo computer doveva attivarsi, raccogliere dati e trasmetterli nel giro di qualche milionesimo di secondo. Provate a pensare ai tempi di accensione del vostro computer o telefonino e immaginate, oltre trent’anni fa, un computer che era pronto all’uso nel giro di un milionesimo di secondo.

Probabilmente vi starete chiedendo il perché di tanta fretta di accendersi e partire. La spiegazione è nascosta nel significato della sigla HERT, che sta per High Explosive Radio Telemetry, ossia “telemetria via radio per alto esplosivo”. Questo piccolo computer dalle prestazioni pazzesche, infatti, doveva lavorare così in fretta perché doveva trasmettere tutti i dati raccolti prima che venisse distrutto intenzionalmente da un’esplosione. L’esplosione della bomba atomica all’interno della quale era installato.

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Dietro l’etichetta apparentemente blanda del Dipartimento per l’Energia statunitense c’è in realtà la ricerca militare sulle armi nucleari, che ha ormai da alcuni decenni una sfida notevole da risolvere. Nel 1996 i test nucleari convenzionali, ossia quelli nei quali si fa esplodere una bomba, sono stati formalmente banditi da un trattato internazionale. Da ormai trent’anni, le grandi potenze nucleari firmatarie del trattato, ossia Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito (cui si aggiungono molti altri paesi con arsenali nucleari relativamente minori), non effettuano più test pratici. E quindi questi paesi hanno un problema: come si fa a dimostrare che un’arma nucleare funziona davvero, se non la si può far esplodere?

[CLIP audio: il presidente USA dialoga con il presidente sovietico in “Il Dottor Stranamore” di Stanley Kubrick]

I test nucleari passati non sono sufficienti, perché le bombe invecchiano: contengono molti componenti e sostanze, come per esempio certi polimeri e gli esplosivi chimici che innescano la detonazione nucleare, che perdono le loro proprietà con il passare del tempo, e quindi bisogna fabbricarne periodicamente delle altre o sostituire questi componenti e materiali se si vuole mantenere quantitativamente stabile il proprio deterrente atomico. E bisogna fabbricarle o aggiornarle rispettando degli standard di precisione elevatissimi, altrimenti non funzioneranno.

In estrema sintesi, infatti, l’esplosione di una testata nucleare viene innescata usando degli esplosivi convenzionali, disposti in modo da produrre un’onda di pressione intorno al materiale radioattivo, comprimendolo immensamente in un tempo brevissimo. Se quest’onda non è uniforme, la reazione nucleare a catena non avviene correttamente e l’arma non funziona o funziona con potenza enormemente ridotta. Con le simulazioni al computer di oggi si può fare tanto, ma alla fine si tratta pur sempre di simulazioni, mentre per convincere i propri avversari potenziali che il proprio deterrente nucleare funziona davvero e non solo sulla carta, e che quindi non è il caso di attaccare, servono delle dimostrazioni pratiche.

È qui che entrava in gioco HERT: questo piccolo, velocissimo computer che pesava poco meno di 700 grammi veniva installato dentro una Flight Test Unit (FTU), una replica molto fedele di una bomba atomica ma priva di materiale nucleare e montata su un missile balistico lanciato verso un bersaglio fittizio, e i suoi sensori rilevavano in vari punti dell’ordigno la forma dell’onda di pressione che veniva prodotta dall’esplosivo convenzionale quando la bomba veniva fatta esplodere sul bersaglio. Nell’istante in cui iniziava l’esplosione, HERT doveva accendersi, raccogliere i dati che gli arrivavano da questi sensori, codificarli freneticamente e trasmetterli via radio. Doveva fare tutto questo entro non più di venti milionesimi di secondo, ossia nel tempo che ci metteva l’esplosione a raggiungerlo e distruggerlo. In pratica, la sua intera vita operativa durava cinquemila volte meno di un singolo battito di ciglia. Questa sì che è obsolescenza rapida.

Fonte: OSTI.gov, 2006.

Se i dati di questa telemetria confermavano che la forma dell’onda di pressione era regolare, dimostravano che la bomba funzionava e che quindi il deterrente nucleare era reale e credibile. Secondo la dottrina della distruzione reciproca garantita, questo deterrente scoraggiava i conflitti e quindi HERT, il computer meno durevole del mondo, a modo suo contribuiva alla pace.

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Va detto che quello che si sa pubblicamente di HERT rappresenta lo stato dell’arte di tre decenni fa di una delle tante tecnologie informatiche estreme usate per la verifica delle armi nucleari, e non si sa quali dispositivi vengano usati oggi al suo posto, anche se i documenti governativi pubblici confermano che HERT, in una delle sue numerose versioni, è rimasto in uso almeno fino al 2007.

In compenso, si sa che il settore del controllo qualità delle testate nucleari, per così dire, utilizza anche oggi dei computer straordinariamente sofisticati, ma si tratta di dispositivi che durano decisamente più a lungo di HERT, anche perché hanno uno scopo molto differente: sono i supercalcolatori giganti che simulano con estrema finezza le reazioni di fusione nucleare, come Sierra e JADE, installati rispettivamente nel 2018 e nel 2016 presso la National Nuclear Security Administration in California e tuttora pienamente operativi, tanto che sono stati protagonisti poco citati dell’annuncio che ha fatto il giro del mondo, a dicembre 2022, di un importante passo avanti nella generazione di energia da fusione nucleare controllata.

Sierra al LLNL. Credit: Randy Wong/LLNL.

Anche questi supercomputer, come il loro ben più effimero parente prossimo HERT, sono gestiti dal Dipartimento per l’Energia statunitense, e quel passo avanti è stato reso possibile dalle loro simulazioni digitali, che hanno definito i parametri dell’esperimento concreto che è stato al centro dell’annuncio. E benché i media si siano concentrati sugli aspetti energetici e le applicazioni commerciali della notizia, in realtà l’annuncio è stato di natura principalmente militare.

Riascoltando la conferenza stampa di presentazione si nota infatti che il fisico Marvin Adams che la conduce è vicedirettore per i programmi della Difesa degli Stati Uniti, e dice molto chiaramente (a 14:00) che il risultato annunciato ha sì delle implicazioni per l’energia pulita, ma soprattutto offre benefici diretti per la sicurezza nazionale, consentendo esperimenti che mantengono l’affidabilità e la credibilità del deterrente nucleare senza effettuare test esplosivi atomici. Esattamente come HERT, insomma.

Queste sono le sue parole [CLIP]:

Fusion is an essential process in modern nuclear weapons, and fusion also has the potential for abundant clean energy. As you have heard, and you’ll hear more, the breakthrough at NIF does have ramifications for clean energy. More immediately, this achievement will advance our national security in at least three ways. First, it will lead to laboratory experiments that help NNSA defense programs continue to maintain confidence in our deterrent without nuclear explosive testing. Second, it underpins the credibility of our deterrent by demonstrating world-leading expertise in weapons-relevant technologies. That is, we know what we’re doing. Third, continuing to assure our allies that we know what we’re doing and continuing to avoid testing will advance our nonproliferation goals, also increasing our national security.”

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Anche i supercomputer come JADE e Sierra, però, non durano a lungo: dopo qualche anno diventano obsoleti, superati da sistemi ancora più potenti. Ma se HERT è un caso estremo di vita breve di un dispositivo digitale, misurata in milionesimi di secondo, all’altro estremo c’è un computer decisamente longevo.

Secondo il Guinness dei Primati, il computer che è rimasto acceso e operativo più a lungo in tutta la storia della tecnologia digitale è in funzione ininterrottamente da 45 anni e 4 mesi: è entrato in attività il 20 agosto 1977 (il Dekatron britannico risale al 1951 ed è funzionante, ma non è rimasto continuamente attivo).

Anche questo computer ha a che fare con le radiazioni e con l’energia nucleare, ma stavolta le bombe non c’entrano: è infatti il CCS o Computer Command System, una coppia di computer interconnessi a bordo della sonda spaziale Voyager 2, lanciata appunto il 20 agosto del ’77. C’è anche un altro CCS ultralongevo: quello installato sulla sonda gemella Voyager 1, che nonostante la numerazione fu lanciata poco dopo la sorella Voyager 2, il 5 settembre 1977.

Questi Computer Command System sono alimentati ciascuno da un piccolo reattore nucleare che dovrebbe durare fino al 2030 circa e sopportano da 45 anni le radiazioni cosmiche dello spazio profondo; non contengono microprocessori ma soltanto componenti discreti e circuiti integrati, e hanno solo 70 kilobyte di memoria. Oggi i CCS si trovano a oltre venti miliardi di chilometri dalla Terra, ben oltre i pianeti del Sistema Solare, e sfrecciano a più di 15 chilometri al secondo nel gelo e nel buio, continuando a trasmettere diligentemente informazioni scientifiche da quasi mezzo secolo. Pensateci, la prossima volta che vi sentite in obbligo di cambiare telefonino perché vi sembra vecchio.


Fonti aggiuntive:

2022/12/08

Podcast RSI - 50 anni di Pong; intelligenza artificiale che scrive temi e articoli; ladri informatici che rifiutano di attaccare

logo del Disinformatico

È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate presso www.rsi.ch/ildisinformatico (link diretto) e qui sotto.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite feed RSS, iTunes, Google Podcasts e Spotify.

Buon ascolto, e se vi interessano il testo integrale e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

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[CLIP: Audio di Pong]

Questi suoni sintetici, secchi e semplici, sono inconfondibili per chiunque abbia qualche anno sulle spalle e si ricordi il debutto dei primi giochi elettronici: sono quelli di Pong, il mitico ping-pong elettronico, che in questi giorni compie ben cinquant’anni. Oggi, invece, siamo alle prese con l’intelligenza artificiale e con le sue sorprese continue, mentre dall’Asia arriva una storia di ransomware decisamente bizzarra, in cui i criminali informatici si rifiutano di attaccare una compagnia aerea con una giustificazione molto insolita.

Sono questi gli argomenti della puntata del 9 dicembre 2022 del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie dal mondo dell’informatica. Benvenuti. Io sono, come al solito, Paolo Attivissimo.

[CLIP: Sigla di apertura]



50 anni di Pong, ma con sorpresa

Alla fine di novembre del 1972, cinquant’anni fa, fu rilasciato uno dei videogiochi più famosi di sempre: Pong. La sua storia merita di essere raccontata in una maniera adatta al mezzo secolo di informatica che ci separa dai quei timidi primi passi nell’intrattenimento digitale. Ascoltatela con attenzione.

Pong è stato uno dei primi videogiochi mai realizzati ed è diventato rapidamente un successo commerciale negli anni '70. Fu ideato e sviluppato da Atari, una delle più grandi società di videogiochi dell'epoca. Nolan Bushnell è stato il fondatore di Atari e quindi uno dei principali sviluppatori di Pong. Bushnell fu anche il principale promotore di Pong, che fu pubblicizzato con successo attraverso manifesti e pubblicità televisive.

Pong era un semplice gioco basato sulla racchetta e sulla pallina, in cui i giocatori dovevano spostare le proprie racchette per colpire la pallina e impedire all'avversario di segnare un punto. Nonostante la sua semplicità, Pong divenne presto un fenomeno di massa, con milioni di persone che giocavano nei bar, nei locali e nelle sale giochi di tutto il mondo.

Bushnell ebbe l'idea di creare un videogioco basato sulla racchetta e sulla pallina dopo aver giocato a un gioco simile su una macchina da bar. Bushnell e il suo team di sviluppatori lavorarono per mesi per creare il prototipo di Pong, che fu poi testato in alcuni locali per valutarne l'appeal. Dopo aver apportato alcune modifiche, Pong fu finalmente lanciato sul mercato e divenne un successo commerciale senza precedenti.

Pong fu anche il primo videogioco a essere distribuito per console per il mercato domestico, aprendo la strada a un'intera generazione di giochi per la televisione. Con il suo successo, ha segnato l'inizio dell'era dei videogiochi e ha contribuito a creare un mercato che oggi è valutato in miliardi di dollari.

Anche se Pong è stato superato dalla tecnologia moderna e dai giochi più complessi di oggi, rimane un pezzo importante della storia dei videogiochi e continua a essere apprezzato da molti appassionati di tutte le età.

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Vi è sembrata una descrizione un po’ fiacca, ripetitiva e priva di dettagli? Beh, considerate però che è stata scritta in pochi secondi e senza alcuna fatica da parte mia: infatti l’ha generata interamente un software di intelligenza artificiale. Adesso capite perché vi ho chiesto di ascoltarla con attenzione. Se non ve l’avessi detto, ve ne sareste accorti?

Mi affretto a dire che da qui in poi, invece, il testo di questo podcast è opera mia. Almeno quasi tutto.

Il software in questione si chiama ChatGPT ed è stato presentato pochi giorni fa, causando ilarità e al tempo stesso preoccupazione in chiunque scriva testi per lavoro. Ilarità perché è anche capace di spiegare la fisica quantistica in rima nello stile di Snoop Dogg, e preoccupazione perché se un software riesce a generare in qualche istante un testo passabile come quello che avete sentito, a cosa servono scrittori e giornalisti? E come faranno i docenti a capire se i loro studenti hanno davvero scritto il testo della loro ricerca o del loro tema ma hanno una prosa asciutta e poco talento oppure se lo sono invece fatto generare pigramente da un software?

[Nota: esistono dei rilevatori di output per GPT-2 che funzionano per ora anche con ChatGPT come strumenti antiplagio e antifrode, ma bisogna saperli installare e usare]

Potete provare ChatGPT gratuitamente: è sufficiente creare un account presso chat.openai.com e mettersi pazientemente in fila, perché sono moltissimi gli utenti che lo stanno provando e magari anche già usando per lavoro. Se avete fretta, c’è anche una versione a pagamento, che si chiama Playground.

Il suo funzionamento pratico è molto semplice; la complessità è tutta dietro le quinte. Come per i generatori di immagini che ho descritto in altre puntate di questo podcast, tutto parte da una breve frase, denominata in gergo prompt, che l’utente immette per dare istruzioni al software. Il bello di ChatGPT è che a differenza di molti software analoghi anche recenti, questo genera testi anche in italiano. È sufficiente che il prompt sia in italiano o, in generale, nella lingua nella quale volete ottenere il testo generato.

Per fargli generare quel blando riassunto della storia di Pong (che effettivamente compie cinquant’anni in questi giorni) gli ho semplicemente chiesto “Scrivimi la storia del videogioco Pong nello stile di un giornalista” e poi “Raccontami in dettaglio quale ruolo ebbe Nolan Bushnell nella creazione del videogioco Pong”. Il resto, ossia la struttura delle frasi e i riferimenti ad Atari, lo ha generato ChatGPT, direttamente in italiano. Io ho solo tolto qualche ripetizione.

[Date un‘occhiata allo spettacolare esempio di fuffa di marketing creato da Matteo Flora, nel tweet qui sotto:]

ChatGPT è comunque ottimizzato per la lingua inglese, ed è in questa lingua che fornisce i risultati più strepitosi, generando riassunti, convertendo i titoli di film in emoji, generando poesie, filastrocche e recensioni di ristoranti, scrivendo trame di sitcom e racconti erotici, traducendo da una lingua a un’altra e da un linguaggio di programmazione a un altro, chiacchierando in maniera naturale ricordandosi anche le frasi precedenti della conversazione e fornendo molte altre funzioni che fino a pochi anni fa sarebbero state considerate impossibili per un software.

Per ora i testi generati da ChatGPT sono ancora riconoscibili da un lettore attento, e se state pensando di usarlo per scuola o per lavoro tenete presente che spesso si inventa dettagli inesistenti ma apparentemente plausibili [come nella descrizione di Pong, che contiene parecchi dettagli completamente falsi]. Ma questo software, e l’intero settore della generazione di contenuti tramite intelligenza artificiale, si sta evolvendo a velocità impressionante, tanto che il sito Stack Overflow, punto di riferimento per risolvere qualunque problema di programmazione, ha temporaneamente bandito le “soluzioni” generate da ChatGPT, perché sono troppo facili da generare e sono spessissimo sbagliate ma a prima vista molto credibili. Riconoscerle richiede un occhio esperto, e quindi i moderatori sono stati sopraffatti dall’ondata di soluzioni fasulle prodotte da ChatGPT.

Artisti, traduttori e autori di testi si sentono comprensibilmente minacciati e temono di restare senza lavoro, soppiantati da computer veloci e instancabili che producono a bassissimo costo materiale blando e superficiale ma comunque accettabile per molte situazioni anche professionali. 

Perché pagare un illustratore per una copertina di un libro, quando c’è Midjourney che la genera in un minuto e costa qualche centesimo? Perché pagare un cronista per descrivere una partita, quando c’è un software capace di farlo usando anche i cliché tipici del settore?

Ma il problema rischia di essere ben più grande. Con questi software, generare milioni di articoli falsi ma sufficientemente credibili da ingannare il lettore non esperto, ossia fabbricare fake news, costa incredibilmente poco. È la realtà stessa che rischia di essere annacquata fino a scomparire.

Se vi state chiedendo se questo scenario si possa evitare, per esempio tramite una riqualificazione del giornalismo, non siete i soli. Una risposta arriva dal tecnologo Dominic Ligot:

“man mano che i social media e l’intelligenza artificiale continuano a evolversi e diventano più prevalenti, il giornalismo dovrà adattarsi e cambiare per restare efficace e continuare ad avere importanza. Uno dei modi principali nei quali dovrà cambiare è l’inclusione di nuove tecnologie e nuove piattaforme nelle sue pratiche e nei suoi processi. Per esempio, i giornalisti dovranno imparare come usare gli strumenti dell’intelligenza artificiale e dei social media per identificare e verificare le fonti, per analizzare e interpretare grandi quantità di dati, e per produrre contenuti interessanti e coinvolgenti su misura per le preferenze ed esigenze del pubblico online.”

Parole convincenti, vero? Ma non sono di Dominic Ligot: lui le ha semplicemente fornite al pubblico. Avete indovinato: le ha fatte generare da ChatGPT.

Fonti aggiuntive: Ars Technica, BBC, The Verge, Cnet, AI4business.it.



50 anni di Pong (stavolta sul serio)

[Credit per l’immagine: Wikipedia/Chris Rand]

Lasciando da parte i riassuntini annacquati generati dall’intelligenza artificiale, sono effettivamente passati 50 anni dal 29 novembre 1972, quando la neonata azienda statunitense Atari Inc. presentò negli Stati Uniti il videogioco Pong.

Uno schermo rigorosamente in bianco e nero, due “racchette” disegnate sotto forma di semplici rettangoli che si potevano muovere solo lateralmente, una “pallina” che era in realtà un quadratino bianco, e degli effetti sonori elementari oggi fanno sorridere, ma all’epoca erano assolutamente rivoluzionari, specialmente nelle sale giochi affollate di apparecchi completamente elettromeccanici. Questa era elettronica, era il futuro.

Pong, però, non fu creato da Atari in senso stretto. Il primo ping-pong elettronico fu offerto dalla console di gioco Odyssey della Magnavox, sempre nel 1972; i due fondatori di Atari, Nolan Bushnell e Ted Dabney, imitarono il gioco della Magnavox creandone una versione per le sale giochi.

Un’idea assolutamente vincente: nel giro di due anni Atari vendette più di 8000 esemplari, che furono una miniera d’oro: il loro guasto più frequente era dovuto al fatto che il contenitore delle monete necessarie per giocare era strapieno.

Atari offrì una versione domestica di Pong solo nel 1975. Nel frattempo Magnavox aveva fatto causa ad Atari per aver copiato la sua idea, ma Atari raggiunse un accordo economico con l’azienda, diventando licenziataria del ping-pong elettronico originale.

Una chicca per nostalgici: se vi sembra di ricordare che Pong avesse un difetto, per cui la racchetta non arrivava fino all’angolo superiore dell’area di gioco ed era quindi impossibile fermare la pallina se finiva in quella zona, ricordate bene. Non eravate voi a sbagliare il movimento della racchetta.

Però non si trattava un guasto del singolo apparecchio: erano tutti così, e lo erano intenzionalmente. Il progettista di Pong, Allan Alcorn, aveva infatti scelto un circuito di controllo delle racchette che aveva un difetto intrinseco, e invece di perdere tempo cercando un modo di compensarlo lo lasciò nel gioco per renderlo più difficile e per limitare la durata delle partite.

Fonti: Britannica, Wikipedia.



Criminali dediti al ransomware si rifiutano di attaccare una compagnia aerea: è troppo insicura

[Credit per lo screenshot: DataBreaches.net]

L’esperto di sicurezza informatica Graham Cluley segnala una storia davvero insolita negli annali degli attacchi informatici di ransomware, quelli basati sul furto o blocco dei dati di un’azienda e sulla richiesta di denaro per non divulgarli o per sbloccarli.

A metà novembre 2022 la banda informatica nota come Daixin Team ha attaccato la compagnia aerea malese Air Asia, sottraendo i dati personali di cinque milioni di passeggeri e di tutti i dipendenti.

Per dimostrare di aver realmente compiuto il furto, i criminali hanno inviato al sito DataBreaches.net e alla compagnia aerea un campione dei dati: nomi, date di nascita, indirizzi, data di assunzione, domanda di recupero account, risposta alla domanda di recupero e altro ancora.

Secondo quanto riferiscono i criminali attraverso un portavoce (perché sì, le bande criminali informatiche oggi sono talmente organizzate da avere anche dei portavoce), Air Asia è entrata in trattativa, ma sembra che alla fine non abbia pagato alcun riscatto.

Tuttavia lo stesso portavoce della banda ha dichiarato che Daixin Team ha cifrato i dati sui computer della compagnia e ne ha cancellato anche le copie di backup, però si rifiuta di attaccare più a fondo Air Asia a causa della “organizzazione caotica della rete” e della “assenza di qualunque standard” che ha “causato l’irritazione del gruppo e il completo rifiuto di ripetere l’attacco. Dicono proprio così.

Il portavoce dei criminali ha aggiunto che “la rete interna era configurata senza alcuna regola e quindi funzionava malissimo” e che “la protezione della rete era molto, molto debole”. È probabilmente la prima volta che si parla di un attacco informatico sventato dalla troppa insicurezza della vittima.

È già umiliante per una compagnia aerea farsi rubare i dati dei clienti; sentire che i ladri sono talmente disgustati dalle carenze di sicurezza del bersaglio da rifiutarsi di attaccarlo ancora è lo schiaffo finale.

Air Asia non ha rilasciato dichiarazioni. E prima che pensiate che Daixin Team sia un gruppo di ladri di buon cuore, va detto che la banda ha dichiarato che intende comunque disseminare i dati dei passeggeri e dei dipendenti e pubblicare informazioni sulle vulnerabilità della rete informatica di Air Asia. Il suo rifiuto di attaccare più a fondo è probabilmente legato, molto più pragmaticamente, al rischio di toccare infrastrutture informatiche critiche come sistemi radar o di controllo del traffico aereo e causare incidenti aerei con conseguenze potenzialmente fatali che mobiliterebbero le risorse di polizia molto più di quanto lo faccia un tentativo di estorsione informatica.

In ogni caso, è improbabile che questa cautela dei criminali sia consolatoria o rassicurante per i passeggeri passati, presenti o futuri della compagnia aerea. E contare sulla pena o compassione dei ladri non è una strategia difensiva da imitare.

2022/09/14

La strana storia dell’utente HME2 di Arpanet

Questo articolo è disponibile anche in versione podcast audio.

È il 26 marzo 1976. Presso la sede del Royal Signals and Radar Establishment, un istituto di ricerca scientifica del Ministero della Difesa britannico situato a Malvern, nel Regno Unito e specializzato in telecomunicazioni, una donna si avvicina a un terminale connesso ad Arpanet, il precursore di Internet, e invia una mail con un testo molto complesso:

“This message to all ARPANET users announces the availability on ARPANET of the Coral 66 compiler provided by the GEC 4080 computer at the Royal Signals and Radar Establishment, Malvern, England. Coral 66 is the standard real-time high level language adopted by the Ministry of Defence.”

La donna, in altre parole, sta annunciando a tutti gli utenti di ARPANET che il compilatore per Coral 66, il linguaggio di programmazione realtime di alto livello standard adottato dal Ministero della Difesa del Regno Unito per i suoi computer, è disponibile online ed è fornito dal computer GEC 4080 presso l’istituto di ricerca stesso.

Un annuncio molto tecnico, insomma, che la donna firma usando il proprio nome utente: HME2. È l’acronimo di Her Majesty Elizabeth II, perché quel messaggio viene inviato appunto dalla regina Elisabetta II. Si tratta di una delle primissime mail mandate da un capo di stato. 

Intendiamoci, quel giorno la regina Elisabetta non ha rivelato di essere segretamente una hackeressa smanettona d’informatica: l’account e il messaggio sono stati preparati per lei da Peter Kirstein, l’uomo che era riuscito nell’impresa tecnica e politica non banale di collegare il Regno Unito, e specificamente l’Università di Londra, alla nascente rete informatica internazionale ARPANET nel 1973. 

Kirstein sarà poi uno dei principali artefici dell’adozione, una decina di anni più tardi, dei protocolli TCP/IP che permetteranno a computer di marche differenti di parlarsi usando una serie di regole condivise (un protocollo, appunto) e renderanno possibile Internet come la conosciamo noi. La sua vicenda è raccontata in dettaglio in un articolo di Wired del 2012, che include una foto della regina Elisabetta mentre manda questa fatidica prima mail.

Credit: Peter Kerstein.

Non sarà l’unico incontro della regina con la tecnologia: nel 1997 inaugurerà la prima versione del sito Web della famiglia reale (www.royal.uk), anticipando di vari anni persino molti giornali nazionali; nel 2007 lancerà il canale Youtube della famiglia (Youtube.com/c/TheRoyalFamilyChannel); nel 2010 arriverà su Facebook e nel 2014 manderà il suo primo tweet dall’account @RoyalFamily.

A marzo 2019 manderà il suo primo post su Instagram, dedicandolo nientemeno che al pioniere dell’informatica Charles Babbage.

Durante la pandemia da Covid-19, a giugno 2020 sarà la prima monarca del Regno Unito ad adottare le videoconferenze. 

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Per dare un’idea di quanto sia cambiato il mondo nei suoi lunghi anni di regno, quando fu incoronata, a giugno del 1953, non esisteva la TV via satellite (anzi, non esistevano proprio i satelliti, visto che il primo, lo Sputnik, fu lanciato nel 1957). I segnali televisivi britannici non erano ricevibili nel continente americano se non in rare occasioni di riflessione sulla ionosfera e comunque con qualità scarsissima. 

Per far vedere alla TV americana e canadese la cerimonia della sua incoronazione con il minimo ritardo possibile, fu necessario realizzare una staffetta tecnica senza precedenti: le immagini televisive, rigorosamente in bianco e nero, furono riprese con una cinepresa, su pellicola 35 mm (perché all’epoca non esistevano i videoregistratori su nastro), e le pellicole furono caricate man mano su bombardieri militari Canberra della RAF. Le pellicole furono sviluppate durante il volo transatlantico e poi, una volta arrivate a terra, proiettate davanti a una telecamera per diffonderle ai telespettatori d’oltreoceano qualche ora dopo l’evento.

Oggi abbiamo non solo la TV via satellite ma anche lo streaming in tempo reale, a colori e in alta definizione, via Internet.

Può sembrare strano con gli occhi ipermediatici di oggi, ma all’epoca la trasmissione televisiva dell’incoronazione fu accompagnata da alcune polemiche, perché si riteneva poco dignitoso aprire al pubblico questo momento così rituale della monarchia. Alcuni membri del Parlamento e della famiglia reale britannica si opposero a questa presunta mancanza di rispetto e all’idea che qualche suddito potesse, per dirla con le parole di un membro del Parlamento, “assistere a questa Cerimonia solenne e significativa tenendo al gomito una tazza di tè” (Science Museum). Ma la regina in persona insistette per fare la diretta TV.

Mica male, per il fantomatico utente HME2.

Fonti aggiuntive: CBC, Pro Video Coalition, Bamagz, BBC, TV Insider

2022/09/07

1995: Piero Angela presenta “Internet per tutti”

Era una sera del 1995 (il 28 aprile, per la precisione). Alla Rai c’era Superquark, di cui ovviamente non mi perdevo mai una puntata. Vidi che Piero Angela stava parlando di Internet, che allora era una novità, come sentite dalle sue parole. Poi, a sorpresa, presentò il mio libro Internet per tutti. Un momento magico che ha contribuito tanto alla mia carriera. Grazie, Piero, e non solo di questo.

Fra l’altro, se volete leggere quel mio libro e farvi un tuffo nell’Internet di quasi trent’anni fa (con cose come archie, gopher e WAIS), è disponibile integralmente online.

2022/08/18

Una canzone di Janet Jackson crashava i laptop

Questo articolo è disponibile anche in versione podcast audio.

Non capita a molte cantanti pop di essere la causa tecnica di un collasso di sistemi informatici, ma Janet Jackson può vantarsi di questo aspetto molto particolare della propria carriera musicale. La sua canzone Rhythm Nation, del 1989, è infatti citata ufficialmente come causa di un malfunzionamento informatico nel database Mitre delle vulnerabilità (CVE-2022-3892).

La curiosa citazione deriva da un articolo di Raymond Chen, di Microsoft, e anche se è targata 2022 risale in realtà ai tempi di Windows XP, intorno al 2005. Un’azienda leader nella fabbricazione di computer, di cui Chen non fa il nome, scoprì che quando veniva suonata specificamente questa canzone di Janet Jackson alcuni suoi modelli di laptop andavano in crash. Già questo era insolito, ma la cosa ancora più strana era che lo stesso succedeva anche ad alcuni laptop di marche concorrenti.

I ricercatori che investigarono il problema scoprirono inoltre che riprodurre il video della canzone su un laptop mandava in crash anche un altro laptop collocato nelle vicinanze, anche se quell’altro laptop non stava suonando il brano.

Alla fine, e probabilmente dopo un numero di esecuzioni di Rhythm Nation che deve averli spinti a odiare per sempre la canzone, i ricercatori scoprirono la causa del bizzarro problema: il brano conteneva una delle frequenze di risonanza dello specifico modello di disco rigido da 5400 giri al minuto installato su quei laptop. In altre parole, i suoni della canzone innescavano delle vibrazioni sempre più intense nel disco rigido che gli impedivano di funzionare.

Non vi preoccupate: si trattava di dischi rigidi tradizionali, del tipo con piatti e testine, non dei dischi rigidi a stato solido che si usano oggi e che sono infinitamente meno sensibili alle vibrazioni in generale.

La soluzione adottata dal fabbricante fu semplice: fu aggiunto al sistema audio un filtro che escludeva le frequenze colpevoli. Chissà se sapremo mai quali erano i dischi rigidi vulnerabili a Janet Jackson.

Fonti aggiuntive: The Register, Tenable.

2022/06/10

Podcast RSI - Apple Newton, storia di un flop rivoluzionario che compie trent'anni

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È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate presso www.rsi.ch/ildisinformatico (link diretto) e qui sotto.

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Buon ascolto, e se vi interessano i testi e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

Prologo

CLIP AUDIO: Musica anni '90 tratta da video promozionale dell’Apple Newton

Siamo nel 1992; è il 29 maggio. Apple presenta al pubblico un dispositivo digitale tascabile con schermo sensibile al tocco, un processore innovativo e app integrate che darà il via a un intero nuovo settore informatico. No, non è l’iPhone: quello uscirà quindici anni più tardi, nel 2007.

Questa è la storia di Newton, un quasi-flop oggi dimenticato da molti, che però ha creato le basi per gli smartphone e per tutta l’informatica tascabile. Prima di lui c’erano stati altri computer da taschino, ma Newton è formalmente il primo PDA: personal digital assistant. Un assistente personale digitale, pensato per sostituire agende, calcolatrici e taccuini. In occasione del trentennale del suo debutto, ripercorro le tappe della sua sofferta gestazione tecnica e la sua sorprendente eredità digitale, presente in ogni smartphone di oggi. Io sono Paolo Attivissimo, e vi do il benvenuto a questa puntata del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica.

SIGLA DI APERTURA

Se è vera la teoria dei multiversi, da qualche parte esiste un universo nel quale gli smartphone sono arrivati con quindici anni di anticipo, negli anni Novanta invece che alla fine della prima decade del Duemila, e Apple ha evitato un tonfo commerciale così memorabile da essere parodiato anche dai Simpsons.

È il 29 maggio 1992. Il CEO di Apple, che in questa fase della crescita dell’azienda non è Steve Jobs, che ha lasciato Apple nel 1985, ma è John Sculley, annuncia e presenta al Consumer Electronics Show di Chicago, una delle più grandi fiere mondiali del settore informatico, un prodotto che definisce, con il classico stile Apple, “una rivoluzione”. È un computer, alimentato da quattro batterie stilo, che sta in un taschino ed è dotato di app per gestire agende e rubriche di indirizzi, prendere appunti scritti a mano libera, fare calcoli, trasmettere dati, inviare messaggi e leggere libri digitali (con quindici anni di anticipo rispetto al Kindle di Amazon). Sculley ha coniato pochi mesi prima per l’occasione il nome che caratterizzerà tutti i dispositivi di questo genere: personal digital assistant, abbreviato in PDA. In sostanza, un assistente personale digitale.

Un video del 1987 in cui Apple immaginava un Knowledge Navigator del futuro.

Quello presentato da Sculley si chiama Newton MessagePad, o più brevemente Newton; non è il primo del suo genere, perché Psion ha già presentato qualcosa di vagamente simile, il suo Organiser, nel 1984, e il suo popolarissimo Series 3 nel 1991, ma Newton è un salto di qualità, con uno schermo tattile sul quale si può disegnare con uno stilo appositamente fornito, e anche scrivere in corsivo appunti che il software di riconoscimento della scrittura trasforma in caratteri alfabetici digitali. Si possono disegnare forme a mano libera, che vengono riconosciute e trasformate in oggetti geometrici che possono essere trascinati sullo schermo e cancellati scarabocchiandovi sopra. Newton è in grado di inviare fax e di trasmettere dati ad altri Newton tramite una porta a infrarossi.

In un’epoca nella quale, tenete presente, il Wi-Fi ancora non esiste, visto che verrà inventato cinque anni più tardi, e i computer sono ancora oggetti fissi sulle scrivanie e quelli portatili sono pesanti, ingombranti e costosi, le caratteristiche del Newton sono impressionanti e futuribili e fanno gola a chiunque debba viaggiare molto e gestire dati per lavoro.

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La dimostrazione di Sculley del Newton stupisce il pubblico, ma questo effetto wow è stato ottenuto a caro prezzo. Il progetto iniziale, partito sei anni prima, è stato afflitto da carenze tecnologiche enormi. I processori scelti, per esempio, sono lentissimi, il dispositivo verrebbe a costare seimila dollari agli utenti, consuma tantissima energia ed è troppo ingombrante. Molti degli sviluppatori lasciano Apple per la disperazione.

È qui che entra in gioco, stranamente, una piccola azienda informatica britannica, la Acorn, che è incredibilmente riuscita a creare un nuovo tipo di processore che offre prestazioni ragionevoli con un consumo energetico ridottissimo. Apple ci prova: investe tre milioni di dollari in quest’azienda e ottiene in cambio un processore finalmente adatto a un computer tascabile. Trent’anni più tardi, i discendenti di quel processore saranno presenti in miliardi di smartphone di tutte le marche e nei computer odierni di Apple: li conosciamo con la sigla ARM, dove la A in origine stava appunto per Acorn.

Anche il software di riconoscimento della scrittura del Newton è nei guai. Leggenda vuole che Apple riceva un aiuto in questo campo in una maniera decisamente insolita. Al Eisenstat, vicepresidente del marketing di Apple, si trova in visita a Mosca quando qualcuno bussa alla porta della sua camera d’albergo: è un ingegnere informatico russo estremamente agitato, che gli porge un dischetto e se ne va. Sul dischetto c’è una versione dimostrativa di un software di riconoscimento della scrittura nettamente superiore a quello sviluppato fino a quel punto da Apple. È leggenda, ma sia come sia, poco dopo Apple sigla un accordo con il creatore di questo software, Stepan Pachikov, e lo usa per il Newton.

Poi c’è anche la questione delle dimensioni. Il CEO di Apple, John Sculley, impone che il Newton debba essere sufficientemente compatto da stare nella tasca della sua giacca. Fra i progettisti impegnati in questa sfida c’è anche un giovane Jony Ive, oggi famoso per il suo design degli iPhone, iPod, iPad, iMac, Apple Watch e AirPod. Alla fine i progettisti ce la fanno, ma l’esemplare mostrato da Sculley in quella fatidica presentazione di trent’anni fa è incompleto e zoppicante. Sculley fa vedere al pubblico soltanto le poche funzioni del Newton che non lo mandano in crash, esattamente come farà Steve Jobs nel 2007 per la prima dimostrazione pubblica dell’iPhone.

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Newton, insomma stupisce il pubblico e la stampa. Viene messo in vendita un anno dopo, ad agosto del 1993, al prezzo non certo regalato di circa 700 dollari dell’epoca. Il suo schermo è in bianco e nero, non è retroilluminato e ha una risoluzione di 240 per 320 pixel, che oggi farebbe sorridere ma è la norma per quegli anni. Soprattutto, però, è un prodotto incompleto: nonostante un anno di lavoro impossibilmente febbrile da parte degli ingegneri di Apple, uno dei quali, Ko Isono, si è tolto la vita per lo stress, i primi acquirenti si rendono conto ben presto che la funzione più preziosa di Newton, cioè il riconoscimento della scrittura naturale, non funziona bene, neanche dopo l’addestramento previsto appositamente.

In breve tempo il Newton diventa l’esempio tipico dei dispositivi costosi e high-tech che però falliscono miseramente nel sostituire le tecnologie analogiche precedenti. L’inaffidabilità del suo software di riconoscimento della scrittura viene parodiata un po’ovunque, persino dai Simpsons, nella puntata Lisa sul ghiaccio.

CLIP AUDIO: Spezzone della puntata dei Simpsons (originale inglese)

Apple migliorerà il Newton per qualche anno, risolvendo quasi tutti i suoi difetti iniziali, ma sarà troppo tardi: nel frattempo altre aziende, come IBM, Palm, Microsoft e Nokia, ispirate da quell’effetto wow ottenuto dalla presentazione del Newton, avranno fiutato l’affare e avranno messo sul mercato dispositivi tascabili forse meno mirabolanti ma sicuramente più affidabili e meno costosi, molti dei quali includeranno anche la connettività cellulare, come il Nokia Communicator.

In tutto verranno venduti non più di trecentomila esemplari delle varie versioni di Newton, mentre le vendite del solo rivale Palm Pilot ammonteranno a milioni di pezzi. Nel 1998 Steve Jobs, tornato a dirigere Apple, cancellerà il progetto Newton e ne farà cessare la commercializzazione. Il prodotto era troppo in anticipo sui tempi.

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Oggi sono in pochi a ricordare il Newton, e chi lo fa lo rievoca con molta nostalgia. Ci sono ancora degli appassionati che adoperano ancora i propri Newton adesso e li hanno dotati di browser e Wi-Fi; ma pochi sanno che l’eredità di questo dispositivo è un po’ovunque. Oltre ai processori ARM e ai primi passi di design di Jony Ive, infatti, ci sono piccole chicche, come lo sbuffo di fumo animato che compare quando si cancella qualcosa sul Mac, o le icone che si aggiornano in tempo reale, che sono nate proprio con il Newton. E ci sono anche altre funzioni ben più sostanziose, come l’assistente “intelligente” che consente di fare cose sul Newton usando il linguaggio naturale, come facciamo oggi con Siri o in generale con gli assistenti vocali. Nel Newton c’è la ricerca universale all’interno di tutti i dati e di tutte le applicazioni, oggi normale nei dispositivi digitali. Il linguaggio di programmazione, NewtonScript, ha influenzato la creazione del JavaScript, linguaggio onnipresente nei siti Web di tutto il mondo.

Oggi l’intero settore dei PDA, o personal digital assistant, è stato assorbito da quello degli smartphone e in parte da quello degli smartwatch, e il termine stesso comincia a svanire dalla memoria. Ma senza quel Newton e l’idea folle di realizzare un computer grafico da taschino negli anni Novanta non saremmo qui a dettare i nostri appuntamenti e a scambiare foto, musica e messaggi sui nostri telefonini. Buon trentesimo compleanno, Apple Newton, e congratulazioni per un fallimento di grande successo.

Fonti aggiuntive: Ars Technica, iMore.com, History-computer.com, Cult of Mac.

2021/12/24

Podcast RSI - “Su, su, giù, giù, sinistra, destra, sinistra, destra, B, A”, il codice della leggenda

È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto e condotto dal sottoscritto: lo trovate presso www.rsi.ch/ildisinformatico (link diretto) e qui sotto.

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Questa è l’ultima puntata del 2021; il podcast riprenderà il 14 gennaio.

Buon ascolto, e se vi interessano il testo e i link alle fonti della storia di oggi, sono qui sotto.

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[CLIP: Gameplay di Gradius]

Siamo nel 1985. Kazuhisa Hashimoto è un giovane programmatore in un’azienda giapponese che fa videogiochi. Il suo incarico è semplicemente convertire un videogioco, Gradius, dalla versione arcade, quella per sala giochi, alla console di gioco personale NES di Nintendo. Ma non sa che invece sta per creare una leggenda.

Questa è la storia di come una scorciatoia per risparmiare tempo durante il lavoro di un informatico è diventata un riferimento culturale non solo per i gamer ma anche nella cultura generale. È il cosiddetto Konami code, che si recita così: Su, su, giù, giù, sinistra, destra, sinistra, destra, B, A. Lo stesso codice che adesso sta facendo stupire gli utenti di TikTok perché fa fare cose strane agli assistenti vocali come Alexa o Google Home. 

Benvenuti a Disinformatico Story, l’edizione del podcast Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera dedicata alle storie insolite dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[Sigla iniziale]

Se avete a portata di voce un assistente vocale, per esempio Alexa o Google Home o Siri, provate a chiamarlo e poi pronunciare questa frase: “Su Su, Giù Giù, sinistra, destra, sinistra, destra, B, A”.

Se l’avete detta correttamente, il vostro assistente vocale comincerà a dire cose strane. Questo è quello che dice Alexa [in italiano], per esempio:

[CLIP: Alexa che risponde in italiano, tratto da LegaNerd su Facebook]

Ultimamente la scoperta di queste istruzioni misteriose viene condivisa intensamente su TikTok dagli utenti di tutto il mondo, perché esiste in molte lingue, e in tanti si stanno chiedendo che cosa c’entrino i reattori e perché il loro assistente vocale dice cose così bizzarre. La notizia si è meritata anche l’attenzione di alcuni giornali, come lo statunitense New York Post e il britannico Sun, ma per chiunque frequenti l’informatica e in particolare i videogiochi questa strana sequenza di comandi è già familiare e suscita puntualmente un sorriso.

Questa storia inizia appunto nel 1985. Il giovane Kazuhisa Hashimoto sta tribolando nella conversione del videogioco che gli è stata assegnata dalla sua azienda, la Konami. Il gioco, Gradius, è il classico combattimento fra astronavi, ma alcuni livelli sono particolarmente difficili da raggiungere e Kazuhisa deve raggiungerli per poter verificare che la sua conversione alla console NES di Nintendo funziona correttamente.

Così usa un trucco molto diffuso fra gli sviluppatori di videogiochi di quell’epoca e anche di oggi: inserisce nel gioco una sequenza segreta di tasti che, se digitata sul controller di gioco, conferisce più poteri al giocatore o, nel caso di Gradius, alla sua astronave. È insomma un classico power-up.

Hashimoto ce la fa: in meno di sei mesi completa la conversione insieme a tre colleghi, verifica che funziona, la consegna al suo datore di lavoro…. e si dimentica di togliere dal gioco la sequenza segreta.

Quando la Konami si rende conto della cosa è troppo tardi: ormai il gioco è in via di pubblicazione e rimuovere il power-up potrebbe avere conseguenze imprevedibili e far funzionare male il gioco; non c’è tempo di fare prove e controlli di qualità della versione ripulita, e così la sequenza rimane. Tanto, pensano gli sviluppatori, chi vuoi che scopra per caso una sequenza di tasti così complessa?

Ma hanno sottovalutato il talento e la determinazione dei gamer. La possibilità di avere più armi e più potenza non rimane segreta a lungo fra i giocatori di Gradius, che la diffondono con il passaparola, e la cosa piace così tanto che Konami decide di introdurre lo stesso power-up anche in altri giochi, come per esempio Contra, sempre per la console NES, che nel 1988 diventa popolarissimo negli Stati Uniti e fa conoscere la sequenza “segreta” a un pubblico enorme.

La sequenza viene chiamata Konami Code, o Contra code o ancora 30 lives code, il codice delle 30 vite, perché in Contra regala appunto 30 vite, senza le quali il gioco è praticamente ingiocabile.

Da allora il Konami Code ha iniziato a comparire ovunque, a volte con leggere varianti. Per esempio, se giocate a Gradius su console più recenti, come la Nintendo Wii, dovete usare i tasti 1 e 2 al posto di A e B, ma il senso è lo stesso.

Giusto per citare qualche altro esempio fra i tantissimi esistenti, lo stesso codice segreto si trova nella serie Castlevania, in molti giochi incentrati sulle Tartarughe Ninja, in Dance Dance Revolution, nella serie Metal Gear, in Bioshock Infinite; ha fatto una fugace comparsa anche in Fortnite Battle Royale, in Overwatch e lo si trova in GTA: The Trilogy.

Ma la popolarità del Konami Code non si limita ai videogiochi. Il codice funziona anche su alcuni dispositivi usati per vedere i video e film di Netflix; nel browser Opera; in Discord (dove attiva un gioco nascosto se lo si digita su una pagina che ha dato errore 404); lo si incontra in Twitch e in molti altri software. Anche gli assistenti vocali, come avete sentito, si sono uniti al divertimento.

Da lì il Konami Code si è diffuso nella musica ed è stato ripreso da molte band, sia come titolo di una canzone o come parte del testo, ed è approdato al cinema e in televisione.

Per esempio, nel film animato Ralph Spaccatutto, quando Re Candito deve accedere al gioco sul quale è incentrata la vicenda, ossia Sugar Rush, digita molto vistosamente il Konami Code.

[CLIP: il Konami Code in Ralph Spaccatutto]

Qualcosa di analogo succede anche nella serie animata Adventure Time e persino in una serie ben lontana dal mondo dei videogiochi come NCIS: c‘èuna puntata, intitolata Giustizia o Vendetta, in cui uno dei personaggi cita proprio il Konami Code.

La lista delle apparizioni di questo codice è chilometrica e Wikipedia ha una voce apposita che tenta di catalogarle tutte (la versione in inglese è molto più dettagliata di quella in italiano). Quando visitate un sito oppure lanciate un videogioco, vale sempre la pena di provare se viene accettata questa sequenza. Ma attenzione: a volte viene modificata, usando per esempio la frase inglese corrispondente (“Up, Up, Down, Down, Left, Right, Left, Right, B, A”) oppure soltanto le iniziali (“U, U, D, D, L, R, L, R, B, A”) e in alcuni casi bisogna aggiungere Start o S alla fine della sequenza.

Il modo più semplice per sapere se un sito, un gioco o un’applicazione includono il Konami Code è andare su un motore di ricerca e scrivere Konami Code, fra virgolette, seguito dal nome del sito, gioco o applicazione in questione: quasi sicuramente qualcuno ci ha già provato e ha documentato quello che succede.

Kazuhisa Hashimoto è considerato da molti il fondatore della tradizione informatica di inserire codici nascosti nei videogiochi e nelle applicazioni in generale, sia come metodo di lavoro per poterli testare, sia come chicca nascosta da regalare ai giocatori.

Dopo aver creato involontariamente una leggenda, Hashimoto ha continuato a lavorare presso la Konami per tutta la vita, creando molti altri videogiochi. È morto nel 2020, a 61 anni, ricordato da tanti con affetto e gratitudine per le ore di divertimento regalate con quella semplice, geniale sequenza che oggi viene riscoperta dai TikToker.

Su, su, giù, giù, sinistra, destra, sinistra, destra, B, A.

[CLIP: Sigla di chiusura, coordinate e saluti standard] 


Fonte aggiuntiva: Fark.

2021/10/31

Riemergono i nastri di quando facevo il DJ alla radio negli anni Ottanta: World Music Radio Classic

Ultimo aggiornamento: 2021/10/31 21:30.

Tanti, tanti anni fa ho fatto il DJ in inglese in una radio privata in onde medie e onde corte, World Music Radio. All’epoca mi facevo chiamare John Sinclair, come omaggio a Sir Clive Sinclair (erano gli anni dello Spectrum) e a John Koenig di Spazio 1999.

I complottisti mi rinfacciano sempre di essere stato un DJ, ma chissenefrega: è stata una delle più belle esperienze della mia gioventù. Tante amicizie nate in tutto il mondo, alcune delle quali mi hanno letteralmente cambiato la vita, tanta esperienza lavorativa che mi è tornata utile nei lavori fatti successivamente (e ancora oggi) e tantissima musica indimenticabile.

Ora sono riemerse da quel lontano passato le registrazioni di quei programmi, grazie al paziente lavoro di digitalizzazione di Andrea, che ha anche creato una stazione radio digitale in streaming regolarmente registrata.

Se volete ascoltare un po’ di musica degli anni Ottanta e dei decenni precedenti, e siete curiosi di sentire come ero diggèi da giovincello, è la vostra occasione. Lo streaming è sperimentale e non regge tanti ascoltatori simultanei, per cui questo articolo innescherà probabilmente uno stress test interessante. 

Tenete presente, inoltre, che le digitalizzazioni provengono da audiocassette di 40 anni fa e che all’epoca facevamo partire i dischi di vinile usando le “pezze”* sul piatto del giradischi, e tutto era analogico, per cui qualche problema di pitch può capitare.

* Per chi non ricorda cosa fossero le “pezze”: all’epoca le radio più professionali usavano giradischi a partenza immediata, tipo il Technics SL-1200, che non avendo l’inerzia della cinghia di trasmissione permettevano di posizionare la puntina appena prima dell’inizio della musica nel solco del disco, a giradischi fermo, e premere un pulsante per far partire immediatamente il brano.

Ma questi giradischi costavano uno sproposito, per cui le radio meno ricche si accontentavano di giradischi normali con trasmissione a cinghia, che avevano un’inerzia notevole (ci voleva quasi un giro intero per arrivare alla velocità corretta), e ricorrevano a un tappetino circolare di stoffa, la “pezza”, da mettere sul piatto sotto il disco.

Il DJ (io, in questo caso) posizionava la puntina appena prima dell’inizio del brano, teneva ben ferma la pezza con una mano, faceva partire il giradischi con l’altra in modo che il piatto fosse già in rotazione mentre il disco stava immobile sopra la pezza (che slittava rispetto al piatto), e poi mollava la pezza sulla penultima sillaba di quello che stava dicendo. Questo consentiva di ridurre lo spazio di accelerazione a un quarto di giro, che a 33 giri e 1/3 al minuto era appunto l’equivalente della durata di un paio di sillabe.

Potete ascoltare lo streaming dei programmi di tutti gli animatori storici di World Music Radio, mixati con brani più recenti, presso wmrclassic.com/streaming oppure a questo link diretto e scoprire la storia di questa radio un po’ pirata e un po’ pioniera nella sezione History.

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Per evitare equivoci e per rispondere alle domande che sono arrivate dopo la pubblicazione iniziale di questo articolo: 

  • le voci che sentite nello streaming sono quelle di tutti gli animatori storici di World Music Radio, non solo la mia: la mia è solo quella che si presenta come John Sinclair. 
  • Nei programmi, la mia voce è quella di 40 anni fa; nei jingle che dicono “Hi! This is World Music Radio Classic and I'm John Sinclair! You’re listening to the rebroadcast of old World Music Radio programmes from the 1980s. Please do not send reception reports or messages to addresses mentioned in the programs as they are no longer valid. For further information, visit the website wmrclassic.com - Thanks and enjoy listening!” e “You’re listening to the classic channel of WMR, World Music Radio Classic!” è la mia di ieri :-)
  • Per quelli che faticano a riconoscere la mia voce rispetto a quella che sentono quando parlo in pubblico o nei podcast: non usavo effetti audio particolari, a parte un pochino di bassi extra, e il microfono era ben più scarso dei Neumann che uso adesso alla RSI. Semplicemente all’epoca impostavo la voce “alla DJ anni 80” e la abbassavo di tono; usarla oggi nei podcast sarebbe ridicolo.

2021/09/16

PAUSE 0

Sir Clive Sinclair è morto oggi a 81 anni.

Grazie ai suoi mini-computer ZX80 (1980), ZX81 (1981) e ZX Spectrum (1982) ho mosso i primi passi in informatica. Ricordo ancora la prima notte insonne passata a programmare sullo Spectrum, appena acquistato a Milano dando fondo ai pochi soldi che avevo messo da parte. Fu un colpo di fulmine inebriante, e quell’amore non è mai scemato.

Come me, milioni di persone in tutto il mondo devono la propria passione e le proprie carriere alle idee di quest’uomo, capace di rendere economicamente abbordabile (ZX80 a 80 sterline in kit, 100 sterline già assemblato, quando i rivali costavano almeno il doppio) un prodotto che sembrava riservato soltanto a chi era pieno di soldi. 

I suoi computer si collegavano alla TV tramite il cavo d’antenna, per cui non era necessario spendere per il monitor dedicato, e i dati venivano salvati su un normale registratore a cassette, per cui non c’era il costo di un lettore di floppy disk. La digitazione dei comandi era semplificata grazie al fatto che non era necessario scriverli lettera per lettera col rischio di sbagliare: si digitavano premendo una combinazione di tasti della caratteristica tastiera (a membrana per ZX80 e 81 e gommosa nel caso dello Spectrum).

Queste e altre innovazioni permisero a questi computer di diventare popolarissimi. E permisero a un diciannovenne skater con i capelli ricci, rintanato in un soporifero paesino della Lombardia, di scoprire che esisteva un mondo intero da scoprire. 

La scoperta continua ancora oggi, tutti i giorni. Thank you, Sir Clive.

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Per chi è troppo giovane per ricordarsi i comandi dello Spectrum, lo spiegone del titolo: il comando PAUSE introduce una pausa; il valore 0 rende infinita la durata della pausa. 


Fonte per l’immagine: Wikipedia.


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