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Il Disinformatico: energia

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2022/07/24

Serve troppa energia per le auto elettriche? Ecco come dimezzarla, con auto da oltre 1000 km di autonomia che consumano la metà delle attuali

Ultimo aggiornamento: 2022/11/06 11:10.

Una delle critiche più frequenti alla mobilità elettrica è che non ci sia energia elettrica sufficiente per caricare milioni di automobili. Le analisi degli esperti dicono che non è così, perché la percorrenza media giornaliera è ben sotto i 40 chilometri e quindi i kWh necessari ogni giorno sono una manciata abbastanza facile da gestire con una carica lenta diurna o notturna; gli ammodernamenti progressivi della rete elettrica che verranno fatti nei decenni che ci vorranno per rimpiazzare tutte le auto a carburante saranno all’altezza della situazione, a detta degli addetti ai lavori, se ci si rimbocca le maniche invece di proclamare che ogni cambiamento è impossibile.

Ma in momenti come questo, in cui la generazione di energia elettrica è azzoppata dalla scarsità d’acqua (necessaria per raffreddare le centrali elettriche nucleari, a combustibili fossili e idroelettriche) e la Russia minaccia di tagliare le forniture di gas per bullismo geopolitico, è comprensibile che ci si preoccupi che la transizione alla mobilità elettrica sia un passo troppo difficile da fare.

Quello che spesso non si considera in questa preoccupazione, però, è che invece di costruire nuove centrali per caricare le automobili elettriche si possono ridurre i consumi di queste auto. E si possono ridurre tantissimo.

Ridurre i consumi dei veicoli elettrici significa che il loro fabbisogno energetico diventa minore, che è già una buona cosa, ma significa anche che i loro costi operativi diminuiscono, rendendo le auto elettriche ancora più convenienti rispetto ai veicoli a carburante (già ora caricare un’elettrica costa un quarto di quello che costa fare gli stessi chilometri con un’auto tradizionale; immaginate quanto diventa attraente e conveniente un’auto che costa sei-otto volte meno da rifornire).

Non solo: auto che consumano meno si ricaricano più in fretta, riducendo le attese alla colonnina, e hanno bisogno di batterie più piccole a parità di autonomia, per cui riducono anche il fabbisogno di materiali e l’impatto ambientale (oppure rendono possibili grandissime autonomie usando le batterie attuali). C’è insomma una sorta di effetto valanga positivo.

Il 90% di risparmio al chilometro, 1200 km di autonomia elettrica e la possibilità di caricare semplicemente parcheggiando l’auto al sole vi interessano? Sono risultati già fattibili adesso, con la tecnologia attuale, a patto di ripensare a fondo il concetto di automobile e di allontanarsi dalla mania attuale di costruire veicoli inutilmente enormi che hanno l’aerodinamica di una lavastoviglie. Non va dimenticato, infatti, che a velocità autostradali gran parte dell’energia viene consumata per fendere l’aria. Pretendere di farlo con le forme ipertrofiche e squadrate che vanno così tanto di moda adesso è una follia.

Vi propongo una rassegna di alcuni esempi di quello che si sta facendo nella ricerca e che si fa concretamente, con veicoli che si possono acquistare già adesso. Le tecniche usate per ottenere questi risultati non sono fantascienza: sono, fondamentalmente, ottimizzazioni dei motori e dei materiali, riduzione dei pesi e forme aerodinamiche più efficienti. Nulla che non si possa fabbricare su vasta scala, insomma.

Mercedes Vision EQXX

Una casa automobilistica estremamente tradizionale come Mercedes ha realizzato un prototipo di auto puramente elettrica che fa 1200 km con una carica e consuma 8,7 kWh/100 km (11,25 km/kWh). Per fare un confronto, un’auto elettrica attuale consuma oltre il doppio. La mia Tesla Model S, per esempio,  a velocità autostradali consuma 18-20 kWh/100 km, ossia fa da 5 a 6 km con un kWh. Questa Mercedes fa più del doppio della strada con gli stessi kWh.

L’auto, una berlina a quattro posti lunga 4,97 metri, ottiene questo risultato usando varie soluzioni. Ha un motore singolo invece dei due montati su molte auto elettriche attuali, e questo aiuta a ridurre il peso (che è di 1700 kg, di cui 488 kg sono costituiti dalla batteria da 100 kWh, che è a raffreddamento passivo per ridurne la massa ed evitare il consumo energetico di pompe e ventole); ha un impianto di climatizzazione ultraleggero e alimentato dal pannello fotovoltaico sul tetto, in modo da non incidere sulla batteria primaria; monta pneumatici a bassa resistenza al rotolamento e cerchi lenticolari per ridurre la turbolenza prodotta dal passaruota; e ha un’aerodinamica efficientissima (Cd 0,17), alla quale contribuisce uno spoiler posteriore retrattile, che cambia la forma del retro dell’auto allungandola quando è in movimento, in modo da farle assumere una sagoma più vicina a quella ideale. Su Ars Technica trovate una dettagliata recensione con altre informazioni tecniche.

Sorprendentemente, quest’auto non usa telecamere al posto degli specchietti retrovisori esterni, come fanno altre auto (Audi Etron, per esempio) per ridurre la resistenza aerodinamica. Secondo Mercedes, infatti, il consumo di energia delle telecamere e soprattutto degli schermi interni che mostrano le immagini delle telecamere laterali vanifica buona parte del loro beneficio aerodinamico; Mercedes ha scelto quindi di installare specchietti tradizionali ma meno grandi di quelli comunemente usati oggi. Anche il grande schermo del cruscotto si accende solo quando serve, sempre per ridurre i consumi.

La EQXX ha fatto vari viaggi dimostrativi su strade normali: per esempio, è andata con una singola carica da Stoccarda a Cassis (in Francia, 1008 km). Con un’altra singola carica ha anche viaggiato da Stoccarda a Silverstone, percorrendo 1202 km in 14 ore e 30 minuti (media di 83 km/h), ed è avanzata carica per una decina di giri in pista a 140 km/h.

Intendiamoci: questo è un veicolo sperimentale che probabilmente non verrà mai realizzato in serie e se lo fosse avrebbe un prezzo di listino astronomico. Ma è una dimostrazione concreta, tangibile, di quello che si può fare. Una volta dimostrata la loro fattibilità, le innovazioni tendono a essere introdotte anche sui veicoli di massa. Airbag, ABS, barre anti-intrusione, accensione elettronica, per esempio, sono tutte tecnologie nate in fascia alta e poi portate nelle auto normali.

Lightyear 0

Questa auto elettrica iperefficiente a 5 posti, da oltre 1000 km di autonomia, è invece acquistabile, anche se il prezzo è da capogiro: 250.000 dollari (parte dell’importo serve a finanziare lo sviluppo del modello successivo, che sarà a basso costo; questo è un veicolo a tiratura limitata di circa mille esemplari).

Ruote posteriori carenate, forma a goccia, quattro motori integrati nelle ruote (quindi niente peso e inefficienza del differenziale), telecamere al posto degli specchietti e cerchi lenticolari contribuiscono a portare quest’auto a 7,8 kWh/100 km o 12,8 km/kWh, ossia a consumi ancora inferiori a quelli della Mercedes EQXX.

Inoltre la Lightyear 0 si caratterizza per una superficie enorme di pannelli fotovoltaici, che caricano la batteria relativamente piccola (60 kWh, ricaricabile dal 10 all'80% in mezz'ora) anche mentre l’auto è in movimento. Normalmente i pannelli installati sulle auto sono una perdita di tempo, perché non generano energia in quantità significative per la propulsione, ma quest’auto è iperefficiente, appunto, per cui quel poco di energia che i pannelli producono viene sfruttata due volte meglio del normale, e in più la superficie dei pannelli è ben più grande della norma (5 metri quadrati): una buona giornata di sole consente di caricare (gratis) da 5 a 6 kWh, ossia una settantina di chilometri di autonomia, che è più della percorrenza media giornaliera. Il che significa che se viene parcheggiata all’aperto, è raro che debba mai caricare alla colonnina. Addio problemi di chi non ha un posto auto da dotare di presa di ricarica e di mancanza di colonnine. Si va in ufficio, si parcheggia l’auto all’aperto e la si lascia lì a caricare, gratis e senza bisogno di prese o colonnine o altro.

L’auto è lunga cinque metri e larga 1,9, e la sua forma allungata le conferisce un Cd di 0,19. I pesi vengono ridotti usando una carrozzeria in fibra di carbonio, che la portano a 1575 kg. Nel video qui sotto si vede un modello di preproduzione.

Le specifiche tecniche del modello che verrà messo in vendita sono le seguenti: batteria da 60 kWh, 5 mq di pannelli fotovoltaici che generano fino a 1,05 kW, 10,5 kWh/100 km, 70 km di autonomia ricaricati per giorno di esposizione al sole (10 km per ogni ora di esposizione), Cd inferiore a 0,19, 1575 kd di peso. 640 litri di bagagliaio, carica rapida 520 km/h, carica domestica 32 km/h. La produzione dovrebbe iniziare in Finlandia entro fine 2022. L’auto è già prenotabile e configurabile online; ne verranno prodotti 946 esemplari al prezzo di vendita di 250.000 euro ciascuno.

Aptera

Quando scrivo “ripensare a fondo il concetto di automobile”, però, ho in mente ben più di una forma a berlina molto aerodinamica. Ho in mente forme e soluzioni come quelle di Aptera: carrozzeria veramente a goccia (Cd 0,13), tre ruote per ridurre di un quarto la resistenza al rotolamento, pannelli fotovoltaici per ricaricare anche in movimento, pesi ridottissimi (da 900 a 1100 kg), due motori integrati nelle ruote (tre nella versione top).

Risultato: fino a 1600 km di autonomia nella versione con batteria da 100 kWh, vale a dire 16 km/kWh o 6,25 kWh/100 km. Il triplo dell’efficienza di un’auto elettrica normale (che, non va dimenticato, è già enormemente più efficiente di qualunque auto a carburante). Ci sono inoltre fino a 65 km di autonomia gratuita ogni giorno grazie ai pannelli fotovoltaici che generano fino a 700 watt, per cui in molti casi non è mai necessario attaccarla alla rete elettrica per caricarla. Quindi non grava sulla rete elettrica e nemmeno sul portafogli.

Il prezzo è già più abbordabile rispetto ai casi precedenti: si parte da 26.000 dollari per la versione base e si arriva a 50.700 per la versione a massima autonomia. Il veicolo è a due posti, più un bagagliaio usabile ma non eccessivo. Le dimensioni sono ragguardevoli: 4,3 metri di lunghezza e ben 2,23 metri di larghezza.

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Questi veicoli danno un’idea di quanto margine di miglioramento ci sia nell’efficienza dei veicoli senza per questo mortificarne le prestazioni e la fruibilità. E c’è ancora altro margine nelle batterie, con alleggerimenti, composizioni chimiche più efficienti e ottimizzazioni. 

Ovviamente, l’auto che inquina di meno e consuma meno energia in assoluto è comunque quella che non si compra e non si usa, per cui l’efficienza non deve essere una scusa per usare l’auto più di quanto sia realmente necessario o per continuare a soffocare le città con automobili che sono sì pulite ma rimangono assurdamente ingombranti (tutti questi esemplari sfiorano o superano i quattro metri e mezzo); ma la sfida tecnica di fornire energia per la mobilità elettrica di massa sembra meno drammatica di quello che molti pensano.

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Se vi state chiedendo perché questi miglioramenti di efficienza (per esempio quelli aerodinamici, relativamente semplici) non vengono applicati alle auto tradizionali, la risposta è che su un veicolo a carburante non si percepiscono tanto quanto su un’auto elettrica, e quindi c’è poca richiesta: lo si nota da quanti preferiscono correre in autostrada con SUV e simili che hanno un’aerodinamica demenziale, tanto basta mettere un po’ di benzina in più e pagare un po’ di più. Il risultato è che è rarissimo vedere qualcuno che compra un’auto perché consuma poco. Su un’elettrica, invece, l’efficienza maggiore può fare la differenza fra fermarsi mezz’ora o un’ora a caricare oppure arrivare direttamente a destinazione.

 

Ho rimosso i riferimenti alla Sono Sion presenti nella stesura iniziale di questo articolo perché erano dovuti a un mio errore di conversione dei valori di efficienza. Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico) o altri metodi.

2022/01/02

Energy Vault, la “batteria a gravità”: proviamo a ragionarci

Ultimo aggiornamento: 2022/01/03 18:40.

Ad Arbedo-Castione, a una quarantina di chilometri dal Maniero Digitale, c’è l’impianto pilota di Energy Vault. L’idea è semplice e intrigante: un sistema di accumulo di energia basato sul principio di usare la corrente elettrica in eccesso (per esempio quella generata di giorno da pannelli fotovoltaici o di notte dalle centrali termiche) per sollevare e accatastare delle masse e poi calare lentamente queste masse, generando così energia elettrica.

Immagine tratta da questo video di Energy Vault.

Nella transizione alle energie rinnovabili e pulite, i sistemi di accumulo giocano un ruolo indispensabile: fotovoltaico ed eolico, infatti, sono incostanti e hanno quindi bisogno del supporto di un apparato che accumuli energia e la rilasci quando serve.

Il sistema dimostrativo di Energy Vault, che è stato completato a luglio 2020 ed è connesso alla rete elettrica svizzera, è descritto in dettaglio dall’azienda qui: una gru a tre bracci doppi e simmetrici, alta circa 60 metri, solleva e impila grandi masse inerti (da 35 tonnellate ciascuna e 35.000 tonnellate in totale, secondo questo video di Energy Vault, a 00:46 e 1:34) per accumulare energia potenziale e poi cala queste masse per sfruttarne l’energia per produrre elettricità con un’efficienza dichiarata del 90%.

Rispetto a un bacino idroelettrico di pompaggio, che si basa sullo stesso principio di portare a monte una massa per poi farla scendere a valle, questa tecnica ha una compattezza estrema che consente di piazzarla praticamente ovunque e senza richiedere trasformazioni radicali dell’ambiente, come per esempio dighe o altre opere ingegneristiche massicce, che possono rendere impraticabile o socialmente inaccettabile un sistema di accumulo di energia idroelettrico perché modificano il paesaggio, distruggono habitat o obbligano allo spostamento di popolazioni.

Rispetto alle batterie chimiche ad altissima capacità che si stanno sviluppando in vari paesi, come la Hornsdale Power Reserve da 100 MW/129 MWh di Tesla in Australia, già attiva dal 2017, la soluzione di Energy Vault ha il vantaggio di usare masse inerti, quindi prive di qualunque rischio significativo di incendi o inquinamento, di basso costo (addirittura è possibile usare materiali di scarto) e longeve (prive di deterioramento).

Ma ci sono alcune obiezioni interessanti:

  • La massa necessaria va fabbricata, ed è tanta (almeno un migliaio di blocchi per ogni impianto, a giudicare dalle animazioni presentate finora da Energy Vault), e questo ha un impatto ambientale: i blocchi che vengono spostati devono infatti essere durevoli e robusti. Quanto inquinamento si genera nel fabbricarli?
  • I blocchi vengono semplicemente accatastati, senza alcun legame strutturale a parte due perni di incastro alla base di ciascun blocco: quanto è stabile una torre del genere? In caso di eventi sismici, possono esserci delle conseguenze?
  • I blocchi vengono sollevati, accatastati e calati usando lunghe funi: il vento che effetto ha su quello che è in sostanza un enorme pendolo? Sarà possibile accatastare con precisione i blocchi durante le giornate di forte vento? Che succede se un blocco va a sbattere contro la catasta?
  • Quanto pesa la massa complessiva della catasta? 35.000 tonnellate, come dichiarato nel video dell’azienda? Ha bisogno di terreni o fondamenta particolari?

Non ho trovato finora molti dati tecnici precisi sulle caratteristiche di questo impianto. Ogni blocco, secondo Energy Vault, rappresenta “circa 1 MW di energia potenziale” (“each of the bricks representing ~1MW [sic; forse intendevano MWh?] of potential energy”). Secondo quanto riportato da Swissinfo, la torre attuale è alta appunto 60 metri e una torre da 120 metri può accumulare 35 MWh di energia elettrica, sufficienti ad alimentare per otto ore da due a tremila abitazioni.

C’è anche un video di Energy Vault che propone una struttura alternativa: non più a catasta libera ma a griglia. L’Energy Vault Resiliency Center è un edificio relativamente basso e molto ampio contiene i blocchi (da 30 tonnellate ciascuno) e li solleva lungo binari. Questo risolverebbe il problema del vento e della stabilità, ma farebbe aumentare sia i costi della struttura, che dovrebbe sopportare il peso di tutti i blocchi sollevati, sia lo spazio occupato al suolo. Questo video di Energy Vault ne annuncia il deployment iniziale nella seconda metà del 2021 (a 1:53).

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Quanta energia si produce con questa tecnica? Provo a partire dai princìpi di base. Una tonnellata di massa (acqua, ferro, cemento o qualunque altro materiale) alzata di un metro acquisisce un’energia potenziale di 9810 joule, ossia 2,72 Wh. Sì, avete letto bene: meno di tre Wh. Vuol dire che usare un asciugacapelli da 1 kW per un’ora (1 kWh) equivale a sollevare un’utilitaria (diciamo da 1000 kg) per circa 370 metri (se non ho sbagliato i conticini; controllatemeli, per favore).

La formula alla base di questo calcolo è quella classica dell’energia potenziale:

massa (in kg) x 9,81 m/s2 di accelerazione x altezza (in metri) = energia potenziale (in joule).

Semplificando e se non ho perso qualche zero per strada, i 35 MWh dichiarati da Energy Vault per la torre alta 120 metri equivarrebbero a calare da 120 metri d’altezza fino al suolo ben 110.000 tonnellate.

Se ogni blocco pesa 35 tonnellate, come dichiarato dall’azienda, significa dover movimentare circa 3100 di questi blocchi (110.000/35=3142), su distanze fino a 120 metri ciascuno, accelerandoli e frenandoli, nel giro di otto ore: circa 390 blocchi l’ora, ossia circa 7 blocchi al minuto. Con una gru a sei bracci che lavorano contemporaneamente, significa avere meno di un minuto per calare e incastrare con precisione ogni blocco, evitando collisioni all’arrivo. E questo al netto di attriti e inefficienze varie, inevitabili in qualunque meccanismo.

Dico circa 3100 blocchi perché soltanto i blocchi in cima alla catasta avranno il valore massimo di energia potenziale; quelli sottostanti ne avranno progressivamente di meno, man mano che diminuisce la loro altezza dal suolo. Sto sbagliando qualcosa?

A questo punto, però, non capisco come un blocco possa “rappresentare circa 1 MW [sic]. Se si tratta di un refuso al posto di MWh, allora per avere un’energia potenziale di 1 MWh scendendo di 120 metri quel blocco dovrebbe avere una massa di 3100 tonnellate. Chiaramente c’è qualcosa che non torna.

Su suggerimento di un commentatore (grazie pgc) aggiungo un’altra perplessità: ogni blocco da 35 tonnellate che viene calato ha una velocità iniziale zero, poi accelera e infine frena fino ad azzerare la propria velocità. Questo vuol dire che l’erogazione di energia del singolo blocco non è costante ma è fortemente variabile: come farà il sistema a equilibrare tutti questi alti e bassi? Servirà un sistema di recupero dell’energia estremamente flessibile. Che succede se il complesso balletto di blocchi pesanti come un TIR si inceppa per qualunque motivo, tipo un cavo da sostituire o un blocco che dondola nel vento e va stabilizzato? 

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In attesa che qualcuno più bravo di me verifichi questi conticini, va considerato un altro aspetto. Esiste già un materiale a bassissimo impatto ambientale, disponibile in abbondanza, che si può usare (e si usa) per accumulare energia: è l’acqua. Se si scava un bacino sotterraneo (invece di sbarrare una valle con una diga) e lo si riempie d’acqua dotandolo di una condotta forzata in fondo, si crea un accumulo di energia potenziale sfruttabile. Invece di accatastare blocchi di cemento o altri materiali inerti, si solleva l’acqua e la si rimette nel bacino. Questo è il principio delle centrali idroelettriche a ciclo chiuso

Si potrebbe obiettare che l’acqua ha una densità minore di un blocco di materiale solido, per cui viene istintivo pensare che i blocchi di Energy Vault dovrebbero essere molto più compatti di un sistema idroelettrico equivalente: ma un metro cubo d’acqua ha una massa di circa 1000 kg, mentre un metro cubo di cemento ha una massa di circa 2500 kg, per cui in realtà una massa d’acqua equivalente a quella di una torre di Energy Vault ha un volume due volte e mezza maggiore: non dieci o venti volte, ma due e mezza.

Il guadagno in compattezza, insomma, non è sensazionale come si potrebbe invece pensare. Blocchi di materiale più denso migliorerebbero questo rapporto (in ferro sarebbero otto volte più compatti; in piombo oltre undici), ma sarebbero enormemente più costosi.

L’acqua non è soggetta a scheggiature da impatto; non è afflitta da corrosione; non si deteriora per invecchiamento; non ha bisogno di essere accatastata con precisione. Per contro, richiede un recipiente che la contenga e impedisca perdite e infiltrazioni. Quel “recipiente” potrebbe danneggiarsi in caso di eventi sismici, con costi di riparazione potenzialmente altissimi. 

A parte tutto questo, dai dati emerge un fatto spesso trascurato: le masse da spostare per generare tramite gravità l’energia di cui abbiamo bisogno sono enormi. Real Engineering ha pubblicato un bel video (in inglese) dedicato alla centrale a ciclo chiuso di Turlough Hill, in Irlanda, in funzione da oltre 40 anni, che ha un dislivello di 286 metri e un bacino superiore di 2,3 milioni di metri cubi. Quando i suoi quattro generatori da 73 MW sono in funzione al massimo, attraverso le sue condotte scorrono oltre cento tonnellate d’acqua al secondo, e bastano cinque ore e mezza di funzionamento per prosciugare completamente il bacino.

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C’è anche la questione dei costi. Secondo i dati di Energy Vault, ci vuole appunto una torre da 120 metri per avere un accumulo di 35 MWh al costo di circa 9,3 milioni di dollari. La batteria australiana di Hornsdale, da 129 MWh (3,7 volte maggiore), è costata 65 milioni di dollari; un impianto equivalente di Energy Vault ne costerebbe (secondo l’azienda) circa 35 milioni. Sarebbe decisamente conveniente rispetto alle batterie.

Ma se si fa il confronto con il costo di un impianto idroelettrico a ciclo chiuso le cose cambiano parecchio: un grande impianto da 24.000 MWh di accumulo come quello di Bath County, in Virginia, è costato 3,8 miliardi di dollari. Per farne uno analogo con il sistema di Energy Vault servirebbero (stando ai dati dichiarati dall’azienda) 685 torri da 120 metri l’una, al costo complessivo di 6,3 miliardi di dollari: quasi il doppio. C’è dunque un motivo per cui il 95% dell’accumulo energetico mondiale è basato sull’idroelettrico: costa meno.

Sempre stando ai dati di Energy Vault, per alimentare Lugano (67.000 abitanti, 40.700 abitazioni) per otto ore servirebbero grosso modo da tredici a venti torri da 120 metri l’una. 

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Dove sta quindi il vantaggio della soluzione di Energy Vault? Sembra costare meno di un impianto a batterie, ma non sembra scalabile. È più modulare e adatto ai piccoli impianti? Rende più facile ottenere approvazioni e permessi rispetto a un bacino idroelettrico sotterraneo? Come si risolvono le obiezioni tecniche? 

Ne avevamo discusso informalmente nei commenti a questo articolo a ottobre scorso: proviamo a parlarne in dettaglio nei commenti qui sotto, sulla scorta dei dati tecnici che ho raccolto. Ho contattato l’azienda per chiedere un commento pubblicabile. 

Trovate analisi dettagliate in questo articolo su Quartz (2018, in inglese)

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2020/11/20

Antibufala: manda una mail in meno per salvare il pianeta!

Gira da tempo la notizia che inviare una mail comporti la produzione di 19 grammi di CO2 e che quindi mandare meno mail possa contribuire a contenere i cambiamenti climatici.

Elimina le tue e-mail per salvare il pianeta!”, ha titolato Beppegrillo.it a maggio 2019. Euronews, invece, suggerisce che Cancellando le vecchie email potete contribuire a salvare il pianeta (aprile 2020). Anche il Financial Times ne parla (paywall), dicendo che se ogni inglese mandasse una mail in meno ogni giorno, si eviterebbe la produzione di oltre 16.000 tonnellate di CO2, pari alla produzione di oltre 80.000 voli aerei verso l’Europa. Ma è vero?

Tecnicamente sì, è vero: ma sarebbe un risparmio assolutamente trascurabile.

È vero che inviare una mail consuma energia e quindi produce CO2: consumano energia il computer o telefonino che la invia, l’antenna cellulare o Wi-Fi che la riceve e la inoltra, e tutti i dispositivi elettronici che la portano fino alla sua destinazione e gli enormi data center dove le mail vengono archiviate.

Ma le 16.000 tonnellate citate dal Financial Times sono, spiega la BBC, soltanto lo 0,0037% della produzione totale di CO2 nel Regno Unito. Percentuali analoghe si applicano agli altri paesi.

L’idea di rinunciare a una mail per salvare il mondo sembra provenire, o perlomeno è stata rilanciata, da un comunicato stampa di un’azienda di produzione di energia elettrica, la Ovo Energy, diffuso circa un anno fa. Il comunicato si basava su un calcolo spannometrico e aveva lo scopo di far parlare dell’argomento e dell’azienda, ma non informa correttamente sull’argomento.

Infatti non solo il risparmio sarebbe trascurabile, ma anche quel poco sarebbe in buona parte fittizio: il computer o telefonino consuma praticamente la stessa quantità di energia anche quando non invia mail, e lo stesso fanno tutti gli altri elementi della catena di trasmissione.

In altre parole, rinunciare a una mail non salva il pianeta: è solo un esempio di pseudoecologismo basato su comunicati stampa acchiappaclic.

2020/06/29

Storie di Scienza 10: Smaltire i rifiuti nucleari mandandoli nello spazio? Perché no?

Ultimo aggiornamento: 2020/06/30 10:40.

Un’astronave Aquila di Spazio 1999 trasporta scorie radioattive sulla Luna.
Credit: Scale Model News.

Gennaio 1976: debutta alla RAI Spazio 1999, una delle rarissime produzioni di fantascienza della RAI (in questo caso una coproduzione con la britannica ITC). Sfoggia un cast di prim’ordine, con attori come Martin Landau e Barbara Bain, effetti speciali sofisticatissimi per l’epoca e un design realistico e ultramoderno (i protagonisti avevano un comunicatore con la TV incorporata che il capitano Kirk di Star Trek se lo sognava). Ambientata, come avrete intuito, nel 1999, che allora era un prossimo futuro, la sua premessa è che la Luna è diventata il deposito sicuro delle scorie radioattive delle centrali nucleari terrestri, gestite tramite il personale della base lunare internazionale Alpha.

Ma ovviamente qualcosa va storto, e le scorie accumulate esplodono, scagliando la Luna fuori dalla sua orbita e lanciandola insieme agli Alphani in un avventuroso viaggio nel cosmo che proseguirà per 48 episodi, suddivisi in due stagioni, con un rimpasto del cast al termine delle prime ventiquattro puntate.

Che premessa stupida, direte voi. Lasciamo stare le incongruenze fisiche più evidenti di Spazio 1999, tipo l’esplosione nucleare che fa da motore per la Luna senza spaccarla in mille frammenti o la velocità molto superiore a quella della luce che la Luna dovrebbe avere per incontrare un pianeta alieno ogni settimana. Stiamo sul concreto. Chi mai sarebbe così idiota da pensare seriamente di caricare delle scorie radioattive su un razzo altamente esplosivo e mandarle nello spazio?

La Commissione per l’Energia Atomica del governo degli Stati Uniti, ecco chi.

Gerry e Sylvia Anderson, i creatori di Spazio 1999, non erano stati affatto stravaganti nel concepire la parte nuclear-ecologica della premessa della serie. Nel 1974, due anni prima del debutto della serie di fantascienza alla RAI, la suddetta Commissione per l’Energia Atomica (Atomic Energy Commission, AEC) aveva proposto, in tutta serietà, di caricare le scorie radioattive sugli Space Shuttle, che all’epoca erano in fase di progettazione, e spararle nello spazio.

Se non ci credete, il documento dell’AEC si intitola High-level radioactive waste disposal, a firma di R.C. Battelle Pacific Northwest Labs.



Nel 1974, in piena crisi petrolifera, iniziata l’anno precedente con le file ai distributori di benzina in buona parte del mondo occidentale, i prezzi dei carburanti e dei combustibili da riscaldamento che andavano alle stelle e il blocco totale del traffico automobilistico di domenica in Italia, sembrava evidente e inevitabile che l’energia atomica, ottenuta per fissione nei reattori delle centrali nucleari, sarebbe stata la soluzione alla crisi, togliendo ai paesi petroliferi gran parte del loro improvviso strapotere.

Il documento AEC prevedeva negli Stati Uniti, entro il 2000, circa 1.200.000 megawatt di capacità nucleare. Un piano ambizioso, visto che al momento della stesura del documento i megawatt installati erano solo 15.000. Le centrali nucleari avrebbero generato la metà dell’energia elettrica negli Stati Uniti.

Le previsioni del documento AEC.


Queste centrali nucleari avrebbero ovviamente prodotto scorie: entro il 2000 si sarebbero accumulati circa 13.500 metri cubi di residui altamente radioattivi particolarmente longevi, di cui sarebbe stato necessario sbarazzarsi in qualche modo.

Così il documento dell’AEC prendeva disinvoltamente in considerazione tre metodi: l’incapsulamento e la sepoltura in aree geologicamente stabili degli Stati Uniti, sul fondo degli oceani o nei ghiacci della Groenlandia o dell’Antartide (altra idea che oggi pare un tantinello meno geniale), la trasmutazione nucleare e il disposal in space: lo smaltimento nello spazio.

Un deposito di scorie sulla Luna in Spazio 1999, prima del grande kaboom del 13 settembre 1999.

Erano ipotizzati tre tipi di smaltimento spaziale:

  • il solar impact, ossia scagliare le scorie verso il Sole (cosa difficilissima, perché per lanciare un oggetto nello spazio in modo che cada verso il Sole bisogna prima compensare la velocità orbitale della Terra, ossia circa 30 km/s o 107.000 km/h, molto superiore a quella degli attuali veicoli spaziali);
  • l’orbiting, in cui le scorie sarebbero rimaste in orbita intorno alla Terra;
  • e il solar escape to deep space, che avrebbe inviato le scorie su una traiettoria di fuga dal sistema solare (e paradossalmente richiede una velocità molto minore di quella necessaria per viaggiare verso il Sole: bastano 16,6 km/s per uscire per sempre dal sistema solare). 

La Luna non era stata considerata esplicitamente, anche se il tug, il rimorchiatore spaziale che vedete nello schema qui sotto, serviva proprio per spedire carichi dove lo Shuttle non arrivava, e fra queste destinazioni c’era anche il nostro satellite naturale.

Lo schema di, come dire, smaltimento nucleare proposto dal documento dell’AEC.


Lo Space Shuttle sarebbe dovuto diventare il “camion” dello spazio, un veicolo riutilizzabile che avrebbe fatto crollare i costi dei voli spaziali. Nel 1973 era stata definita solo la sua architettura generale e doveva ancora iniziare la costruzione del primo esemplare, battezzato Enterprise (sì, in onore dell’astronave di Star Trek). Ma si sapeva già che avrebbe avuto un enorme serbatoio esterno pieno di idrogeno e ossigeno e due razzi laterali a propellente solido che non potevano essere spenti una volta accesi: una configurazione delicatissima. Cosa mai sarebbe potuto andare storto nel caricarci delle scorie radioattive?

Eppure l’idea veniva proposta con un certo entusiasmo, soprattutto perché consentiva di sbarazzarsi subito e permanentemente delle scorie, senza doverle custodire e sorvegliare per decenni o, in alcuni casi, secoli: “lo smaltimento extraterrestre offre un metodo per la rimozione completa dalla Terra dei componenti a lunga vita delle scorie nucleari”.

Gli esperti proponevano di usare lo Shuttle in questo modo: “verrebbe lanciato in orbita circolare terrestre bassa. Da quest’orbita, i rimorchiatori o stadi superiori verrebbero lanciati per portare il pacchetto di scorie alla sua destinazione finale”. Però, notavano, “ci sono possibili problemi di sicurezza dei lanci” ed “esiste la possibilità di disaccordi internazionali”. Ma non mi dire. Uno Shuttle che precipita, che so, sulla Francia e la dissemina di frammenti altamente radioattivi potrebbe, chissà, portare a “disaccordi”? Chi l’avrebbe mai detto?

I sovietici non si fecero troppi problemi e lanciarono in orbita interi reattori nucleari nei loro satelliti di ricognizione. Nel 1978 (solo cinque anni dopo la proposta dell’AEC), il satellite Kosmos 954 precipitò fuori controllo, spandendo 50 chili di uranio-235 sul Canada lungo una fascia di 600 chilometri. Le operazioni di recupero e bonifica permisero di ritrovare dieci frammenti radioattivi, uno dei quali era sufficiente a uccidere una persona che vi rimanesse in contatto per qualche ora.

Gli Stati Uniti furono quasi altrettanto disinvolti, lanciando in orbita vari reattori, riscaldatori o generatori termoelettrici alimentati da plutonio-238 o uranio-235. Per alimentare gli strumenti delle sonde spaziali che viaggiano lontano dal Sole, come le Pioneer o le Voyager, l’energia nucleare è l’unica soluzione possibile. Ciascuno degli allunaggi Apollo (1969-1972) portò sulla Luna dei riscaldatori o generatori termoelettrici nucleari (Apollo 13 fece precipitare il proprio nell’Oceano Pacifico in seguito all’incidente avvenuto durante il viaggio, che impose un ritorno d’emergenza); i veicoli Lunokhod sovietici (1970-1973) portarono sulla Luna dei riscaldatori al polonio-210, e nel 2013 il veicolo cinese Chang’e 3 è allunato con un riscaldatore contenente plutonio-238. Alla fine, insomma, un po’ di scorie radioattive sulla Luna le abbiamo lasciate.

Ma a parte questi casi, le cose non andarono affatto secondo le previsioni degli autori dello studio. L’energia nucleare non si impose, dopo incidenti come quelli di Three Mile Island (1979) e di Chernobyl (1986) che scossero la fiducia dell’opinione pubblica: negli Stati Uniti ci sono oggi circa 98.000 MW di capacità nucleare (neanche un dodicesimo di quanto previsto allora).

Anche lo Shuttle dimostrò tragicamente, ben due volte, che un razzo non è un veicolo sul quale è assennato trasportare materiale altamente radioattivo. Il Challenger esplose poco dopo il decollo nel 1986 e il Columbia si disintegrò al rientro nel 2003. Entrambi portarono con sé le vite dei sette astronauti dei loro equipaggi. I piani di volare a cadenza quasi settimanale furono drasticamente ridimensionati e il “camion” divenne una costosissima Cadillac che gravò sul budget della NASA per trent’anni. Certo, permise di costruire man mano la Stazione Spaziale Internazionale: ma non dimentichiamo che per farlo sarebbero stati sufficienti sei voli di un razzo Saturn V lunare. Non è teoria: uno di questi vettori giganti aveva portato in orbita terrestre l’intera stazione spaziale Skylab nel 1973. Settantasette tonnellate in un sol colpo.

Col senno di poi non sembra che ci volesse una patente da superesperto di energia nucleare per capire che anche soltanto proporre di sparare roba radioattiva nello spazio su un missile era un’idea totalmente cretina. Ma nel 1974 la NASA aveva appena raggiunto la Luna con ben nove missioni, atterrandovi sei volte, e non aveva mai perso un astronauta in volo. I suoi razzi sembravano infallibili.

Inoltre la coscienza ecologica era ancora embrionale: era ancora diffuso lo slogan the solution to pollution is dilution (“la soluzione all’inquinamento è diluire”) e quindi buttare in mare (o nello spazio) contenitori di rifiuti radioattivi pareva perfettamente normale. E soprattutto economicamente conveniente. A certa gente quest’abitudine non è ancora passata.

Abbiamo imparato a carissimo prezzo quanto erano sbagliate quelle idee che sembravano così solide allora. Viene da chiedersi, allora, quali sono le nostre serene certezze di oggi di cui dovremo pentirci nei prossimi decenni.

Di una cosa, di certo, non mi pentirò: della cotta che presi da adolescente per Sandra Benes. Su base Alpha lei era tecnico informatico. Coincidenza?

Citare Spazio 1999 e non includere una foto di Sandra Benes (Zienia Merton) è vietato dalla Convenzione di Ginevra.


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2019/10/27

Auto elettriche solari: 27 km/giorno di autonomia autocostruita?

A luglio scorso ho proposto ai lettori un quesito-divertissement: è fattibile un’auto elettrica che si carichi almeno in parte con pannelli solari montati a bordo? Ne è nata una discussione bellissima e ricca di spunti, alla quale aggiungo questo piccolo aggiornamento.

Uno dei progetti artigianali che ho citato in quell’articolo ha pubblicato un video nel quale mostra di produrre circa 17 miglia (27 km) con 12 ore di esposizione al sole. Non tantissimi, ma nel suo caso (una vecchissima Nissan LEAF d’occasione) fanno la differenza fra restare a piedi e invece tornare a casa, e sono comunque chilometri caricati gratuitamente (a parte la spesa iniziale dell’impianto) e a inquinamento zero.

Il suo sistema usa pannelli fotovoltaici sul tetto e sul cofano, che caricano delle batterie supplementari di accumulo, che a loro volta caricano la batteria di trazione della LEAF: la soluzione sulla quale convergevano i vostri commenti.

Sono sinceramente sorpreso che nonostante le inefficienze e l’artigianalità assoluta di questo esperimento (il blocco di ghiaccio come refrigerante è micidiale) si riescano a ottenere 27 km di autonomia (non so a quale velocità).



Mi sorprende anche che riesca a ottenere quell’autonomia da una superficie fotovoltaica così modesta, e mi piacerebbe molto capire quanto può essere costata questa apparecchiatura (al netto del nastro adesivo e dei secchi di ghiaccio).

Se avete idee in proposito, i commenti sono a vostra disposizione.


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2018/07/22

Quanta superficie di pannelli solari servirebbe per dare energia al mondo? L’origine di un grafico molto diffuso

Ultimo aggiornamento: 2018/07/22 17:00.


Da anni vedo circolare l’immagine che vedete qui sopra: rappresenterebbe la superficie di pannelli solari sufficiente a soddisfare l’intero fabbisogno di energia elettrica della Germania (D), dei 25 paesi dell’Unione Europea (EU-25) e del mondo intero (Welt).

Non ne avevo mai cercato la fonte, ma ieri ho letto un tweet che me l’ha fornita direttamente, citando l’autrice, Nadine May. È bastato questo e un minimo sforzo in Google per trovare il documento completo dal quale proviene il grafico: la versione in inglese si intitola Eco-balance of a Solar Electricity Transmission from North Africa to Europe, risale al 2005 ed è la tesi di laurea di Nadine May presso la facoltà di scienze fisiche e geologiche dell’Università Tecnica di Braunschweig.

Il grafico è a pagina 26 della tesi (Figura 12) ed ha una didascalia che ne chiarisce il senso: è un “theoretical space requirement”, ossia un requisito di superficie teorico qualora un impianto solare fosse collocato in quelle aree geografiche. Va quindi considerato come una spannometria: un esercizio matematico-scientifico per farsi un’idea delle grandezze in gioco e per rispondere a quelli che pensano che per alimentare il pianeta dovremmo tappezzare di pannelli tutto il deserto del Sahara o addirittura il mondo intero.

La tesi fornisce le cifre alla base del grafico: se il fabbisogno energetico mondiale è di 16.076 TWh/anno (dato riferito al 2004), per soddisfarlo sarebbe sufficiente una superficie di 254 km per 254 km; per soddisfare quello europeo servirebbe un’area di 110 km per 110 km; e per soddisfare quello tedesco ne servirebbe una da 45 per 45 km, secondo i calcoli di Nadine May.

Dalla lettura attenta della tesi emerge anche un altro dettaglio importante: non si tratta di pannelli fotovoltaici, ma di pannelli solari termici, ossia (sezione 2.2.1) di specchi che concentrano la luce solare su condotte contenenti un vettore termico fluido, il cui riscaldamento viene usato per generare vapore acqueo, che aziona una turbina che a sua volta genera corrente elettrica.

Questa stima pone anche la sfida tecnica non banale del trasporto di tutta questa energia elettrica dalle zone desertiche ai luoghi di consumo e forse non considera sufficientemente le sue implicazioni un po’ colonialiste, ma è comunque uno spunto di riflessione; un dato di massima dal quale partire. Il concetto di fondo è che quelle sono le superfici complessivamente necessarie: nulla vieta di distribuirle in giro per il mondo, più vicino a dove viene consumata l’energia, riducendo il problema della distribuzione.

Altre stime più recenti (2017) stimano un fabbisogno mondiale circa doppio (30.000 TWh/anno) e, nel caso del fotovoltaico, una superficie di 200.000 kmq, equivalente a un quadrato di 448 km di lato. Se portassimo gli otto miliardi di esseri umani del pianeta ai consumi energetici tedeschi, secondo queste stime servirebbe un quadrato di 1000 km di lato.

Insomma: dovremmo tappezzare di pannelli tutto il mondo? No. Nello scenario più ambizioso sarebbe sufficiente un quindicesimo dell’area desertica del pianeta, ossia il quadrato in basso a sinistra in questo grafico.

Fonte: Energy-age, 2017.


Certo, una serie di centrali solari che copra in tutto 200.000 o un milione di chilometri quadrati, con relativa rete di distribuzione planetaria, sarebbe un’opera ingegneristica ciclopica, ma non sarebbe la prima: con mezzi molto meno avanzati di quelli odierni l’umanità ha saputo costruire piramidi, creare i canali di Panama e Suez, costruire dighe immense e reti ferroviarie e stradali colossali; ha saputo organizzarsi per debellare malattie devastanti.

Costa? Ovviamente. Ma non dimentichiamoci che gli Stati Uniti, da soli, spendono in armi oltre 600 miliardi di dollari l’anno. Poi ci sono le spese militari del resto del mondo.

E non dimentichiamoci le parole attribuite a un protagonista di un altro progetto apparentemente impossibile e faraonico di cui ricorre in questi giorni il quarantanovesimo anniversario: Jim Lovell (Apollo 13).

“D’ora in poi viviamo in un mondo nel quale l’uomo ha camminato sulla Luna. Non è stato un miracolo; abbiamo semplicemente deciso di andarci.”

Sono troppo ottimista? Sicuramente. Una specie intelligente non spenderebbe oltre 600 miliardi di dollari l’anno in bombardieri, testate nucleari e stipendi per addestrare gente ad ammazzare più efficientemente il prossimo. Ma si può sempre sperare che prima o poi la specie maturi. E semplicemente decida di fare.


Documento di approfondimento: Concentrating Solar Power for the Mediterranean Region, DLR/Ministero Federale Tedesco per l’Ambiente (2005). Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

2016/12/02

Aiuto, il mio Android è in bianco e nero!

Avete un telefonino Android e volete divertirvi un po’ facendogli fare cose strane? Allora andate nelle impostazioni, trovate la voce Info sul telefono, apritela e poi toccate sette volte di seguito la voce Numero Build (la sequenza precisa varia da telefono a telefono, ma si conclude sempre su Numero Build; quella che ho descritto è riferita a un Nexus 5X con Android 7.0).

Comparirà il messaggio Ora sei uno sviluppatore. Adesso tornate indietro, all’inizio del menu Impostazioni: troverete una voce nuova, chiamata Opzioni sviluppatore.

La maggior parte delle opzioni che avete sbloccato è molto tecnica ed è meglio non modificarne nessuna se non siete esperti, ma ce ne sono un paio che possono essere utili e divertenti.

La prima di queste opzioni è Rimani attivo, che tiene permanentemente acceso lo schermo quando il telefonino è sotto carica: funzione utile se adoperate lo smartphone come cronometro o se volete tenere d’occhio le notifiche.

La seconda è Simula spazio colore: se la attivate, potete scegliere Monocromia, che fa diventare monocromatico lo schermo. Le altre modalità disponibili in quest’opzione, ossia Deuteranomalia, Protanomalia, Tritanomalia servono per chi ha queste forme di daltonismo (o a chi deve sviluppare software per chi ne è affetto) ma possono anche essere usate semplicemente per dare allo smartphone un aspetto insolito.

Fra l’altro, se avete uno schermo AMOLED, la modalità monocromatica non è soltanto un vezzo: riduce il consumo di energia dello schermo, per cui vi consente di allungare la durata della batteria se siete agli sgoccioli e non potete ricaricarla.


Fonte: Lifehacker. Ultimo aggiornamento: 2016/11/04 7:20.

2016/10/31

Elon Musk ne fa un’altra delle sue: il tetto solare invisibile



Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alla donazione di alessandro.bo*. Se vi piace, potete farne una anche voi (o fare un microabbonamento) per incoraggiarmi a scrivere ancora. Pubblicazione iniziale: 2016/10/31 14:46. Ultimo aggiornamento: 2016/11/06 13:10.


Quello che vedete qui sopra è un tetto ricoperto di pannelli solari fotovoltaici. Dove sono i pannelli? Sono le tegole stesse. Tegole fotovoltaiche che sembrano tegole normali, ma rivestono il tetto e generano energia elettrica. Sono l’ultima trovata di Elon Musk, che le ha presentate il 28 ottobre scorso usando come ambientazione il set di Desperate Housewives.

L’idea, col senno di poi, è banalmente semplice: invece di avere pannelli fotovoltaici sopra il tetto, con un conseguente costo aggiuntivo rispetto al tetto tradizionale e con un impatto estetico spesso intollerabile, l’impianto fotovoltaico sostituisce il rivestimento del tetto, evitando il costo delle tegole normali, e non si vede perché è mimetizzato. Per quel che ne so, Musk non è il primo a proporre qualcosa del genere, ma è il primo a proporlo su vasta scala e con la forza economica di un’azienda internazionale.

Questo dettaglio è puramente estetico, ma ha un’importanza enorme: immaginate per esempio i tetti dei centri storici d’Italia ricoperti di pannelli fotovoltaici tradizionali, neri e stridenti, e poi immaginateli rivestiti di tegole come queste. Al posto di una bruttura che verrebbe vietata da qualunque amministrazione che ha almeno un neurone funzionante verrebbe sostituita da un’innovazione discreta e invisibile che converte l’enorme superficie dei tetti delle città in grandi collettori di energia solare, da accumulare in batterie domestiche (le Tesla Powerwall) e usare di notte, anche per ricaricare l’auto elettrica (ovviamente una Tesla).

Tutto dipende dai costi e dalle efficienze di queste tegole solari (non ancora annunciati). Probabilmente lo sfruttamento di queste superfici non sostituirà da solo completamente il petrolio ma potrebbe evitare per esempio di dover costruire qualche nuova centrale elettrica convenzionale per compensare la transizione dal trasporto a combustibili fossili a quello elettrico.

Come fanno i pannelli solari di Tesla a sembrare normali tegole? Il trucco, una volta rivelato, è semplice: hanno una pellicola superiore trasparente (color louver film) nella quale sono annegate verticalmente delle sottili lamine colorate, decorate a piacimento in vari stili. Quando la tegola viene vista dalla strada, si vedono solo le fiancate di queste lamine, per cui si ha l’effetto di una superficie continua decorata; quando si guarda la tegola di piatto, da sopra, le lamine sono invisibili e si vede la cella fotovoltaica, che può essere quindi raggiunta dalla luce.

Musk ha dimostrato molto eloquentemente l’effetto: ecco la tegola fotovoltaica vista dall’alto (come la vede il sole)...



...ed ecco la stessa tegola vista di sbieco (come la vedono i passanti):



Sottolineo che prestazioni e costi non sono ancora stati annunciati (tranne per il gruppo batterie, che costa 5500 dollari compreso l’inverter, ossia molto meno della concorrenza in termini di costo per kWh e regge 14 kWh in accumulo e 7kW in erogazione), per cui è opportuna una buona dose di cautela, ma l’idea di base c’è, e uno degli ostacoli non tecnologici ma pratici, ossia l’impatto estetico, sembra risolto.

Non sarà ovviamente una soluzione per tutti, ma molte situazioni abitative che prima non avrebbero potuto installare un impianto fotovoltaico per motivi di costo e di permessi municipali ora possono farlo (penso, per esempio, al recupero di località montane e di case isolate che oggi sarebbe improponibile elettrificare portandovi una linea tradizionale).

Per tutti i dettagli c’è il video della presentazione di Elon Musk qui sotto e c'è la sezione apposita del sito di Tesla.




Fonti aggiuntive: Teslarati, Electrek, Electrek.

2016/06/03

Perché i computer vanno spenti e riaccesi e gli smartphone no?

Rispondo a una domanda di Veronica, un’ascoltatrice del Disinformatico radiofonico: smartphone, spegnerlo sì o no? Ogni quanto?

Tralasciando gli spegnimenti imposti dal galateo e dalla sicurezza (per esempio dal dentista, ai funerali, o nei luoghi con apparati sensibili ai disturbi), gli smartphone sono in effetti dei computer a forma di telefono, ma mentre nel caso dei computer tradizionali solitamente si raccomanda di spegnere la sera e riaccendere la mattina, questo consiglio non c’è per gli smartphone.

La ragione principale di questa raccomandazione è che i computer consumano una quantità significativa di corrente anche mentre sono in standby, per cui lasciarli accesi per tutte le ore della notte incide sulla bolletta; uno smartphone, invece, consuma molto meno e quindi tenerlo acceso non pesa granché sui costi elettrici. Fra l’altro, si può risparmiare qualcosina prendendo l’abitudine di scollegare il caricabatterie dalla presa di corrente, perché questi dispositivi consumano corrente anche quando non stanno caricando uno smartphone.

Spegnere il telefonino (o metterlo in modalità aereo, se lo usate come sveglia) consente però di allungare la vita della batteria, che ha un numero limitato di cicli di carica e scarica completa (circa 500 nel migliore dei casi), per cui se si riducono o azzerano i suoi consumi di notte si rinvia la spesa del cambio di batteria.

Sul versante software, è prassi comune riavviare i computer per ripulire la memoria non liberata dalle applicazioni, ma i sistemi operativi di oggi (sia OS X o Windows per computer, sia iOS o Android per smartphone) sono piuttosto efficienti nel gestire la memoria e quindi il riavvio serve a poco: è molto meglio andare a fare pulizia delle cache delle singole applicazioni e liberare memoria, cosa che si può fare senza riavviare.

Un'altra ragione per spegnere il telefonino è ricalibrare il contatore della batteria. Ogni tanto, più o meno una volta l’anno, conviene lasciare che la batteria si scarichi completamente, fino a spegnere lo smartphone, e poi ricaricarla completamente. In questo modo il contatore sa quanta carica ha realmente la batteria e sa stimarne meglio la durata.

Fonti aggiuntive: Time.

2013/05/22

E-Cat, i nuovi test “indipendenti” non sono né test né indipendenti

Questo articolo vi arriva grazie alla gentile donazione di “rheticus” ed è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale.

“Fusione nucleare fredda: un italiano ce l'ha fatta” annuncia trionfante Valerio Porcu su Tomshw.it. L'E-Cat di Andrea Rossi sarebbe stato sottoposto a “test indipendenti” che forniscono “prove... firmate da scienziati che così rischiano reputazione e carriera”. Addirittura l'apparato sarebbe “in grado di autoalimentarsi”. Il titolo così sicuro, però, stride con un'altra frase: “non si può dire per certo che sia tutto vero”.

L'impressione che si ha dall'annuncio (e da un articolo su Forbes) è che il controverso apparato sia stato finalmente esaminato diligentemente da esperti indipendenti e che abbia dimostrato inoppugnabilmente di generare più energia di quanta ne serve per attivarlo. Ma i fatti raccontano una storia ben diversa.

L'articolo tecnico Indication of anomalous heat energy production in a reactor device containing hydrogen loaded nickel powder (Arxiv.org), che fornisce i dettagli dei test in questione, descrive un metodo di misurazione dell'energia emessa decisamente indiretto e a dir poco stravagante, stracolmo di stime e approssimazioni in molti casi arbitrarie.

Prima di leggere l'articolo viene spontaneo immaginare due apparecchi di misura identici, uno in ingresso e uno in uscita, e un semplice calcolo per sottrazione: ma emerge che non è stato usato nulla del genere. C'è invece un complicatissimo sistema basato sull'osservazione del calore emesso, dal quale si deduce poi (con mille approssimazioni) l'energia corrispondente. Perché? L'impressione è che si sia scelto un metodo inutilmente complicato per confondere e abbagliare con grafici e tabelle a profusione.

Inoltre, come osserva New Energy Times, “gli autori [dell'articolo citato sopra] non hanno svolto un test indipendente; hanno invece partecipato a un'altra dimostrazione di Rossi e svolto misure su uno dei dispositivi di Rossi presso i suoi stabilimenti... Gli autori non hanno piena conoscenza del tipo e della preparazione dei materiali usati nel reattore e della modulazione della potenza in ingresso”.

Già. Nei “test indipendenti” una parte cruciale dell'apparato da testare era impossibile da esaminare: l'alimentazione, per esempio, era “montata dentro una scatola il cui contenuto non era ispezionabile in quanto facente parte del segreto industriale” (“mounted within a box, the contents of which were not available for inspection, inasmuch as they are part of the industrial trade secret.”). Un alimentatore non ispezionabile? In un apparato che secondo il suo inventore produce energia in modo rivoluzionario?

E c'è sempre la questione del misterioso additivo magico, il “catalizzatore” che è un altro “segreto industriale”, come lo è la “forma d'onda” usata per modulare la potenza in ingresso (“modulate input power with an industrial trade secret waveform”). Se tre dei componenti chiave dell'esperimento sono ignoti e inaccessibili agli sperimentatori, e quindi potenzialmente suscettibili di ogni sorta di manipolazione, non si può parlare seriamente di test indipendenti.

Per chi obietterà che Rossi ha il diritto di difendere il segreto sulla propria scoperta, ricordo che in tal caso ho il diritto di considerare il suo prodotto – come quello di chiunque altro annunci miracoli non ispezionabili – una bufala fino a prova contraria. Datemi una sola buona ragione per la quale dovrei fidarmi ciecamente invece di pretendere prove concrete.

Se Rossi volesse davvero fare luce sul suo misterioso ritrovato, potrebbe divulgarne i dettagli al mondo e intascarsi in men che non si dica un paio di premi Nobel per la scoperta del millennio, vivendo ricco e onorato per sempre. Se non lo fa, il dubbio che ci sia qualcosa di non limpido, visti i tantissimi precedenti truffaldini in questo campo così emotivamente sensibile, è perlomeno legittimo. Per non dire doveroso.

In altre parole, la presunta produzione di energia in eccesso da parte dell'E-Cat è “dimostrata” soltanto nel senso più goliardicamente generoso del termine, ossia tanto quanto un illusionista “dimostra” di segare una donna in due. Siamo ben lontani da dimostrazioni robuste e trasparenti, per cui vale anche per questi nuovi test fumosi la regola di sempre: se non si fa totale chiarezza, E-Cat ci cova.

2011/11/06

E-Cat, cauto ottimismo, cauto scetticismo

L'articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale. Ultimo aggiornamento: 2011/11/07.

Il 28 ottobre scorso a Bologna si è svolta una dimostrazione di un sistema E-Cat. Secondo i testimoni, l'apparato ha “funzionato continuamente per 5,5 ore producendo 479 kW” in media (2635 kWh totali) in modalità autonoma (autosostenuta) consumando piccole quantità di nichel e di idrogeno, senza inquinare e senza produrre scorie radioattive.

Se fosse vero, sarebbe una fonte di energia pulita che rivoluzionerebbe l'umanità. Proprio per questo bisogna essere molto cauti e severi nell'esigere conferme indipendenti e rigorose, che però finora non ci sono state: anzi, i dettagli del funzionamento e della struttura dell'apparato non vengono divulgati. Inoltre non è la prima volta che qualcuno annuncia di aver scoperto fonti energetiche altrettanto miracolose. Per cui, sulla base delle brutte esperienze del passato, resto cautamente scettico.

Sono scettico soprattutto perché c'è un dettaglio che mi rode. Magari ha una spiegazione logica, ma nel clima di reticenza e segretezza che circonda l'E-Cat mi suona sospetto. Il dettaglio è questo: il processo di generazione d'energia è stato innescato da un grosso generatore tradizionale, che però poi è rimasto acceso e collegato all'apparato E-Cat. Perché?

Ho letto i resoconti di alcuni dei presenti, nelle quali le spiegazioni di questo generatore sono perlomeno lacunose. La stima della potenza del generatore è di uno dei testimoni, Sterling D. Allan di Pure Energy Systems, in questo articolo, che include vari video. Daniele Passerini, su 22passi, dice che c'era un “gruppo elettrogeno da (mi è stato detto) 350 kW”.

Scrive inoltre Allan:

“L'energia per l'avvio (bobine resistive che fornivano calore alle camere di reazione) è stata fornita da un grande e rumoroso generatore (è quello che causa tutto il rumore) che si vede ed è grande quasi quanto il piccolo container nel quale era collocato l'impianto E-Cat da 1 MW. Una volta che le camere di reazione sono arrivate in temperatura, sono state mantenute dal calore prodotto dalla reazione. Non sono sicuro del motivo per cui hanno tenuto in funzione il generatore da quel momento in poi, ma ipotizzo che fosse per riserva o sicurezza. Sono certo che i tecnici che collaudavano il sistema si sono assicurati di quali fossero in ogni momento i livelli di potenza.”

“Ipotizzo”? “Sono certo che i tecnici...”? È un resoconto nel quale la fiducia è concessa, a mio avviso, un po' troppo disinvoltamente e i controlli scarseggiano. Allan, rendendosi conto esplicitamente che la presenza del generatore “apparentemente connesso all'E-Cat con dei cavi” è un facile appiglio per gli scettici, ribatte così:

“È il cliente che dev'essere contento, e a quanto pare questo cliente era soddisfatto che quei cavi non contribuivano all'erogazione di 470 kW durante la modalità autoalimentata.”

C'era, infatti, un misterioso cliente che ha effettuato dei test di cui non si sa nulla (né del cliente, né dei test). Ma la sua soddisfazione è pura ipotesi (“a quanto pare”). I dati dell'esperimento, inoltre, non sono stati verificati indipendentemente dagli ospiti presenti: sono stati forniti dal supervisore del cliente, come spiega un altro dei presenti, Mats Lewan di Ny Teknik, qui:

“Né Ny Teknik né altri ospiti hanno avuto alcuna possibilità di verificare le misure effettuate. Gli invitati hanno potuto soltanto osservare l'impianto in funzione per alcuni brevi istanti.”

Il rapporto sui risultati è scritto in un inglese davvero scarso e con uno stile non molto professionale. Inoltre nell'abbondanza di dati manca ogni indicazione della potenza del generatore d'innesco e del motivo per il quale è rimasto acceso. Forse non è nulla, ma in questo clima di misteri suona strano.

Vorrei tanto che si trattasse davvero di una scoperta rivoluzionaria, perché ne abbiamo davvero bisogno, e mi auguro che il mio scetticismo venga smentito. Ma questo non è un modo credibile di presentare al mondo un'invenzione tanto straordinaria.

Suvvia: staccate il generatore, appendete l'E-Cat a una gru e fatelo funzionare sotto il controllo di esperti che abbiano pieno accesso. E fra gli esperti assicuratevi che ci sia un prestigiatore pratico di sedicenti macchine per il moto perpetuo, come James Randi. Allora l'E-Cat comincerà a essere credibile.


Aggiornamento 2011/11/07


Un lettore, Marco, mi segnala una risposta che Andrea Rossi, uno dei responsabili del progetto E-Cat, avrebbe dato nel suo blog (però trovo solo questa citazione su Greenme.it): “Il generatore di corrente ha una potenza di 300 kW ed è stato utilizzato non solo per alimentare le resistenze dei reattori prima di arrivare alla modalità autosufficienti, ma anche per alimentare i motori elettrici accessori: le pompe d'acqua e i dissipatori di calore e questo è il motivo per cui il generatore di corrente è stato acceso anche durante la modalità auto-sostenuta dei reattori”. Non è chiaro quanti di quei 300 kW di potenza massima siano stati usati. Però a questo punto sembra che l'impianto E-Cat debba includere anche un generatore da 300 kW, che inquina e contribuisce parecchio ai 479 kW erogati.

In teoria, se comunque l'E-Cat genera più energia di quanta se ne immette, potrebbe autoalimentarsi e fare a meno del generatore da 300 kW una volta a regime. Per sciogliere il dubbio di apporti d'energia occulti, bisognerebbe che l'E-Cat si autoalimentasse completamente. Così, oltretutto, sapremmo se dopo essersi autoalimentato avanza ancora dell'energia sfruttabile.

2011/06/23

E-Cat, dieci mesi per capire

Questo articolo vi arriva grazie alle gentili donazioni di “gianni.tom*” e “cp” ed è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale.

Seguo ormai da parecchio tempo la vicenda intrigante dell'E-Cat, il dispositivo realizzato da un gruppo di inventori italiani che parrebbe generare energia tramite una reazione nucleare pulita. Ha tutti gli ingredienti che inducono alla massima prudenza: una promessa straordinaria, un'apparente contraddizione delle conoscenze scientifiche attuali, poca trasparenza sui dati tecnici, toni accesi, scambi di accuse, polemiche e tifoserie accanite.

Purtroppo il campo delle energie generate in modo "miracoloso" è pieno di abbagli e imbrogli dai quali è indispensabile tutelarsi. Sperando che il miracolo stavolta ci sia davvero, perché ne abbiamo molto bisogno, dobbiamo però pretendere verifiche e conferme accurate ed imparziali prima di accettare i risultati apparentemente straordinari dell'E-Cat. È inutile sbilanciarsi – e imprudente aprire il portafogli – fino a quel momento.

Oggi è stata pubblicata su Query un'intervista al ricercatore Giuseppe Levi che contiene molti link utili e nella quale Levi dice che ci vorranno da sei a dieci mesi prima di poter emettere un rapporto completo sul funzionamento dell'E-Cat. Un tempo che stride molto con gli annunci dell'avvio in Grecia, entro questo novembre, della prima piccola centrale energetica (1 MW) basata su questa nuova tecnologia attribuita ad Andrea Rossi e al fisico Sergio Focardi.

È facile, in casi come questi, perdersi nei dettagli tecnici, nelle cataste di articoli e documenti e nelle polemiche sui metodi di misura, ma mi sembra ragionevole pensare che ci sia un modo molto semplice per capire se l'E-Cat funziona o è una bufala, senza costringere i suoi inventori a rivelare segreti industriali o altro, ed è lo stesso usato per tutti coloro che propongono dispositivi che sembrano generare energia dal nulla.

Il metodo è questo: si prende un E-Cat e lo si fa funzionare per qualche giorno (una settimana, per esempio) sotto stretta sorveglianza indipendente di ogni possibile via di apporto di energia. Il dispositivo in sé non ha bisogno di essere ispezionato: basta che sia isolato da qualunque cosa possa essere usata per alimentarlo di nascosto e che l'energia in uscita sia tale da precludere l'uso di batterie o altre riserve di energia nascoste all'interno del dispositivo (il megawatt promesso in Grecia, per esempio, sarebbe difficile da generare per una settimana di fila usando batterie nascoste o simili). Se alla fine l'aggeggio avrà generato più energia di quanta ne sia stata immessa per la sua gestione (e sarà stato possibile verificare che non ne sia stata immessa altra di nascosto), vorrà dire che funziona. Come funzioni di preciso lo si potrà discutere in seguito: ma prima occorre questa semplice dimostrazione.

Tutto qui: se funziona, è scienza; se non funziona, è una bufala. Se non viene dimostrato che funziona, in un campo così delicato e promettente bisogna presumere la bufala fino a schiacciante prova contraria. Le posizioni fideistiche, i sondaggi sul "credere" o meno all'invenzione di Rossi e Focardi, le teorie di complotto su presunti insabbiamenti da parte delle multinazionali del petrolio, sono stupide e inutili. Contano i fatti.

Per chi fosse interessato all'argomento e si fosse lasciato convincere dal fatto che l'E-Cat è stato brevettato, ricordo che un brevetto non garantisce di per sé che l'invenzione funzioni. Inoltre segnalo che la domanda di brevetto PCT/IT2008/00532, riguardante il dispositivo, fu respinta per insufficiente chiarezza nel descrivere l'invenzione in modo da consentire a un esperto del settore di riprodurla e per mancanza di prove di produzione di energia. Contiene, però, un'affermazione molto interessante: un esemplare del dispositivo sarebbe stato installato a ottobre 2007 presso la società EON (via Carlo Ragazzi 18, Bondeno, provincia di Ferrara; da non confondere con la E.ON) e funzionerebbe perfettamente “24 ore al giorno” fornendo “una quantità di calore sufficiente a riscaldare lo stabilimento”. Provo a investigare. Qualcuno ne sa di più?

Il brevetto italiano 0001387256, i cui estremi sono riportati qui presso l'Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, non è consultabile online, ma è pubblicamente accessibile e richiedibile seguendo questa procedura. L'iter del brevetto europeo EP2259998, con le annesse contestazioni da parte di terzi, è disponibile qui presso l'Ufficio Brevetti Europeo. Un elenco più dettagliato dei vari documenti brevettuali sull'E-Cat è in questo articolo di Nyteknik.se (in inglese).

Per trasparenza, mi sento in dovere di precisare che alcuni anni fa sono stato collaboratore di una delle società coinvolte in questa vicenda. Non ho comunque avuto accesso privilegiato ai documenti riguardanti l'E-Cat.

Nulla mi farebbe più contento di scoprire una soluzione pulita e compatta ai problemi energetici che ci assillano. Ma l'esperienza insegna che se una cosa sembra troppo bella per essere vera, spesso non è vera. Aspettiamo quindi la dimostrazione. Anzi, pretendiamola.
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