Un blog di Paolo Attivissimo, giornalista informatico e cacciatore di bufale
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2017/01/20
Attenzione a Meitu, app un po’ troppo spiona
Si dice spesso in informatica che se un servizio ti viene offerto gratis e lo usi, non sei il cliente: sei il prodotto in vendita. Un esempio perfetto di questa regola è Meitu, una popolare app per iOS e Android che permette di ritoccare in stile anime i selfie.
Meglio starne alla larga: gli esperti di sicurezza l’hanno esaminata e hanno scoperto che quest’app, che in teoria avrebbe bisogno solo di accedere alla fotocamera e alle foto, in realtà raccoglie la localizzazione GPS, il nome dell’operatore telefonico, la connessione Wi-Fi, l’identificativo della carta SIM, lo stato “craccato” o meno del dispositivo e altri dati personali che consentono di tracciare l’utente durante la navigazione in Rete. Questi dati vengono poi inviati ai server del creatore cinese dell’app.
Secondo il ricercatore Jonathan Zdziarski, Meitu è “un’accozzaglia raffazzonata di vari pacchetti di analisi e di marketing e tracciamento pubblicitario, con qualcosa di carino che induca le persone a usarla”. Molte app gratuite guadagnano raccogliendo informazioni personali che poi rivendono a società di marketing: è ormai una norma, perché pur di avere qualche like e retweet molti utenti sono disposti a chiudere un occhio, o entrambi, sulle questioni di sicurezza.
Questa purtroppo è una tendenza alla quale ci stiamo abituando nonostante gli ammonimenti degli addetti ai lavori, come quelli di Wired, The Register e TechCrunch per Meitu. Il risultato è, per esempio, che gli anni passano, l’app ficcanaso viene dimenticata ma rimane installata e raccoglie silenziosamente dati anche quando si entra nel mondo del lavoro e quindi sul telefonino risiedono informazioni sensibili come gli spostamenti di lavoro che permettono di tracciare le attività e i rapporti di un’azienda.
Meglio starne alla larga: gli esperti di sicurezza l’hanno esaminata e hanno scoperto che quest’app, che in teoria avrebbe bisogno solo di accedere alla fotocamera e alle foto, in realtà raccoglie la localizzazione GPS, il nome dell’operatore telefonico, la connessione Wi-Fi, l’identificativo della carta SIM, lo stato “craccato” o meno del dispositivo e altri dati personali che consentono di tracciare l’utente durante la navigazione in Rete. Questi dati vengono poi inviati ai server del creatore cinese dell’app.
Secondo il ricercatore Jonathan Zdziarski, Meitu è “un’accozzaglia raffazzonata di vari pacchetti di analisi e di marketing e tracciamento pubblicitario, con qualcosa di carino che induca le persone a usarla”. Molte app gratuite guadagnano raccogliendo informazioni personali che poi rivendono a società di marketing: è ormai una norma, perché pur di avere qualche like e retweet molti utenti sono disposti a chiudere un occhio, o entrambi, sulle questioni di sicurezza.
Questa purtroppo è una tendenza alla quale ci stiamo abituando nonostante gli ammonimenti degli addetti ai lavori, come quelli di Wired, The Register e TechCrunch per Meitu. Il risultato è, per esempio, che gli anni passano, l’app ficcanaso viene dimenticata ma rimane installata e raccoglie silenziosamente dati anche quando si entra nel mondo del lavoro e quindi sul telefonino risiedono informazioni sensibili come gli spostamenti di lavoro che permettono di tracciare le attività e i rapporti di un’azienda.
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