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Il Disinformatico: conservazione

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2022/08/12

Podcast RSI - Story: Di chi sono i tuoi dati quando muori?

logo del Disinformatico

È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate presso www.rsi.ch/ildisinformatico (link diretto) e qui sotto.

Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite feed RSS, iTunes, Google Podcasts e Spotify.

Buon ascolto, e se vi interessano il testo integrale e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

Prologo

NOTA: questo podcast contiene informazioni di natura legale, ottenute da una consulenza con uno specialista della materia, ma non sostituisce una consulenza legale personale.

[CLIP: Rumore di traffico cittadino]

Siamo a Lugano, in una caldissima giornata d’estate. La persona davanti a me mi sta chiedendo una consulenza tecnica molto particolare: vuole sbloccare il telefonino di un familiare morto in circostanze tragiche. Su quello smartphone ci sono informazioni che permetterebbero alla famiglia di capire meglio quelle circostanze e forse trovare pace, o recuperare dati essenziali per gestire le conseguenze pratiche del lutto improvviso. Ma c’è un problema: la persona è morta senza lasciare alla famiglia il codice di sblocco del dispositivo.

I dati sono quindi inaccessibili, a meno che si riesca a trovare la maniera di scoprire quel codice oppure scavalcarlo, e gli informatici spesso questi metodi li conoscono. Ma a questo punto c’è un altro problema: il diritto della famiglia di accedere ai dati della persona che non c’è più. Dati che potrebbero contenere segreti o confidenze che la persona non voleva assolutamente condividere con i propri familiari. Cosa si fa in questi casi?

Questa è la storia, non facile da raccontare, delle nostre eredità digitali, e di come oggi sia necessario pensarci per tempo, perché nei nostri dispositivi elettronici chiudiamo a chiave parti sempre più consistenti della nostra vita e dei nostri rapporti personali e professionali, custodiamo segreti, codici di accesso e foto intime. E se da una parte la tecnologia rende sempre più difficile scavalcare le protezioni di questi dispositivi, dall’altra c’è un fatto legale sorprendente, che probabilmente toglierà il sonno a molti: i morti non hanno privacy.

Benvenuti a questa puntata del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

Lo so, è un argomento che molti considerano macabro o addirittura tabù, ma prima o poi capita praticamente a tutti che un familiare ci lasci per sempre, e oggi a tutti gli altri problemi che questa dipartita comporta si aggiunge quello della gestione dei dati digitali di chi non c’è più.

Anche nelle circostanze meno drammatiche, la scomparsa di una persona cara comporta che chi le sopravvive debba mettere ordine nelle cose del defunto. E quelle cose, oggigiorno, sono spesso in formato digitale, custodite esclusivamente nello smartphone e nei servizi cloud associati a quello smartphone. Dalle bollette agli abbonamenti, dai contratti alle iscrizioni, è tutto sempre meno su carta. Chiudere questi rapporti, o anche solo scoprirne l’esistenza, diventa sempre più difficile, perché in giro per casa non ci sono lettere o bollette cartacee nelle quali imbattersi.

C’è poi la questione degli account sui social network: se non si hanno le loro password, non è possibile accedervi, nemmeno per comunicare il lutto o per chiuderli. E se si hanno le password ma non si ha il PIN di sblocco dello smartphone, non si possono ricevere neanche i codici di verifica di questi account.

È importante fermare subito le ipotesi un po’ morbose sul prendere le impronte dalle dita della salma o usare il riconoscimento facciale: lasciamole ai telefilm, perché sono state tentate ma funzionano solo nell’universo degli sceneggiatori. Molti sensori d’impronta moderni, per esempio, rilevano la conduttività elettrica dei polpastrelli, che cambia dopo la morte, mentre il riconoscimento facciale richiede che gli occhi siano aperti e il viso non abbia subìto i mutamenti fisiologici inevitabili del decesso.

Dal punto di vista tecnico, a volte è possibile aggirare tutte queste protezioni. Gli smartphone meno recenti hanno delle falle di protezione dei dati per cui è possibile scavalcare il PIN o reimpostarlo con opportuni comandi o con software abbastanza facilmente reperibile. Gli specialisti delle forze di polizia sono dotati di apparati appositi, come quelli fabbricati dalla Cellebrite, che sbloccano praticamente ogni smartphone esistente, ma vengono usati solo in circostanze molto particolari, per esempio se ci sono aspetti non chiari nel decesso o se c’è un procedimento legale in corso, e normalmente non sono disponibili al pubblico.

Capita spesso, insomma, che un informatico riceva la richiesta degli eredi di sbloccare uno smartphone di una persona deceduta. È capitato anche a me, appunto, in varie occasioni, che naturalmente non posso raccontare in dettaglio per rispetto delle persone coinvolte. A volte la motivazione è puramente pratica, perché servono le password per chiudere dei contratti o degli account o recuperare somme magari ingenti in bitcoin, e altre volte è profondamente emotiva, per esempio perché una famiglia vuole recuperare le ultime foto scattate insieme a una persona cara che non c’è più oppure vuole cercare di capire le ragioni di un gesto estremo. Ma in ogni caso è una richiesta sempre più frequente.

In situazioni come queste, però, oltre all’aspetto tecnico c’è anche quello legale. Ammesso di riuscire a scoprire o scavalcare il PIN di uno smartphone, è lecito dare ai familiari o agli eredi pieno accesso alle informazioni di una persona deceduta? Magari aveva dei segreti che non voleva condividere con queste persone: una malattia che teneva per sé, per non angosciare i cari, o una storia sentimentale che voleva tenere privata per proteggere qualcuno, per esempio. Molte persone tengono sul proprio smartphone pensieri personali e immagini intime che probabilmente non desiderano condividere con i propri figli o genitori.

La risposta a questo dubbio è piuttosto sorprendente: una volta decedute, le persone non sono più persone, dal punto di vista legale, e quindi con poche eccezioni non hanno più diritti personali, compreso quello alla riservatezza. I dati dei defunti non sono più privati.

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Si tratta di un principio diffuso in molti ordinamenti giuridici, compreso quello svizzero, e solleva la questione della cosiddetta postmortem privacy (pronunciato privasi, se preferite la pronuncia britannica). Ma questo non vuol dire che eredi e familiari possano rivolgersi disinvoltamente a informatici per scardinare le protezioni di computer, tablet e smartphone e accedere a tutti i dati presenti o addirittura renderli pubblici. Ereditare materialmente un dispositivo digitale, infatti, non significa automaticamente ereditare pieno accesso ai dati contenuti nel dispositivo.

La ragione è semplice. È quasi inevitabile che quei dati riguardino anche le persone viventi con le quali il deceduto ha intrattenuto comunicazioni: i loro indirizzi e numeri di telefono, delle fotografie e dei video che li ritraggono, i loro messaggi confidenziali, i segreti professionali e altro ancora. Queste comunicazioni vengono considerate corrispondenza, e quindi in Svizzera, per esempio, sono tutelate dall’articolo 13 della Costituzione Federale e dalla Legge Federale sulla Protezione dei Dati. Tutele analoghe sono previste in tutti i paesi dell’Unione Europea e anche in molti paesi di diritto anglosassone.

Non è l’unico ostacolo legale da superare. Un codice di blocco su uno smartphone o una password su un computer o un account social vengono normalmente considerati dalla legge come “provvedimenti tecnici” atti a proteggere i dati personali contro un trattamento non autorizzato. Normalmente vengono usati per proteggersi dai ladri digitali, ma possono anche indicare un’intenzione di proteggere quei dati da chiunque, compresi eredi e familiari.

Allo stesso tempo, però, va considerato che molti telefonini e computer si bloccano automaticamente se non vengono usati e che non è materialmente possibile aprire account per mail e social network senza impostare una password, e quindi è difficile capire se i familiari siano stati esclusi dall’accesso intenzionalmente o se la persona deceduta semplicemente non abbia pensato a questo scenario.

Situazioni ambigue come queste possono essere risolte rivolgendosi a un consulente legale e poi chiedendo a un giudice di valutare gli interessi in gioco e decidere quali siano preponderanti, tenendo conto anche del fatto che fotografie e testi del defunto possono essere considerate proprietà intellettuale e quindi devono seguire le norme di successione riguardanti il diritto d’autore. Ma in ogni caso si tratta di un procedimento oneroso, anche dal punto di vista emotivo. E manca, a tutt’oggi, una rete di assistenza legale e psicologica chiara per chi si trova in queste situazioni, specialmente in seguito a un lutto improvviso.

Ma perlomeno per la parte pratica esiste una via più semplice.

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Tutte queste complicazioni, infatti, si possono prevenire agendo in anticipo. Molti social network prevedono un’opzione che consente di designare degli eredi: Facebook, per esempio, ha il cosiddetto “contatto erede”, come spiegato nel Centro assistenza online del social network. Lo stesso fa Google, offrendo un piano per l’eredità digitale. In alcuni casi si può invece scegliere di far cancellare automaticamente i propri account in caso di decesso.

Si può anche scegliere di affidare i propri PIN e le proprie password a una o più persone di fiducia, sigillando queste informazioni in una busta da aprire solo in caso di morte, escludendo le credenziali dei servizi che non si desidera condividere e lasciando istruzioni su cosa fare dei vari account, per esempio eliminarli o renderli commemorativi, come previsto da Instagram e Facebook.

Per gli eredi, invece, ci sono due raccomandazioni tecniche di base: la prima è tenere aperto per qualche tempo il contratto telefonico cellulare della persona deceduta, perché potrebbe essere necessario per ricevere gli SMS dell’autenticazione a due fattori o i link personalizzati per il recupero degli account. La seconda è di non buttare via i dispositivi digitali del defunto, anche se sono tecnicamente inaccessibili: c’è sempre la possibilità che qualcuno, in futuro, scopra una tecnica inedita che consente di eludere o sbloccare le loro protezioni.

Tutto questo può sembrare così lugubre e complicato da far passare la voglia di affrontare il problema, ma la questione esiste e negarla non la risolverà: l’aldilà digitale è una delle incombenze inaspettate della vita del ventunesimo secolo.

Fonti aggiuntive

  • Un mio articolo molto più breve su questo stesso tema è uscito sul numero 2/22 della rivista La Borsa della Spesa dell’ACSI (Associazione consumatrici e consumatori della Svizzera italiana).
  • Come inviare una richiesta relativa all'account Google di un utente deceduto.

2021/04/04

Martedì 6 aprile alle 21 parleremo di conservazione dei dati digitali

Ultimo aggiornamento: 2021/04/07 8:30.

Martedì prossimo, 6 aprile, sarò ospite di CICAP Live per una chiacchierata-conferenza intitolata Memorie digitali. Dove finiranno le nostre testimonianze? insieme all’informatico Francesco Sblendorio, socio attivo del CICAP dal 2009, coordinatore del gruppo Lombardia dal 2011 al 2012, e webmaster del sito del CICAP Lombardia.


2021/04/07 8:30. La registrazione della chiacchierata è qui sotto. Buona visione, e fate bene i vostri backup.

2020/08/28

Antibufala: “Rambo III” e l’Effetto Mandela

Ecco una domanda che non avrei mai immaginato di trovarmi a fare nel 2020: avete per caso una videocassetta di Rambo III?

Lo chiedo perché mi sono imbattuto in uno strano caso di Effetto Mandela, ossia di falso ricordo collettivo. Questo effetto prende il nome dal ricordo, errato ma molto diffuso, che Nelson Mandela sia morto in carcere negli anni Ottanta del secolo scorso: in realtà fu liberato dopo una lunghissima prigionia nel 1990, divenne presidente del nuovo Sudafrica nel 1994 e morì nel 2013. La cosa particolarmente curiosa di questi falsi ricordi è che chi li ha è convintissimo di ricordare correttamente.

Il caso in questione riguarda appunto una presunta gaffe presente nel film Rambo III, che è diventata una vera e propria leggenda metropolitana ed è interessante perché non solo è un perfetto Effetto Mandela, ma dimostra anche quanto è culturalmente rischiosa l’attuale tendenza a usare lo streaming e i servizi centralizzati digitali invece di avere una propria copia personale delle opere: chiunque abbia il controllo di quei servizi può manipolare facilmente il passato e cancellarne ogni traccia.

La leggendaria gaffe di Rambo III, segnalata e illustrata nel tweet seguente, è che il film, uscito nel 1988, sarebbe stato dedicato inizialmente “ai coraggiosi combattenti mujaheddin” (“This film is dedicated to the brave Mujahideen fighters of Afghanistan”), ma che dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 questa dedica sarebbe stata cambiata di soppiatto perché era diventata assolutamente impresentabile.

Infatti nel film il protagonista del film (John Rambo, appunto, interpretato da Sylvester Stallone) combatte contro gli invasori sovietici che occupavano l’Afghanistan negli anni Ottanta, alleandosi con i mujaheddin afgani, presentati come partigiani che lottano per la libertà. Ma negli anni successivi alcune fazioni di quei mujaheddin diedero assistenza a Osama bin Laden, mandante degli attentati dell’11/9.

E così al posto della dedica imbarazzante sarebbe stato messo un più generico “al valoroso popolo afgano” (“This film is dedicated to the gallant people of Afghanistan”).




Quando ho segnalato questa storia su Twitter, molti commentatori si sono ricordati con certezza di questo cambiamento:












Ma quasi tutte le fonti storiche indicano che la scritta non è mai stata cambiata: la dedica è sempre stata al popolo, non ai mujaheddin.

La recensione del New York Times della prima del film, nel 1988, cita esplicitamente la dicitura:
"''Rambo III'' is dedicated ''to the gallant people of Afghanistan,'' and it clearly intends that its politics be taken seriously."

Lo stesso fa quella del Washington Post:
Because the movie's "dedicated to the gallant people of Afghanistan," his mission also includes getting to Love-Dee-Peeple.

Anche l’autorevole Mereghetti del 2000, consultato da un lettore, riporta la versione “valoroso popolo afghano”:



Anche fonti più recenti, come IMDB, citano solo la versione che parla di “popolo”:
At the end of the battle Rambo and Trautman say goodbye to their Mujahideen friends and leave Afghanistan to go home. The movie ends with two quotes: "This film is dedicated to the gallant people of Afghanistan." and "I am like a bullet, filled with lead and made to kill"

Wikipedia cita esplicitamente questa presunta modifica, smentendola:
Some have claimed that the dedication at the end of the film has been altered at various points in response to the September 11 attacks. Specifically it is claimed that the dedication was (at one point) "to the brave Mujahideen fighters" and then later changed to "to the gallant people of Afghanistan".[21][22] Reviews of the film upon its release and later publications show that the film was always dedicated "to the gallant people of Afghanistan".

Anche Screenrant cita e smentisce il cambio di dicitura:
Rambo III ends with a dedication, "to the gallant people of Afghanistan." An urban legend falsely stated that the dedication was originally to the mujahideen specifically, but this is untrue, and would have been antithetical to Rambo's character. He is someone who fights to protect people, not to win wars.

Eppure ci sono libri che la confermano, come Docu-Fictions of War: U. S. Interventionism in Film and Literature, di Tatiana Prorokova (2019; U of Nebraska Press. p. 227. ISBN 978-1-4962-1444-7):
[T]he ending quote of Rambo III glorifies the Afghan nation: "This film is dedicated to the gallant people of Afghanistan." This dedication appeared in the film only after 9/11. Prior to that, the film concluded with the phrase "This film is dedicated to the brave Mujahideen fighters of Afghanistan," which proves that the U.S. was on the side of the mujahideen, supporting them in the war against the Soviet Army.

Lo stesso fa Shadow Wars: The Secret Struggle for the Middle East, di Christopher Davidson (2016, Simon and Schuster, ISBN 978-1-78607-002-9):
The credits of the original release included the line 'Dedicated to the brave mujahideen fighters', but after 9/11 this was quietly changed to 'Dedicated to the gallant people of Afghanistan'.

Fandom.com conferma la modifica:
The original VHS release had in the end credits: "Dedicated to the brave Mujahideen fighters", although this was later changed to "Dedicated to the gallant people of Afghanistan."

Il dubbio, comprensibile, è che potrebbe trattarsi di un fotomontaggio creato da qualcuno. Ma in questo caso, che senso avrebbe crearlo? Quale sarebbe il tornaconto? E quanto sarebbe difficile alterare l’immagine cancellando la scritta originale per rimpiazzarla con quella modificata?

Skeptics Stack Exchange ha una risposta parziale: esaminando bene le due versioni si nota che non si tratta dello stesso fotogramma. Quello con la dicitura che parla di mujaheddin è tratto da un momento appena precedente la comparsa della dicitura che parla di popolo. Il falsificatore, insomma, avrebbe usato un fotogramma che era già privo di scritta nell’originale, e questo gli avrebbe facilitato il lavoro.

Se qualcuno ha una videocassetta originale uscita prima del 2001, possiamo risolvere questo strano caso una volta per tutte.


2020/08/28 10:20


Da Andrea G. mi arriva la segnalazione di un riversamento della versione italiana di Rambo III presente su YouTube e identificato come “doppiaggio del 1992”: a 8:22 compare la dicitura “Questo film è dedicato al valoroso popolo afgano”. L’edizione italiana, insomma, sembra proprio aver avuto questa dedica sin da prima del 2001.

2020/08/09

I Formati Morti e la Maledizione delle MotionWavelet

Credit: BetaNews.
Maledetti siano i formati proprietari e le aziende che li usano. Ieri sera ho scoperto che alcuni video in formato AVI dell’album foto/video digitale di famiglia sono illeggibili. Io registro sempre foto e video in formati standard aperti, ma questi video mi erano arrivati da un conoscente nel 2002. Un’eternità fa, in informatica.

All’epoca erano leggibili, ne sono certo. Ma ora persino VLC, veneratissimo grimaldello tuttofare per i video, si arrende sconsolato, blaterando qualcosa di un “formato MWV1” che non è in grado di decodificare. Ho disseppellito il laptop Windows e provato con il player video Microsoft di Windows 10. Niente da fare. Ho recuperato un vecchio Windows Media Player. Peggio che andar di notte.

Una ricerca in Google mi ha permesso di scoprire che MWV1 è la sigla del codec Aware MotionWavelet, usato dalla Aware Inc, la cui pagina di supporto (secondo l’enciclopedia dei codec AVI di Jim McGowan) è defunta e recuperabile solo tramite Archive.org. I codec non sono più distribuiti dalla Aware, per quel che ho visto.

Mi tocca andare su un sito russo a scaricarne una copia, ehm, presa in prestito. Scaricare e installare software da siti del genere non è mai salutare, ma tanto il laptop è sacrificabile e ben isolato dal resto della rete del Maniero. Così l’ho scaricato e installato. I video ora funzionano, ma non con VLC, non con il player di Windows 10: solo con il vecchio Windows Media Player.

Stavolta è andata bene, ma per quanti anni ancora sarà possibile fare questo accrocchio per poter vedere quei video? Sarà il caso di convertirli a un formato meno obsoleto. Il problema è trovare un programma di conversione che funzioni.

Alla fine ho trovato un workaround che potrebbe essere utile ad altri che si trovano nelle mie stesse condizioni e che quindi segnalo qui: Xbox. No, non sto scherzando. In Windows 10 c’è l’app Xbox Game Bar, che è uno screen recorder che consente di registrare il contenuto di una finestra insieme all’audio corrispondente. È pensato per registrare le sessioni di gioco, ma funziona egregiamente con qualunque altra applicazione, compreso Windows Media Player. Si invoca digitando il tasto Windows insieme alla G; si può anche avviare direttamente la registrazione usando Windows-Alt-R. Salva in formato MP4.

Ho quindi convertito i video senza problemi (a parte la perdita di tempo di cercare la soluzione, valutare e scartare app di conversione e riprodurre tutti i file). La qualità di una cattura dallo schermo non sarà sublime, ma nel mio caso si tratta comunque di video a bassissima risoluzione, ai quali tengo per motivi sentimentali e non tecnologici. Ora sto andando a caccia di altri video obsolescenti negli archivi del Maniero.


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2019/09/05

Restaurare pellicole con SilverFast 8 e scanner Plustek 8200 SE

Questo è uno screenshot a bassa risoluzione.
La scansione effettiva è molto più nitida.
Ultimo aggiornamento: 2019/09/07 18:10.

Mi sono finalmente deciso a digitalizzare per bene tutto l’archivio fotografico di famiglia prima che il naturale deterioramento delle pellicole (negativi e diapositive) sbiadisca per sempre i ricordi, e così ho comprato uno scanner Plustek 8200 SE (320 CHF qui in Svizzera), dotato di sensore a infrarossi per il rilevamento della polvere e dello sporco e fornito con SilverFast 8.8 (MacOS/Windows), software in grado di usare questo sensore per riconoscere questi difetti e correggerli insieme ai graffi e incluso nel prezzo dello scanner.

L’ho collegato a un Mac che lavora intanto che io faccio altro: ci mette una decina di minuti a foto (sto facendo passate multiple alla massima risoluzione, più post-elaborazione in automatico), ma il risultato è notevole: non va sempre così bene automaticamente come vedete qui sotto e a volte serve una correzione manuale, ma quando va bene al primo colpo è una gioia.

Questa, per esempio, è una ripulitura della polvere ormai incrostata e non rimovibile senza un lavoro paziente che è impossibile fare per migliaia di diapositive come queste.



Ripesco questa che testimonia, per gli increduli, che una volta ero bello e biondo:




Lo scanner invece fa fatica con le diapositive sottoesposte o scure: non è possibile regolare l’esposizione per schiarirle. In questi casi serve una soluzione alternativa: per esempio una fotocamera digitale macro che fotografi la pellicola.

Se non avete ancora pensato di digitalizzare i ricordi, fatelo. Il tempo passa inesorabile per tutti i supporti analogici.


2019/09/06


Per chi mi ha chiesto le impostazioni che uso per la scansione delle diapositive (l'unica che ho fatto finora con questo scanner), eccole:

  1. Non uso Workflow Pilot (l’automatismo totale).
  2. Mi assicuro che tutti i tool siano disabilitati, così abilito solo quelli che mi servono.
  3. Scelgo Transparency, Positive, 48--24 bit.
  4. Faccio la pre-scansione con Prescan.
  5. Scelgo le dimensioni e il formato: TIFF, A5, Typesetter 600 ppi. Questo porta la risoluzione a 7200 ppi e produce immagini da circa 5000x3400 pixel a 600x600 di risoluzione). Sono file da circa 100 megabyte; per me non è un problema, ho dischi rigidi in abbondanza.
  6. Clicco su Frame - Find frames - Slide 35 mm, per fargli identificare automaticamente i bordi della diapositiva.
  7. Stringo leggermente il frame per non includere gli angoli stondati, che falsano la riparazione dei graffi e produrrebbero artefatti (vengono “corretti” mettendoci dei pixel, come dire, ispirati da quelli adiacenti, ma il risultato è pessimo).
  8. Attivo AutoCCR (correzione automatica delle dominanti cromatiche; di solito funziona bene e non serve farla a mano).
  9. Provo Picture settings - Midtone per vedere se cambiando il valore ottengo qualche miglioramento.
  10. Se le dominanti cromatiche non sono sparite del tutto, attivo Global CC e provo a cambiarne il valore.
  11. Per le dia a colori non Kodachrome, attivo iSRD (la rimozione di graffi, polvere e peluzzi tramite scansione a infrarossi; non funziona sulle Kodachrome e sulle pellicole in bianco e nero a causa del supporto non permeabile agli infrarossi), impostandolo su Correct con Detection medio-alta (10 di solito è sufficiente, ma salgo a 17-20 nei casi gravi, facendo attenzione agli artefatti). In alternativa, uso SRD (rimozione senza scansione a infrarossi), con Detection a 20 e Tile Size 4.
  12. Non uso AACO (correzione contrasto): mi dà risultati scadenti.
  13. Attivo GANE (riduzione grana e rumore) in modalità Light.
  14. Attivo Multiple Exposure (passate multiple con “diaframma” differente per scansionare bene sia le zone più chiare, sia quelle più scure).
  15. Pulisco bene la pellicola con un soffietto. Solo nei casi disperati uso un pennellino o, in quelli ancora più disperati, un panno da occhiali leggermente inumidito.
  16. Faccio la scansione e controllo il risultato; se accettabile, passo alla scansione successiva tornando al punto 6.


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2019/05/17

Recuperato il diario di bordo originale di Samantha Cristoforetti

L’astronauta Samantha Cristoforetti ha raccontato la propria avventura spaziale nel libro Diario di un’apprendista astronauta (edito da La Nave di Teseo), che consiglio caldamente a chiunque voglia sapere cosa si fa realmente per andare nello spazio e cosa si prova quando ci si arriva e ci si abita.

Ma prima e durante la propria missione spaziale, Sam ha anche tenuto un diario di missione in inglese, pubblicandolo online man mano su Google+. Il guaio è che Google+ non esiste più, per cui questo documento, interessante non solo a livello personale ma anche per la storia dell’astronautica italiana, era andato perduto.

La traduzione italiana del diario di missione, a cura di Paolo Amoroso, era rimasta reperibile su Astronautinews.it, ma l’originale inglese era svanito.

Fortunatamente Sam aveva fatto una copia di backup dei suoi post su Google+ e l’ha trasmessa a Carlo Gandolfi, che l’ha convertita in un e-book scaricabile gratuitamente in formato ePub, Mobi e PDF qui su Astronautinews.it. La versione tradotta in italiano è invece disponibile gratuitamente qui negli stessi formati. Entrambi i testi sono sotto licenza Creative Commons.

E anche se non siete astronauti, fate un backup di quello che postate: i social network possono sembrare eterni, ma spesso si estinguono portandosi via tutti i contenuti, in particolare le vostre foto e i vostri video, che rischiate altrimenti di perdere per sempre.

2019/01/08

Bandersnatch: interattività significa (anche) antipirateria

Questo è il testo del mio podcast La Rete in tre minuti per Radio Inblu di questa settimana, che potete ascoltare qui.

Avete sentito parlare di Bandersnatch? È la nuova puntata della serie televisiva di fantascienza distopica Black Mirror, prodotta da Netflix, di cui si discute moltissimo su Internet. Anche se non vi interessa la fantascienza, Bandersnatch è importante per una ragione decisamente insolita: perché è talmente impossibile da piratare informaticamente che persino siti dedicati alla pirateria audiovisiva raccomandano di acquistare l’originale, abbonandosi a Netflix, invece di cercarne online copie piratate.

È un risultato davvero notevole, dopo anni di pirateria audiovisiva galoppante, ottenuto con un espediente tecnico e narrativo altrettanto insolito: la puntata è infatti interattiva. Nel corso del suo svolgimento, lo spettatore può scegliere fra varie azioni possibili del protagonista e ottenere quindi una trama e un finale differenti. A volte anche scelte banali possono portare a conseguenze profondamente differenti, e questo è uno dei temi ricorrenti di tutta la serie Black Mirror.

Ma questa interattività ha come effetto collaterale quello di rendere fondamentalmente inutile scaricare abusivamente Bandersnatch, perché le copie pirata sono incomplete. Non consentono di effettuare scelte e quindi mostrano soltanto una parte della storia complessiva. Ricreare l’interattività richiederebbe un lavoro enorme di scrittura di software apposito che nessun pirata audiovisivo si sente di fare. E questo lavoro andrebbe fatto più volte: una per ogni tipo di dispositivo usato per guardare video, dai computer ai tablet agli smartphone. I film e telefilm normali, invece, una volta digitalizzati, sono fruibili su qualunque dispositivo senza ulteriori adattamenti.

La fruizione abusiva di film e telefilm via Internet è un problema ben conosciuto da tempo, che secondo le case cinematografiche e le reti televisive causa mancati guadagni molto ingenti. Riuscire di colpo a bloccarla così efficacemente, e per un prodotto estremamente popolare come Black Mirror, è sicuramente un successo che attirerà l’attenzione di chiunque produca contenuti audiovisivi commerciali. Specialmente dopo il fallimento sostanziale delle varie tecnologie anticopia usate finora, che hanno penalizzato soltanto gli utenti onesti che si sono trovati a dover per esempio cambiare lettore Blu-ray o altri dispositivi di lettura pur di poter fruire di un film regolarmente acquistato.

È presto per dire se ci troveremo di fronte a un’ondata di produzioni interattive ispirate dal successo di Bandersnatch: non tutti gli spettatori, infatti, sono entusiasti di dover fare delle scelte e molti preferiscono rilassarsi e lasciare che la storia si dipani da sola. Ma già adesso si pone un’altra questione ancora più interessante: la conservazione della cultura digitale.

Infatti se è impossibile creare una copia di un’opera, e se quell’opera è fruibile soltanto finché esiste il servizio online commerciale che la gestisce, è anche impossibile conservarla per i posteri se quel servizio chiude o decide semplicemente di non offrirla più. E se vi sembra eccessivo pensare che un prodotto commerciale sia un’opera degna di essere tramandata, parlatene con i cultori di Tex o di qualunque telefilm ormai diventato classico. O, più semplicemente, provate a immaginare come sarebbe la cultura italiana se Dante Alighieri avesse scritto la Divina Commedia interattiva in esclusiva per Netflix e Netflix avesse chiuso.


2019/01/09


Dai commenti riporto questa splendida chicca di Epsilon Eridani:

L'interattiva Commedia

Nel mezzo del cammin di nostra vita
Mi ritrovai per una selva oscura
Che la diritta via era smarrita
Poiché qui giunto, deh, il piè ormai si stanca
Sii mio Virgilio: volto a destra o giro a manca?

2018/06/17

I supporti digitali non sono eterni: come tramandarli?

A novembre scorso sono stato ospite della Biblioteca Delfini di Modena per una conferenza sulla conservazione dei dati digitali. Il video della conferenza è disponibile online:


Buona visione.


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2018/05/13

“Di chi sono i miei dati?” Ne parlo oggi alle 17 al Museo di Leventina

Oggi alle 17 sarò a Giornico, al Museo di Leventina (link su Google Maps), per parlare di conservazione dei dati digitali per comuni mortali e delle censure inaspettate che emergono dalle normative sul diritto di copia. L’ingresso è libero.

2018/03/27

Griefbot: fantasmi digitali

In Be Right Back, una puntata della celebre serie di fantascienza Black Mirror, una giovane donna che ha perso tragicamente il proprio partner in un incidente stradale si trova a dover affrontare una tentazione inattesa che le arriva dagli amici: iscriversi a un servizio online che usa i dati accumulati nei social network dalla persona deceduta per creare una sorta di personalità virtuale che scrive, chatta, parla e si comporta come il partner che non c’è più. In pratica la donna continua a dialogare con il partner morto, come se fosse ancora vivo. Sul telefonino riceve messaggi che sembrano provenire da lui e sente persino la sua voce.

Quella puntata risale al 2013, ma cinque anni dopo la sua idea è già diventata realtà. Questo servizio viene chiamato “griefbot”, una parola che combina il termine inglese “grief” (ossia “lutto”), con “bot”, ossia “programma o agente automatico”.

Gli amici di un uomo russo, Roman Mazurenko, morto a Mosca investito da un’auto, hanno creato un griefbot, ossia un programma che attinge al vasto archivio di messaggi social lasciati da Roman e scrive come se fosse lui: gli amici considerano questo griefbot una sorta di monumento digitale in memoria dello scomparso.

Lo stesso ha fatto il tecnologo Muhammad Ahmad, che lavora presso l’università di Washington: quando è morto suo padre, ha raccolto tutti i suoi scritti, li ha digitalizzati e inseriti in un programma di intelligenza artificiale per dare ai propri figli l’occasione di farsi un’idea di come fosse il loro nonno che non hanno mai potuto conoscere.

Si tratta di sistemi sperimentali, costruiti pazientemente e in modo personalizzato: siamo ancora lontani da un servizio “chiavi in mano” che consenta, per esempio, di prendere tutte le chat di Facebook e WhatsApp e tutti i messaggi vocali di una persona e creare un suo duplicato virtuale credibile. Ma non sembrano esserci ostacoli tecnologici significativi.

Gli ostacoli, infatti, sono semmai di ordine etico. Per esempio, si può creare un clone virtuale di una persona senza il suo consenso? Chi è il titolare dei diritti sulla personalità di un defunto? E se il clone fosse di qualcuno che è ancora vivo e che quindi si trova ad avere un gemello online che parla e scrive come lui o lei?

Gli psicologi dicono che questo genere di personalità virtuale può avere una funzione consolatoria nella gestione di un lutto, persino quando chi ne fa uso è consapevole che si tratta semplicemente di un programma che pesca e rimescola le frasi pertinenti dall’archivio delle cose dette dalla persona defunta e non è capace di creare pensieri nuovi. In psicoterapia si usa spesso la tecnica della sedia vuota: il paziente dialoga con la sedia come se vi fosse seduta la persona che non c’è più. Questi griefbot sarebbero una versione digitale di questa tecnica.

La puntata di Black Mirror ha una conclusione che non è il caso di svelare qui ed è ben lontana dalle prestazioni dei griefbot attuali. Ma l’intelligenza artificiale progredisce in fretta e l’illusione di parlare con una persona reale diventa sempre più potente. E propone uno scenario inquietante: un giorno i social network saranno ricolmi di fantasmi.


Questo articolo è basato sul testo preparato per il mio servizio La Rete in 3 minuti per Radio Inblu del 27 marzo 2018.

2018/02/16

A bordo della Tesla spaziale c’è la Trilogia della Fondazione. Geek fino in fondo

Sì, tutti parlano del recente lancio del vettore Falcon Heavy di SpaceX perché ha usato come carico di test un’automobile (specificamente la vecchia Tesla Roadster di Elon Musk, boss di SpaceX e Tesla) ed è diventato il vettore più potente del mondo fra quelli attualmente operativi, ma a bordo c’era anche una chicca informatica che non ha ricevuto altrettanta attenzione mediatica: un messaggio per gli alieni o per i nostri pronipoti.

Si tratta di un minuscolo disco ottico, denominato Arch (si pronuncia Ark), che contiene il testo integrale della Trilogia della Fondazione di Isaac Asimov, registrato in un formato che a detta dei produttori garantisce una capienza teorica di 360 terabyte e soprattutto una stabilità di conservazione per oltre quattordici miliardi di anni. Niente male.

Questi risultati, spiega la Arch Mission Foundation, sono ottenuti usando un laser per incidere del vetro di quarzo tramite impulsi dell’ordine dei femtosecondi (milionesimo di miliardesimi di secondo), creando un reticolo di puntini da 20 nanometri fissati nella struttura del vetro. La Foundation ha lo scopo di preservare a lungo termine la cultura umana, e lo spazio è un luogo molto efficace dove metterla al riparo dagli sconquassi naturali e artificiali che potranno colpire il nostro pianeta.

Come faranno eventuali discendenti o alieni a trovare e decifrare questi dati? Lo stadio del vettore Falcon Heavy e il suo carico, che orbitano intorno al Sole oscillando fra l’orbita della Terra e la fascia degli asteroidi oltre Marte, hanno delle caratteristiche spettrografiche facilmente riconoscibili come non naturali (prodotte dalle vernici di rivestimento), per cui gli astronomi (terrestri o alieni) non farebbero fatica a riconoscerlo. Al suo interno troverebbero questo disco di vetro, che include delle informazioni (visibili con un semplice microscopio) che consentono a qualunque civiltà tecnologica di accedere ai dati e decodificarli e spiegano anche come costruire un computer e un laser per farlo.

Non è chiaro, tuttavia, come faranno gli alieni (o i nostri discendenti) a capire che la Trilogia della Fondazione è fantascienza e che l’Impero Galattico degli esseri umani che descrive, durato trentamila anni, esisteva solo nell’immensa immaginazione di uno dei più grandi autori del genere.


Fonte aggiuntiva: Ars Technica.

2017/11/26

Ci vediamo a Modena stasera alle 18 per parlare di conservazione dei dati digitali?

Come preannunciato, questa sera alle 18 sarò ospite della Biblioteca Civica Antonio Delfini (Corso Canalgrande, 103) per parlare del problema della conservazione dei dati digitali: foto, audio, video, documenti, programmi che serviranno ai posteri per tentare di comprendere la nostra epoca. Racconterò esempi clamorosi e proporrò consigli pratici per evitare che la nostra cultura diventi un’illeggibile catasta di bit.

L’iniziativa è inserita nel progetto Capsule del tempo. Da Mutina al futuro, realizzato in collaborazione con i Musei Civici nell’ambito della mostra Mutina Splendidissima. L’ingresso è libero.


Aggiornamento


Il video della conferenza è disponibile qui.

2017/04/07

Come conservare una pagina Web per dimostrarne lo stato passato

Arriva da una follower del Disinformatico, Sara, una domanda molto frequente: come si fa a conservare una pagina Web, in modo da dimostrare cosa conteneva a una certa data?

Scaricarla sul proprio computer non è una buona soluzione: potreste trovarvi accusati di aver falsificato o alterato la copia scaricata. Serve un servizio indipendente e imparziale, universalmente riconosciuto.

Ci sono vari siti di questo genere ai quali si può dare il link di una pagina e chiederne l’archiviazione: i più gettonati sono Archive.is, Freezepage.com e WebCite. Funzionano molto bene, fornendo non solo una copia completa e inalterabile di una pagina ma anche un’indicazione dell’istante preciso in cui è stata creata la copia e un link abbreviato per citare comodamente la copia archiviata.

Ma il decano dell’archiviazione, attivo da vent’anni, è Archive.org, il più grande archivio storico di pagine di Internet del mondo. Archive.org offre un servizio di salvataggio istantaneo delle pagine Web, raggiungibile presso Archive.org/web/, dove trovate l’opzione Save Page Now.

2016/05/06

Apple Music ti cancella la musica dal computer: utente perde 122 giga di canzoni

Ha fatto subito il giro del mondo il racconto della disavventura capitata a James Pinkstone, di Atlanta, negli Stati Uniti: Apple Music, il servizio di streaming musicale a pagamento di Apple, ha cancellato ben 122 gigabyte di musica dal suo Mac. Compresi i brani che lui stesso aveva composto. E lo ha fatto, dice, senza dare alcun preavviso e senza chiedere il consenso. Non solo: quando ha contattato l’assistenza Apple gli è stato detto che Apple Music stava funzionando correttamente e che questa cancellazione era un comportamento previsto.

Se siete uno dei circa undici milioni di utenti paganti di Apple Music, la storia del signor Pinkstone è da brivido; in generale, è un monito per chiunque affidi i propri dati al cloud. Che, va ricordato, è un termine di marketing per non dire “il computer di qualcun altro”.

Apple Music, infatti, inizialmente legge tutti i brani audio presenti nel computer dell’abbonato, li confronta con quelli che Apple ha in archivio e poi cancella dal computer quelli che gli risultano presenti in archivio. Quando l’abbonato vuole ascoltare un brano su uno qualunque dei propri dispositivi, Apple glielo manda in streaming. Questo fa risparmiare spazio su disco e consente di avere la musica a disposizione ovunque.

Il problema, racconta il signor Pinkstone, è che il software di confronto e riconoscimento dei brani è impreciso e sbaglia a identificare i brani, per esempio confondendo una versione di una canzone con un’altra, e quindi capita che sostituisca un’edizione rara con quella generica più comune, una cover con un originale, una versione dal vivo con quella registrata in studio. L’edizione rara, magari trovata con fatica, viene cancellata dal computer dell’abbonato.

Peggio ancora, quando Apple Music incontra un brano che non riconosce, lo preleva dal computer dell’abbonato, lo copia sui propri server e poi lo cancella dal computer dell’utente. E lo fa anche con i brani composti dall’utente, come nel caso del signor Pinkstone. Questo significa che Apple controlla l’accesso dell’autore alla sua musica, e dato che Apple Music è un servizio a pagamento, l’utente deve pagare per avere accesso alle proprie composizioni o alla musica che aveva già pagato acquistandola per esempio su CD.

James Pinkstone è riuscito a recuperare tutta la propria musica attingendo a un backup, ma chi non ha una copia di scorta della propria collezione musicale rischia di trovarsi a dipendere da Apple e doverle pagare un abbonamento. Peggio ancora, chi elimina il proprio account Apple Music dopo i primi tre mesi di prova gratuiti rischia di aver perso tutto.

C'è chi fa notare che in realtà Apple Music avvisa prima di cancellare, ma lo fa in modo poco chiaro ed è facile sbagliarsi: forse è quello che è successo al signor Pinkstone e ad altri utenti in passato. Comunque sia, la vicenda evidenzia bene il rischio molto concreto dell’attuale tendenza ad affidarsi a servizi cloud senza conservare una propria copia locale dei dati: si diventa dipendenti dall’accesso a Internet e soprattutto dagli umori del fornitore del cloud per l’accesso ai propri dati e per la loro integrità. E se il cloud sbaglia o l’abbonamento scade, i dati sono persi o silenziosamente alterati per sempre.

2015/07/17

Come fare una copia verificabile di una pagina Web: Archive.is

Link alla copia: https://archive.is/3Ou3c
Capita spesso di segnalare agli amici o ai colleghi una pagina Web, di doverla citare come fonte o di volerne tenere una copia perché si teme che possa sparire, specialmente se contiene strafalcioni o cose imbarazzanti o controverse. Come si fa a dimostrare che una certa pagina di Internet conteneva qualcosa a una certa data?

Una semplice cattura della schermata non basta: c'è sempre qualcuno che insinua che potrebbe essere falsa o manipolata. Serve quindi una fonte indipendente. A breve termine c'è la cache di Google, che conserva una copia delle pagine visitate: basta anteporre al link della pagina in questione questa dicitura in una ricerca in Google:

http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:

In alternativa si può ricorrere a servizi come Cachedpages.com. Ma queste cache sono temporanee e vengono presto riscritte. Per conservare a lungo termine una copia di una pagina Web si può allora usare Archive.is, raggiungibile anche tramite l'indirizzo Archive.today: si immette il link della pagina da conservare e si ottiene in risposta un link che contiene una copia della pagina, ospitata presso Archive.is e quindi datata e “certificata” indipendentemente, insieme a una copia scaricabile in formato ZIP, a un'immagine grafica della pagina e a un link abbreviato.

Quando si immette un link, Archive.is elenca anche eventuali altre copie precedenti della stessa pagina fatte da altri utenti. Le copie, infatti, sono pubblicamente consultabili.

Un trucco aggiuntivo offerto da Archive.is è la consultazione sicura: quando ci imbattiamo in una pagina Web che ci viene segnalata come pericolosa ma vogliamo sapere cosa contiene, possiamo immetterne il link in Archive.is e sfogliarla da lì, perché Archive.is rimuove dalle pagine archiviate gli script e i contenuti attivi, che sono le parti che solitamente veicolano i pericoli.

2014/04/25

Opere digitali di Andy Warhol perdute e ritrovate

Credit: Andy Warhol Museum.
Grazie a un'operazione di vera e propria archeologia informatica sono stati recuperati i primi esperimenti artistici digitali di Andy Warhol, realizzati nel 1985 su un computer Amiga 1000.

Pensate un attimo a com'era l'informatica nel 1985: Microsoft iniziava la distribuzione di una cosa chiamata Windows e del DOS 3.2. Il Macintosh aveva un anno. In tutti gli Stati Uniti ci sono soltanto 15 milioni di utenti di personal computer. Pensare di fare arte grafica digitale era un sogno di molti ma in pratica le schede grafiche costavano un patrimonio.

L'Amiga 1000 fu uno dei primi personal computer a mettere la grafica al centro dell'interazione con l'utente, offrendo fino a 4096 colori a 640x256 pixel di risoluzione: oggi fa di meglio un telefonino di fascia bassa. La Commodore, proprietaria di Amiga, fornì a Warhol in anteprima un esemplare del modello 1000 per vedere cosa ne avrebbe tirato fuori.

Credit: Andy Warhol Museum.
Si sapeva, da un video della presentazione dell'Amiga datato 1985, che Warhol aveva creato qualcosa (compreso un ritratto digitale di Debbie Harry dei Blondie, ma non c'era alcuna traccia di dove fossero i file grafici originali di queste creazioni.

L'artista di New York Cory Arcangel, insieme ai tecnici del Carnegie Mellon University Computer Club e ad altri esperti, si sono cimentati nella sfida di recuperare i dati dai floppy dell'Amiga di Warhol, conservati all'Andy Warhol Museum. Erano infragiliti dall'età, per cui è stato necessario usare tecniche di lettura speciali per acquisirne il contenuto. Soprattutto non c'erano floppy contenenti disegni, per cui sembrava improbabile che si potesse trovare qualcosa. Ma la lettura dei floppy delle applicazioni ha rivelato che Warhol aveva salvato le immagini direttamente sui dischetti originali del programma di grafica utilizzato: cosa impensabile oggi, ma prassi comune all'epoca, quando molti computer avevano una sola unità di lettura di dischetti. I nomi dei file erano inequivocabili: campbells.pic, marilyn1.pic e altro ancora.

Ma i file erano scritti in un formato ormai praticamente dimenticato, usando un programma oggi obsoleto, GraphiCraft: è stato necessario decifrarne la struttura e scrivere del software in grado di visualizzarli correttamente sui computer odierni. Le opere inedite di Warhol, recuperate dopo tre anni di lavoro, verranno presentate il 10 maggio prossimo a Pittsburgh. Il rapporto tecnico sul restauro digitale è scaricabile qui in inglese e mette in luce il problema dell'obsolescenza rapida dei supporti digitali e dei formati, specialmente se non sono documentati.

Fonti aggiuntive: BBC.

2009/08/10

Nixon, 5 minuti prima di dimettersi

Fuori onda storico: il presidente USA Nixon prima di andare in TV a dimettersi


Per chi come me ha vissuto quei giorni surreali di 35 anni fa, quando un presidente degli Stati Uniti si dimise perché travolto da uno scandalo, questa registrazione dei cinque minuti che precedettero la storica diretta in cui il presidente Nixon annunciò le proprie dimissioni è da pelle d'oca.



Non è qui il caso di intavolare dibattiti politici sui meriti e demeriti di Nixon. La questione è ancora più grande: quanti altri documenti di questo genere stanno marcendo o si stanno smagnetizzando negli archivi di tutto il mondo? E Youtube, una società commerciale, si sta trasformando nella memoria video storica collettiva dell'umanità, perché nessun altro se ne prende più seriamente la briga?

2009/06/28

Ritrovati i nastri lunari? (UPD20090629)

Forse ritrovati i nastri originali dello sbarco sulla Luna


La fonte è il Sunday Express, un tabloid britannico che non brilla per la qualità dei suoi reportage scientifici, per cui segnalo la notizia con estrema cautela. Il giornale ha pubblicato online un articolo dal quale sembra che i nastri di telemetria degli esperimenti lasciati sulla Luna dall'Apollo 11, ritrovati a novembre 2008 in Australia dopo una lunga ricerca negli archivi di mezzo pianeta, contengano anche le registrazioni originali dirette del segnale televisivo proveniente dalla Luna.

Come raccontai nel 2006 in questo articolo, la diretta dello sbarco sulla Luna fu infatti trasmessa in bassissima qualità a causa dei numerosi processi di conversione (analogica, a quei tempi) necessari per adattare il segnale fuori standard della telecamera miniaturizzata presente sul modulo lunare agli standard televisivi statunitensi e da lì a quelli del resto del mondo. Ma la qualità originale proveniente dalla Luna era molto, molto più alta. Purtroppo i nastri sui quali fu registrato il segnale diretto andarono smarriti (archiviati male o persi durante la spedizione, non si sa). Ora sarebbero stati ritrovati. Staremo a vedere.

Intanto qui sotto vedete un confronto fra la qualità trasmessa in TV e quella ricevuta direttamente dalla Luna presso il radiotelescopio di Honeysuckle Creek, in Australia. C'è da farsi venire l'acquolina in bocca.



2009/06/29


Phil Plait di Bad Astronomy ritiene che si tratti di una bufala. Bob Jacobs, vice responsabile per i rapporti con il pubblico della NASA, twittera che "c'è una ricerca che si sta per concludere. Speriamo di pubblicare un aggiornamento nelle prossime settimane. L'articolo britannico è fantasia."

2007/04/06

Obsolescenza dei supporti fra copyright e DRM

Il 4 aprile ho tenuto una lezione all'Università di Milano-Bicocca sulla pericolosa obsolescenza dei dati digitali, dovuta ai supporti che invecchiano molto più precocemente di quanto si possa pensare, alle tecnologie DRM e al copyright, rendendo difficile, e a volte impossibile, la conservazione dei dati. Dati che molto spesso sono cultura: libri, poesie, film, foto, musica, persino blog. Come possiamo garantire che lasceremo ai nostri figli qualcosa di noi che potranno leggere o vedere?

Nella presentazione ho citato anche un problema di conservazione dei dati decisamente insolito e al tempo stesso vitale: esiste la necessità, già oggi, di garantire la conservazione di alcune informazioni per diecimila anni. Sì, diecimila: ci sono tecnici che stanno cercando un modo sicuro per tramandare ai nostri discendenti, per tutto questo tempo, un'informazione di cui avranno estremo bisogno se vogliono sopravvivere alle nostre porcherie inquinanti.

Si tratta infatti del messaggio molto semplice "chi scava qui muore", con il quale contrassegnare la discarica nucleare WIPP, nel New Mexico, già in funzione. Quando sarà piena, dovrà essere sigillata e poi occorrerà segnare la sua ubicazione in modo che nessuno possa andare a scavarvi, neanche per sbaglio, e disseppellirne inconsapevolmente le tonnellate di materiale radioattivo.

Ma in diecimila anni (il tempo necessario prima che le scorie diventino relativemente innocue) può succedere di tutto. Come superare la barriera dell'evoluzione della lingua, dei costumi sociali e della tecnologia? Come garantire che il messaggio arrivi intatto dopo un periodo lungo il doppio della vita delle piramidi egizie e non venga disastrosamente frainteso, per esempio pensando che la colossale discarica sia un monumento funebre da depredare, come appunto è accaduto per le piramidi?

Le soluzioni proposte non sono affatto ad alta tecnologia: usano metodi non digitali ed estremamente semplici. Enormi pietre scolpite, pittogrammi con volti umani che esprimono sofferenza, riferimenti astronomici per indicare la datazione, e le principali lingue del mondo (con spazio per aggiungere quelle future) per i dettagli. È un problema tanto reale quanto affascinante per la sua vastità temporale e le sue implicazioni sui bei regali che lasciamo in eredità ai nostri pronipoti.

Se volete saperne di più, ecco i link ai materiali che ho presentato:


Se vi interessano invece i dati UNESCO sulla conservazione dei supporti digitali e sulle tecniche per evitare la perdita dei nostri archivi di cultura, date un'occhiata a questo rapporto, ricco di link a molti altri studi sull'argomento. I dati non lasciano speranze: la durata media di un supporto digitale è di soli cinque anni. Per questo fare il backup dei propri DVD deve essere permesso. Come la prendereste, se scopriste che tutta la vostra collezione di libri marcirà entro cinque anni e che la legge, in molti paesi, vi vieta di crearne una copia di scorta?

2006/04/24

Pirati? No, custodi della cultura. La BBC chiede il loro aiuto

Tempo fa (2002) scrissi un articolo nel quale difendevo la pirateria video e musicale per i suoi meriti di conservazione della cultura:

...le copie pirata di film e DVD non contengono codici di protezione, e usano formati non proprietari per consentirne la massima diffusione. Quei formati sono indipendenti dal sistema operativo e sono pienamente documentati, per cui per le generazioni future sarà banale ricreare la tecnologia per leggerli. Lo stesso non si può dire per i formati benedetti dai grandi gruppi dell'industria del disco e del cinema, che ambiscono anche a blindare l'hardware, con soluzioni come TCPA e l'imminente Palladium.

Come gli amanuensi nel medioevo, questi mastri masterizzatori creano copie delle opere, che così non andranno perse per colpa della miopia collettiva di un'epoca. Certo non è questo lo scopo primario delle loro duplicazioni, ma è un gradevole effetto collaterale da non sottovalutare.

Da allora, il paventato arrivo di Palladium si è avverato, sia pure con altri nomi. E oggi anche il concetto del pirata come custode della musica, dei testi e dei film della nostra epoca trova una conferma forte: pochi giorni fa la BBC ha chiesto formalmente aiuto al pubblico per recuperare oltre cento puntate di un suo programma classico, il telefilm di fantascienza Doctor Who, di cui ha perso ogni traccia.

L'appello della BBC è accorato:

puntate che la BBC pensava fossero andate perdute per sempre sono riemerse nei mercatini dell'usato, dalle soffitte e da altri posti strani... il premio per chiunque trovi una puntata mancante è un Dalek [uno dei più temuti "cattivi" della serie Doctor Who, oggetto di culto nel Regno Unito] a grandezza naturale... decisamente vale la pena di chiedere alla vostra famiglia di controllare nelle soffitte, nei garage, e nelle camere da letto per gli ospiti se hanno vecchie bobine di pellicola che potrebbero recare la magica scritta 'Doctor Who' sull'etichetta.

Trovate l'elenco completo delle puntate perdute, risalenti agli anni 1963-1969, presso quest'altra pagina della BBC.

Molto pittoresco, per carità, ed è anche piacevole sapere che alcune puntate sono state già recuperate grazie a quest'appello, ma c'è un piccolo problema: quei recuperi sono frutto di pirateria.

Infatti le puntate mancanti sono state salvate grazie alle copie abusive fatte dai telespettatori usando registratori audio a bobine e a cassette e filmando il proprio televisore con cineprese 8 mm (non c'erano videoregistratori domestici, a quell'epoca). Questo era illegale all'epoca, e formalmente lo è tuttora nel Regno Unito, anche se nessuno fa rispettare il divieto.

Coloro che obiettano che non occorre la pirateria per custodire la cultura, perché a questo compito provvedono le biblioteche pubbliche e gli archivi cinematografici e televisivi, si trovano smentiti da casi come questi. Chissà quanti altri episodi della nostra cultura audiovisiva sono andati smarriti per sempre, o stanno marcendo in questo momento, per via dell'incuria degli archivisti ufficiali o addirittura a causa di loro atti intenzionali.

Infatti la Wikipedia nota che anche molti altri classici, come The Avengers, noto in Italia come Agente speciale (quello con John Steed e Emma Peel, per intenderci), hanno subito la stessa sorte di Doctor Who e in alcuni casi sono stati cancellati intenzionalmente per tutelare il diritto d'autore.

Spiega infatti la medesima pagina della Wikipedia:

Grosso modo fra il 1967 e il 1978, una notevole quantità di materiale archiviato dalla BBC su nastro video e pellicola fu distrutto o cancellato per fare spazio a nuovi programmi. La ragione principale fu che gli accordi con il sindacato degli attori e con altre organizzazioni commerciali limitavano il numero di repliche dei programmi: ne era concessa solitamente soltanto una, da effettuarsi entro un limite di tempo, in genere due anni.

Queste norme derivavano dal timore dei sindacati che se le emittenti avessero riempito di repliche i propri palinsesti, sarebbe calata la produzione di programmi nuovi, causando disoccupazione fra attori e addetti ai lavori. Questo ebbe l'effetto involontario di far distruggere molti programmi dopo che erano scaduti i loro diritti di replica, perché erano ritenuti inutili per le emittenti.

Il resto dell'articolo della Wikipedia è un viaggio affascinante nelle vicissitudini del recupero delle puntate mancanti di Doctor Who, alcune delle quali sono riemerse in posti impensabili come il Bahrein o Hong Kong. Purtroppo l'articolo è in inglese e mi manca il tempo di tradurlo integralmente.

Amici e lettori mi segnalano anche il caso di un altro telefilm-culto, Spazio: 1999. La RAI ha perso completamente il doppiaggio italiano dell'episodio L'ultimo tramonto. L'audio è stato recuperato e ripubblicato in DVD soltanto grazie alla registrazione artigianale fatta da un fan all'epoca della messa in onda dell'episodio da parte di matrigna RAI, quasi trent'anni fa.

Le stesse fonti mi segnalano che

anni fa in una trasmissione radiofonica raccontarono che ad esempio molti master delle puntate mitiche dell'altrettanto mitica e storica trasmissione radiofonica 'Alto Gradimento' [di Arbore e Boncompagni] sono finiti al macero.

In altre parole, non solo i pirati sono custodi della cultura, ma il diritto d'autore così com'è ora uccide la cultura, vietandone la conservazione.

Cari legislatori, siete ancora convinti di sapere chi sono i bravi e chi sono i cattivi?
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