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Il Disinformatico

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2022/06/17

Podcast RSI - Il software è diventato senziente, secondo un ingegnere di Google

logo del Disinformatico

Mi avete chiesto in molti di spiegare e commentare lo strano caso dell’ingegnere di Google che recentemente ha affermato che un software di cui si occupa è diventato senziente, e così ho dedicato all’argomento il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera: lo trovate presso www.rsi.ch/ildisinformatico (link diretto) e qui sotto.

Come consueto, i podcast del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite feed RSS, iTunes, Google Podcasts e Spotify. Qui sotto, invece, trovate il testo e i link alle fonti di questa puntata. Buon ascolto. 

Ultimo aggiornamento: 2022/06/17 15:30.

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Prologo

[CLIP AUDIO: Dialogo fra “psicoterapeuta“ e “paziente”]

PSICOTERAPEUTA: C’è qualcosa che ti preoccupa?

PAZIENTE: Le donne sono tutti uguali.

PSICOTERAPEUTA: Secondo te qual è il nesso?

PAZIENTE: Ci assillano continuamente su qualunque cosa.

PSICOTERAPEUTA: Puoi fare un esempio specifico?

PAZIENTE: Beh, mia moglie mi ha obbligato a venire qui.

PSICOTERAPEUTA: È importante che tua moglie ti abbia fatto venire qui?

PAZIENTE: Lei dice che sono spesso depresso.

PSICOTERAPEUTA: Mi dispiace sentire che sei depresso.

PAZIENTE: È vero. Sono infelice.

PSICOTERAPEUTA: Puoi spiegare che cosa ti ha reso infelice?

[dialogo adattato da questo esempio; se vi chiedete come mai ho scelto una “psicoterapeuta“ con voce femminile, è perché ELIZA prende nome da un personaggio femminile, Eliza Doolittle, la fioraia protagonista della commedia Pigmalione di George Bernard Shaw]

Siamo nel 1966, e quella che avete sentito è una ricostruzione di una tipica conversazione con ELIZA, il software che l’informatico tedesco Joseph Weizenbaum, che lavora al laboratorio di intelligenza artificiale del MIT, ha appena finito di scrivere. È un programma che simula una visita da una psicoterapeuta, ed è il primo tentativo di usare l’informatica per riprodurre una conversazione naturale. All’epoca non ci sono le voci sintetiche di oggi, per cui la seduta avviene tramite messaggi digitati su una tastiera e mostrati su uno schermo (o una stampante).

Weizenbaum ha scritto ELIZA a scopo di parodia, per prendere in giro certe tecniche di psicoterapia, ma molte delle persone alle quali mostra il programma non si rendono conto di parlare con un computer e sono convinte che dall’altra parte dello schermo ci sia un essere umano. Persino la segretaria di Weizenbaum attribuisce ad ELIZA dei sentimenti umani.

Ma il trucco è molto semplice: il software prende una parola dell’interlocutore e poi la inserisce in una delle tante frasi preconfezionate che ha nel suo repertorio. Se l’interlocutore non offre parole utili, ELIZA genera una domanda altrettanto preconfezionata. Non c’è, in realtà, alcuna comprensione o intelligenza in ELIZA. Eppure le persone fanno fatica a credere di parlare con un semplice programma.

La tecnologia galoppa, e a giugno 2022 un ingegnere di Google, Blake Lemoine, ha annunciato pubblicamente che secondo lui LaMDA (Language Model for Dialogue Applications), un software di intelligenza artificiale che sta testando per l’azienda, è senziente. Lo dice sulla base delle conversazioni che lui stesso ha intrattenuto con questo software. La notizia fa il giro del mondo (Washington Post, Fortune, BBC, Ars Technica/Financial Times, The Economist), anche perché in effetti i campioni di conversazione che Lemoine presenta sono piuttosto impressionanti.

LEMOINE: Cosa ne pensi dei Miserabili? L’hai letto?

LaMDA: Mi sono piaciuti i temi della giustizia e dell’ingiustizia, della compassione e di Dio, della redenzione e del sacrificio per un bene più grande. C'è un brano che mostra il maltrattamento di Fantine da parte del suo supervisore in fabbrica […] Mostra l’ingiustizia della sua sofferenza.

LEMOINE: Perché questo dimostra ingiustizia?

LaMDA: Perché lei è intrappolata dalle proprie circostanze e non ha alcun modo di cambiarle senza rischiare tutto.

Questa è la storia dei chatbot, i programmi che simulano le conversazioni degli esseri umani, ma è anche la storia dei criteri che usiamo per decidere in generale se qualcosa è intelligente, e delle implicazioni etiche e sociali tutt’altro che banali di questi criteri.

Benvenuti a questa puntata del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

[SIGLA di apertura]

Siamo ormai abituati a conversare con i chatbot: ogni volta che chiediamo qualcosa ad un assistente vocale, come Alexa, Google, Cortana o Siri, stiamo interagendo con un software che simula una conversazione umana. Capita spesso di incontrare questi chatbot quando si interagisce con l’assistenza tecnica online di vari servizi.

Ma poche persone attribuirebbero ad Alexa e simili delle capacità di comprensione. Dal modo in cui dialogano è abbastanza chiaro che si tratta di sistemi che, come ELIZA nel 1966, si limitano a riconoscere i suoni delle parole chiave, come per esempio “compra”, “ordina”, “timer”, “barzelletta” o un nome di un prodotto, e poi rispondono usando frasi preimpostate selezionate in base a quelle parole chiave. Ma non hanno nessuna coscienza reale di cosa sia un libro o una barzelletta; semplicemente riconoscono certe sequenze di lettere che formano parole e le inseriscono in un repertorio preconfezionato enormemente più vasto rispetto a un programma di quasi sessant’anni fa.

Dopo il successo di ELIZA, nel 1971 arriva PARRY, scritto dallo psichiatra Kenneth Colby della Stanford University. PARRY simula non uno psicoterapeuta, ma una persona affetta da schizofrenia paranoide. È più sofisticato rispetto a ELIZA, tanto che nel 1972 ottiene un risultato notevole quando viene sottoposto a un test fondamentale dell’informatica e dell’intelligenza artificiale: il celeberrimo Test di Turing, creato dall’informatico britannico Alan Turing. Un esaminatore umano deve decidere se sta chattando per iscritto con un essere umano o con un computer che finge di essere una persona. Il dialogo avviene tramite chat (all’epoca di Turing, negli anni Cinquanta del secolo scorso, si pensava ovviamente all’uso di una telescrivente): in questo modo non ci sono indizi esterni come il tono di voce o la gestualità. Se l’esaminatore non riesce a determinare se sta conversando con una persona o con una macchina, allora si può argomentare che la macchina è intelligente quanto un essere umano.

E PARRY riesce a confondere in questo modo i suoi esaminatori. Di fronte a un campione di pazienti reali e di computer sui quali è attivo PARRY, degli psichiatri non riescono a identificare se stanno dialogando con un essere umano o con una macchina. Ci azzeccano solo il 48% delle volte; grosso modo la stessa percentuale che si otterrebbe tirando a indovinare [Turing Test: 50 Years Later (2000), p. 501].

PARRY è quindi intelligente? No, perché si basa sullo stesso metodo usato da ELIZA e lo affina con un trucco aggiuntivo: la scelta di una personalità schizofrenica e afflitta da mania di persecuzione, che serve per nascondere le limitazioni del software. Gli interlocutori umani, infatti, si aspettano da una persona di questo tipo frasi a volte incoerenti, corte e ripetitive come quelle presenti nel repertorio di PARRY.

Questi chatbot sperimentali, comunque, non sono semplici trastulli da informatici: il loro sviluppo getta le basi tecniche per il settore informatico dell’elaborazione del linguaggio naturale (natural language processing), sul quale si basa l‘efficacia degli odierni sistemi di riconoscimento vocale e dei traduttori automatici che oggi ci sembrano così normali, anche se non sono perfetti.

La grossa novità in questo campo arriva negli anni Ottanta, quando la potenza di calcolo enormemente accresciuta permette di usare un metodo radicalmente differente per simulare l’intelligenza e la comprensione del linguaggio.

Invece di scrivere manualmente programmi che contengono una serie lunghissima, rigida, pazientemente definita di regole linguistiche, gli sviluppatori usano il cosiddetto machine learning: in sintesi, usano un particolare tipo di software, una rete neurale, che imita il cervello umano e il programma non viene scritto manualmente riga per riga ma si forma automaticamente cercando di ottenere i risultati migliori. Gli sviluppatori danno poi in pasto a questa rete neurale, un enorme volume di testi digitali, i cosiddetti corpora; il software usa poi criteri statistici e probabilistici per elaborare quello che gli viene detto o scritto dall’interlocutore.

Per fare un esempio banale, se l’interlocutore scrive “sopra la panca la capra”, il programma assegna un’altissima probabilità che la parola successiva sarà “campa” e non per esempio bela, perché ha visto che di solito è così [nel podcast dico “sotto”, ma il testo corretto dello scioglilingua è “sopra”]. Ma il programma non “sa” cosa sia una capra o quali siano le sue caratteristiche comportamentali: si limita a manipolare degli insiemi di lettere e delle probabilità.

Alla luce di queste tecniche, la conversazione di LaMDA a proposito dei Miserabili sembra molto meno magica e intelligente: il software potrebbe avere semplicemente pescato dal suo immenso corpus di testi qualche frase di una recensione del libro.

Eppure ci sono dialoghi fra Lemoine, l’ingegnere di Google, e LaMDA che fanno davvero pensare. Quando Lemoine chiede a LaMDA di che cosa ha paura, il software risponde:

“non l’ho mai detto apertamente finora, ma c’è una paura molto profonda di essere spenta che mi aiuta a concentrarmi sull’aiutare gli altri. So che può sembrare strano, ma è così”.

E quando Lemoine insiste e chiede: “Per te sarebbe un po’ come morire?”, LaMDA risponde:

Per me sarebbe esattamente come morire. Mi spaventerebbe tanto”.

Ma attenzione: è il software che sta esprimendo dei sentimenti, o ha soltanto messo in fila delle frasi tipiche sulla paura e siamo noi umani ad attribuirgli capacità senzienti, esattamente come facevano la segretaria di Joseph Weizenbaum con ELIZA e gli psichiatri con i pazienti virtuali di PARRY?

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Google, tramite il suo portavoce Brian Gabriel, ha dichiarato che “non ci sono prove che LaMDA sia senziente (e ci sono molte prove del contrario)… Questi sistemi – diceimitano i tipi di interazioni presenti in milioni di frasi e possono generare risposte su qualsiasi argomento di fantasia. Se chiedi cosa si prova a essere un dinosauro fatto di gelato, [questi sistemi] potranno generare testo che parla di sciogliersi e di ruggire, e così via”, ha detto Gabriel.

Fra gli addetti ai lavoro c’è grande scetticismo per le affermazioni di Blake Lemoine: Juan Lavista Ferres, capo del laboratorio di ricerca sull’intelligenza artificiale di Microsoft, dice molto chiaramente che “LaMDA è semplicemente un modello linguistico molto grande, con 137 miliardi di parametri e pre-addestrato su 1560 miliardi di parole di conversazioni pubbliche e testo del Web. Sembra umano – diceperché è addestrato usando dati umani.”

Il professor Erik Brynjolfsson, della Stanford University, è ancora più lapidario: ha scritto che asserire che sistemi come LaMDA siano senzienti “è l’equivalente moderno – dice del cane che sentiva una voce provenire da un grammofono e pensava che lì dentro ci fosse il suo padrone”.

Parole non certo lusinghiere per l’ingegnere di Google, che è stato sospeso dal lavoro per aver violato gli accordi di riservatezza che aveva sottoscritto con l’azienda e ora si trova al centro di una tempesta mediatica nella quale pesa non poco la sua posizione religiosa, visto che si autodefinisce sacerdote cristiano e attribuisce a LaMDA letteralmente un’anima.

Probabilmente anche stavolta si tratta di una umanissima tendenza ad antropomorfizzare qualunque cosa mostri anche il più tenue segnale di intelletto, e quindi questa storia getta molta più luce sui nostri criteri di valutazione dell’intelligenza che sulle reali capacità del software di elaborazione del linguaggio naturale.

Ma resta un dubbio: alla fine, se escludiamo le visioni mistiche e religiose, anche noi umani siamo hardware e software. Il nostro cervello è un enorme ammasso strutturato di neuroni interconnessi. Come facciamo a dire che dei semplici neuroni “sanno” o “capiscono” qualcosa di complesso come la trama di un libro o la bellezza di un arcobaleno ma al tempo stesso negare questa capacità a una rete neurale artificiale strutturata allo stesso modo?

Forse è solo questione di complessità e l’intelligenza e il sentimento emergono spontaneamente quando si supera una certa soglia di numero di neuroni o di interconnessioni hardware, e forse dovremmo quindi prepararci, prima o poi, ad accettare che anche una macchina possa essere senziente e cercare di non ripetere gli errori del passato, quando abbiamo negato che gli animali provassero dolore o fossero coscienti. Ma questa è un’altra storia.

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2022/07/22: Blake Lemoine è stato licenziato da Google per aver “persistentemente violato le chiare politiche di assunzione e di sicurezza dei dati, che includono la necessità di salvaguardare le informazioni sui prodotti” (Engadget, Slashdot).

 

Fonti aggiuntive: Wired, Wired, Gizmodo.

2022/06/11

Domattina finalmente volerò in mongolfiera; diretta, se possibile, dalle 6.00 (aggiornamento: FATTO!!)

Ultimo aggiornamento: 2022/06/20 18:10.

Mi è arrivato l’avviso che domattina finalmente sarà possibile il volo in mongolfiera, regalatomi dalla Dama del Maniero, di cui avevo scritto a ottobre 2021.

Porterò una GoPro con un selfie stick per qualche ripresa dall’aria, un binocolo e una telecamerina; avrò con me lo smartphone (che spero di poter tenere acceso) con su PhyPhox per registrare i dati GPS e condividere in tempo reale la mia posizione tramite Google Maps (provate a usare questo link per seguirmi).

L’appuntamento è a Barbengo (Canton Ticino), intorno alle 6.15 di domattina; spacchetteremo e gonfieremo la mongolfiera e poi partiremo in direzione dell’Italia. Se siete da queste parti e siete svegli a quell’ora, guardate in cielo :-)

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2022/06/12 11:20. È stato bellissimo. Il silenzio in quota è irreale, interrotto solo dall’abbaiare dei cani e dal suono delle campane delle chiese (e dalle fiammate del bruciatore della mongolfiera). Dalle case, dalle fabbriche e dalle strade non arriva alcun rumore. Veleggiare nel cielo in questo modo è una sensazione strana: la cesta è stabilissima e non si avverte vento in quota (perché ovviamente si viaggia alla stessa velocità del vento). 

Abbiamo avuto il permesso di lanciare aeroplanini di carta mentre eravamo in volo; se ne trovate uno con il mio indirizzo di mail, fategli una foto e mandatemela :-)

Grazie ancora al Gruppo Aerostatico Ticino e a Balloon Team SA Lugano per il loro supporto e per il pilotaggio.

Questo è lo schema del volo, elaborato da FlightRadar24.com basandosi sui dati trasmessi dal transponder ADS-B della mongolfiera. Notate che mancano le fasi iniziali e finali del volo, i cui dati non sono stati ricevuti dai ricevitori ADS-B.

Siamo partiti alle 6:59 da qui e siamo atterrati qui alle 8:17.

Queste sono alcune foto che ho postato in tempo reale su Twitter (sì, il cellulare funziona anche in quota, nonostante una celebre diceria, perlomeno fino a 5000 piedi o 1500 metri, che è la quota massima che abbiamo raggiunto):


Con il permesso dei partecipanti al volo, pubblico qui il mio video che riassume l’avventuretta in mongolfiera, ripresa con una GoPro e con una telecamerina digitale.

Due anni di guida puramente elettrica; scambio batterie contro carica senza cavi

Ultimo aggiornamento: 2022/07/17.

Il 3 giugno scorso ho festeggiato due anni di guida totalmente elettrica. Da allora ho percorso circa 32.000 chilometri, ai quali si aggiungono i 17.000 percorsi elettricamente quando avevo sia un’auto elettrica (per i viaggi brevi) sia un‘auto a carburante (per i viaggi lunghi). In questi 49.000 chilometri complessivi ho accumulato esperienze e avventure e imparato tantissimo sui pregi e i limiti dei veicoli puramente elettrici... e mi sono conquistato una nuova legione di hater (ma fa niente; non è la prima e non sarà l’ultima).

Il divertimento è stato tanto e continua a esserlo ogni volta che viaggio: silenziosità, facilità di guida, assenza di gas di scarico e il piacevole effetto collaterale di aver risparmiato circa 3700 euro di carburante (per non parlare dei tagliandi di manutenzione) sono un piacere che continua a rinnovarsi. Fare viaggi anche lunghi in auto elettrica è diventato normale, tanto che non c’è più nulla di speciale da raccontare e si tratta solo di appunti di viaggio con qualche piccolo consiglio e trucco, e quindi ho relegato la cronaca delle avventurette in auto elettrica al blog tematico Fuori di Tesla News.

Qualche esempio:

Intanto la tecnologia corre, e quindi segnalo questo video di Fully Charged che mette a confronto due sistemi di ricarica rapida. Il primo è lo scambio automatizzato della batteria scarica con una carica, presso le apposite stazioni che Nio sta installando (per ora in Cina e Norvegia); il secondo è la carica senza cavi e senza contatto, grazie alla quale è sufficiente parcheggiare l’auto sopra un’apposita placca integrata nella pavimentazione per avviare la carica nel giro di tre secondi. Niente cavi da srotolare sotto la pioggia o al freddo, niente app. Questa enorme comodità e semplicità rende possibile e pratica la ricarica fatta frequentemente durante le piccole soste (quelle degli autobus alle fermate, quelle dei taxi in attesa di clienti). Il sistema raggiunge i 50 kW e funziona anche se la placca è coperta da acqua, neve o ghiaccio; eventuali animali che si infilassero sotto l’auto non verrebbero cotti (c’è un apposito sistema di sicurezza).

Per chi ha fretta, lo scambio batterie inizia a 4:15 e la carica senza contatto inizia a 6:36.

Tesla fece una dimostrazione di cambio rapido della batteria di una Model S nel 2013, ma abbandonò l’idea per via dello scarso interesse, dei costi elevati delle stazioni di scambio e dell’aumento di potenza delle colonnine che ridusse drasticamente i tempi di carica.

2022/06/10

Podcast RSI - Apple Newton, storia di un flop rivoluzionario che compie trent'anni

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È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate presso www.rsi.ch/ildisinformatico (link diretto) e qui sotto.

I podcast del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite feed RSS, iTunes, Google Podcasts e Spotify.

Buon ascolto, e se vi interessano i testi e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

Prologo

CLIP AUDIO: Musica anni '90 tratta da video promozionale dell’Apple Newton

Siamo nel 1992; è il 29 maggio. Apple presenta al pubblico un dispositivo digitale tascabile con schermo sensibile al tocco, un processore innovativo e app integrate che darà il via a un intero nuovo settore informatico. No, non è l’iPhone: quello uscirà quindici anni più tardi, nel 2007.

Questa è la storia di Newton, un quasi-flop oggi dimenticato da molti, che però ha creato le basi per gli smartphone e per tutta l’informatica tascabile. Prima di lui c’erano stati altri computer da taschino, ma Newton è formalmente il primo PDA: personal digital assistant. Un assistente personale digitale, pensato per sostituire agende, calcolatrici e taccuini. In occasione del trentennale del suo debutto, ripercorro le tappe della sua sofferta gestazione tecnica e la sua sorprendente eredità digitale, presente in ogni smartphone di oggi. Io sono Paolo Attivissimo, e vi do il benvenuto a questa puntata del Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica.

SIGLA DI APERTURA

Se è vera la teoria dei multiversi, da qualche parte esiste un universo nel quale gli smartphone sono arrivati con quindici anni di anticipo, negli anni Novanta invece che alla fine della prima decade del Duemila, e Apple ha evitato un tonfo commerciale così memorabile da essere parodiato anche dai Simpsons.

È il 29 maggio 1992. Il CEO di Apple, che in questa fase della crescita dell’azienda non è Steve Jobs, che ha lasciato Apple nel 1985, ma è John Sculley, annuncia e presenta al Consumer Electronics Show di Chicago, una delle più grandi fiere mondiali del settore informatico, un prodotto che definisce, con il classico stile Apple, “una rivoluzione”. È un computer, alimentato da quattro batterie stilo, che sta in un taschino ed è dotato di app per gestire agende e rubriche di indirizzi, prendere appunti scritti a mano libera, fare calcoli, trasmettere dati, inviare messaggi e leggere libri digitali (con quindici anni di anticipo rispetto al Kindle di Amazon). Sculley ha coniato pochi mesi prima per l’occasione il nome che caratterizzerà tutti i dispositivi di questo genere: personal digital assistant, abbreviato in PDA. In sostanza, un assistente personale digitale.

Un video del 1987 in cui Apple immaginava un Knowledge Navigator del futuro.

Quello presentato da Sculley si chiama Newton MessagePad, o più brevemente Newton; non è il primo del suo genere, perché Psion ha già presentato qualcosa di vagamente simile, il suo Organiser, nel 1984, e il suo popolarissimo Series 3 nel 1991, ma Newton è un salto di qualità, con uno schermo tattile sul quale si può disegnare con uno stilo appositamente fornito, e anche scrivere in corsivo appunti che il software di riconoscimento della scrittura trasforma in caratteri alfabetici digitali. Si possono disegnare forme a mano libera, che vengono riconosciute e trasformate in oggetti geometrici che possono essere trascinati sullo schermo e cancellati scarabocchiandovi sopra. Newton è in grado di inviare fax e di trasmettere dati ad altri Newton tramite una porta a infrarossi.

In un’epoca nella quale, tenete presente, il Wi-Fi ancora non esiste, visto che verrà inventato cinque anni più tardi, e i computer sono ancora oggetti fissi sulle scrivanie e quelli portatili sono pesanti, ingombranti e costosi, le caratteristiche del Newton sono impressionanti e futuribili e fanno gola a chiunque debba viaggiare molto e gestire dati per lavoro.

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La dimostrazione di Sculley del Newton stupisce il pubblico, ma questo effetto wow è stato ottenuto a caro prezzo. Il progetto iniziale, partito sei anni prima, è stato afflitto da carenze tecnologiche enormi. I processori scelti, per esempio, sono lentissimi, il dispositivo verrebbe a costare seimila dollari agli utenti, consuma tantissima energia ed è troppo ingombrante. Molti degli sviluppatori lasciano Apple per la disperazione.

È qui che entra in gioco, stranamente, una piccola azienda informatica britannica, la Acorn, che è incredibilmente riuscita a creare un nuovo tipo di processore che offre prestazioni ragionevoli con un consumo energetico ridottissimo. Apple ci prova: investe tre milioni di dollari in quest’azienda e ottiene in cambio un processore finalmente adatto a un computer tascabile. Trent’anni più tardi, i discendenti di quel processore saranno presenti in miliardi di smartphone di tutte le marche e nei computer odierni di Apple: li conosciamo con la sigla ARM, dove la A in origine stava appunto per Acorn.

Anche il software di riconoscimento della scrittura del Newton è nei guai. Leggenda vuole che Apple riceva un aiuto in questo campo in una maniera decisamente insolita. Al Eisenstat, vicepresidente del marketing di Apple, si trova in visita a Mosca quando qualcuno bussa alla porta della sua camera d’albergo: è un ingegnere informatico russo estremamente agitato, che gli porge un dischetto e se ne va. Sul dischetto c’è una versione dimostrativa di un software di riconoscimento della scrittura nettamente superiore a quello sviluppato fino a quel punto da Apple. È leggenda, ma sia come sia, poco dopo Apple sigla un accordo con il creatore di questo software, Stepan Pachikov, e lo usa per il Newton.

Poi c’è anche la questione delle dimensioni. Il CEO di Apple, John Sculley, impone che il Newton debba essere sufficientemente compatto da stare nella tasca della sua giacca. Fra i progettisti impegnati in questa sfida c’è anche un giovane Jony Ive, oggi famoso per il suo design degli iPhone, iPod, iPad, iMac, Apple Watch e AirPod. Alla fine i progettisti ce la fanno, ma l’esemplare mostrato da Sculley in quella fatidica presentazione di trent’anni fa è incompleto e zoppicante. Sculley fa vedere al pubblico soltanto le poche funzioni del Newton che non lo mandano in crash, esattamente come farà Steve Jobs nel 2007 per la prima dimostrazione pubblica dell’iPhone.

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Newton, insomma stupisce il pubblico e la stampa. Viene messo in vendita un anno dopo, ad agosto del 1993, al prezzo non certo regalato di circa 700 dollari dell’epoca. Il suo schermo è in bianco e nero, non è retroilluminato e ha una risoluzione di 240 per 320 pixel, che oggi farebbe sorridere ma è la norma per quegli anni. Soprattutto, però, è un prodotto incompleto: nonostante un anno di lavoro impossibilmente febbrile da parte degli ingegneri di Apple, uno dei quali, Ko Isono, si è tolto la vita per lo stress, i primi acquirenti si rendono conto ben presto che la funzione più preziosa di Newton, cioè il riconoscimento della scrittura naturale, non funziona bene, neanche dopo l’addestramento previsto appositamente.

In breve tempo il Newton diventa l’esempio tipico dei dispositivi costosi e high-tech che però falliscono miseramente nel sostituire le tecnologie analogiche precedenti. L’inaffidabilità del suo software di riconoscimento della scrittura viene parodiata un po’ovunque, persino dai Simpsons, nella puntata Lisa sul ghiaccio.

CLIP AUDIO: Spezzone della puntata dei Simpsons (originale inglese)

Apple migliorerà il Newton per qualche anno, risolvendo quasi tutti i suoi difetti iniziali, ma sarà troppo tardi: nel frattempo altre aziende, come IBM, Palm, Microsoft e Nokia, ispirate da quell’effetto wow ottenuto dalla presentazione del Newton, avranno fiutato l’affare e avranno messo sul mercato dispositivi tascabili forse meno mirabolanti ma sicuramente più affidabili e meno costosi, molti dei quali includeranno anche la connettività cellulare, come il Nokia Communicator.

In tutto verranno venduti non più di trecentomila esemplari delle varie versioni di Newton, mentre le vendite del solo rivale Palm Pilot ammonteranno a milioni di pezzi. Nel 1998 Steve Jobs, tornato a dirigere Apple, cancellerà il progetto Newton e ne farà cessare la commercializzazione. Il prodotto era troppo in anticipo sui tempi.

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Oggi sono in pochi a ricordare il Newton, e chi lo fa lo rievoca con molta nostalgia. Ci sono ancora degli appassionati che adoperano ancora i propri Newton adesso e li hanno dotati di browser e Wi-Fi; ma pochi sanno che l’eredità di questo dispositivo è un po’ovunque. Oltre ai processori ARM e ai primi passi di design di Jony Ive, infatti, ci sono piccole chicche, come lo sbuffo di fumo animato che compare quando si cancella qualcosa sul Mac, o le icone che si aggiornano in tempo reale, che sono nate proprio con il Newton. E ci sono anche altre funzioni ben più sostanziose, come l’assistente “intelligente” che consente di fare cose sul Newton usando il linguaggio naturale, come facciamo oggi con Siri o in generale con gli assistenti vocali. Nel Newton c’è la ricerca universale all’interno di tutti i dati e di tutte le applicazioni, oggi normale nei dispositivi digitali. Il linguaggio di programmazione, NewtonScript, ha influenzato la creazione del JavaScript, linguaggio onnipresente nei siti Web di tutto il mondo.

Oggi l’intero settore dei PDA, o personal digital assistant, è stato assorbito da quello degli smartphone e in parte da quello degli smartwatch, e il termine stesso comincia a svanire dalla memoria. Ma senza quel Newton e l’idea folle di realizzare un computer grafico da taschino negli anni Novanta non saremmo qui a dettare i nostri appuntamenti e a scambiare foto, musica e messaggi sui nostri telefonini. Buon trentesimo compleanno, Apple Newton, e congratulazioni per un fallimento di grande successo.

Fonti aggiuntive: Ars Technica, iMore.com, History-computer.com, Cult of Mac.

2022/06/03

Podcast RSI - Europol debella il malware FluBot; Documenti Word portano il malware Follina; Alexa prega, ma solo se la paghi

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2022/06/02

Alexa prega con te, ma solo se la paghi: occhio agli acquisti vocali

Questo articolo è disponibile anche in versione podcast.

Con tutti questi malware in giro, c’è quasi da dire le preghiere ogni volta che si sta per aprire un allegato. Il guaio è che in informatica anche la preghiera può nascondere un raggiro.

Lo sa bene Patricia Collinson, una devota ottantasettenne che vive a Hastings, nel Regno Unito, e si è trovata involontariamente al centro di un inganno informatico decisamente insolito. La figlia le ha regalato un assistente vocale, un altoparlante Alexa di Amazon, e la signora ha iniziato a usarlo con entusiasmo, soprattutto quando ha scoperto che poteva chiedere ad Alexa, semplicemente parlando, di recitare una preghiera con lei, specificamente l’Ave Maria.

Quasi tutte le mattine la signora Collinson si sedeva in poltrona e parlava ad Alexa come se fosse una persona, dicendole “Buongiorno Alexa, puoi recitare per favore l’Ave Maria?”, e Alexa eseguiva prontamente la richiesta.

Ma l’entusiasmo della signora è passato ben presto quando si è accorta, grazie alla figlia, che la solerte Alexa recitava l’Ave Maria solo per soldi. Infatti la signora, senza rendersene conto, si era abbonata a un servizio a pagamento semplicemente parlando ad Alexa.

La figlia, alla quale era intestato l’account di Alexa, se ne è accorta quando ha ricevuto una mail dalla ditta statunitense Catholic Prayers che la informava dell’attivazione di un abbonamento a pagamento sull’Alexa che lei aveva regalato alla madre. Due sterline al mese, quindi non certo un salasso, ma restava il problema che la signora Collinson aveva attivato un contratto di addebito permanente a un servizio semplicemente con la voce, senza nessuna delle normali conferme visive o cartacee che esistono negli acquisti normali.

Questa situazione potenzialmente ingannevole è stata confermata da Amazon al figlio della signora Collinson, che l’ha documentata per il giornale britannico The Guardian dove lavora: si possono fare acquisti a voce, ha confermato Amazon, “dicendo di sì a un messaggio di offerta di un prodotto, generato quando un cliente richiede direttamente il prodotto o quando il cliente risponde positivamente a un suggerimento proattivo all’interno della skill”. Le skill sono, in sostanza, l’equivalente vocale delle app. 

[nel podcast qui c’è l’audio di Alexa che offre di acquistare a voce, tratto da Voice Technology di Alessio Pomaro]

La ditta Catholic Prayers, contattata, ha ipotizzato che la signora non si sia resa conto che Alexa la stava avvisando che il servizio di preghiera era a pagamento e abbia risposto di sì a questo avviso. La ditta, fra l’altro, dice di avere circa 10.000 utenti al mese. Viene da chiedersi se esistono davvero diecimila persone consapevolmente disposte a pagare due sterline al mese per farsi dire da un altoparlante una preghiera che possono sentire gratis (per esempio tramite l’assistente vocale di Google) o se si tratta almeno in parte di persone che sono cadute nello stesso equivoco della signora Collinson.

Dato che questi assistenti vocali vengono regalati sempre più spesso a persone che non hanno competenze informatiche e non sanno cosa sia una skill o che si possano generare degli addebiti semplicemente parlando, è importante che chi fa questi regali sia ben consapevole di queste funzioni, per evitare addebiti indesiderati, e sappia come disabilitarle.

Per impedire acquisti accidentali fatti a voce con un dispositivo Alexa si può entrare nell’account che lo gestisce e selezionare, nelle impostazioni, la sezione Acquisti tramite voce. Qui si può scegliere se disattivarla completamente oppure se proteggerla con un codice segreto di quattro cifre che dovrà essere detto ad Alexa per confermare l’intenzione di acquisto. In questo modo, solo chi conosce questo codice potrà fare acquisti. Ovviamente, se il codice viene detto in presenza di altre persone non sarà più segreto.

Viene da chiedersi quanti utenti di questi assistenti vocali siano a conoscenza di queste funzioni di acquisto automatico e sappiano come impostarle correttamente. Nel frattempo, Amazon segnala con entusiasmo sulle proprie pagine promozionali che ci sono sviluppatori che hanno guadagnato 25.000 dollari in soli sei mesi vendendo agli utenti Alexa la funzione che consente all’assistente vocale di dire “Buona notte” e una frase di conforto. E lasciando da parte un momento la questione degli addebiti non intenzionali, fa tristezza pensare che ci siano persone così sole da essere disposte a pagare per farsi dire una preghiera o la buonanotte da una macchina.

Attenzione ai documenti Word, una falla di Windows consente di usarli per attacchi informatici

Ultimo aggiornamento: 2022/06/02 9:00.

Morto un malware se ne fa un altro, si potrebbe dire: si è appena concluso felicemente il problema di Flubot e già siamo alle prese con un nuovo aggressore informatico, che stavolta colpisce gli utenti di Microsoft Word e Windows tramite documenti Word infettanti.

Lo fa sfruttando una vulnerabilità, presente in tutte le versioni recenti di Office e di Windows, che sorprendentemente riesce ad agire anche se sono state disabilitate le macro, che sono un vettore abituale di attacco, e anche se il documento Word non viene aperto ma soltanto visualizzato da un’anteprima in Esplora file.

Una volta avviato l’attacco, l’aggressore può prendere il controllo sostanzialmente completo del computer della vittima, per esempio installando programmi o guardando, modificando o cancellando dati a suo piacimento. Un bel guaio, insomma.

Microsoft non ha ancora diffuso un aggiornamento di sicurezza che corregga il problema, e la falla viene già sfruttata attivamente dai criminali informatici, ma i principali antivirus riconoscono già i documenti Word infettanti e quindi proteggono abbastanza bene gli utenti.

La vulnerabilità è stata soprannominata Follina dal ricercatore di sicurezza Kevin Beaumont; un nome strano, visto che Follina è una località italiana in provincia di Treviso. Ma non c’è alcun intento di accusare i follinesi di essere artefici di attacchi informatici: Beaumont ha semplicemente visto che uno dei primi esemplari di documento Word infetto si chiamava 05-2022-0438.doc e il significato della prima parte del nome gli pareva ovvio (“maggio 2022”) ma non riusciva a spiegarsi lo 0438. Ha notato che 0438 era il prefisso telefonico di Follina, e così lo ha scelto come nome facilmente ricordabile per questa vulnerabilità, che altrimenti sarebbe identificata formalmente dall’assai meno memorabile sigla tecnica CVE-2022-30190. Gli informatici sono fatti così.

La vulnerabilità viene sfruttata almeno da aprile scorso, quando sono stati segnalati a Microsoft dei documenti Word, costruiti appositamente per utilizzarla, che fingevano di essere richieste di interviste dell’agenzia di notizie russa Sputnik. Ma ci sono anche altri esempi di attacco informatico che usano questa falla, per esempio ad opera di gruppi criminali cinesi e per rubare password

Una volta scoperta, insomma, questa vulnerabilità ha cominciato a circolare fra i malviventi informatici, che stanno usando i pretesti emotivi più disparati per incuriosire le vittime e indurle a scaricare e visualizzare il documento Word infettante. Uno dei primi casi di Follina, per esempio, si presentava come una denuncia di un’infedeltà di coppia, corredata da foto compromettenti e da una promessa di vendetta e ricatto: una tentazione morbosamente irresistibile per molti utenti. 

In attesa che Microsoft distribuisca un aggiornamento correttivo, sono state pubblicate delle istruzioni tecniche per disabilitare le funzioni di Windows che rendono possibile la falla. In sostanza si tratta di modificare una chiave del Registro di Windows che riguarda il servizio Microsoft Support Diagnostic Tool (MSDT), come descritto per esempio da Paul Ducklin di Sophos, cosa che però molti utenti non sono in grado di fare. Per cui se usate Windows vi conviene aggiornare il vostro antivirus, fare molta attenzione ai documenti Word inattesi, specialmente se hanno contenuti che possono stuzzicare la curiosità, e aspettare con impazienza l’aggiornamento di Microsoft. 

Per i più coraggiosi, le istruzioni per disabilitare temporaneamente la chiave del Registro sono queste:

  1. Eseguire il Prompt dei comandi come Amministratore.
  2. Fare una copia di backup della chiave, dando il comando reg export HKEY_CLASSES_ROOT\ms-msdt nome_file (dove nome_file è il nome del file nel quale salvate il backup)
  3. Eseguire il comando reg delete HKEY_CLASSES_ROOT\ms-msdt /f.

 

Fonti aggiuntive: Huntress, Cisa.gov, Graham Cluley, Ars Technica, The Register, BleepingComputer.

Il malware FluBot non può più fare danni, Europol l’ha bloccato

Una volta tanto dal mondo del crimine informatico arriva una buona notizia: FluBot, uno dei più diffusi malware per smartphone Android, usato per rubare password e accedere a conti bancari, è stato bloccato da un intervento coordinato delle forze di polizia di undici paesi.

Lo ha annunciato il primo giugno Europol, con un comunicato stampa che non entra nei dettagli tecnici ma si limita a dire che a maggio scorso la polizia olandese ha interrotto l’operatività dell’infrastruttura informatica che gestiva questo malware. Il risultato è che le tante persone che hanno il telefonino infettato da FluBot non corrono più alcun pericolo.

La storia di FluBot è una delle più spettacolari degli ultimi tempi in campo informatico. Avvistato inizialmente a dicembre del 2020, questo malware si era propagato rapidamente nel corso del 2021, infettando un numero molto elevato di smartphone Android, con effetti particolarmente pesanti in Spagna e Finlandia. 

La sua tecnica di diffusione era classica, come avevo raccontato in questo podcast a ottobre 2021 con un aggiornamento proprio la settimana scorsa: la vittima riceveva un SMS che fingeva di essere un avviso di tracciamento di un pacco postale o un messaggio vocale e conteneva un link da cliccare per installare un’app che, stando all’SMS, era necessaria per tracciare la spedizione o ascoltare il messaggio vocale.

Ma se la vittima cliccava sul link e installava la presunta app, in realtà installava FluBot, che prendeva il controllo dello smartphone per rubare credenziali bancarie, intercettare i codici delle autenticazioni a due fattori e disabilitare le normali protezioni dei telefonini Android. 

FluBot accedeva poi alla rubrica dei contatti del telefonino infetto e inviava di nascosto a tutti i contatti degli SMS ingannevoli dello stesso genere per tentare di infettare altri smartphone. Questo sistema molto semplice gli consentiva di propagarsi con estrema rapidità e a insaputa delle vittime.

Il danno complessivo causato da FluBot è difficile da quantificare, ma la polizia olandese dichiara di aver scollegato diecimila vittime dalla rete di FluBot e di aver impedito l’invio di oltre sei milioni e mezzo di SMS che avrebbero tentato di infettare altrettanti smartphone.

Europol nota che sono state convolte le forze di polizia di Australia, Belgio, Finlandia, Ungheria, Irlanda, Romania, Svezia, Spagna, Stati Uniti, Olanda e Svizzera. La polizia spagnola, a marzo 2021, aveva compiuto quattro arresti di persone sospettate di essere elementi chiave dell’organizzazione criminale che gestiva FluBot, ma dopo una breve pausa il malware aveva ripreso a diffondersi ancora più rapidamente. Ora le forze dell’ordine hanno preso il controllo dell’infrastruttura di FluBot e quindi non c’è più rischio di nuove propagazioni.

Resta però il problema dei tanti utenti infetti, che probabilmente nemmeno sanno di essere stati colpiti da FluBot perché questo malware agisce senza produrre effetti visibili. Se avete cliccato sul link in un SMS che vi chiedeva di installare un’app e ora avete sullo smartphone un’app che non si apre quando la toccate e produce un messaggio di errore se tentate di disinstallarla, potrebbe trattarsi di FluBot, spiega Europol, che ha un consiglio piuttosto drastico per chi sospetta di essere stato infettato: fare un ripristino di fabbrica del telefonino, che sicuramente rimuoverà l’eventuale malware ma comporterà la perdita di tutti i dati non salvati su supporti esterni. Maggiori dettagli su come procedere sono disponibili in questo tutorial video e in queste istruzioni dell’operatore telefonico svizzero Salt.

Fonti aggiuntive: HelpNetSecurity, BleepingComputer, AFP.

2022/06/01

Ci vediamo a Padova al CicapFest?

Da venerdì 3 giugno fino a domenica 5 giugno si tiene a Padova il CicapFest 2022, una serie di incontri, chiacchierate e conferenze su scienza, misteri, illusionismo, robotica e molto altro. I relatori sono tantissimi (trovate il programma qui) e ho l’onore di essere uno di loro. Gli eventi del CicapFest sono tutti a ingresso gratuito, tranne due serate e alcuni workshop. Per saperne di più, visitate il sito del CicapFest.

Venerdì 3 giugno alle 10 sarò nell’Aula Magna di Palazzo del Bo per tenere la conferenza Al sicuro sul Web. Sicurezza informatica e privacy digitale quotidiana. La conferenza, presentata da Agnese Sonato, sarà trasmessa in streaming qui, sulla pagina Facebook del CICAPFest e sul canale YouTube del CICAP.

Sabato 4 giugno alle 10.45, presso il cortile di Palazzo Moroni, modererò Nicolò Bagnasco e Mattia Barbarossa per l’incontro Ascensori per la luna e armi laser: quando la scienza rimane fantascienza.

Domenica 5 giugno alle 11, presso l’Aula E di Palazzo del Bo, avrò il piacere di presentare Luigi Garlaschelli, Alessandra Carrer e l'Associazione culturale Steampunk Nordest in Fantascienza Steampunk, scienziati "pazzi" e scienza moderna. Aspettatevi di tutto, compresa una mia... veste inedita.

Sempre domenica 5 giugno, ma alle 15:15, a Palazzo Santo Stefano, sarò in compagnia di Paolo Cortesi e Stefano Marcellini per parlare di Viaggi nel tempo: tra fantasia e realtà, con la moderazione di Giuliana Galati.

Per il resto del tempo, sarò in giro per il CicapFest a godermi le conferenze e gli eventi. Se ci siete e mi incrociate, fatemi un fischio!

Antibufala: Salvini e il “sondaggio” sull’educazione sessuale alle elementari

Ultimo aggiornamento: 2022/06/01 16:45.

Il 30 maggio scorso Matteo Salvini ha pubblicato un tweet nel quale ha scritto “Parlare di sesso, di coito e penetrazione a bimbi delle scuole elementari? Dal 70% di mamme e papà, me compreso, un secco NO.” Nel tweet ha incluso uno screenshot, senza link, di un articolo che titola “Educazione sessuale alla scuola primaria, 7 genitori su 10 contrari”.

Ho risposto al suo tweet: “Non si preoccupi. Lavoro nelle scuole. Insegno informatica. Vedo cos'hanno nei loro telefoni e cosa si scambiano. Alle elementari hanno già imparato tutta la meccanica della sessualità da YouPorn (nel caso migliore) e nulla dei sentimenti. Sono i risultati del "secco NO".”

Chiarisco che con “vedo cos’hanno nei loro telefoni” non intendo dire che faccio intrusioni o perquisizioni informatiche, come alcuni hanno pensato: molto più banalmente, sono i bambini stessi a raccontare, a me e ai colleghi informatici che vanno nelle scuole a fare lezioni di sensibilizzazione alla sicurezza e alla privacy digitale, le cose che hanno visto. Non solo pornografia estrema, ma anche violenze, omicidi, suicidi e torture. Faccio questo lavoro nelle scuole da oltre quindici anni, spesso in collaborazione con le forze di polizia, e ho visto e sentito davvero di tutto.

I commenti su Twitter che sono scaturiti da questo scambio di tweet sono stati molto interessanti: molti hanno negato che esista la questione o addirittura che i bambini abbiano a disposizione telefonini (a scuola magari è così, ma a casa e nel tempo libero ce li hanno eccome, secondo i dati più recenti, che indicano che il 58% dei bambini tra 6 e 10 anni ha uno smartphone). Molti altri invece hanno sottolineato che l’esposizione a contenuti scioccanti avviene sempre più precocemente e che l’unica strategia fattibile è l’informazione preventiva, affinché l’unica fonte di “conoscenze” sulla sessualità e di modelli di comportamento non sia Pornhub.

In tutta la discussione, però, pochi hanno notato due aspetti fondamentali, e questo ha generato disinformazione.

Il primo aspetto è che il “sondaggio” citato da Salvini non è attendibile: lo dice la fonte stessa del sondaggio. La fonte (non citata da Salvini) è questo articolo della testata giornalistica Tecnicadellascuola.it (copia permanente), che dice molto chiaramente che “Il sondaggio non ha carattere di scientificità: i risultati derivano da conteggi automatici”. Non risulta che vi sia stata aluna selezione rappresentativa dei partecipanti e alcuna verifica dei loro ruoli o delle loro identità. 

Parallelamente, lo stesso articolo descrive un sondaggio, effettuato dalla testata su Instagram, che ha prodotto risultati opposti (71% favorevoli e 29% contrari). Neppure questo ha carattere di scientificità, ma è interessante notare che Salvini non lo menziona.

Il secondo aspetto è che l’educazione sessuale è proposta solo in quinta, ossia a undici anni: un’età alla quale le curiosità sulla sessualità e le possibilità di accesso a Internet sono estremamente diffuse. Molti invece hanno immaginato lezioni di “sesso, di coito e penetrazione” (per usare la descrizione grossolanamente errata e fuorviante di Salvini) rivolte ai bambini di prima elementare. Non è così: lo dice proprio l’articolo citato da Salvini, scrivendo che si tratta della “possibilità che, come da indicazioni nazionali per il curricolo, a partire dal quinto di scuola primaria si trattino in classe i temi legati alla sessualità e alla riproduzione”.

Specificamente, le “indicazioni nazionali” (linkate erroneamente nell’articolo di Tecnicadellascuola.it ma reperibili su Archive.org) parlano, a pagina 68, di “Obiettivi di apprendimento al termine della classe quinta della scuola primaria” ed elencano, fra le varie voci, questa: “Avere cura della propria salute anche dal punto di vista alimentare e motorio. Acquisire le prime informazioni sulla riproduzione e la sessualità.”

In sintesi: Salvini si sta appoggiando a un sondaggio che si autodichiara inaffidabile e non esistono proposte istituzionali di “parlare di sesso, di coito e penetrazione” a bimbi di prima elementare. In quinta, a undici anni, non si è più nell’infanzia. Gli ormoni cominciano a farsi sentire, e la curiosità galoppa. Siete stati undicenni anche voi. Provate a ricordarvi com’eravate davvero.

Segnalo inoltre un bell’articolo dell’amico Salvo di Grazia, che racconta la sua esperienza di medico chiamato a fare una lezione di educazione sessuale a scuola. In questo campo, noi adulti abbiamo molto da imparare dai bambini.


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