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2015/10/09
“Sentenza Facebook”, cosa cambia in concreto
Una recente sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha dichiarato che gli Stati Uniti non sono più un “approdo sicuro” per i dati dei cittadini dell'Unione. Molti la chiamano “sentenza Facebook” per brevità e perché è partita da una causa avviata da uno studente austriaco, Max Schrems, che contestava il trasferimento dei suoi dati personali, presenti in Facebook, verso gli Stati Uniti, dove non godevano di protezione adeguata contro gli abusi commerciali e governativi. Ma “sentenza Facebook” è una descrizione ingannevole e per chi usa Facebook non cambierà nulla di concreto.
Prima di tutto, quel che è fatto è fatto: i dati personali già inviati verso gli Stati Uniti non verranno cancellati. In secondo luogo, Facebook non smetterà di funzionare o di raccogliere questi dati: probabilmente verranno semplicemente riformulate le sue condizioni d'uso (quelle che non legge mai nessuno) per ottenere più esplicitamente il consenso dell'utente al trasferimento dei suoi dati verso gli USA; e se c'è il consenso, non ci sono problemi di “approdo sicuro”. Inoltre Facebook ha già dei datacenter in territorio europeo nei quali può custodire i dati dei cittadini dell'Unione senza esportarli verso gli Stati Uniti. Lo stesso faranno, o hanno già fatto gli altri grandi collettori di dati della Rete, come Google, Microsoft, Apple, Amazon.
Per i grandi nomi di Internet, insomma, nessuna rivoluzione; e per noi utenti non cambia niente. Allora si sta facendo molto rumore per nulla? No. Presumibilmente saranno le piccole e medie imprese, quelle che non si possono permettere datacenter locali dedicati, a doversi adeguare alla sentenza e spendere di più per fare attenzione a non usare servizi che esportano dati dall'Unione Europea, e ci sarà un boom di guadagni per i fornitori europei di questi servizi.
Anche se in concreto per l'utente comune non cambierà nulla, la cosiddetta “sentenza Facebook” ha un merito: quello di far discutere maggiormente di come i nostri dati vengono sfruttati, spremuti, frullati e analizzati in modi che non conosciamo e che non possiamo controllare per produrre guadagni enormi. Sta a noi valutare se ci sta bene essere i Minions di Zuckerberg e colleghi.
Prima di tutto, quel che è fatto è fatto: i dati personali già inviati verso gli Stati Uniti non verranno cancellati. In secondo luogo, Facebook non smetterà di funzionare o di raccogliere questi dati: probabilmente verranno semplicemente riformulate le sue condizioni d'uso (quelle che non legge mai nessuno) per ottenere più esplicitamente il consenso dell'utente al trasferimento dei suoi dati verso gli USA; e se c'è il consenso, non ci sono problemi di “approdo sicuro”. Inoltre Facebook ha già dei datacenter in territorio europeo nei quali può custodire i dati dei cittadini dell'Unione senza esportarli verso gli Stati Uniti. Lo stesso faranno, o hanno già fatto gli altri grandi collettori di dati della Rete, come Google, Microsoft, Apple, Amazon.
Per i grandi nomi di Internet, insomma, nessuna rivoluzione; e per noi utenti non cambia niente. Allora si sta facendo molto rumore per nulla? No. Presumibilmente saranno le piccole e medie imprese, quelle che non si possono permettere datacenter locali dedicati, a doversi adeguare alla sentenza e spendere di più per fare attenzione a non usare servizi che esportano dati dall'Unione Europea, e ci sarà un boom di guadagni per i fornitori europei di questi servizi.
Anche se in concreto per l'utente comune non cambierà nulla, la cosiddetta “sentenza Facebook” ha un merito: quello di far discutere maggiormente di come i nostri dati vengono sfruttati, spremuti, frullati e analizzati in modi che non conosciamo e che non possiamo controllare per produrre guadagni enormi. Sta a noi valutare se ci sta bene essere i Minions di Zuckerberg e colleghi.
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