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2016/05/06
Apple Music ti cancella la musica dal computer: utente perde 122 giga di canzoni
Ha fatto subito il giro del mondo il racconto della disavventura capitata a James Pinkstone, di Atlanta, negli Stati Uniti: Apple Music, il servizio di streaming musicale a pagamento di Apple, ha cancellato ben 122 gigabyte di musica dal suo Mac. Compresi i brani che lui stesso aveva composto. E lo ha fatto, dice, senza dare alcun preavviso e senza chiedere il consenso. Non solo: quando ha contattato l’assistenza Apple gli è stato detto che Apple Music stava funzionando correttamente e che questa cancellazione era un comportamento previsto.
Se siete uno dei circa undici milioni di utenti paganti di Apple Music, la storia del signor Pinkstone è da brivido; in generale, è un monito per chiunque affidi i propri dati al cloud. Che, va ricordato, è un termine di marketing per non dire “il computer di qualcun altro”.
Apple Music, infatti, inizialmente legge tutti i brani audio presenti nel computer dell’abbonato, li confronta con quelli che Apple ha in archivio e poi cancella dal computer quelli che gli risultano presenti in archivio. Quando l’abbonato vuole ascoltare un brano su uno qualunque dei propri dispositivi, Apple glielo manda in streaming. Questo fa risparmiare spazio su disco e consente di avere la musica a disposizione ovunque.
Il problema, racconta il signor Pinkstone, è che il software di confronto e riconoscimento dei brani è impreciso e sbaglia a identificare i brani, per esempio confondendo una versione di una canzone con un’altra, e quindi capita che sostituisca un’edizione rara con quella generica più comune, una cover con un originale, una versione dal vivo con quella registrata in studio. L’edizione rara, magari trovata con fatica, viene cancellata dal computer dell’abbonato.
Peggio ancora, quando Apple Music incontra un brano che non riconosce, lo preleva dal computer dell’abbonato, lo copia sui propri server e poi lo cancella dal computer dell’utente. E lo fa anche con i brani composti dall’utente, come nel caso del signor Pinkstone. Questo significa che Apple controlla l’accesso dell’autore alla sua musica, e dato che Apple Music è un servizio a pagamento, l’utente deve pagare per avere accesso alle proprie composizioni o alla musica che aveva già pagato acquistandola per esempio su CD.
James Pinkstone è riuscito a recuperare tutta la propria musica attingendo a un backup, ma chi non ha una copia di scorta della propria collezione musicale rischia di trovarsi a dipendere da Apple e doverle pagare un abbonamento. Peggio ancora, chi elimina il proprio account Apple Music dopo i primi tre mesi di prova gratuiti rischia di aver perso tutto.
C'è chi fa notare che in realtà Apple Music avvisa prima di cancellare, ma lo fa in modo poco chiaro ed è facile sbagliarsi: forse è quello che è successo al signor Pinkstone e ad altri utenti in passato. Comunque sia, la vicenda evidenzia bene il rischio molto concreto dell’attuale tendenza ad affidarsi a servizi cloud senza conservare una propria copia locale dei dati: si diventa dipendenti dall’accesso a Internet e soprattutto dagli umori del fornitore del cloud per l’accesso ai propri dati e per la loro integrità. E se il cloud sbaglia o l’abbonamento scade, i dati sono persi o silenziosamente alterati per sempre.
Se siete uno dei circa undici milioni di utenti paganti di Apple Music, la storia del signor Pinkstone è da brivido; in generale, è un monito per chiunque affidi i propri dati al cloud. Che, va ricordato, è un termine di marketing per non dire “il computer di qualcun altro”.
Apple Music, infatti, inizialmente legge tutti i brani audio presenti nel computer dell’abbonato, li confronta con quelli che Apple ha in archivio e poi cancella dal computer quelli che gli risultano presenti in archivio. Quando l’abbonato vuole ascoltare un brano su uno qualunque dei propri dispositivi, Apple glielo manda in streaming. Questo fa risparmiare spazio su disco e consente di avere la musica a disposizione ovunque.
Il problema, racconta il signor Pinkstone, è che il software di confronto e riconoscimento dei brani è impreciso e sbaglia a identificare i brani, per esempio confondendo una versione di una canzone con un’altra, e quindi capita che sostituisca un’edizione rara con quella generica più comune, una cover con un originale, una versione dal vivo con quella registrata in studio. L’edizione rara, magari trovata con fatica, viene cancellata dal computer dell’abbonato.
Peggio ancora, quando Apple Music incontra un brano che non riconosce, lo preleva dal computer dell’abbonato, lo copia sui propri server e poi lo cancella dal computer dell’utente. E lo fa anche con i brani composti dall’utente, come nel caso del signor Pinkstone. Questo significa che Apple controlla l’accesso dell’autore alla sua musica, e dato che Apple Music è un servizio a pagamento, l’utente deve pagare per avere accesso alle proprie composizioni o alla musica che aveva già pagato acquistandola per esempio su CD.
James Pinkstone è riuscito a recuperare tutta la propria musica attingendo a un backup, ma chi non ha una copia di scorta della propria collezione musicale rischia di trovarsi a dipendere da Apple e doverle pagare un abbonamento. Peggio ancora, chi elimina il proprio account Apple Music dopo i primi tre mesi di prova gratuiti rischia di aver perso tutto.
C'è chi fa notare che in realtà Apple Music avvisa prima di cancellare, ma lo fa in modo poco chiaro ed è facile sbagliarsi: forse è quello che è successo al signor Pinkstone e ad altri utenti in passato. Comunque sia, la vicenda evidenzia bene il rischio molto concreto dell’attuale tendenza ad affidarsi a servizi cloud senza conservare una propria copia locale dei dati: si diventa dipendenti dall’accesso a Internet e soprattutto dagli umori del fornitore del cloud per l’accesso ai propri dati e per la loro integrità. E se il cloud sbaglia o l’abbonamento scade, i dati sono persi o silenziosamente alterati per sempre.
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