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Il Disinformatico: ambiente

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2023/03/06

Il Master Plan 3 di Tesla fra delusioni e novità seminascoste, stasera alle 19 su YouTube

Ultimo aggiornamento: 2023/03/06 12:55.

Questa sera alle 19 ora italiana sarò ospite di Tesla Owners Italia, su YouTube, per due chiacchiere in libertà con Carlo Bellati, Luca Del Bo e Daniele Invernizzi sulla recente presentazione del cosiddetto Master Plan 3 di Tesla nel corso dell’Investor Day, che ha deluso chi si aspettava grandi annunci ma contiene dati molto interessanti, alcune novità intriganti e soprattutto una parola che è raro sentire di questi tempi: speranza. Se vi interessa, le slide della presentazione sono qui; l’embed di stasera è qui sotto.

Questa, invece, è la lunga registrazione della presentazione di Tesla, già posizionata sul momento di inizio, saltando l’ormai immancabile ritardo.

2022/07/24

Serve troppa energia per le auto elettriche? Ecco come dimezzarla, con auto da oltre 1000 km di autonomia che consumano la metà delle attuali

Ultimo aggiornamento: 2022/11/06 11:10.

Una delle critiche più frequenti alla mobilità elettrica è che non ci sia energia elettrica sufficiente per caricare milioni di automobili. Le analisi degli esperti dicono che non è così, perché la percorrenza media giornaliera è ben sotto i 40 chilometri e quindi i kWh necessari ogni giorno sono una manciata abbastanza facile da gestire con una carica lenta diurna o notturna; gli ammodernamenti progressivi della rete elettrica che verranno fatti nei decenni che ci vorranno per rimpiazzare tutte le auto a carburante saranno all’altezza della situazione, a detta degli addetti ai lavori, se ci si rimbocca le maniche invece di proclamare che ogni cambiamento è impossibile.

Ma in momenti come questo, in cui la generazione di energia elettrica è azzoppata dalla scarsità d’acqua (necessaria per raffreddare le centrali elettriche nucleari, a combustibili fossili e idroelettriche) e la Russia minaccia di tagliare le forniture di gas per bullismo geopolitico, è comprensibile che ci si preoccupi che la transizione alla mobilità elettrica sia un passo troppo difficile da fare.

Quello che spesso non si considera in questa preoccupazione, però, è che invece di costruire nuove centrali per caricare le automobili elettriche si possono ridurre i consumi di queste auto. E si possono ridurre tantissimo.

Ridurre i consumi dei veicoli elettrici significa che il loro fabbisogno energetico diventa minore, che è già una buona cosa, ma significa anche che i loro costi operativi diminuiscono, rendendo le auto elettriche ancora più convenienti rispetto ai veicoli a carburante (già ora caricare un’elettrica costa un quarto di quello che costa fare gli stessi chilometri con un’auto tradizionale; immaginate quanto diventa attraente e conveniente un’auto che costa sei-otto volte meno da rifornire).

Non solo: auto che consumano meno si ricaricano più in fretta, riducendo le attese alla colonnina, e hanno bisogno di batterie più piccole a parità di autonomia, per cui riducono anche il fabbisogno di materiali e l’impatto ambientale (oppure rendono possibili grandissime autonomie usando le batterie attuali). C’è insomma una sorta di effetto valanga positivo.

Il 90% di risparmio al chilometro, 1200 km di autonomia elettrica e la possibilità di caricare semplicemente parcheggiando l’auto al sole vi interessano? Sono risultati già fattibili adesso, con la tecnologia attuale, a patto di ripensare a fondo il concetto di automobile e di allontanarsi dalla mania attuale di costruire veicoli inutilmente enormi che hanno l’aerodinamica di una lavastoviglie. Non va dimenticato, infatti, che a velocità autostradali gran parte dell’energia viene consumata per fendere l’aria. Pretendere di farlo con le forme ipertrofiche e squadrate che vanno così tanto di moda adesso è una follia.

Vi propongo una rassegna di alcuni esempi di quello che si sta facendo nella ricerca e che si fa concretamente, con veicoli che si possono acquistare già adesso. Le tecniche usate per ottenere questi risultati non sono fantascienza: sono, fondamentalmente, ottimizzazioni dei motori e dei materiali, riduzione dei pesi e forme aerodinamiche più efficienti. Nulla che non si possa fabbricare su vasta scala, insomma.

Mercedes Vision EQXX

Una casa automobilistica estremamente tradizionale come Mercedes ha realizzato un prototipo di auto puramente elettrica che fa 1200 km con una carica e consuma 8,7 kWh/100 km (11,25 km/kWh). Per fare un confronto, un’auto elettrica attuale consuma oltre il doppio. La mia Tesla Model S, per esempio,  a velocità autostradali consuma 18-20 kWh/100 km, ossia fa da 5 a 6 km con un kWh. Questa Mercedes fa più del doppio della strada con gli stessi kWh.

L’auto, una berlina a quattro posti lunga 4,97 metri, ottiene questo risultato usando varie soluzioni. Ha un motore singolo invece dei due montati su molte auto elettriche attuali, e questo aiuta a ridurre il peso (che è di 1700 kg, di cui 488 kg sono costituiti dalla batteria da 100 kWh, che è a raffreddamento passivo per ridurne la massa ed evitare il consumo energetico di pompe e ventole); ha un impianto di climatizzazione ultraleggero e alimentato dal pannello fotovoltaico sul tetto, in modo da non incidere sulla batteria primaria; monta pneumatici a bassa resistenza al rotolamento e cerchi lenticolari per ridurre la turbolenza prodotta dal passaruota; e ha un’aerodinamica efficientissima (Cd 0,17), alla quale contribuisce uno spoiler posteriore retrattile, che cambia la forma del retro dell’auto allungandola quando è in movimento, in modo da farle assumere una sagoma più vicina a quella ideale. Su Ars Technica trovate una dettagliata recensione con altre informazioni tecniche.

Sorprendentemente, quest’auto non usa telecamere al posto degli specchietti retrovisori esterni, come fanno altre auto (Audi Etron, per esempio) per ridurre la resistenza aerodinamica. Secondo Mercedes, infatti, il consumo di energia delle telecamere e soprattutto degli schermi interni che mostrano le immagini delle telecamere laterali vanifica buona parte del loro beneficio aerodinamico; Mercedes ha scelto quindi di installare specchietti tradizionali ma meno grandi di quelli comunemente usati oggi. Anche il grande schermo del cruscotto si accende solo quando serve, sempre per ridurre i consumi.

La EQXX ha fatto vari viaggi dimostrativi su strade normali: per esempio, è andata con una singola carica da Stoccarda a Cassis (in Francia, 1008 km). Con un’altra singola carica ha anche viaggiato da Stoccarda a Silverstone, percorrendo 1202 km in 14 ore e 30 minuti (media di 83 km/h), ed è avanzata carica per una decina di giri in pista a 140 km/h.

Intendiamoci: questo è un veicolo sperimentale che probabilmente non verrà mai realizzato in serie e se lo fosse avrebbe un prezzo di listino astronomico. Ma è una dimostrazione concreta, tangibile, di quello che si può fare. Una volta dimostrata la loro fattibilità, le innovazioni tendono a essere introdotte anche sui veicoli di massa. Airbag, ABS, barre anti-intrusione, accensione elettronica, per esempio, sono tutte tecnologie nate in fascia alta e poi portate nelle auto normali.

Lightyear 0

Questa auto elettrica iperefficiente a 5 posti, da oltre 1000 km di autonomia, è invece acquistabile, anche se il prezzo è da capogiro: 250.000 dollari (parte dell’importo serve a finanziare lo sviluppo del modello successivo, che sarà a basso costo; questo è un veicolo a tiratura limitata di circa mille esemplari).

Ruote posteriori carenate, forma a goccia, quattro motori integrati nelle ruote (quindi niente peso e inefficienza del differenziale), telecamere al posto degli specchietti e cerchi lenticolari contribuiscono a portare quest’auto a 7,8 kWh/100 km o 12,8 km/kWh, ossia a consumi ancora inferiori a quelli della Mercedes EQXX.

Inoltre la Lightyear 0 si caratterizza per una superficie enorme di pannelli fotovoltaici, che caricano la batteria relativamente piccola (60 kWh, ricaricabile dal 10 all'80% in mezz'ora) anche mentre l’auto è in movimento. Normalmente i pannelli installati sulle auto sono una perdita di tempo, perché non generano energia in quantità significative per la propulsione, ma quest’auto è iperefficiente, appunto, per cui quel poco di energia che i pannelli producono viene sfruttata due volte meglio del normale, e in più la superficie dei pannelli è ben più grande della norma (5 metri quadrati): una buona giornata di sole consente di caricare (gratis) da 5 a 6 kWh, ossia una settantina di chilometri di autonomia, che è più della percorrenza media giornaliera. Il che significa che se viene parcheggiata all’aperto, è raro che debba mai caricare alla colonnina. Addio problemi di chi non ha un posto auto da dotare di presa di ricarica e di mancanza di colonnine. Si va in ufficio, si parcheggia l’auto all’aperto e la si lascia lì a caricare, gratis e senza bisogno di prese o colonnine o altro.

L’auto è lunga cinque metri e larga 1,9, e la sua forma allungata le conferisce un Cd di 0,19. I pesi vengono ridotti usando una carrozzeria in fibra di carbonio, che la portano a 1575 kg. Nel video qui sotto si vede un modello di preproduzione.

Le specifiche tecniche del modello che verrà messo in vendita sono le seguenti: batteria da 60 kWh, 5 mq di pannelli fotovoltaici che generano fino a 1,05 kW, 10,5 kWh/100 km, 70 km di autonomia ricaricati per giorno di esposizione al sole (10 km per ogni ora di esposizione), Cd inferiore a 0,19, 1575 kd di peso. 640 litri di bagagliaio, carica rapida 520 km/h, carica domestica 32 km/h. La produzione dovrebbe iniziare in Finlandia entro fine 2022. L’auto è già prenotabile e configurabile online; ne verranno prodotti 946 esemplari al prezzo di vendita di 250.000 euro ciascuno.

Aptera

Quando scrivo “ripensare a fondo il concetto di automobile”, però, ho in mente ben più di una forma a berlina molto aerodinamica. Ho in mente forme e soluzioni come quelle di Aptera: carrozzeria veramente a goccia (Cd 0,13), tre ruote per ridurre di un quarto la resistenza al rotolamento, pannelli fotovoltaici per ricaricare anche in movimento, pesi ridottissimi (da 900 a 1100 kg), due motori integrati nelle ruote (tre nella versione top).

Risultato: fino a 1600 km di autonomia nella versione con batteria da 100 kWh, vale a dire 16 km/kWh o 6,25 kWh/100 km. Il triplo dell’efficienza di un’auto elettrica normale (che, non va dimenticato, è già enormemente più efficiente di qualunque auto a carburante). Ci sono inoltre fino a 65 km di autonomia gratuita ogni giorno grazie ai pannelli fotovoltaici che generano fino a 700 watt, per cui in molti casi non è mai necessario attaccarla alla rete elettrica per caricarla. Quindi non grava sulla rete elettrica e nemmeno sul portafogli.

Il prezzo è già più abbordabile rispetto ai casi precedenti: si parte da 26.000 dollari per la versione base e si arriva a 50.700 per la versione a massima autonomia. Il veicolo è a due posti, più un bagagliaio usabile ma non eccessivo. Le dimensioni sono ragguardevoli: 4,3 metri di lunghezza e ben 2,23 metri di larghezza.

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Questi veicoli danno un’idea di quanto margine di miglioramento ci sia nell’efficienza dei veicoli senza per questo mortificarne le prestazioni e la fruibilità. E c’è ancora altro margine nelle batterie, con alleggerimenti, composizioni chimiche più efficienti e ottimizzazioni. 

Ovviamente, l’auto che inquina di meno e consuma meno energia in assoluto è comunque quella che non si compra e non si usa, per cui l’efficienza non deve essere una scusa per usare l’auto più di quanto sia realmente necessario o per continuare a soffocare le città con automobili che sono sì pulite ma rimangono assurdamente ingombranti (tutti questi esemplari sfiorano o superano i quattro metri e mezzo); ma la sfida tecnica di fornire energia per la mobilità elettrica di massa sembra meno drammatica di quello che molti pensano.

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Se vi state chiedendo perché questi miglioramenti di efficienza (per esempio quelli aerodinamici, relativamente semplici) non vengono applicati alle auto tradizionali, la risposta è che su un veicolo a carburante non si percepiscono tanto quanto su un’auto elettrica, e quindi c’è poca richiesta: lo si nota da quanti preferiscono correre in autostrada con SUV e simili che hanno un’aerodinamica demenziale, tanto basta mettere un po’ di benzina in più e pagare un po’ di più. Il risultato è che è rarissimo vedere qualcuno che compra un’auto perché consuma poco. Su un’elettrica, invece, l’efficienza maggiore può fare la differenza fra fermarsi mezz’ora o un’ora a caricare oppure arrivare direttamente a destinazione.

 

Ho rimosso i riferimenti alla Sono Sion presenti nella stesura iniziale di questo articolo perché erano dovuti a un mio errore di conversione dei valori di efficienza. Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico) o altri metodi.

2022/01/02

Energy Vault, la “batteria a gravità”: proviamo a ragionarci

Ultimo aggiornamento: 2022/01/03 18:40.

Ad Arbedo-Castione, a una quarantina di chilometri dal Maniero Digitale, c’è l’impianto pilota di Energy Vault. L’idea è semplice e intrigante: un sistema di accumulo di energia basato sul principio di usare la corrente elettrica in eccesso (per esempio quella generata di giorno da pannelli fotovoltaici o di notte dalle centrali termiche) per sollevare e accatastare delle masse e poi calare lentamente queste masse, generando così energia elettrica.

Immagine tratta da questo video di Energy Vault.

Nella transizione alle energie rinnovabili e pulite, i sistemi di accumulo giocano un ruolo indispensabile: fotovoltaico ed eolico, infatti, sono incostanti e hanno quindi bisogno del supporto di un apparato che accumuli energia e la rilasci quando serve.

Il sistema dimostrativo di Energy Vault, che è stato completato a luglio 2020 ed è connesso alla rete elettrica svizzera, è descritto in dettaglio dall’azienda qui: una gru a tre bracci doppi e simmetrici, alta circa 60 metri, solleva e impila grandi masse inerti (da 35 tonnellate ciascuna e 35.000 tonnellate in totale, secondo questo video di Energy Vault, a 00:46 e 1:34) per accumulare energia potenziale e poi cala queste masse per sfruttarne l’energia per produrre elettricità con un’efficienza dichiarata del 90%.

Rispetto a un bacino idroelettrico di pompaggio, che si basa sullo stesso principio di portare a monte una massa per poi farla scendere a valle, questa tecnica ha una compattezza estrema che consente di piazzarla praticamente ovunque e senza richiedere trasformazioni radicali dell’ambiente, come per esempio dighe o altre opere ingegneristiche massicce, che possono rendere impraticabile o socialmente inaccettabile un sistema di accumulo di energia idroelettrico perché modificano il paesaggio, distruggono habitat o obbligano allo spostamento di popolazioni.

Rispetto alle batterie chimiche ad altissima capacità che si stanno sviluppando in vari paesi, come la Hornsdale Power Reserve da 100 MW/129 MWh di Tesla in Australia, già attiva dal 2017, la soluzione di Energy Vault ha il vantaggio di usare masse inerti, quindi prive di qualunque rischio significativo di incendi o inquinamento, di basso costo (addirittura è possibile usare materiali di scarto) e longeve (prive di deterioramento).

Ma ci sono alcune obiezioni interessanti:

  • La massa necessaria va fabbricata, ed è tanta (almeno un migliaio di blocchi per ogni impianto, a giudicare dalle animazioni presentate finora da Energy Vault), e questo ha un impatto ambientale: i blocchi che vengono spostati devono infatti essere durevoli e robusti. Quanto inquinamento si genera nel fabbricarli?
  • I blocchi vengono semplicemente accatastati, senza alcun legame strutturale a parte due perni di incastro alla base di ciascun blocco: quanto è stabile una torre del genere? In caso di eventi sismici, possono esserci delle conseguenze?
  • I blocchi vengono sollevati, accatastati e calati usando lunghe funi: il vento che effetto ha su quello che è in sostanza un enorme pendolo? Sarà possibile accatastare con precisione i blocchi durante le giornate di forte vento? Che succede se un blocco va a sbattere contro la catasta?
  • Quanto pesa la massa complessiva della catasta? 35.000 tonnellate, come dichiarato nel video dell’azienda? Ha bisogno di terreni o fondamenta particolari?

Non ho trovato finora molti dati tecnici precisi sulle caratteristiche di questo impianto. Ogni blocco, secondo Energy Vault, rappresenta “circa 1 MW di energia potenziale” (“each of the bricks representing ~1MW [sic; forse intendevano MWh?] of potential energy”). Secondo quanto riportato da Swissinfo, la torre attuale è alta appunto 60 metri e una torre da 120 metri può accumulare 35 MWh di energia elettrica, sufficienti ad alimentare per otto ore da due a tremila abitazioni.

C’è anche un video di Energy Vault che propone una struttura alternativa: non più a catasta libera ma a griglia. L’Energy Vault Resiliency Center è un edificio relativamente basso e molto ampio contiene i blocchi (da 30 tonnellate ciascuno) e li solleva lungo binari. Questo risolverebbe il problema del vento e della stabilità, ma farebbe aumentare sia i costi della struttura, che dovrebbe sopportare il peso di tutti i blocchi sollevati, sia lo spazio occupato al suolo. Questo video di Energy Vault ne annuncia il deployment iniziale nella seconda metà del 2021 (a 1:53).

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Quanta energia si produce con questa tecnica? Provo a partire dai princìpi di base. Una tonnellata di massa (acqua, ferro, cemento o qualunque altro materiale) alzata di un metro acquisisce un’energia potenziale di 9810 joule, ossia 2,72 Wh. Sì, avete letto bene: meno di tre Wh. Vuol dire che usare un asciugacapelli da 1 kW per un’ora (1 kWh) equivale a sollevare un’utilitaria (diciamo da 1000 kg) per circa 370 metri (se non ho sbagliato i conticini; controllatemeli, per favore).

La formula alla base di questo calcolo è quella classica dell’energia potenziale:

massa (in kg) x 9,81 m/s2 di accelerazione x altezza (in metri) = energia potenziale (in joule).

Semplificando e se non ho perso qualche zero per strada, i 35 MWh dichiarati da Energy Vault per la torre alta 120 metri equivarrebbero a calare da 120 metri d’altezza fino al suolo ben 110.000 tonnellate.

Se ogni blocco pesa 35 tonnellate, come dichiarato dall’azienda, significa dover movimentare circa 3100 di questi blocchi (110.000/35=3142), su distanze fino a 120 metri ciascuno, accelerandoli e frenandoli, nel giro di otto ore: circa 390 blocchi l’ora, ossia circa 7 blocchi al minuto. Con una gru a sei bracci che lavorano contemporaneamente, significa avere meno di un minuto per calare e incastrare con precisione ogni blocco, evitando collisioni all’arrivo. E questo al netto di attriti e inefficienze varie, inevitabili in qualunque meccanismo.

Dico circa 3100 blocchi perché soltanto i blocchi in cima alla catasta avranno il valore massimo di energia potenziale; quelli sottostanti ne avranno progressivamente di meno, man mano che diminuisce la loro altezza dal suolo. Sto sbagliando qualcosa?

A questo punto, però, non capisco come un blocco possa “rappresentare circa 1 MW [sic]. Se si tratta di un refuso al posto di MWh, allora per avere un’energia potenziale di 1 MWh scendendo di 120 metri quel blocco dovrebbe avere una massa di 3100 tonnellate. Chiaramente c’è qualcosa che non torna.

Su suggerimento di un commentatore (grazie pgc) aggiungo un’altra perplessità: ogni blocco da 35 tonnellate che viene calato ha una velocità iniziale zero, poi accelera e infine frena fino ad azzerare la propria velocità. Questo vuol dire che l’erogazione di energia del singolo blocco non è costante ma è fortemente variabile: come farà il sistema a equilibrare tutti questi alti e bassi? Servirà un sistema di recupero dell’energia estremamente flessibile. Che succede se il complesso balletto di blocchi pesanti come un TIR si inceppa per qualunque motivo, tipo un cavo da sostituire o un blocco che dondola nel vento e va stabilizzato? 

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In attesa che qualcuno più bravo di me verifichi questi conticini, va considerato un altro aspetto. Esiste già un materiale a bassissimo impatto ambientale, disponibile in abbondanza, che si può usare (e si usa) per accumulare energia: è l’acqua. Se si scava un bacino sotterraneo (invece di sbarrare una valle con una diga) e lo si riempie d’acqua dotandolo di una condotta forzata in fondo, si crea un accumulo di energia potenziale sfruttabile. Invece di accatastare blocchi di cemento o altri materiali inerti, si solleva l’acqua e la si rimette nel bacino. Questo è il principio delle centrali idroelettriche a ciclo chiuso

Si potrebbe obiettare che l’acqua ha una densità minore di un blocco di materiale solido, per cui viene istintivo pensare che i blocchi di Energy Vault dovrebbero essere molto più compatti di un sistema idroelettrico equivalente: ma un metro cubo d’acqua ha una massa di circa 1000 kg, mentre un metro cubo di cemento ha una massa di circa 2500 kg, per cui in realtà una massa d’acqua equivalente a quella di una torre di Energy Vault ha un volume due volte e mezza maggiore: non dieci o venti volte, ma due e mezza.

Il guadagno in compattezza, insomma, non è sensazionale come si potrebbe invece pensare. Blocchi di materiale più denso migliorerebbero questo rapporto (in ferro sarebbero otto volte più compatti; in piombo oltre undici), ma sarebbero enormemente più costosi.

L’acqua non è soggetta a scheggiature da impatto; non è afflitta da corrosione; non si deteriora per invecchiamento; non ha bisogno di essere accatastata con precisione. Per contro, richiede un recipiente che la contenga e impedisca perdite e infiltrazioni. Quel “recipiente” potrebbe danneggiarsi in caso di eventi sismici, con costi di riparazione potenzialmente altissimi. 

A parte tutto questo, dai dati emerge un fatto spesso trascurato: le masse da spostare per generare tramite gravità l’energia di cui abbiamo bisogno sono enormi. Real Engineering ha pubblicato un bel video (in inglese) dedicato alla centrale a ciclo chiuso di Turlough Hill, in Irlanda, in funzione da oltre 40 anni, che ha un dislivello di 286 metri e un bacino superiore di 2,3 milioni di metri cubi. Quando i suoi quattro generatori da 73 MW sono in funzione al massimo, attraverso le sue condotte scorrono oltre cento tonnellate d’acqua al secondo, e bastano cinque ore e mezza di funzionamento per prosciugare completamente il bacino.

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C’è anche la questione dei costi. Secondo i dati di Energy Vault, ci vuole appunto una torre da 120 metri per avere un accumulo di 35 MWh al costo di circa 9,3 milioni di dollari. La batteria australiana di Hornsdale, da 129 MWh (3,7 volte maggiore), è costata 65 milioni di dollari; un impianto equivalente di Energy Vault ne costerebbe (secondo l’azienda) circa 35 milioni. Sarebbe decisamente conveniente rispetto alle batterie.

Ma se si fa il confronto con il costo di un impianto idroelettrico a ciclo chiuso le cose cambiano parecchio: un grande impianto da 24.000 MWh di accumulo come quello di Bath County, in Virginia, è costato 3,8 miliardi di dollari. Per farne uno analogo con il sistema di Energy Vault servirebbero (stando ai dati dichiarati dall’azienda) 685 torri da 120 metri l’una, al costo complessivo di 6,3 miliardi di dollari: quasi il doppio. C’è dunque un motivo per cui il 95% dell’accumulo energetico mondiale è basato sull’idroelettrico: costa meno.

Sempre stando ai dati di Energy Vault, per alimentare Lugano (67.000 abitanti, 40.700 abitazioni) per otto ore servirebbero grosso modo da tredici a venti torri da 120 metri l’una. 

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Dove sta quindi il vantaggio della soluzione di Energy Vault? Sembra costare meno di un impianto a batterie, ma non sembra scalabile. È più modulare e adatto ai piccoli impianti? Rende più facile ottenere approvazioni e permessi rispetto a un bacino idroelettrico sotterraneo? Come si risolvono le obiezioni tecniche? 

Ne avevamo discusso informalmente nei commenti a questo articolo a ottobre scorso: proviamo a parlarne in dettaglio nei commenti qui sotto, sulla scorta dei dati tecnici che ho raccolto. Ho contattato l’azienda per chiedere un commento pubblicabile. 

Trovate analisi dettagliate in questo articolo su Quartz (2018, in inglese)

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2021/10/31

Domande di scienza: cosa può far aumentare la CO2 in una stanza chiusa?

Ultimo aggiornamento: 2021/11/01 15:10.

C’è un mistero che non riesco a risolvere da un po’ di tempo, per cui chiedo aiuto al Cervello Collettivo.

Tempo fa ho acquistato un paio di sensori di CO2 (questi) per monitorare la qualità dell’aria al Maniero Digitale. Il loro semaforino, che diventa giallo oltre le 800 ppm e rosso oltre 1200 ppm, mi ha aiutato molto a ventilare correttamente le stanze. Ma ho una camera nella quale succede qualcosa di misterioso: la CO2 aumenta senza che nessuno entri nella stanza. L’ho notato diverse volte e non riesco a darmene una spiegazione. Preciso subito che non succede solo a Halloween.

Così oggi ho fatto un esperimento formale: ho portato nella camera entrambi i sensori (per escludere un malfunzionamento del sensore), ho cambiato l’aria aprendo la porta-finestra fino a raggiungere una concentrazione di CO2 pari a 420 ppm (la media mondiale attuale e quella che ho abitualmente all’aria aperta qui al Maniero), e ho richiuso la porta e la porta-finestra. 

Vorrei chiarire che non si tratta di un quiz a trabocchetto: davvero non ho idea di quale sia la soluzione. 

Fornisco qualche dato per rispondere preventivamente alle domande più logiche:

  • Nessuno è entrato per tutta la durata dell’esperimento, a parte me per qualche istante per fare le foto ai sensori, richiudendo subito la porta.
  • Non ci sono piante o animali nella stanza. 
  • La porta e la finestra sono rimaste tassativamente chiuse.
  • Sono certo che nessuno, né umano né animale, è entrato a parte me (ho dato istruzioni precise in casa).
  • Non ci sono termosifoni (a parte le serpentine sottopavimento, che comunque sono spente).
  • Non ci sono apparecchi elettrici a parte un Apple TV e un televisore (è una camera da letto).
  • Non ci sono bicchieri o bottiglie di acqua o altre bibite gassate nella stanza.
  • Anche la temperatura cambia, ma questo è inevitabile fra giorno e notte.

Eppure i dati sono questi:

  • 15:13 (inizio esperimento): 403 - 420 ppm
  • 15:31 449 - 472 ppm
  • 20:56 584 - 603 ppm
  • 21:43 627 - 637 ppm
  • 22:44 643 - 654 ppm
  • 23:25 (sensori ad altezze differenti) 651 ppm (per terra) - 656 ppm (a 1,5 m)
  • 23:55 (cambiato l’aria; sensori ad altezze differenti) 407 ppm (per terra) - 438 ppm (a 1,5 m)

Queste sono le foto delle prime cinque raccolte di dati:




 

Qualcuno ha qualche teoria o spiegazione? Qualche ulteriore test da fare? Ho già in mente di migliorare l’esperimento usando una webcam in modo da non aprire mai la porta e non entrare nella stanza. 

---

22:50. La prima ipotesi è già arrivata via Twitter: “La CO2 che, inizialmente è uniformemente distribuita, si accumula negli strati più bassi della stanza.” (Paolo Sanna). Che ne pensate? 

Intanto ho aggiunto un altro rilevamento (quello delle 22:44) e per mettere alla prova l’ipotesi del deposito ho piazzato un sensore (quello che rileva i valore più alto) a un metro e mezzo di altezza (il massimo consentito dal cavo) e un altro per terra. Vediamo che succede tra poco.

---

23.25. Il sensore per terra misura 651 ppm, quello a 1,5 m misura 656 ppm. ho collocato in alto quello che segnava sistematicamente un valore più alto. Per stasera sospendo l’esperimento. Ho cambiato l’aria nella stanza e ora il sensore per terra rileva 407 ppm e quello a 1,5 m rileva 438 ppm. Come prova successiva potrei piazzare un ventilatore per rimescolare l’aria e impedire la stratificazione dei gas.

---

2021/11/01 23:45. Seguendo i vostri suggerimenti ho portato entrambi i sensori in ufficio, sulla scrivania, dove li posso tenere d’occhio. Uno l’ho sigillato dentro un sacchetto trasparente Ziploc, di cui ho chiuso l’imboccatura con l’apposita chiusura, avendo cura di sigillare con il nastro adesivo la porzione aperta intorno al filo di alimentazione; l’altro sensore è all’aria aperta. L’ufficio è un ambiente aperto che comunica con il resto del Maniero; la porta è sempre aperta.

Al momento in cui ho iniziato il test (le 23:40), con le finestre chiuse da qualche ora e due persone e una gatta nella stanza, quello sigillato segnava 638 ppm e quello non sigillato segnava 631 ppm. Ho poi aperto la porta-finestra dell’ufficio per far entrare uno spiffero d’aria esterna. Ora segnano rispettivamente 627 e 600 ppm.


 I dati (prima il sensore sigillato, poi quello non sigillato):

  • 23:40 638; 631
  • 23:50 627; 600
  • 00:00 624; 612 (ho richiuso la porta-finestra; ora sono da solo in ufficio)
  • 00:20 623; 638
  • 00:30 632; 645
  • 00:40 638; 643
  • 00:50 642; 645 (sono andato a dormire e l’ufficio è rimasto vuoto)
  • 07:20 493; 483 (sono tornato in ufficio)
  • 07:30 497; 496 (ho aperto la porta-finestra per cambiare l’aria per una decina di minuti)
  • 08:30 490; 483
  • 08:45 485; 474
  • 09:15 500; 575 (da qui in avanti siamo in due in ufficio, più la gatta)
  • 09:30 506; 577
  • 10:00 544; 636
  • 10:30 581; 656
  • 11:30 615; 636
  • 13:30 680; 744 (e qui sospendo l’esperimento in ufficio)

La temperatura è stabile intorno ai 23 gradi (ho il riscaldamento al minimo). Aggiungo anche le dimensioni della camera da letto, quella dove avviene il fenomeno misterioso: 4,8 x 3,6 m di pianta, altezza del soffitto variabile da 2,70 a 4 m.

C’è un’altra stanza del Maniero, situata allo stesso piano della Camera del Mistero, che posso lasciare chiusa a lungo. Ci installerò una webcam e i due sensori (uno chiuso dentro un sacchetto sigillato e alimentato da un powerbank) per vedere cosa succede lì.

2021/09/23

Quanto dura uno smartphone? Il problema degli aggiornamenti software. Provo un iPhone ricondizionato ancora aggiornabile

L’uscita di iOS 15 il 20 settembre scorso pone il solito problema degli aggiornamenti e dell’obsolescenza degli smartphone. Uno smartphone non più aggiornabile è un rischio di sicurezza, ma comprare un dispositivo nuovo ha un costo non trascurabile, per cui molti tengono lo smartphone che hanno, senza aggiornarlo, e si espongono quindi a pericoli.

C’è però un’alternativa: comperare uno smartphone non nuovo ma ancora supportato per quanto riguarda gli aggiornamenti. Esistono aziende che offrono smartphone ricondizionati non recentissimi ma supportati e lo fanno a prezzi nettamente inferiori a quelli di listino di uno smartphone nuovo. 

Il problema è sapere se uno specifico smartphone ricondizionato è ancora aggiornabile. Nel mondo Android non è facile, a causa della varietà e del numero di marche che usano questo sistema operativo; nel mondo Apple, invece, trovare quest’informazione è molto più semplice.

Per esempio, per sapere se uno smartphone Apple è ancora supportato si può fare riferimento a questo grafico pubblicato da Statista.com e basato su dati Apple:


Da questo grafico risulta che Apple consente di aggiornare ad iOS 15 persino telefoni di sei anni fa (gli iPhone 6s e 6s Plus, usciti nel 2015). Ovviamente uno smartphone così vecchio non avrà le nuove funzioni consentite dall’hardware moderno, ma perlomeno sarà aggiornato in termini di sicurezza e protezione dei dati. In più non ha l’impatto ambientale di un telefono nuovo.

Sto provando concretamente questo approccio: ho appena acquistato un iPhone 8 da 64 GB ricondizionato da Recommerce.com. Ho speso 300 CHF (277 EUR) per uno smartphone Apple che alla sua uscita, nel 2017, costava 839 CHF (774 EUR). Si trovano anche modelli a prezzi inferiori e ci sono anche altri fornitori di dispositivi ricondizionati iOS e Android, come Revendo e Verkaufen (mi riferisco al mercato svizzero).

Il telefono è in condizioni estetiche perfette: sembra nuovo. Viene consegnato sbloccato, controllato e con un anno di garanzia, insieme a un alimentatore, a una cuffia e un cavetto completamente nuovi (non marchiati Apple). Fra l’altro, ordinandolo online la sera (su Interdiscount.ch) mi è arrivato a casa a mezzogiorno del giorno successivo, senza spese aggiuntive.

È la prima volta che compro un iPhone: tutti quelli che ho usato fin qui per i miei test mi sono sempre stati donati da amici o conoscenti che li sostituivano. Personalmente trovo indecenti e immorali i prezzi degli iPhone nuovi, strapieni di funzioni che non userò mai, ed è anche per questo che uso un Android di fascia media come smartphone primario.


La migrazione dal vecchio iPhone che usavo per i test (un 5) a quello ricondizionato è stata banale: ho collegato l’iPhone 5 a un mio Mac via cavo, ho dato l’autorizzazione sul telefono e sul Mac (nel Finder), ed è partita la funzione di backup. Terminato il backup, ho spento il 5, ho tolto la SIM e l’ho messa nell’iPhone 8, che ho collegato al Mac dicendogli di fidarsi di questo nuovo dispositivo e di fare un restore su di esso partendo dal backup appena fatto. Dopo un reboot il nuovo telefono è risultato configurato in modo identico al precedente, con tutte le app al loro posto. Ho dovuto migrare a parte WhatsApp (che ha recuperato tutti i messaggi dell’account di test).

Ho scaricato e installato iOS 14.8 e poi sono andato in Impostazioni - Generali - Aggiornamento software - Aggiorna ad iOS 15 per aggiornare al nuovo iOS uno smartphone di quattro anni fa. Senza subire alcun rallentamento. Niente male.

2021/09/09

A Lugano parliamo di rifiuti, tecnologia e sostenibilità l’11 settembre alle 18

LuganoLivingLab, il laboratorio urbano della Città di Lugano, mi ha invitato a partecipare a un incontro pubblico su Tecnologia, spazzatura e sostenibilità, che si terrà al Boschetto del Parco Ciani a Lugano l’11 settembre alle 18.

Sul palco ci saranno Andrea Scarinci, (Lugano Living Lab), che presenterà il Progetto eQuiD di recupero e riuso di computer, Cristina Giotto, direttrice di ATED, e Silvia De Ascaniis, coordinatrice della Cattedra UNESCO in tecnologie digitali per un turismo sostenibile dell’Università della Svizzera italiana, e il sottoscritto. Saremo moderati da Giada Marsadri, musicologa e conduttrice.

Parleremo di strategie e astuzie che possiamo adottare concretamente per ridurre l’impatto dei nostri dispositivi e discuteremo con dati ed esempi concreti della questione del digital-divide e del progetto eQuiD sviluppato dalla città di Lugano. 

L’evento fa parte del Festival ARS Electronica Lugano Garden, è aperto a tutti e gratuito, e sarà fruibile anche in streaming.

2021/09/12: Il video dell’incontro è online. A 43:35 mostro una parte della mia collezione di telefonini :-)

2021/04/16

Google Earth offre i timelapse per capire meglio come cambia il mondo

Google ha annunciato un aggiornamento molto importante di Google Earth, la sua mappa mondiale 3D: ora è possibile esplorare un luogo anche nel tempo. L’azienda ha elaborato 24 milioni di fotografie satellitari scattate nel corso di quasi quattro decenni e le ha rese accessibili presso http://goo.gle/timelapse o https://g.co/timelapse.

Questo modo di vedere i dati rende chiarissima l’evoluzione del pianeta nel corso degli ultimi quarant’anni: urbanizzazione, deforestazione, prosciugamento di grandi laghi, cambiamenti nei corsi dei fiumi, ma anche riconquiste di porzioni di deserto.

C’è anche una collezione di circa 800 video che mostrano la trasformazione, positiva o negativa, di vari luoghi del pianeta. È particolarmente impressionante l’evoluzione del lago d’Aral situato fra Kazakistan e Uzbekistan: quando ero ragazzino lo si studiava in geografia come quarto lago al mondo, con una superficie di 68.000 chilometri quadrati (più dell’intera Svizzera, che occupa 41.285 kmq, o della Pianura Padana, che ne occupa 47.820); oggi è praticamente scomparso a causa dell’eccessivo sfruttamento delle sue acque.

L’interfaccia è piuttosto semplice: si digita il nome del luogo d’interesse nella casella di ricerca e poi si aspetta che venga caricata la sequenza d’immagini del timelapse. Come con il normale Google Earth, anche qui è possibile sorvolare virtualmente in 3D le località e vederle da varie quote e angolazioni.


Chi spera di vedere dettagli specifici dell’evoluzione della propria località, come la costruzione della propria casa o di un quartiere, potrebbe restare deluso, perché le immagini satellitari pubblicamente disponibili che risalgono agli anni Ottanta non hanno questo tipo di risoluzione in buona parte del pianeta. Ma la trasformazione delle grandi aree urbane è quasi sempre esaminabile e sicuramente questa risorsa informatica offrirà tanti spunti di riflessione. Buon viaggio, nel tempo e nello spazio.

2020/12/19

Il CEO di Toyota si scaglia contro le auto elettriche. Indovinate quante ne ha in catalogo

Fonte: The Observer.

Ultimo aggiornamento: 2020/12/19 18:25.

Me ne sarei stato zitto volentieri, ma visto che molti di voi mi hanno chiesto di commentare le dichiarazioni di Akio Toyoda,* CEO di Toyota, scrivo qui due righe veloci.

*Tolgo di mezzo subito un equivoco: Toyoda è il cognome del CEO e si scrive con la D. Toyota è il nome dell’azienda e si scrive con la T.

Stando ai giornali, Akio Toyoda ha detto che l’auto elettrica è un “business immaturo con costi energetici e sociali insostenibili” (Sole 24 Ore). Ha argomentato che i veicoli elettrici hanno un impatto ambientale, sia durante la produzione sia durante l’uso.

Beh, non è una grande rivelazione. Nessuno ha mai detto che le auto elettriche si fabbricano usando polvere magica e consumano forfora di unicorno. Anzi, è indubbio che la produzione di un’auto elettrica ha un impatto ambientale maggiore rispetto alla produzione di un’auto tradizionale, anche se questa differenza si pareggia dopo qualche decina di migliaia di chilometri d’uso, perché l’elettrica non produce gas di scarico mentre l’auto tradizionale continua a farlo per tutta la sua vita.

È altrettanto indubbio che l’auto elettrica abbia un impatto ambientale durante l’uso, se viene caricata con energia elettrica proveniente da fonti che hanno un impatto ambientale. Ma le reti elettriche stanno diventano man mano più pulite e questo impatto, già oggi minore di quello delle auto tradizionali, non fa che diminuire ulteriormente nel tempo. Le mie due auto elettriche sono caricate con energia idroelettrica già adesso. Molti proprietari di auto elettriche installano pannelli solari per caricare con il sole. Fatelo con un’auto a benzina o gasolio.

Akio Toyoda ha anche suggerito di “rendere più green la produzione di elettricità e poi in seconda battuta di adeguare le infrastrutture” e di non puntare soltanto sulle vendite di vetture ad emissioni zero, e su questo ha pienamente ragione. L’auto elettrica, da sola, non fa miracoli. Riduce sicuramente l’inquinamento locale, per esempio in città, come ben sa chi porta i bambini a passeggio ad altezza di tubo di scappamento, ma rischia di spostarne parte altrove. L’auto elettrica non è una soluzione magica: ha bisogno di misure di contorno.

In questo senso presumo che Akio Toyoda si riferisca soprattutto al caso specifico del Giappone, dove il 70% dell’energia elettrica deriva da fonti fossili (principalmente carbone e gas naturale) e i trasporti consumano il 38% del petrolio. La situazione in altri paesi è ben diversa già oggi

Il CEO di Toyota ha anche detto che le auto elettriche sono troppo costose e rischiano di essere un lusso per ricchi. Ma forse non ha considerato che il prezzo delle batterie (il maggior fattore di costo di un’elettrica, circa il 20%) è sceso dell’88% nel corso di un decennio e continua a scendere, secondo Bloomberg, che dice che un kWh di batteria costava oltre 1.100 dollari nel 2010 e oggi ne costa 137 e prevede il pareggio elettrica/pistoni entro il 2023. Fra qualche anno, un’elettrica costerà meno di un’auto a pistoni, già come prezzo di listino, senza contare i minori costi operativi (la corrente costa un quarto rispetto al carburante) e di manutenzione (nessun cambio d’olio, meno pezzi che si possono rompere, consumo ridottissimo dei freni) che già si hanno adesso.

Akio Toyoda ha poi paventato il rischio di un collasso del modello attuale di business dell’industria automobilistica, con la perdita di milioni di posti di lavoro, se il Giappone bandisce troppo in fretta le auto a carburante. Beh, questo è il rischio di qualunque industria che produca un oggetto che non ha più mercato. Immagino che i maniscalchi e i sellai si siano indignati allo stesso modo all’avvento dell’automobile, ma non per questo abbiamo deciso di mantenere le diligenze o messo stalle in ogni casa. Quando sono arrivate le fotocamere digitali, non abbiamo deciso di continuare a foraggiare i produttori di pellicole o obbligato i telefonini ad installare rullini. I milioni di posti di lavoro verranno persi da chi non si adatterà al mercato. È un peccato che queste parole arrivino dal CEO di un’azienda che per anni è stata all’avanguardia nella propulsione ibrida con le sue straordinarie Prius.

E in questo senso sospetto che nelle parole di Akio Toyoda pesi non poco il fatto che Toyota ha a catalogo, in questo momento, esattamente zero auto puramente elettriche (ha solo ibride, a parte la Lexus UX300e, che arriverà a marzo 2021 ed è appunto una Lexus) e punta tutto sull’idrogeno: se Akio Toyoda pensa che sia costoso convertirsi all’elettrico, non ha idea di quanto costi creare l’infrastruttura per l’idrogeno. Ma ho anche il dubbio che il successo spettacolare di aziende concorrenti come Tesla stia stimolando la Sindrome della Volpe e dell’Uva.

 

Fonti aggiuntive: Teslarati, Wall Street Journal, CleanTechnica, Electrek, The Observer. Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

2019/04/24

Due secoli e mezzo di emissioni di CO2 suddivise per paese, in 90 secondi

A volte le visualizzazioni grafiche dei dati fanno emergere il quadro generale molto più chiaramente di qualunque discorso. È il caso di questa animazione, che segue l‘evoluzione delle emissioni di CO2 dal 1750 al 2018 (268 anni) e mostra il loro crescendo inquietante insieme ai vari sorpassi dei contendenti a questa gara a chi fa peggio. Notate quanto spicchi la Rivoluzione Industriale britannica e quanto la scala debba ampliarsi per tenere conto della crescita enorme delle emissioni umane.



La fonte dell’animazione è Observablehq.com, che cita come fonti CDIAC e Global Carbon Project, ma senza fornire link specifici (li ho già chiesti agli autori e sto attendendo risposta). Se qualcuno li trova, li aggiungo qui volentieri.


17:50. @tomerini mi segnala due possibili fonti per i dati (una e due).

2019/04/27 3:00. Dai commenti mi arriva anche Globacarbonatlas.org.


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2019/03/10

Linkiesta e le auto elettriche: perché tante sciocchezze tecniche?

Ultimo aggiornamento: 2019/03/10 14:30.

Non so se è scoppiata una moda o se si tratta di emulazione o semplicemente di un argomento che giornalisticamente “tira”, ma ultimamente noto molti articoli allarmisti a proposito dei presunti pericoli delle auto elettriche.

Dopo le baggianate pubblicate da Difesaonline, stavolta mi state segnalando un articolo di Linkiesta.it (link intenzionalmente alterato, togliete “togliquesto” dall’URL) a firma di Marco Bentivogli (che, secondo la segnalazione di un lettore, è questo Marco Bentivogli, segretario generale metalmeccanici FIM CISL, autore anche di questo articolo di critica alle auto elettriche).

Ho salvato qui su Archive.is l’articolo de Linkiesta, così potete leggerlo senza regalare clic e visibilità.

Se volete darmi una mano a correggerne gli errori grossolani, che sono frammisti a considerazioni condivisibili, i commenti sono a vostra disposizione. Comincio io segnalandone un paio di dimensioni epiche.

...per ricaricare un auto elettrica serve una rete che sostenga i 150 kW e per quella rapida almeno i 300kW. Significa che se mettiamo sotto carica una Porsche o una Tesla di ultima generazione a Piazza Barberini oggi mandiamo in black-out elettrico diversi isolati.

Questa è una scempiaggine terroristica che si poteva benissimo evitare. Io carico senza problemi la mia auto elettrica, una piccola Peugeot iOn di seconda mano, anche a casa mia, sul mio contatore domestico. A casa mia posso caricare anche una Tesla. L’ho fatto, giusto per provare, e non è andato in blackout l’isolato.

Una Tesla Model S, sotto carica sulla mia presa domestica, assorbe 11 kW. La presa è da 400 V, ma il display indica 230 V perché visualizza la tensione fra fase e neutro, mentre i 400 V sono fra fase e fase. I dettagli sono su Fuori di Tesla.


Anche in Italia conosco proprietari di auto elettriche che caricano tranquillamente di notte, sul normale contatore domestico, senza causare blackout condominiali.

Infatti non è vero che “serve una rete che sostenga i 150 kW e per quella rapida almeno i 300kW.” Nessuna auto elettrica attualmente in commercio carica a 300 kW, tanto per cominciare, e comunque 150 kW è un valore necessario soltanto per le cariche ultrarapide, che sono una situazione rara e occasionale. La maggior parte delle auto elettriche oggi in circolazione non è neanche in grado di accettare 150 kW.

Normalmente un‘auto elettrica si carica con calma, durante la notte o nelle ore di sosta, impegnando pochi kW (la mia iOn, per esempio, non assorbe mai più di 2,3 kW sulla presa domestica). La carica ultrarapida serve soltanto durante i viaggi. E ovviamente le colonnine con questa potenza sono installate non da imbecilli che tirano una prolunga, ma da specialisti che dimensionano gli impianti in modo da non mandare “in black-out elettrico diversi isolati.”

Questo, per esempio, è il Supercharger (fino a 120 kW per auto) del Monte Ceneri, in Svizzera, in una foto che ho scattato ieri. Funziona e non ci sono blackout.



E questa è invece la stazione di ricarica gratuita dell’Ikea di Grancia, vicino a Lugano: sotto carica contemporaneamente una Tesla, la mia piccola iOn e (credo) una Zoe. Nessun blackout anche qui.



Simpatica anche quest’affermazione:

Non è la prima volta che sollecitiamo, prima la Fiat e poi la Fca a investire sulla nuova mobilità e su questo è evidente il nostro dissenso sui ritardi che la strategia di Marchionne su questo tema ha generato. Ma dal 29 novembre siamo riusciti a far cambiare strada al gruppo.

Avete letto bene. Linkiesta (o Bentivogli, come rappresentante del sindacato) si prende il merito di aver fatto cambiare la politica aziendale di un’intera casa automobilistica. Poteri forti, George Soros, fatevi da parte.

Come dimostrato da ricercatori italiani nel 2004, bastano 3 sigarette fumate in un box per generare 10 volte più PM10 di un motore diesel Euro 3 in 30 min.

Chi siano questi ricercatori italiani non si sa: peccato non includere un link alla loro ricerca. Siamo su Internet, suvvia, le fonti si possono anche citare. Tim Berners-Lee ha inventato i link apposta. Ma a parte questo, il paragone è insensato e tende a far sembrare trascurabile l’inquinamento prodotto da un motore diesel.

È insensato perché io posso anche scegliere di non essere così stupido da fumare tre sigarette in un box, ma non posso scegliere di non respirare l’aria che c’è per strada. E chiunque voglia asserire che un diesel Euro 3 acceso in un box sigillato è meno pericoloso di tre sigarette è pregato di dimostrarlo concretamente. Preferibilmente con Vigili del Fuoco e ambulanza pronto a soccorrerlo.

C’è poi da affrontare il tema della standardizzazione delle tecnologie di ricarica che richiederebbe di essere affrontata almeno a livello europeo.

Non è vero: come notato nei commenti qui sotto, a livello europeo le tecnologie di ricarica sono già standardizzate intorno a due tipi di connettore: il Tipo 2 per le auto che caricano in corrente alternata e il CCS Combo 2 per quelle che caricano in corrente continua.

Per il resto, l’articolo dice cose abbastanza sensate: per esempio, dice che non basta adottare le auto elettriche per risolvere il problema dell’inquinamento, visto che anche i riscaldamenti domestici antiquati sono un fattore molto importante nella generazione di emissioni inquinanti. Verissimo. Ma non siamo mica obbligati a fare una sola cosa per volta, come sembra suggerire l’articolo.

Non è che dobbiamo prima aspettare che siano sistemati tutti i riscaldamenti per poi passare alle auto elettriche. Possiamo fare le due cose insieme, cimentarci col problema su due fronti. Questa storia di “prima di fare X dobbiamo fare Y” suona molto come una classica scusa per non fare niente.

Chi può permettersi l’auto elettrica, di fatto, toglie dalla strada un’auto inquinante e rumorosa. Chi può cambiare riscaldamento in favore di un impianto meno inquinante riduce le emissioni per tutti. Scusate se è poco.

Scrivere “L’inquinamento delle auto a combustione è minimo rispetto a quello dei riscaldamenti: finiamola, quindi, con le mode” significa incoraggiare a ignorare il problema. Significa che chi ha i soldi per comprarsi un’auto elettrica comprerà invece un altro mega-SUV inquinante, usando come alibi dichiarazioni come quelle de Linkiesta.

Proviamo a fare meno terrorismo e più concretezza. Altrimenti, oltre all’aria inquinata, ci troveremo assediati dall’aria fritta.


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2018/08/14

Il dilemma dei cambiamenti climatici, risolto

La discussione sui cambiamenti climatici è da tempo politicizzata, teologizzata e lobbyizzata, tanto che si è persa di vista l’essenza della questione. Ogni tanto arriva qualcuno che riesce a riportarci al sodo. È il caso di questa vignetta di Joel Pett, vincitore del premio Pulitzer.

Ci si perde in dibattiti infiniti che presentano sempre le stesse domande: i cambiamenti climatici esistono? Se esistono, sono causati dall’umanità? Se lo sono, cosa dobbiamo fare?

Di solito non si supera neanche la prima domanda, perché arrivano i negazionisti, i dubbiosi, i giornalisti che dicono “gli scienziati sono unanimi, ma dobbiamo far sentire anche l’altra campana”, quelli che rifiutano di accettare i dati perché temono che guasteranno il loro stile di vita e dovranno spendere soldi e mortificarsi, e non si conclude nulla. Ancora una volta tutto viene rinviato.

La vignetta di Pett mostra una conferenza sul clima. Sul podio c’è un relatore che illustra i punti della politica di gestione dei cambiamenti climatici che propone: indipendenza energetica, conservazione delle foreste pluviali, sostenibilità, posti di lavoro nelle attività “verdi”, città vivibili, fonti rinnovabili, acqua e aria pulite, bambini sani, eccetera.

Dal pubblico si alza uno scettico e domanda: “Che facciamo se è tutta una grande truffa e creiamo un mondo migliore per niente?”


Il dilemma è tutto qui: se i negazionisti dei cambiamenti climatici hanno torto ma si impongono, siamo fregati e ci siamo giocati l’unico pianeta che abbiamo. Se invece hanno torto i sostenitori dell’esistenza dei cambiamenti climatici, il peggio che ci può capitare è che abbiamo ripulito il mondo. Che scelta difficile.


Per dirla con altre parole: se saltasse fuori che non c’è nessun pericolo derivante dal riscaldamento globale e che l’umanità non è responsabile, allora avremmo semplicemente fatto uno sbaglio di eccessiva prudenza. Ma se risultasse che il pericolo c’era e non abbiamo fatto nulla per rimediarlo, a quel punto sarebbe troppo tardi per fare qualunque cosa, e saremmo condannati al disastro. Messa in questi termini, non sembra una decisione difficile da prendere.


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2018/07/22

Quanta superficie di pannelli solari servirebbe per dare energia al mondo? L’origine di un grafico molto diffuso

Ultimo aggiornamento: 2018/07/22 17:00.


Da anni vedo circolare l’immagine che vedete qui sopra: rappresenterebbe la superficie di pannelli solari sufficiente a soddisfare l’intero fabbisogno di energia elettrica della Germania (D), dei 25 paesi dell’Unione Europea (EU-25) e del mondo intero (Welt).

Non ne avevo mai cercato la fonte, ma ieri ho letto un tweet che me l’ha fornita direttamente, citando l’autrice, Nadine May. È bastato questo e un minimo sforzo in Google per trovare il documento completo dal quale proviene il grafico: la versione in inglese si intitola Eco-balance of a Solar Electricity Transmission from North Africa to Europe, risale al 2005 ed è la tesi di laurea di Nadine May presso la facoltà di scienze fisiche e geologiche dell’Università Tecnica di Braunschweig.

Il grafico è a pagina 26 della tesi (Figura 12) ed ha una didascalia che ne chiarisce il senso: è un “theoretical space requirement”, ossia un requisito di superficie teorico qualora un impianto solare fosse collocato in quelle aree geografiche. Va quindi considerato come una spannometria: un esercizio matematico-scientifico per farsi un’idea delle grandezze in gioco e per rispondere a quelli che pensano che per alimentare il pianeta dovremmo tappezzare di pannelli tutto il deserto del Sahara o addirittura il mondo intero.

La tesi fornisce le cifre alla base del grafico: se il fabbisogno energetico mondiale è di 16.076 TWh/anno (dato riferito al 2004), per soddisfarlo sarebbe sufficiente una superficie di 254 km per 254 km; per soddisfare quello europeo servirebbe un’area di 110 km per 110 km; e per soddisfare quello tedesco ne servirebbe una da 45 per 45 km, secondo i calcoli di Nadine May.

Dalla lettura attenta della tesi emerge anche un altro dettaglio importante: non si tratta di pannelli fotovoltaici, ma di pannelli solari termici, ossia (sezione 2.2.1) di specchi che concentrano la luce solare su condotte contenenti un vettore termico fluido, il cui riscaldamento viene usato per generare vapore acqueo, che aziona una turbina che a sua volta genera corrente elettrica.

Questa stima pone anche la sfida tecnica non banale del trasporto di tutta questa energia elettrica dalle zone desertiche ai luoghi di consumo e forse non considera sufficientemente le sue implicazioni un po’ colonialiste, ma è comunque uno spunto di riflessione; un dato di massima dal quale partire. Il concetto di fondo è che quelle sono le superfici complessivamente necessarie: nulla vieta di distribuirle in giro per il mondo, più vicino a dove viene consumata l’energia, riducendo il problema della distribuzione.

Altre stime più recenti (2017) stimano un fabbisogno mondiale circa doppio (30.000 TWh/anno) e, nel caso del fotovoltaico, una superficie di 200.000 kmq, equivalente a un quadrato di 448 km di lato. Se portassimo gli otto miliardi di esseri umani del pianeta ai consumi energetici tedeschi, secondo queste stime servirebbe un quadrato di 1000 km di lato.

Insomma: dovremmo tappezzare di pannelli tutto il mondo? No. Nello scenario più ambizioso sarebbe sufficiente un quindicesimo dell’area desertica del pianeta, ossia il quadrato in basso a sinistra in questo grafico.

Fonte: Energy-age, 2017.


Certo, una serie di centrali solari che copra in tutto 200.000 o un milione di chilometri quadrati, con relativa rete di distribuzione planetaria, sarebbe un’opera ingegneristica ciclopica, ma non sarebbe la prima: con mezzi molto meno avanzati di quelli odierni l’umanità ha saputo costruire piramidi, creare i canali di Panama e Suez, costruire dighe immense e reti ferroviarie e stradali colossali; ha saputo organizzarsi per debellare malattie devastanti.

Costa? Ovviamente. Ma non dimentichiamoci che gli Stati Uniti, da soli, spendono in armi oltre 600 miliardi di dollari l’anno. Poi ci sono le spese militari del resto del mondo.

E non dimentichiamoci le parole attribuite a un protagonista di un altro progetto apparentemente impossibile e faraonico di cui ricorre in questi giorni il quarantanovesimo anniversario: Jim Lovell (Apollo 13).

“D’ora in poi viviamo in un mondo nel quale l’uomo ha camminato sulla Luna. Non è stato un miracolo; abbiamo semplicemente deciso di andarci.”

Sono troppo ottimista? Sicuramente. Una specie intelligente non spenderebbe oltre 600 miliardi di dollari l’anno in bombardieri, testate nucleari e stipendi per addestrare gente ad ammazzare più efficientemente il prossimo. Ma si può sempre sperare che prima o poi la specie maturi. E semplicemente decida di fare.


Documento di approfondimento: Concentrating Solar Power for the Mediterranean Region, DLR/Ministero Federale Tedesco per l’Ambiente (2005). Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

2017/10/17

Tesla licenzia, frenesia mediatica

Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2017/10/17 15:20.











A me sembrava una classica non-notizia, ma siccome da qualche giorno mi scrivete e tweetate in tanti (quello qui sopra è solo un piccolo campionario) chiedendomi un parere sul licenziamento di circa 400 dipendenti Tesla e sulle voci di difficoltà nella produzione della Model 3, con riluttanza riassumo qui quello che in parte ho già scritto via Twitter.

  1. Mettiamo subito in chiaro una cosa: non rappresento Tesla e non sono un fanboy di Tesla (anche se le sue auto mi piacciono e ne ho prenotata una, sto comunque valutando anche le concorrenti, Opel Ampera-e in testa). Sono un sostenitore delle auto pulite di qualsiasi marca. Per quel che mi riguarda, Tesla può anche fallire domani: l’importante è che qualcuno ci dia auto che non appestano l’aria, non fanno baccano incessante e non rovinano la salute e l’ambiente. Ne abbiamo urgente bisogno.
  2. Non dite che Elon Musk, boss di Tesla, non aveva avvisato. Ha detto chiaro e tondo a luglio che mettere in produzione un’auto nuova avrebbe comportato vari mesi di “production hell” (parole sue), come avviene spesso durante l’avvio di qualunque processo produttivo. E passare da una produzione a tiratura limitata di auto di lusso alla produzione di massa è una sfida enorme oltre che un punto di svolta e ne avevo messo in guardia pubblicamente a marzo 2016, prima ancora che venisse presentata la Model 3.
  3. I licenziamenti li fanno anche gli altri costruttori, ma non fanno altrettanto notizia. Vauxhall (la Opel britannica) ne ha appena annunciati 400 su 4500: letteralmente una decimazione (e passa da due turni a uno solo). Ma avete visto la stessa frenesia mediatica? Appunto. Tesla ha 33.000 dipendenti: fate voi le proporzioni.
  4. I problemi che impongono il richiamo delle auto càpitano a tutti, non solo a Tesla. Però quando càpitano a Tesla fanno clamore. Daimler deve richiamare un milione di Mercedes, ma non ho visto altrettanto interesse mediatico.
  5. Per chi dice che Tesla è spacciata perché ha i conti in rosso da anni: quante case automobilistiche sapete elencare che non sono mai fallite e hanno i conti in attivo? Vogliamo parlare di quel piccolo problemino chiamato Dieselgate? Quello che costerà 25 miliardi di euro a Volkswagen? Quello che contribuisce ad avvelenare l’aria e a dare all’Italia il primato per le morti da inquinamento atmosferico?
  6. Tesla è seduta su quattrocentomila prenotazioni della sua Model 3. Ditemi quanti altri costruttori possono vantare una clientela pronta e disponibile come questa. Di solito sono disperatamente in cerca di clienti.
  7. Che palle. Non possiamo semplicemente aspettare qualche mese e vedere come va a finire?

Magari nel frattempo possiamo fare qualcosa di più produttivo. Oppure chiederci se questo accanimento mediatico è dovuto alla tendenza di Tesla e Musk di usare i media per farsi pubblicità (il budget pubblicitario dell’azienda è sostanzialmente zero, e per questo non vedete spot delle Tesla), all’effetto “volpe e uva” (le Tesla sono belle e costose, roba da élite con tanti soldi, e fanno rosicare chi non se la può permettere, ha un’auto puzzona e sente magari il rimorso del Dieselgate, per cui vedere l’azienda di auto di lusso in difficoltà è consolatorio), oppure alla campagna mediatica di chi vuole mantenere lo status quo e proteggere i propri guadagni (tipo i fratelli Koch o Marchionne) diffondendo notizie false sulle auto elettriche. O a tutte e tre insieme.

Personalmente intendo dedicarmi ad altro, ma fate voi :-)

2015/09/23

Volkswagen: milioni di auto con malware iper-inquinante. Messo da Volkswagen. E da quanti altri?

Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle gentili donazioni di “patriziadal*” e “letizia.2*”. Se vi piace, potete incoraggiarmi a scrivere ancora (anche con un microabbonamento, come ha fatto “biemmic*”). Ultimo aggiornamento: 2019/09/05 10:05 (per correggere link EPA diventato obsoleto).

Lo scandalo della Volkswagen che ha truccato il software di circa undici milioni delle proprie auto diesel in tutto il mondo per barare durante i test sulle emissioni inquinanti è su tutti i giornali. È un disastro per l'azienda, con miliardi di euro persi in borsa e altri da accantonare per risarcimenti e riparazioni, ma è soprattutto un disastro ambientale per tutti noi.

Secondo le stime del Guardian, l'inganno mondiale perpetrato dalla casa automobilistica rischia di aver prodotto ogni anno quasi un milione di tonnellate di emissioni di ossidi di azoto (NOx), grosso modo quanto ne producono tutte le centrali elettriche, le auto, le industrie e l'agricoltura del Regno Unito.

Il trucco è banalissimo, stando a Consumer Reports: quando l'elettronica di bordo (prodotta dalla Bosch) rileva che le ruote di trazione (anteriori, nelle auto VW) si muovono ma quelle posteriori sono ferme, ossia quando l'auto è presumibilmente su un banco di prova, le prestazioni del motore vengono degradate in modo da produrre emissioni nei limiti di legge.

Fra l'altro, questa scelta inequivocabilmente intenzionale di Volkswagen ridefinisce drasticamente il concetto di malware. Siamo abituati a malware che ruba password, inietta pubblicità o altera il funzionamento dei computer o dei telefonini; non era ancora capitato che del malware inserito intenzionalmente dal costruttore consentisse di nascondere un inquinamento atmosferico su vasta scala.

Il problema è che probabilmente questo trucco è stato adottato anche in Europa, e non solo da Volkswagen ma anche da altre case automobilistiche: lo indicano anche le analisi dell'atmosfera, che continuano a rilevare livelli di NOx più alti di quelli attesi. E di certo cose di questo genere vanno avanti da oltre vent'anni, grazie anche alle leggi idiote sul copyright. Non sto scherzando.

Infatti Volkswagen non ha inventato nulla di nuovo. Ricordo che una persona esperta del settore mi confidava in dettaglio, già a fine anni Novanta, che un trucco sostanzialmente identico (una routine nel software delle centraline di controllo dei motori, che riconosce quando è in corso un test sulle emissioni inquinanti e degrada appositamente le prestazioni e quindi le emissioni) veniva utilizzato da una nota marca europea di auto ad alte prestazioni (di cui conosco il nome) per superare i test americani sulle emissioni nocive.

Questo suggerisce una domanda: oltre a Volkswagen (e quindi Audi, Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, SEAT, Škoda), quante altre case automobilistiche stanno barando e inquinando ben oltre i limiti di legge?

Ce ne sarebbe anche un'altra: come mai nessuna delle case automobilistiche concorrenti, che comprano regolarmente le auto dei rivali per analizzarle e studiarle in ogni minimo dettaglio e che avrebbero molto da guadagnare nel denunciare una violazione gravissima come questa da parte di un concorrente, ha denunciato questo trucco?

La scoperta dell'inganno si deve infatti a dei ricercatori della West Virginia University che stavano cercando tutt'altro: avevano l'incarico, per conto di una società senza scopo di lucro europea, di raccogliere dati per convincere i normatori europei a emulare i severi standard americani sulle emissioni di NOx. La loro sperimentazione sul campo ha rilevato valori di NOx assolutamente fuori misura e incomprensibili, e l'ente per l'ambiente americano lo ha saputo quasi per caso, come spiegano gli stessi ricercatori qui su IEEE Spectrum.

Questo disastro è andato avanti per così tanto tempo anche grazie al fatto che il software di gestione dei motori degli autoveicoli non è liberamente ispezionabile dai ricercatori indipendenti: anzi, è considerato illegale farlo, secondo l'interpretazione dominante delle norme sul copyright previste dal Digital Millennium Copyright Act (DMCA) specificamente per il software automobilistico. Spiega la Electronic Frontier Foundation:

I fabbricanti di automobili dicono che è illegale che i ricercatori indipendenti esaminino il codice che controlla i veicoli senza il permesso dei costruttori. Abbiamo già spiegato che questo consente ai fabbricanti di impedire la concorrenza nei mercati delle tecnologie per accessori e riparazioni. Rende anche più difficile la ricerca di problemi di sicurezza da parte degli enti di tutela [...]. L'incertezza legale creata dal Digital Millennium Copyright Act rende anche più facile per i costruttori nascondere illeciti intenzionali. Abbiamo chiesto [...] un'esenzione al DMCA che renda chiaro che la ricerca indipendente sul software degli autoveicoli non viola le leggi sul copyright. Nell'opporsi a questa richiesta, i costruttori hanno affermato che se le persone avessero avuto acceso al codice, avrebbero violato le norme antinquinamento. Ma ora abbiamo appreso che secondo la Environmental Protection Agency [PDF; link aggiornato ad Archive.org] la Volkswagen aveva già programmato un'intera flotta di veicoli in modo da nascondere quanto inquinamento generavano, producendo un impatto reale e quantificabile sull'ambiente e sulla salute umana.

Se il software fosse stato liberamente ispezionabile, anche se non modificabile (per evitare manipolazioni pericolose), Volkswagen probabilmente non ci avrebbe nemmeno provato. Se c'è una dimostrazione potente dei pregi dell'approccio open source, è questa.

Come al solito, quando non c'è vigilanza si commettono abusi, e quando si invoca la segretezza in nome della sicurezza, spesso la vera ragione è che si vuole carta bianca per commettere questi abusi o per nasconderli. La trasparenza serve proprio per evitarli. Anche nel software, che non è una cosa astratta, ma ha conseguenze dannatamente reali: il malware intenzionale di Volkswagen le ha permesso di inquinare impunemente l'aria che respiriamo. È ora di togliere a questi criminali la loro burocratica foglia di fico.


Forza, giornalisti: invece di fare il copiaincolla dei comunicati stampa e le recensioncine all'acqua di rose, andate a chiedere alle altre case produttrici di dichiarare, nero su bianco, che non usano e non hanno mai usato trucchi software per barare sui test sulle emissioni. Vediamo un po' cosa rispondono.

E se qualcuno nel settore dell'assistenza automobilistica riceve richieste confidenziali di aggiornare con discrezione il software delle centraline per far sparire le tracce del malware, me lo dica. Sapete come contattarmi in modo riservato, se conoscete le basi della crittografia.
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