Oggi molte aziende stanno tentando di insegnare la guida autonoma a un’intelligenza artificiale usando grandi masse di dati: fai vedere alla IA milioni di foto o di scansioni LIDAR di oggetti, per esempio semafori, le dici “questi sono semafori” e continui a farlo finché non li riconosce tutti con altissimo tasso di successo in ogni condizione di luce, disposizione e orientamento. Il problema è che il mondo non è tutto uguale.
Le regole del traffico variano da paese a paese. La segnaletica varia. Il cartello dei 50 km/h italiano è diverso da quello francese e da quello svizzero, tanto per fare un esempio, e il sorpasso/superamento a destra è consentito in alcuni paesi ma in altri no, per non parlare di quelli squinternati che guidano a sinistra e affrontano le rotatorie a rovescio. Servirebbero quindi dataset di apprendimento separati per ogni paese e descrizioni software di regole differenti per i singoli codici della strada nazionali.
Inoltre gli stili di guida degli umani variano, non solo da paese a paese ma da città a città, come ben sa un palermitano che guida a Napoli o un milanese che guida a Zurigo. Un’auto con IA deve agire in modo diverso a seconda della disciplina e dell’aggressività degli automobilisti e dei pedoni: un’IA pensata per la tranquilla e ordinata Olanda sarebbe paralizzata dal terrore nel traffico romano (e dovrebbe oltretutto adattarsi quando l’auto si sposta da una regione all'altra). Quindi servirebbero dataset estremamente granulari, distinti e localizzati.
Ma per crearli con il metodo usato per esempio da Tesla, ossia far circolare le auto, registrare tante immagini, etichettarle inizialmente a mano e poi far fare il resto all’IA, verificando man mano successi e insuccessi e osservando cosa fanno i guidatori umani (il cosiddetto shadow mode), servirebbero tante auto per ogni singola regione.
Esempio concreto: Tesla ha attivato da poco il riconoscimento dei coni di delimitazione delle corsie per lavori stradali. Ma l'addestramento a riconoscerli è basato principalmente su dataset americani. Riconoscerà i coni italiani di delimitazione delle corsie, che sono più piccoli?
Please @elonmusk@karpathy@Tesla keep high attention to this case. AP, on 2019.32.12.3, still doesn’t recognize the little cones used in Italy to close an highway lane, so NoA ask to use the adiacent lane.... pushing you in front of the incoming traffic! @TeslaOwnersIT#AP2pic.twitter.com/TOidJxW8NF
[2019/11/03 20:45: dopo la pubblicazione iniziale di questo articolo, è emerso che il tweet citato qui sopra si riferisce a un altro problema di riconoscimento, riferito alle corsie. Il principio generale, comunque, resta valido]
Intendiamoci: gli attuali sistemi di guida assistita (non autonoma) si comportano egregiamente e sono straordinariamente utili in condizioni semplici, come i viaggi in autostrada. Ma nelle situazioni complesse, come i cantieri o il traffico cittadino, crollano miseramente. Per questo si raccomanda, forse mai a sufficienza, di non fidarsi ciecamente degli attuali sistemi e di non portarli oltre i loro limiti ben circoscritti.
Insomma, il problema è più complicato di quel che molti pensano. Un’AI di guida totalmente autonoma, nel caos delle strade reali e dei codici della strada incoerenti e differenti, è un incubo da realizzare e testare. Tenetene conto nella guida, se avete l’Autopilot di Tesla o dispositivi simili, e nell'acquisto, se state pensando di comprare un'auto con AI.
Ci sarebbe una possibile soluzione: riscrivere i codici della strada per renderli uguali in tutto il mondo e riprogettare la viabilità di conseguenza. Un’altra soluzione sarebbe separare il traffico autonomo da quello umano, con corsie/strade distinte e su misura. In ogni caso servirà uno sforzo enorme e un grandissimo dispendio di intelligenza naturale, risorsa ahimé scarsissima, ma si salveranno migliaia di vite.
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I decenni passano e le tecnologie si evolvono, ma alla fine ogni astronauta che parte per un volo spaziale si trova sempre nella stessa situazione: sigillato dentro una piccola cabina che sta appollaiata sopra alcune centinaia di tonnellate di propellente altamente infiammabile. Propellente che bisogna oltretutto accendere per poter partire. Il lancio di un vettore spaziale è in sostanza una gigantesca esplosione controllata.
Ma cosa succede se diventa un’esplosione incontrollata?
Puntali salvavita
Nella maggior parte dei vettori spaziali per equipaggi è presente un Launch Escape System o LES, che tradotto letteralmente significa “sistema di fuga dal lancio”. Di solito è costituito da uno o più motori a razzo ad altissima accelerazione, capaci di sollevare l’abitacolo intero, catapultarlo rapidamente a distanza di sicurezza dal razzo vettore e portarlo a una quota sufficiente a consentire l’apertura di uno o più paracadute per ottenere un atterraggio morbido sulla terraferma. Quei puntali sottili in cima alla maggior parte dei razzi che trasportano equipaggi sono dei LES.
La sommità di un vettore Soyuz mostra il sistema di evacuazione d’emergenza SAS (il puntale con i quattro ugelli rossi); il veicolo spaziale è all’interno della carenatura. Credit: Carla Cioffi, Wikimedia Commons, 2011.
Ovviamente si spera sempre di non doverli usare, ma a volte succede. Nel 1983, il vettore Soyuz-U della missione sovietica Soyuz T-10-1 s’incendiò poco prima del lancio e il suo LES (o SAS, dalle iniziali di Sistema Avariynogo Spaseniya) fu attivato dai controllori della missione solo due secondi prima che il razzo esplodesse.
I due cosmonauti a bordo, Vladimir Titov e Gennady Strekalov, si salvarono, sopportando un’accelerazione di ben 17 g per circa cinque secondi e ricadendo a circa quattro chilometri di distanza, mentre i resti del vettore bruciavano sulla rampa di lancio.
Militari russi osservano l'unico uso di un sistema di evacuazione d’emergenza da parte di un equipaggio: Titov e Strekalov, Soyuz T-10-1, 1983.
Anche gli americani, all’inizio del proprio programma spaziale con equipaggi, adottarono un LES a forma di puntale per le missioni Mercury e Apollo. Furono più fortunati dei russi, perché non ebbero mai la necessità di attivarli.
Il puntale con il sistema di evacuazione d’emergenza di Apollo 11. Foto NASA AP11-69-HC-718.
I veicoli statunitensi della serie Gemini, invece, fecero a meno di questo puntale di salvataggio, perché adottarono un sistema differente. Sollevare e accelerare un intero abitacolo richiede motori molto potenti, che però costituiscono una zavorra se non vengono utilizzati: nel caso delle missioni Apollo, per esempio, il LES pesava ben 3,6 tonnellate. Così le Gemini usarono una soluzione più snella e leggera: dei seggiolini eiettabili.
Specifiche del seggiolino eiettabile dei veicoli spaziali Gemini.
Illustrazione dell’espulsione degli astronauti da un veicolo spaziale Gemini collocata in cima al suo vettore di lancio Titan.
Illustrazione della procedura di eiezione ad alta quota (fino a circa 20 km) degli astronauti Gemini. Si nota l’uso di un ballute, ossia di un pre-paracadute frenante sferico gonfiabile, prima del paracadute vero e proprio.
La stessa scelta tecnica fu fatta per gli Shuttle statunitensi, durante i loro voli iniziali, e per le Vostok russe.
Spaccato di una capsula Vostok, che mostra chiaramente il seggiolino eiettabile.
Seggiolino eiettabile Vostok. Credit: London Science Museum.
Illustrazione di un seggiolino eiettabile Vostok, che mostra la posizione della capsula nella carenatura ed evidenzia l’apertura nella carenatura stessa attraverso la quale il cosmonauta poteva eiettarsi sulla rampa di lancio.
Nel caso delle Vostok, fra l‘altro, il seggiolino eiettabile veniva usato anche quando il volo si svolgeva regolarmente: la capsula, infatti, non era in grado di compiere un atterraggio sufficientemente dolce scendendo sotto il suo unico grande paracadute, per cui il cosmonauta era costretto a lanciarsi fuori dal veicolo durante la discesa, a circa 7000 metri di quota, e scendere con un proprio paracadute.
Anche Yuri Gagarin, primo essere umano nello spazio, seguì questa procedura, ma fu costretto a mentire e a dichiarare di essere atterrato all’interno della propria capsula perché le norme FAI di omologazione del suo primato richiedevano che il cosmonauta restasse a bordo fino alla fine del volo. La verità emerse pochi anni dopo, quando ormai il valore dell’impresa di Gagarin era passato irrevocabilmente alla storia.
Nel caso del veicolo spaziale sovietico Voskhod fu scelta una soluzione tecnica drasticamente diversa: fare semplicemente a meno di qualunque sistema di salvataggio d’emergenza. L’imperativo politico era che l’Unione Sovietica fosse il primo paese al mondo a far volare un veicolo con tre cosmonauti a bordo, ma l’unico modo per farlo era modificare una Vostok monoposto e sacrificare non solo il seggiolino eiettabile ma anche le tute pressurizzate che avrebbero salvato i cosmonauti in caso di depressurizzazione della capsula.
Il 12 ottobre 1963, Vladimir Komarov, Boris Yegorov e Konstatin Feoktisov partirono a bordo della Voskhod 1 per un volo spaziale di 24 ore e tornarono sani e salvi. La propaganda sovietica vantò di avere veicoli spaziali così progrediti da permettere ai cosmonauti di volare in maniche di camicia, ma la realtà era ben diversa.
Dalla padella nella brace
I seggiolini eiettabili consentono un grande risparmio di peso, ma hanno alcune limitazioni fondamentali.
La prima è che sono utilizzabili soltanto in alcuni momenti del volo: oltre una certa quota e velocità, a seconda del veicolo, l’urto contro il muro d’aria supersonico al momento dell’espulsione dall’abitacolo avrebbe conseguenze letali. Una cabina di veicolo spaziale, invece, offre protezione anche a quote e velocità molto elevate.
Condizioni di utilizzo del seggiolino eiettabile Gemini.
Per esempio, i seggiolini Gemini erano utilizzabili, perlomeno sulla carta, da quota zero (sulla rampa di lancio) fino a 70.000 piedi (21 km) e a velocità fino a 500 nodi (900 km/h). Ma un vettore spaziale supera ben presto questa quota e questa velocità, per cui i seggiolini sarebbero stati inutili per gran parte del volo.
La seconda limitazione è che un razzo di emergenza può essere sganciato quando non è più necessario e consente quindi di alleggerire il veicolo, mentre un seggiolino eiettabile rimane a bordo, e costituisce ingombro e zavorra, per tutto il volo.
Il razzo d‘emergenza Apollo, per esempio, veniva eliminato a circa 89 km di quota, quindi all’inizio del viaggio; per contro, portare fino alla Luna tre seggiolini eiettabili, uno per ciascun membro d’equipaggio, avrebbe comportato una penalità di consumo di propellente inaccettabile.
Schema di utilizzo di un LES Apollo. Le quote sono espresse in piedi.
Per le Vostok questo non era un problema, visto che il seggiolino era comunque necessario durante il rientro, e non lo era neanche per le Gemini, perché nel progetto originale avrebbero planato al rientro sotto una grande ala di Rogallo gonfiabile (di forma simile a quella dei deltaplani), atterrando su un carrello retrattile come degli aerei, e i seggiolini sarebbero stati utili come precauzione per consentire ai piloti di salvarsi in caso di problemi nella fase delicata dell’atterraggio, per esempio in caso di rientro lontano dalle piste di atterraggio predisposte.
Un simulacro di veicolo Gemini modificato per sperimentare il sistema di planata con ala di Rogallo gonfiabile. Credit: Smithsonian Institution.
La terza limitazione dei seggiolini è però la più importante: l’astronauta o cosmonauta perde la protezione rigida dell’abitacolo e quindi se si eietta mentre il vettore in avaria è ancora sulla rampa di lancio o sta arrampicandosi verso lo spazio rischia di trovarsi proiettato all’interno della palla di fuoco del razzo che sta esplodendo oppure in mezzo agli scarichi incandescenti dei suoi motori.
Come già raccontato in un altro articolo, John Young, astronauta veterano statunitense noto per il suo gelido senso dell’umorismo oltre che per il suo talento, riassunse il problema con una delle sue proverbiali battute. Poco prima del volo di debutto dello Shuttle nel 1982, di cui era protagonista insieme a Bob Crippen, un giornalista gli chiese, in conferenza stampa, di chiarire il funzionamento dei seggiolini eiettabili del veicolo.
“Non mi è ancora chiaro se sia possibile eiettarsi durante la combustione dei motori a propellente solido”, domandò il giornalista riferendosi ai due enormi razzi laterali dello Shuttle. Young, impassibile, gli rispose col tono di chi spiega una cosa ovvia: “Ti basta tirare la maniglietta” (“You just pull the little handle”). Il sottinteso, naturalmente, era che era senz’altro tecnicamentepossibile eiettarsi durante questa fase del decollo, ma si sarebbe finiti direttamente nel getto dei motori, con conseguenze facilmente prevedibili.
In altre parole, i seggiolini eiettabili dello Shuttle erano in buona sostanza un palliativo. Dopo i primi quattro voli furono abbandonati, anche perché non ci sarebbe stato modo di usarli per gli astronauti situati nella zona inferiore della cabina del veicolo. Sarebbero stati quindi inutili durante la tragedia dello Shuttle Challenger, nella cui disintegrazione poco dopo il decollo persero la vita sette astronauti nel 1986.
Soluzioni moderne
Gli attuali veicoli spaziali Soyuz russi, gli Shenzhou cinesi e gli statunitensi Orion, Dragon, Starliner e New Shepard adottano tutti un sistema di emergenza basato su motori che sollevano e allontanano l’intera capsula, ma solo Soyuz, Shenzhou e Orion restano fedeli allo stile tradizionale che prevede un razzo di emergenza montato davanti alla capsula: gli altri veicoli usano una nuova configurazione pusher, nella quale i motori di emergenza sono montati lateralmente o sotto la capsula e sono integrati permanentemente in essa.
Questa soluzione comporta un aggravio di peso, visto che i motori d’emergenza restano sul veicolo per tutto il volo invece di essere eliminati poco dopo il decollo, ma consente di riutilizzare questi motori per altre funzioni, come per esempio un’accelerazione verso un’orbita più alta oppure (nel caso di motori laterali) una frenata di atterraggio, rendendo possibili atterraggi dolci sulla terraferma.
Il sistema di emergenza di un veicolo Shenzhou cinese. Si notano i due gruppi separati di ugelli. Credit: ChinaNews / Spaceflight Insider.
Collaudo del sistema di emergenza di un veicolo Orion statunitense, luglio 2019.
Una capsula Crew Dragon di SpaceX effettua un test di attivazione del sistema di evacuazione d’emergenza di tipo pusher. Credit: SpaceX, 2015.
Decisioni istintive
I seggiolini eiettabili per astronauti sono insomma una tecnologia ormai abbandonata, che per fortuna non è mai stato necessario usare in emergenza. Ma una volta c’è mancato davvero poco.
Il 12 dicembre 1965 gli Stati Uniti tentarono il primo rendez-vous orbitale fra due veicoli con equipaggi. La missione Gemini 6, condotta da Walter Schirra e Thomas Stafford, avrebbe dovuto raggiungere in orbita i colleghi Frank Borman e James Lovell, lanciati alcuni giorni prima. Al momento del decollo, i due motori del vettore Titan che avrebbe dovuto portare nello spazio la Gemini 6 si accesero correttamente ma si spensero inaspettatamente circa 1,2 secondi dopo.
Il razzo, pieno di 150 tonnellate di propellente altamente corrosivo e tossico oltre che ipergolico (a innesco spontaneo per contatto fra i suoi due componenti), rimase immobile sulla rampa di lancio. In cima, dentro la Gemini 6, Schirra aveva la mano serrata sull’anello di attivazione dei seggiolini eiettabili. Non avvertiva alcun movimento del veicolo e mancava il boato dei motori, eppure il cronometro della missione e il computer si erano attivati, come se fossero partiti.
Doveva decidere: se il veicolo si era alzato da terra anche di pochi centimetri, c’era il rischio che esplodesse, e quindi era urgente eiettarsi per evitare la palla di fuoco dell’esplosione. Ma se non si era mosso, allora il posto più sicuro era dentro la capsula, dalla quale i tecnici li avrebbero estratti con calma.
Schirra decise di non tirare l’anello.
La sua scelta, basata sui suoi istinti di pilota, si rivelò esatta. I due astronauti furono estratti dopo un’ora e mezza, sani e salvi, e il fatto di non essersi eiettati permise di riconfigurare rapidamente la capsula e il vettore per un nuovo tentativo, che avvenne con pieno successo tre giorni dopo, dimostrando che un rendez-vous di precisione era possibile e aprendo così la strada alla Luna.
Fuochi d’artificio
Nella scelta di Schirra aveva pesato non poco il fatto che gli astronauti non si fidavano granché di quei seggiolini eiettabili. Il suo compagno di missione, Stafford, scrisse nel suo libro We Have Capture che c’era una magagna non banale nell’attivarli durante la loro missione: l’atmosfera della cabina era infatti composta da ossigeno puro e al momento del lancio loro erano già stati due ore a mollo in quell’atmosfera. Le loro tute ne erano impregnate e quindi qualunque scintilla li avrebbe fatti ardere in pochi istanti (in modo simile a quello che accadde in seguito, tragicamente, con Apollo 1).
Anche se la fase iniziale dell’espulsione era pneumatica, Stafford temeva che accendere un motore a razzo in quelle condizioni li avrebbe trasformati in “due fuochi d’artificio sparati verso la sabbia e le palme nane”.
L’apparato di collaudo dei seggiolini eiettabili delle capsule Gemini. Credit: NASA.
Test dei seggiolini eiettabili delle capsule Gemini. Credit: NASA.
Gli astronauti delle missioni Gemini avevano ottime ragioni per non fidarsi di questo sistema di eiezione. John Young e Gus Grissom avevano assistito a un suo test, nel quale c’erano dei manichini a bordo al posto degli astronauti: il sistema di sparo dei seggiolini aveva funzionato alla perfezione, ma i portelli di uscita non si erano aperti, per cui i manichini si erano sfracellati a testa in avanti contro l’interno di questi portelli.
John Young, impassibile ma consapevole che prima o poi al posto di quei manichini ci sarebbe stato lui, commentò ad alta voce gli effetti del test con un’altra delle sue frecciate memorabili: “That's a hell of a headache, but a short one” ("È un gran brutto mal di testa, ma dura poco”).
Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta sulla rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA, è stato aggiornato e ampliato rispetto alla versione iniziale e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.
Che povertà... Ma come fai a dormire tranquillo la notte? Cioè.. come puoi difendere una cagata come lo sbarco sulla Luna? Quando sappiamo benissimo che nulla può attraversare l'atmosfera dopo i 75 km d'altezza, tiri in ballo i russi che non avrebbero detto niente, quando (sai benissimo) ed è palese che tutti i governi del mondo lavorano per la stessa cricca di persone, (nasa Cina russia America Italia Francia ecc) esempio i rotshchild, basti vedere le guerre mondiali.. l'altro anno c'era la festa della massoneria, dove festeggiavano i 300 anni di dominio, 300 anni.. quando ci sono state le guerre mondiali? basti vedere il casato dei Rothschild.. purtroppo viviamo in una realtà contraffatta e il brutto e che tu fai parte di questa falsità.. ma purtroppo fiero!!.. ma stai tranquillo.. il tempo è maturo e tra un po' ci sarà una bella pulizia.. come succede ogni 500 anni..
Commento inviato al mio blog Complotti lunari il 30/10/2019. E prontamente cestinato.
Come preannunciato nel mio calendario pubblico, oggi alle 18:30 sarò a Trieste, al Teatro Miela, per il Science+Fiction Festival, dove terrò la conferenza Le altre facce della Luna, dedicata agli aspetti poco
conosciuti dell'esplorazione spaziale: disastri sfiorati e taciuti,
scherzi e figuracce degli astronauti, effetti inaspettati della vita in
assenza di peso, raccontati attingendo alla documentazione audiovisiva e
tecnica originale e alle testimonianze dirette dei protagonisti.
La recente
proposta
di un deputato e responsabile economico di un movimento politico italiano,
Luigi Marattin (@marattin), di
obbligare“chiunque apra un profilo social a farlo con un valido documento
d’identità”, usando poi eventualmente un nickname, allo scopo di contrastare la
violenza verbale, il razzismo e l’odio online, a prima vista sembra sensata e
ragionevole, ma non lo è.
Ci siamo già passati
un annetto fa, ma evidentemente serve un ripasso.
Ecco, in sintesi, perché la proposta non funziona ed esperti come
Stefano Zanero
(anche
qui)
e Massimo Mantellini la criticano duramente e la definiscono schiettamente
“una cretinata”
e il Garante per la Privacy italiano ha
usato
aggettivi come “velleitario” e “pericoloso” per descriverla.
1. Gli hater esteri non sarebbero toccati. Una legge nazionale avrebbe
efficacia solo nel paese che la emanasse. Qualunque utente di qualunque altro paese sarebbe
libero di continuare come prima. Se anche la si estendesse
all’Europa, chi non vive in Europa non ne sarebbe toccato.
2. Gli hater non si nascondono dietro l’anonimato: ci mettono nome e
cognome già adesso.
Lo ha fatto lo stesso Marattin. Spessissimo chi fa bullismo o odio online è ben conosciuto dalla vittima.
Scambio su Facebook fra Michele Boldrin, economista, accademico ed ex politico italiano nonché utente autenticato (bollino blu), e un utente non autenticato, 11 ottobre 2022. Screenshot di Stefano Barazzetta. Approfondimento su Giornalettismo.
3. Gli unici penalizzati sarebbero coloro che hanno bisogno dell’anonimato
per proteggersi, come le donne maltrattate che vogliono sfuggire ai loro torturatori online
e lo possono fare solo se restano anonime o usano pseudonimi fortemente
protetti.
4. L’anonimato online è un diritto sancito dalla
Dichiarazione dei diritti in Internet, approvata all’unanimità a Montecitorio nel 2015. Art.10: “Ogni persona può accedere alla Rete e comunicare elettronicamente usando strumenti anche di natura tecnica che proteggano l’anonimato ed evitino la raccolta di dati personali, in particolare per esercitare le libertà civili e politiche senza subire discriminazioni o censure”.
5. Gestire i documenti d’identità di milioni di utenti costa ed è
complicato. Gli italiani su Facebook i sono circa
29 milioni. Ciascuno dovrebbe depositare un documento. Chi paga? Chi organizza? Chi
verifica? Chi custodisce i dati, vista la facilità con la quale
vengono rubati?
6. Cosa si fa per gli account esistenti? Li sospendiamo in massa fino a che non depositano un documento? E se un utente esistente si rifiuta
di dare un documento, che si fa? E se il social network decide che non se la sente di accollarsi questo fardello tecnico immenso?
7. Che si fa con i turisti? Cosa succede a un turista che arriva nel paese e vuole usare il suo account social? Deve prima depositare un
documento? Chi controlla se lo fa o no? E come fa a controllare? Se non lo fa,
quali sarebbero le conseguenze? Lo si deporta?
8. La procedura andrebbe ripetuta per ogni social networke per ogni spazio digitale pubblico. Facebook, Twitter, Instagram,
Tinder, Ask, Vkontakte, WhatsApp, Telegram... più tutti gli spazi di
commento dei giornali e dei blog. A quante aziende dovremmo dare i nostri
documenti? A che titolo un blogger dovrebbe gestire i dati personali dei
propri commentatori? Forse si potrebbe attenuare il problema dando il
documento solo a un ente che rilascia un codice di autenticazione da dare ai
vari social, ma resterebbe una trafila con tutti i problemi già citati.
9. Se il documento andasse dato ai social network, significherebbe dare una
copia di un documento d’identità ad aziende il cui mestiere è vendere i
nostri dati. E no, non è come dare la carta d’identità a un operatore telefonico per
aprire un’utenza cellulare: l’operatore è soggetto alle leggi europee sulla
privacy e non ha come scopo commerciale la vendita dei fatti nostri. E non
è come lasciare un documento alla reception dell’albergo:
in realtà non lo si lascia, ma si viene identificati dal portiere tramite
il documento, e i dati vengono raccolti dalla polizia quotidianamente, non
finiscono in un gigantesco database gestito da privati, come spiega
Stefano Zanero. Anche qui, come al punto precedente, questo problema potrebbe essere
attenuabile mettendo in mezzo un ente di autenticazione nazionale, ma la
trafila resterebbe.
10. Significherebbe delegare ad aziende estere la certificazione della
nostra identità.
Siamo sicuri che per esempio Facebook, quella di Cambridge Analytica, sia
un’azienda alla quale affidare la garanzia di chi siamo? Quali sanzioni
ci sarebbero se Facebook si facesse scappare i nostri dati d’identità? E una
volta scappati, che si fa? Mica possiamo cambiare tutti faccia e nome.
11. Equivale a una schedatura di massa. Creerebbe un enorme
database centralizzato di dati, attività e opinioni personali di milioni di cittadini,
messo in mano a un’azienda o a un governo. E necessariamente consultabile da governi esteri.
12. Equivale a introdurre l’obbligo di presentare un documento d’identità
per spedire una lettera.
Sì, perché minacce e odio si possono mandare anche con lettere
anonime. Ma nessuno chiede obblighi di identificarsi per
spedire cartoline o scanner d’identità accanto a ogni
cassetta postale. Perché per Internet
dovrebbe essere diverso?
13. È facile procurarsi scansioni di carte d'identità altrui. Ci
sono software appositi per crearle e ci sono i
furti in massa di scansioni di documenti reali. Questo permetterebbe agli hater di dare a qualcun altro la colpa delle
proprie azioni, con tanto di “certificazione”.
14. È dannatamente facile usare una VPN o Tor per creare account
apparentemente esteri.
Gli hater imparerebbero in fretta come fare. Molti lo sanno già fare.
15. Sarebbe facilissimo, per un hater, farsi aprire da terzi un account
all’estero, dove non vige l’obbligo, e poi usarlo.
Come farebbero le autorità ad accorgersene? Sorvegliando tutte le attività
online di tutti?
16. È inutile introdurre questo obbligo se le forze di polizia e di
giustizia sono insufficienti già adesso
per perseguire i casi di bullismo o molestia nei quali nomi e cognomi sono già
perfettamente noti.
Avere in archivio la carta d’identità non ridurrà la coda di pratiche inevase:
per questo serve più personale, non una legge in più.
17. Esistono già ora procedure tecniche e giuridiche che consentono di
identificare gli hater.
Ma gli hater non vengono quasi mai perseguiti perché non c’è personale
inquirente o giudiziario sufficiente, o perché i costi sono altissimi, non
perché non si sa chi sia il colpevole.
---
Per i tanti che hanno criticato gli esperti, lamentando che sanno solo
criticare ma non fanno proposte concrete: a volte capita di non avere una
soluzione a un problema, ma di essere in grado di dire quali azioni non lo
risolvono. Se un malato di cancro pensa di guarire prendendo un unguento
magico da diecimila euro a dose, un medico magari non sa come guarirlo, ma
sa che quell’unguento non farà nulla.
In ogni caso, le proposte concrete ci sono: sono quelle negli ultimi due
punti.
Per chi invece argomenta
“Ma se non dici niente di male e sei una brava persona, non hai niente
da temere da un’identificazione obbligatoria”: se sono una brava persona, perché mi si vuole schedare?
Per tutti quelli che dicono “Ma qualcosa bisogna pur fare!”:
certo, ma fare qualcosa non significa agire di pancia seguendo la prima
idea che viene lanciata. Significa ragionare, sentire gli esperti, e poi
procedere seguendo i loro suggerimenti.
Siamo tutti d’accordo nel voler rendere Internet più pulita. Ma questa
proposta è come cercare di spurgare una fogna con un colapasta.
---
2022/05/18 15:10. In particolare per il punto 16 (insufficienza delle
forze di polizia e di giustizia), segnalo l’esperienza dell’amico e collega
David Puente, raccontata in una
serie di tweet:
Penso a quanti "anonimi conigli" ho denunciato, individuando e provando la
loro identità, per poi trovarmi un Pm che richiede l'archiviazione. Non
perché mancano le prove per dimostrare l'identità, ma perché non viene
ritenuto un fatto da perseguire. 🧵👇
Faccio alcuni esempi. Il signor Stefano P. aveva pubblicato in un gruppo
Facebook (per niente piccolo e con tante interazioni) un commento dove mi
definiva "quello che pur di difendere il governo (da cui è pagato) si
venderebbe pure la madre". Come è andata la denuncia?
Il Pm non ha chiesto l'archiviazione perché il soggetto non è stato
identificato. La decisione è arrivata dopo che l'indagato è stato
interrogato! Talmente assurdo che con un Pm del genere neanche faccio
opposizione. Da 1 a 10, quanto il signor Stefano P. si sente intoccabile?
Il Pm che ha chiesto l'archiviazione farebbe altrettanto se Stefano P.
pubblicasse un commento simile nei suoi confronti? Non è l'unico
esempio, ne ho molti altri simili e le racconto quello di due persone
parecchio seguite sui social, non di "Tontolina68".
Un complottista di una città del Sud, per niente sconosciuto, pubblica
diversi post nel suo canale Telegram (molto seguito) dove mi diffama
pesantemente. Quei testi sono stati copiati e incollati dai suoi seguaci su
Facebook. Una schifosa shitstorm che non ho tollerato.
Vengo chiamato per rispondere alle domande del Pm, il quale mi chiede come
avevo individuato l'identità dell'accusato. Faccio presente che tale
personaggio pubblica il suo volto nel canale, il suo profilo Facebook è
pubblico ed è noto per fatti di cronaca nazionali.
Mi viene richiesto uno screenshot "più dettagliato" del post dove vengo
diffamato. Avevo fornito anche il link del post Telegram, ancora oggi
pubblico, ma rendetevi conto che i miei legali avevano ottenuto anche
l'acquisizione digitale forense (che ha un costo).
Cosa potrebbero inventarsi per non procedere? Se anche questo Pm chiederà
l'archiviazione sarà l'ennesimo caso in cui un non anonimo e i suoi seguaci
(non anonimi) si sentiranno liberi e legittimati di diffamare chiunque.
Nel corso della pandemia abbiamo assistito alla diffusione di messaggi
diffamatori e violenti da parte di personaggi che si sono mostrati in volto
su Youtube, ottenendo milioni di visualizzazioni per i loro video. C'era chi
sosteneva e auspicava atti di violenza e omicidi.
Uno di questi ha fatto un video dove mostrava il luogo dove dovrei essere
sepolto. @CarloCalenda, ho denunciato la scorsa estate questo individuo e i
suoi seguaci che per due anni (ho fatto integrazione nel 2022) hanno diffuso
messaggi del genere contro di me e altre persone.
Ci sarà la richiesta di archiviazione? Cosa succede se uno di questi vive
all'estero? Può immaginare tutte le difficoltà da affrontare in questo caso,
nel frattempo un suo seguace squilibrato potrebbe decidersi di passare
all'azione (non virtuale) contro di me o altre persone
@CarloCalenda, lei e altri politici italiani potete sostenere quanto volete
l'assurda proposta dell'obbligo di registrarsi con identità verificata, ma
non risolverete mai il problema in questo modo. Cafoni e delinquenti si
sentono forti e ben difesi, pur mostrando il volto.
Non solo non risolverete il problema, ma rischiate di crearne altri come
hanno spiegato o le potrebbero spiegare @disinformatico, @lastknight,
@raistolo, @faffa42 e tanti altri che conoscono molto bene questo tema. Ecco
perché la sua proposta non la condividerò mai e poi mai.
I nomi delle persone che ho denunciato? Voglio prima vedere se verrà
richiesta l'archiviazione o se si deciderà di procedere. Per fortuna non
tutti la passano liscia, sia chiaro, ma il problema non è l'identità.
Stare in un hotel in cui le camere sono dotate di robot può sembrare molto futuribile, ma è già realtà a Nagasaki, in Giappone, presso l’Henn na Hotel (il nome, a quanto pare, significa “hotel strano”). Tuttavia c’è un aspetto molto poco futuribile e assai concreto: i robot che gestiscono l’hotel sono un colabrodo di sicurezza.
Gizmodo e Graham Cluley descrivono infatti che i robot a forma di dinosauro o di fembot (robot femminilizzato) installati nelle camere infastidiscono gli ospiti reagendo erroneamente, per esempio attivandosi e svegliandoli quando russano perché i robot, dotati di microfoni di ascolto, interpretano il russamento come uno dei loro comandi vocali.
Il robot alla reception, invece, non è in grado di gestire nemmeno le domande più semplici, e il personale umano si è trovato costretto a fare gli straordinari per riparare i robot che si guastavano.
Ma non è finita: un ricercatore di sicurezza, Lance R. Vick, ha segnalato di aver avvisato i gestori della catena alberghiera che i robot da comodino presenti in ogni stanza sono facilmente modificabili per consentire a chiunque di spiare da remoto gli ospiti tramite il microfono e la telecamera integrati.
It has been a week, so I am dropping an 0day.
The bed facing Tapia robot deployed at the famous Robot Hotels in Japan can be converted to offer anyone remote camera/mic access to all future guests.
Non avendo ricevuto risposta dalla catena alberghiera, ha deciso di pubblicare i dettagli della vulnerabilità nella speranza che la figuraccia pubblica spingesse la catena a prendere provvedimenti.
Come capita spesso, la tattica dello svergognamento pubblico ha avuto successo e ora i media locali riferiscono che la catena, la HIS Group, ha riconosciuto che il difetto esiste e sta prendendo misure per risolverlo.
Senza arrivare a questi estremi di alberghi robotizzati, provate a fare un sopralluogo informatico della vostra prossima camera d’albergo e guardate se ci sono vulnerabilità informatiche: televisori smart con microfono e telecamera? Assistenti vocali da comodino, tipo Alexa o Google Home? Ma anche no, grazie. Copriteli o scollegateli, oppure chiedete agli albergatori di farlo per voi o di darvi una camera senza gadget. Meglio ancora, scegliete un albergo che non usi l’informatica in modo così appariscente ma vacuo e insicuro.
Google ha annunciato che entro la fine di quest’anno ignorerà i contenuti Adobe Flash presenti nelle pagine Web e smetterà di indicizzare i file SWF standalone.
Ormai questo formato, un tempo popolarissimo soprattutto per la creazione di animazioni introduttive nei siti, è in via di estinzione. Microsoft ha comunicato che smetterà il supporto di Flash entro la fine del 2020; Google Chrome, Microsoft Edge e Firefox hanno disabilitato questo supporto come impostazione predefinita.
Persino Adobe ha annunciato che non supporterà Flash dopo il 2020.
Flash viene rimpiazzato dall’HTML5, che si spera abbia meno problemi di sicurezza e pesantezza rispetto alla tecnologia Adobe, che era uno dei canali di attacco preferiti dai criminali informatici.
Se gestite dei siti che contengono ancora delle parti in Flash, è ora di aggiornarli, altrimenti non solo non verranno considerati dai motori di ricerca, ma non verranno nemmeno visualizzati dai browser.
Se avete un iPhone 5 o 4s o un iPad non recente con connessione cellulare, affrettatevi a scaricare e installare l’aggiornamento software fornito da Apple entro il 2 novembre. Se non lo fate, il vostro dispositivo perderà gran parte delle sue funzioni.
Lo segnala Apple qui e qui: in sintesi, è necessario installare questo aggiornamento per usare qualunque funzione che faccia uso della data e dell’ora esatta, ossia quasi tutte, come per esempio l’App Store, iCloud, la mail e la consultazione di siti web.
Apple spiega che l’aggiornamento serve per consentire ai dispositivi di continuare a gestire correttamente i dati GPS di geolocalizzazione. I satelliti GPS, infatti, trasmettono le informazioni riguardanti le date usando un contatore di settimane che ha 1024 valori. Ogni 1024 settimane, ossia circa 20 anni, il contatore riparte da zero. I vecchi dispositivi Apple citati non gestiscono correttamente questa ripartenza se non vengono aggiornati.
Dal 3 novembre, quindi, perderanno l’accesso a Internet e all’App Store e quindi non potranno più scaricare aggiornamenti. Da qui nasce l’ultimatum di Apple.
I principali dispositivi colpiti, e quindi da aggiornare, sono i seguenti:
iPhone 5
iPhone 4s
iPad di quarta generazione Wi-Fi + cellulare
iPad di terza generazione Wi-Fi + cellulare
iPad mini di prima generazione WiFi + cellulare
Non sono colpiti gli iPod touch o gli iPad con solo Wi-Fi.
Dopo l’aggiornamento, potrete controllare che sia andato a buon fine andando in Impostazioni - Generali - Info e guardando il numero della versione di software, che deve essere 10.3.4 o 9.3.6.
Se non aggiornate in tempo, c’è ancora un modo per rimediare, che è descritto nelle pagine di Apple linkate sopra, ma è complicato, per cui ve lo sconsiglio. Fate gli aggiornamenti subito.
Trovarsi con le foto di famiglia o la contabilità aziendale bloccata da un attacco di ransomware è un dramma molto diffuso, e spesso ci si sente soli e indifesi contro i malviventi informatici che lavorano nell’ombra.
Ma nell’ombra ci sono anche persone poco conosciute che lavorano per tirare fuori dai guai chi è incappato in questi ransomware: centinaia di migliaia di persone nel mondo hanno infatti recuperato i propri dati, senza pagare alcun riscatto, grazie al lavoro silenzioso di una singola persona: Michael Gillespie, un ventisettenne di Normal, nell’Illinois.
Gillespie è infatti autore di moltissimi decryptor, ossia programmi che decifrano i file cifrati dal ransomware, restituendone l’uso ai proprietari. I suoi decryptor aiutano circa 2000 persone al giorno. Dei circa 800 ransomware conosciuti, oltre 100 sono stati resi innocui da Michael Gillespie.
A differenza dei criminali, che chiedono soldi per sbloccare i file, Gillespie offre i suoi decryptor gratuitamente tramite i siti BleepingComputer.com e ID Ransomware e si limita ad accettare donazioni volontarie. Una scelta che non l’ha certo fatto diventare ricco, anzi: lui e la moglie sono fortemente indebitati, in gran parte a causa delle spese mediche che devono sostenere. L’FBI gli ha conferito un riconoscimento nel 2017, e Gillespie lavora spesso con le forze di polizia internazionali. Ma è tutto volontariato.
Il sito ID Ransomware riconosce ben 783 tipi di ransomware: gli si può inviare il testo della richiesta di riscatto, un esempio di file cifrato oppure gli indirizzi o link di contatto citati nella richiesta.
La storia di Gillespie e degli altri informatici che offrono il proprio talento per aiutare chi è caduto nella rete dei criminali online è raccontata qui su ProPublica.