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Il Disinformatico

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2022/04/07

Quando l’intelligenza artificiale bara: l’aneddoto degli husky scambiati per lupi

Una delle sfide nell’uso delle straordinarie possibilità dell’intelligenza artificiale è molto, molto... umana: le persone che sviluppano questi sistemi devono abituarsi a ragionare in maniera non umana e a capire e prevedere gli sbagli del loro software.

C’è un caso molto famoso in questo campo che viene spesso citato come aneddoto: si racconta che alcuni anni fa un gruppo di ricercatori creò un sistema di intelligenza artificiale per distinguere i lupi dai cani husky, dandogli in pasto immagini di lupi e di husky e dicendogli quali erano lupi e quali erano husky. Un metodo molto simile a quello che si usa per insegnare a una persona a riconoscere qualunque oggetto.

Nell’aneddoto, il sistema funzionava benissimo: aveva un tasso di successo molto elevato quando gli venivano proposte immagini che non aveva mai visto prima. Ma a un certo punto aveva iniziato a commettere una serie di errori madornali. I ricercatori, si racconta, scoprirono poi che il sistema non stava in realtà riconoscendo lupi o cani, ma stava discriminando le immagini in base alla presenza o assenza di neve. Infatti tutte le immagini di lupi che erano state usate per addestrare l’intelligenza artificiale avevano uno sfondo innevato e quelle degli husky no, e i ricercatori non ci avevano fatto caso.

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L’aneddoto è divertente; illustra bene un problema frequente dei ricercatori di intelligenza artificiale, ossia la tendenza a fare una selezione errata dei campioni usati per l’addestramento del software, ma in realtà racconta i fatti in modo sbagliato.

Prima di tutto, la ricerca fu effettivamente realizzata (è descritta in un articolo scientifico del 2016, disponibile qui su Arxiv.org) e diede davvero quei risultati, ma l’intelligenza artificiale fu creata appositamente difettosa (“We trained this bad classifier intentionally”) per dimostrare l’importanza di usare immagini campione ben selezionate e mettere in chiaro il pericolo delle cosiddette correlazioni spurie e dell’eccessiva fiducia che si rischia di dare a sistemi addestrati maldestramente.

Le correlazioni spurie sono quelle che un essere umano non farebbe mai, perché sa cos’è un husky e cos’è un lupo in base alla propria conoscenza degli animali e della realtà in generale, ma che un’intelligenza artificiale rischia di fare perché si basa esclusivamente sulle immagini che le sono state date, senza alcuna conoscenza della realtà: dove noi vediamo husky o lupo, l’intelligenza artificiale vede macchie di pixel che si somigliano oppure no.

L’aspetto più interessante di questo aneddoto è un altro elemento che manca nella sua narrazione abituale: i risultati dell’intelligenza artificiale furono presentati a un gruppo di studenti laureati del settore, mostrando loro otto riconoscimenti corretti e uno sbagliato, nel quale l’intelligenza artificiale aveva identificato come lupo quello che in realtà era un husky.

Agli studenti fu chiesto se ritenessero affidabile un software che azzeccava otto volte su nove, perché lo ritenessero affidabile, e quale fosse secondo loro il criterio usato dal software per distinguere lupi e husky.

Solo in seguito fu spiegato loro il criterio effettivamente utilizzato dall’intelligenza artificiale, ossia la presenza o assenza di bianco nella parte inferiore dell’immagine.


Prima di conoscere il criterio, oltre un terzo degli studenti aveva dichiarato di fidarsi del software e meno della metà aveva citato la presenza di neve come possibile elemento discriminante spurio usato per errore dall’intelligenza artificiale. Una volta conosciuto il criterio effettivo, la loro fiducia era calata notevolmente.

Gli studenti avevano insomma dato fiducia a quest’intelligenza artificiale basandosi puramente sulle sue statistiche di successo, ragionando che se funziona otto volte su nove vuol dire che funziona bene, fine del problema. Se questo errore capita a degli esperti del settore, immaginatevi quanto possa capitare a chi non è esperto.

Proprio in questi giorni sulla prestigiosa rivista medica The Lancet è stato pubblicato un articolo (segnalato da Eric Topol) che racconta un incidente analogo capitato in un settore ben più delicato: quello della salute. Un modello di intelligenza artificiale concepito per riconoscere fratture femorali nelle radiografie dei pazienti aveva prodotto risultati praticamente perfetti, superiori a quelli dei radiologi in carne e ossa, ma a un certo punto aveva manifestato “comportamenti algoritmici inattesi e potenzialmente dannosi” (“unexpected and potentially harmful algorithmic behaviour”). Che è un eufemismo per dire che prendeva delle cantonate spettacolari che avrebbero potuto rovinare i pazienti.

L’articolo di Lancet non nega il potenziale di queste tecnologie, ma mette in luce le necessità di esaminare con attenzione il modo in cui funzionano prima di introdurle nella pratica clinica, per evitare che ci si basi su criteri che sono robusti e sensati soltanto in apparenza. “Storicamente”, dicono gli autori dell’articolo, “i sistemi di diagnosi assistita da computer hanno spesso fornito prestazioni inaspettatamente scadenti in contesto clinico nonostante valutazioni precliniche promettenti”.

Per fortuna c’è, secondo loro, una soluzione: obbligare chi offre questi sistemi a spiegare come funzionano realmente e a sottoporli a verifiche da parte di esperti di intelligenza artificiale, secondo una tecnica denominata algorithmic auditing

Insomma, sembra proprio che l’intelligenza artificiale ci possa dare una mano, a patto di addestrarla bene, e sembra anche scongiurato un altro pericolo che viene spesso citato: quello che l’intelligenza artificiale causi disoccupazione. Per fare questo algorithmic auditing serviranno infatti persone esperte sia in campo informatico sia nel campo nel quale si vogliono applicare questi sistemi, e serviranno anche decisori che sappiano che non ci si può semplicemente fidare di un numeretto che indica una percentuale di successo ma occorre piena trasparenza. 

Nascono quindi nuovi mestieri che si affiancano a quelli tradizionali. Sperando che chi li farà non venga selezionato da un software che li sceglie in base a qualche correlazione spuria o campione distorto, come è accaduto ad Amazon. Nel 2018 l’azienda di Jeff Bezos ha dovuto rinunciare a un sistema automatico di selezione dei candidati quando è emerso (dice Reuters) che discriminava le donne. Il software, infatti, era stato addestrato usando i curricula inviati ad Amazon nei dieci anni precedenti, e la maggior parte di quei curricula era maschile, per cui il sistema di machine learning aveva dedotto (si fa per dire) che i candidati maschili erano da preferire a quelli femminili.

Nello spazio nessuno può sentirti urlare, ma su Marte sì

Siamo abituati a pensare che lo spazio sia un ambiente totalmente silenzioso, perché nel vuoto i suoni non si propagano. Il film Alien (un classico del 1979) divenne famoso per il suo slogan “nello spazio nessuno può sentirti urlare”. Le immagini delle sonde spaziali o degli astronauti sulla Luna sono sempre silenziose o al massimo sono accompagnate dalle loro comunicazioni via radio. Ma non è sempre così.

Il suono non si propaga nello spazio, ma su Marte, per esempio, sì. Il pianeta, infatti, è dotato di un’atmosfera. È molto tenue, rispetto a quella terrestre, ma c’è, e quindi i suoni si possono sentire. A patto, però, che ci sia qualcuno o qualcosa a produrli e ad ascoltarli.

Su YouTube è stato pubblicato un video che presenta suoni di Marte, e non si tratta di uno scherzo: sono realmente suoni captati sul pianeta rosso.

Il video è opera del Jet Propulsion Laboratory della NASA e presenta i suoni captati su Marte dai due microfoni montati per questo scopo sul veicolo robotico Perseverance, che sta esplorando il pianeta da più di un anno (è arrivata su Marte a febbraio del 2021).

Nel video si sentono degli sbuffi, prodotti dal getto gassoso usato per soffiare via la polvere prodotta dagli strumenti che analizzano le rocce marziane: i crepitii del laser usato per vaporizzare le rocce allo scopo di conoscerne la composizione chimica; il fruscìo del vento marziano; e anche il rumore del piccolo drone Ingenuity, il primo veicolo a elica usato su un altro mondo.

L’idea di montare dei microfoni su una sonda spaziale può sembrare frivola, e inizialmente fu bocciata dalla NASA, diventando realtà soltanto grazie a una colletta di 100.000 dollari realizzata via Internet dall’associazione di divulgazione scientifica Planetary Society. In realtà ascoltare i suoni di un altro pianeta ha permesso ai ricercatori di scoprire alcune strane caratteristiche dell’atmosfera di Marte.

Per esempio, su Marte il suono si propaga più lentamente che sulla Terra e a velocità differenti a seconda della frequenza. I suoni di bassa frequenza viaggiano sul pianeta rosso a circa 240 metri al secondo, mentre quelli più acuti si propagano più rapidamente, a circa 250 metri al secondo. Un concerto su Marte produrrebbe insomma effetti molto strani: le note alte arriverebbero agli ascoltatori prima di quelle basse. I suoni marziani in generale sono inoltre più lenti che sulla Terra, dove viaggiano normalmente a circa 343 metri al secondo.

Questi sono effetti della composizione chimica dell’atmosfera marziana, che oltre a essere molto sottile e molto fredda è composta principalmente da anidride carbonica. Gli scienziati avevano previsto questi fenomeni, ma sentirli confermare direttamente da una registrazione audio è una bella soddisfazione.

Un altro effetto insolito dell‘atmosfera marziana è che i suoni non vanno molto lontano, e quelli acuti si propagano meno di quelli bassi. Sulla Terra un suono normalmente si smorza fortemente dopo una sessantina di metri, mentre su Marte i suoni acuti si perdono completamente già a otto metri di distanza, scrive il JPL. Lo si nota nel rumore del drone Ingenuity nel video, i cui piccoli rotori girano velocissimi, a 2500 giri al minuto, ma nell’atmosfera marziana producono un suono molto cupo. Il risultato è che se una persona potesse stare senza protezioni su Marte, sentirebbe quasi sempre un silenzio totale, punteggiato solo occasionalmente da rumori sordi. 

Marte è davvero un mondo alieno, insomma, nel quale per farsi sentire non conviene strillare ma è invece necessario usare toni molto bassi e stare vicini. Ed è affascinante che si possano udire questi suoni alieni che arrivano da decine di milioni di chilometri di distanza, e ci si possa fare un’idea di cosa sentiremmo se fossimo lì di persona, su Marte, grazie a una colletta fatta su Internet.

Il servizio anti-fake news di Google: Fact Check Explorer

Google ha segnalato pochi giorni fa di aver messo a disposizione del pubblico una serie di risorse contro le ondate di disinformazione che affliggono Internet e in particolare i social network ma anche i mezzi d’informazione tradizionali. 

Una di queste risorse, particolarmente utile per chiunque voglia verificare una notizia, si chiama Fact Check Explorer. La si trova presso Toolbox.google.com/factcheck/explorer oppure semplicemente digitando il suo nome in Google.

Il suo funzionamento di base è molto semplice: per verificare una notizia si immettono le sue parole chiave nella casella di ricerca di Fact Check Explorer e si ottiene un elenco di link a fonti esperte che forniscono verifiche o smentite di quella notizia. L’elenco include già una brevissima sintesi del verdetto di queste fonti esperte, e quindi la consultazione è estremamente rapida ma lascia comunque la possibilità di approfondire.

Fact Check Explorer, spiega Google nell’annuncio ufficiale, raccoglie oltre 150.000 verifiche realizzate da fonti di buona reputazione di tutto il mondo. La lingua in cui effettuare la ricerca è selezionabile; Google propone automaticamente quella dell’utente, basandosi su quella del suo browser, ma è possibile chiedere di cercare anche in tutte le lingue. Le parole chiave possono essere, per esempio, nomi di persone o di luoghi, descrizioni di argomenti o frasi attribuite a politici, celebrità o altre persone di interesse generale.

Si può inoltre limitare la ricerca a un singolo sito di verificatori usando il parametro site: seguito (senza spazi) dal nome del sito. Un altro parametro utile è list:recent, che elenca le verifiche più recenti.

La guida al servizio spiega che Fact Check Explorer elenca solo fonti e verifiche che rispettano le sue linee guida, che si basano sui criteri dell’International Fact-Checking Network (IFCN) e del Poynter Institute, due entità molto rispettate nel settore, per cui il rischio di infiltrazioni di disinformatori è piuttosto basso.

In ogni caso il servizio di Google non pretende di essere un depositario di verità e mette subito in chiaro che Google non avalla né crea queste verifiche e che in caso di disaccordo con una verifica si deve contattare direttamente il gestore del sito che l’ha pubblicata (“Google does not endorse or create any of these fact checks. If you disagree with one, please contact the website owner that published it.”).

Fact Check Explorer (che esiste almeno dal 2019) fa parte della Google News Initiative, un tentativo di Google di contrastare la disinformazione, e include anche risorse e istruzioni per chi pubblica articoli di verifica e vuole che i suoi articoli siano inclusi nei risultati del servizio: si trovano nella sua sezione Markup Tool. La sezione Training di questa Initiative offre anche preziosi tutorial per giornalisti su come usare gli strumenti informatici per produrre articoli più rigorosi in meno tempo.

Ma in pratica quanto funziona questo Fact Check Explorer? Ho provato con alcuni temi recenti, come Mariupol o ivermectina, e i risultati sono stati molto completi. È andata decisamente meno bene con temi di fake news del passato, come l’ormai storico bonsaikitten (di cui ho parlato in un podcast precedente) o George Arlington (che era il nome di un inesistente papà di una altrettanto inesistente bambina malata di leucemia; il suo appello-bufala era circolato in maniera virale per anni dal 2002 in poi).

Insomma, Fact Check Explorer è un buon inizio, ed è sicuramente una risorsa in più per ricercatori e giornalisti e anche per chiunque voglia approfondire una notizia, ma c’è ancora molta strada da fare. Quando si tratta di contrastare le fake news si parte sempre in svantaggio, perché è molto più facile creare una notizia falsa che costruirne la smentita.

2022/04/06

DragonChase 2022: slitta a “non prima del 21 aprile” la partenza della Crew-4; i poster ufficiali della missione; conferenza stampa; info sulla possibile EVA

Gli slittamenti delle altre attività al Kennedy Space Center (la prova generale o wet dress rehearsal del vettore lunare SLS/Artemis e il lancio commerciale Axiom-1) hanno portato a un nuovo rinvio della data di lancio della missione Crew-4 della quale fa parte Samantha Cristoforetti. Lo ha annunciato poco fa Kathy Lueders, Associate Administrator del Space Operations Mission Directorate (in pratica la persona che dirige il programma spaziale con equipaggi della NASA).

“NASA and @SpaceX continue to carefully look at the operational schedules ahead of the agency’s Crew-4 mission to the @Space_Station. We currently are targeting launch no earlier than April 21 and also looking at the backup date of April 23. (1/2)” ha scritto, aggiungendo “The additional spacing provides mission teams time to complete final prelaunch processing for Crew-4 following the launch of the Axiom Mission 1 to the space station. We’re taking each mission step-by-step to ensure we are moving forward safely. (2/2)”.

In sintesi, al momento in cui scrivo il lancio è previsto per “non prima del 21 aprile” e viene presa in considerazione la “data di riserva del 23 aprile”. Questo è un problema per noi DragonChaser, visto che rientriamo dalla Florida il 23 nel tardo pomeriggio. Ma l’importante è lanciare bene.

Intanto sono stati pubblicati i poster ufficiali collegati alla missione:

Questo poster della Expedition 67, chiaro omaggio alla serie di fantascienza Battlestar Galactica, è opera di Sean Collins e la sua concezione è merito di @RikyUnreal, ha aggiunto Samantha su Twitter. Oltre a Kjell Lindgren, Bob Hines, Jessica Watkins e Samantha Cristoforetti, il poster mostra anche gli altri  membri della Expedition 67. Da sinistra: Bob Hines, Denis Matveev, Samantha Cristoforetti, Oleg Artemyev, Kjell Lindgren, Jessica Watkins e Sergey Korsakov.

Kjell Lindgren, comandante della missione Crew-4, ha pubblicato quest’altro poster, creato da Cindy Bush del Johnson Space Center:

Questi poster proseguono una tradizione di molti equipaggi spaziali, compreso quello del volo precedente di Samantha Cristoforetti, che aveva come tema la Guida Galattica per Autostoppisti di Douglas Adams. Trovate sul sito della NASA la serie completa

Ecco i nuovi poster in versione più facile da vedere e scaricare (sono anche disponibili sul sito NASA in alta risoluzione):


Intanto l’ESA ha invitato i media a partecipare a una conferenza stampa virtuale con @Astrosamantha l’11 aprile dalle 15 alle 16.30 CEST (link). Ovviamente mi sono iscritto :-) Se avete qualche domanda da porre, segnalatemela nei commenti. Oltre a Samantha saranno presenti Josef Aschbacher, direttore generale dell’ESA; David Parker, direttore ESA per l’esplorazione umana e robotica; Vittorio Colao, ministro italiano per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale; e Giorgio Saccoccia, presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana ASI. La conferenza stampa sarà trasmessa pubblicamente su Esawebtv.esa.int.

Segnalo inoltre che la NASA ha attivato un evento gratuito su Eventbrite per consentire a tutti di ricevere “informazioni sui cambiamenti del piano di lancio, sulle attività legate al lancio e sulle risorse selezionate attinenti al lancio” ed essere “ospiti virtuali” del lancio. L’evento inizia il 20 aprile alle 6.37 AM EDT.

Intanto Michal Vaclavik, “space scientist and educator” e rappresentante della Repubblica Ceca all’ESA, ha pubblicato un tweet che dice che “l’astronauta dell’ESA Samantha Cristoforetti, insieme al suo collega russo Oleg Artemyev, è stata assegnata all’EVA VKD-54 nella prima metà di maggio. I loro compiti principali saranno il collaudo del braccio robotico manipolatore ERA e il lancio di cinque Cubesat 3U JUZGU-55”.

2022/04/05

Sorpresona per il First Contact Day: nella terza stagione di Star Trek Picard torna il cast di The Next Generation

Scusate l’inflazione di notizie riguardanti Star Trek, ma oggi è una giornata speciale, lo Star Trek First Contact Day, che si celebra ogni 5 aprile per “ricordare” il primo contatto dell’umanità con una civiltà aliena che avverrà il 5 aprile 2063 nella cronologia della saga (come descritto appunto nel film Primo contatto), e per l’occasione è uscito poco fa un annuncio che farà la felicità di moltissimi appassionati dei Star Trek: nella terza stagione di Picard tornerà il cast originale di The Next Generation.

Ci sarebbe poi da parlare dell’uscita del restauro di Star Trek il Film e del documentario dedicato a Star Trek Voyager, ma sto rischiando l’indigestione e mi fermo qui :-)

2022/04/04

Star Trek Strange New Worlds, i teaser

Star Trek Strange New Worlds è una nuova serie ambientata nell’universo di Star Trek nell’epoca prima che l’astronave Enterprise fosse al comando del capitano Kirk della Serie Classica. Raccolgo qui i teaser che ho trovato, per comodità mia e di chiunque sia intrigato da questa serie, che debutterà il 5 maggio prossimo con la prima di dieci puntate.


Il trailer della serie

Un altro trailer

La presentazione del cast

Il capitano Pike (Anson Mount)

Spock (Ethan Peck)

Il primo ufficiale Una Chin-Ripley (Rebecca Romijn)

L’ufficiale di navigazione Ortegas (Melissa Navia)

Il capo della sicurezza, La'an Noonien Singh (Cristina Chong)

L’infermiera Christine Chapel (Jess Bush)

Il medico di bordo, M'Benga (Babs Olusanmokun)

L’ingegnere Hemmer (Bruce Horak)

Uhura (Celia Rose Gooding)

2022/04/03

Quando alla NASA girano i volani: come variare l'assetto di 420 tonnellate in orbita

Ospito con molto piacere un nuovo articolo scritto per questo blog dall’amico Paolo G. Calisse, astronomo che ha lavorato per vari progetti come ALMA, Simons Observatory, CTAO e primo italiano a trascorrere un anno intero al Polo Sud, sempre lavorando come astronomo al locale osservatorio. In questo articolo spiega bene un aspetto poco conosciuto delle attività spaziali e in particolare della Stazione Spaziale Internazionale: come si mantiene o si cambia l’assetto di un veicolo spaziale orbitante? – Paolo

Giroscopi e ruote di reazione

Alcune recenti dichiarazioni riguardanti la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) fatte da Dmitry Rogozin, capo dell’Agenzia Spaziale Russa Roscomos, hanno suscitato un certo sconcerto tra gli appassionati del settore e nel grande pubblico. Una delle minacce derivanti da queste dichiarazioni sarebbe infatti quella di far rientrare la Stazione in maniera incontrollata, con la possibile caduta di frammenti su zone abitate, in caso di esclusione della Russia dagli accordi di collaborazione con NASA ed ESA a causa della guerra in Ucraina.

Rogozin ha infatti affermato che in caso di perdita dell’appoggio russo alla Stazione Spaziale Internazionale si renderà impossibile compensare la progressiva perdita di quota dovuta all’attrito aerodinamico (che esiste anche a 400 km dalla superficie terrestre, dove orbita la Stazione) senza l’ausilio delle navicelle russe. Questa operazione viene detta reboost.

Già deorbitare la ISS alla fine della sua vita operativa sarà comunque un’operazione estremamente delicata, che richiederà un’accurata pianificazione per scongiurare rischi per la popolazione a terra e tre veicoli spaziali per un rientro prevedibile e sicuro. Ma nel discutere la questione l’attenzione si è appuntata sui reboost (si vedano per esempio gli articoli già pubblicati su questo blog). Come spiegato da Paolo Attivissimo, questo problema sarebbe eventualmente risolvibile usando i retrorazzi di capsule USA. C’è da dire, però, che questa operazione, se compiuta dalle navicelle USA disponibili oggi (Dragon, Cygnus) o anche in un futuro vicino (Dream Chaser), sarebbe per ragioni di progettazione meno efficiente rispetto a quanto possibile tramite le navicelle russe Soyuz e Progress. Per dirla con Joel Montalbano, ISS Program Manager:

Le navicelle Cygnus sono progettate per fare il reboost, ma hanno bisogno dei propulsori russi per il controllo dell'assetto durante questa operazione. Così, mentre la navicella Cygnus si occuperà del reboost, i propulsori russi della Progress saranno attivi per aiutare il controllo dell'assetto. I propulsori della navicella Cygnus non sono abbastanza potenti da controllare l'assetto durante il reboost.

Le parole di Montalbano (Joel, non il noto commissario) sollevano un altro problema che andrebbe affrontato in caso di un eventuale ritiro del contributo russo dal progetto ISS: quello del mantenimento dell’assetto della ISS.

Alcuni lettori di questo blog, commentando gli articoli di Paolo, hanno chiesto come si cambia, o si mantiene, l’orientamento della ISS. La risposta è complessa. Infatti, a causa della massa e delle superfici molto estese in gioco ci sono diversi effetti tendenti a creare una coppia che fa ruotare la stazione spaziale nel corso di ogni orbita. I principali sono:

  1. Le forze mareali generate dall’attrazione della Terra sulla ISS e dovute al fatto che alcune componenti sono più vicine al nostro pianeta e altre più lontane, seppure di poco e
  2. L’attrito aerodinamico generato dal fatto che mentre la ISS ruota in genere in sincronia con la Terra, mantenendo sempre la stessa faccia rivolta verso la Terra (ovvero compiendo una rotazione lungo un asse per orbita), i pannelli solari inseguono il Sole, causando variazioni continue nel coefficiente di attrito aerodinamico.

Questi due effetti, insieme ad altri più sottili come la pressione generata dal vento solare e le disuniformità del campo gravitazionale della Terra nel corso dell'orbita, causano una coppia che tende a far perdere alla Stazione l'assetto richiesto, visto che il suo baricentro è in posizione diversa dal centro della risultante di queste forze. Questa continua tendenza a ruotare varia lentamente e costantemente, influenzando tra l'altro gli esperimenti in microgravità a bordo, che hanno bisogno di condizioni e di un assetto estremamente stabili.


Volare nel vuoto

Vediamo come questo effetto viene contrastato dal controllo a terra. È facile immaginare che ruotare un oggetto in orbita usando i retrorazzi richieda un notevole dispendio di propellente e, in aggiunta, produce gas di scarico che possono danneggiare le componenti esterne della stazione. Tuttavia il controllo d'assetto di un veicolo spaziale può essere operato in genere mediante dispositivi che usano energia elettrica, senza richiedere l'uso di "consumabili" a bordo. L'energia elettrica può essere infatti prodotta con pannelli solari o in alcuni casi con i TEG, o Thermo Electric Generator, che usano materiali radioattivi come sorgente di energia.

Per generare le forze necessarie alla rotazione nel vuoto (senza un punto di appoggio) si usano due tipi diversi di dispositivi: le ruote di reazione (dall'inglese reaction wheels) e i giroscopi. Entrambi fanno uso di masse in rotazione, ma si basano su princìpi abbastanza diversi. I giroscopi vengono spesso ritenuti uno strumento più utile a misurare l’assetto di un oggetto, come avviene da tempo in aviazione, ma come vedremo possono e vengono usati da tempo anche per modificarlo nello spazio vuoto, dove l’attrito è quasi nullo e non si può fare uso di superfici di controllo aerodinamiche.

Consideriamo quindi il caso specifico della ISS, che con la sua massa di circa 420 tonnellate (come 10 vagoni ferroviari) ed il suo enorme momento di inerzia dovuto alla sua grande estensione (quasi pari a quella di un campo di calcio) è di gran lunga l’oggetto più massiccio e complicato da "spostare" mai messo in orbita dall'essere umano. 

Fig. 1 - La Stazione Spaziale Internazionale a novembre 2021, vista dalla Crew Dragon Endeavour. Foto NASA JSC2021E064215.

Il metodo usato per il mantenimento dell'assetto dai controllori a terra è detto TEA, o Torque Equilibrium Attitude, che potrebbe essere tradotto con assetto in equilibrio di coppia. Questo metodo funziona brillantemente, gestendo l’attrito aerodinamico in modo da compensare la rotazione dovuta alla variazione di gravità e consentendo di mediare più o meno tutte le forze in gioco nel corso di un’orbita.

Tuttavia, per esempio durante le EVA (Extra Vehicular Activity, ovvero le attività extraveicolari richieste per la manutenzione o per l’installazione di dispositivi all’esterno della ISS) o il docking/undocking (attracco/sgancio) di una navicella, la stazione spaziale deve cambiare il proprio orientamento, per esempio per consentire alle navicelle in arrivo l’attracco lungo la direzione di volo e non provenendo dal basso. In questi casi può accadere che l’assetto debba essere tale da presentare una superficie molto grande nella direzione di avanzamento. Per consentire tali rotazioni bisogna quindi applicare un momento alla ISS e poi mantenere l’orientamento voluto in presenza di forze e momenti più elevati. Altre situazioni che possono determinare una coppia aggiuntiva sono per esempio l’emissione di gas (venting), necessaria per esempio per preparare al docking le linee di alimentazione.

Esaminiamo il funzionamento del primo di questi dispositivi usati per la rotazione di oggetti nello spazio, le ruote di reazione. Si tratta di nient'altro che volani, dispositivi che immagazzinano energia rotazionale conservando il momento angolare e che possono scambiare momento per fornire stabilità al veicolo spaziale.

Il principio di funzionamento di questi oggetti è abbastanza facile da comprendere: se si varia la velocità di rotazione del volano, la velocità di rotazione di un veicolo spaziale dovrà per forza di cose variare in modo da conservare il momento angolare complessivo. Ma c'è un problema: accelerare o decelerare una massa pesante richiede l’erogazione di notevoli quantità di energia. Ma soprattutto, la velocità di rotazione si accumulerà, arrivando a toccare prima o poi i limiti strutturali del dispositivo. Si dirà a questo punto che la ruota di reazione è saturata.

Una volta raggiunta la saturazione, si dovranno usare necessariamente i retrorazzi dell'RCS (o Reaction Control System) per riportare a zero la velocità, con conseguente consumo di propellente. Il problema delle ruote di reazione è anche che queste accelerazioni e decelerazioni richiedono quantità di energia superiori di ordini di grandezza rispetto a quelle richieste dai giroscopi, che come vedremo si basano su un principio diverso che le rende poco pratiche per masse come quelle della ISS.

Fig. 2 - Sistema di puntamento del Telescopio Spaziale Hubble. Ci sono sei giroscopi (che, come una bussola, puntano sempre nella stessa direzione) e quattro ruote di reazione. Si sono verificati diversi guasti a questi dispositivi. È probabile che costituiscano il limite di funzionamento di questo satellite (Credit: NASA, ESA, A. Feild e K. Cordes (STSci), e Lockheed Martin).

Un sistema alternativo impiegato per lo stesso fine è il giroscopio. Tali dispositivi dispongono di una grossa massa rotante montata su di un telaio (gimbal, in inglese) in grado di farne ruotare l’asse di rotazione applicando una forza. 

La differenza fondamentale rispetto alle ruote di reazione è che il volano, nel caso del giroscopio, ruota a velocità costante, risparmiando la quantità di energia elettrica necessaria per accelerarlo e decelerarlo. Il risultato è un sistema di controllo dell’assetto non solo più efficiente ma anche più preciso nel puntamento. Tecnicamente questi dispositivi vengono indicati come CMG, o Control Moment Gyroscopes, per indicare sia il giroscopio vero e proprio che la piattaforma che lo contiene (vedi Fig. 3 e 4).

Fig. 3 - Un’immagine del CMG della ISS aperto durante il commissioning a terra. I quattro volani sono contenuti all’interno delle strutture dipinte di nero.
Fig. 4 - Un giroscopio guasto della ISS viene sostituito dagli astronauti Soichi Noguchi e Stephen Robinson durante la missione STS-114 del 2005. L’immagine dà un’idea delle grandi dimensioni dei volani presenti a bordo della ISS.

Come noto, un oggetto in rapida rotazione tenderà a mantenere il proprio asse di rotazione in direzione costante, come avviene per una trottola. Per modificare l'assetto della ISS si applica una forza al gimbal che supporta il volano. Questa forza produce un momento perpendicolare sia alla forza applicata che all’asse di rotazione della massa inerziale. Ciò fa sì che la ISS debba ruotare per conservare, ancora una volta, il momento angolare complessivo del sistema. Si può comprenderne il principio cercando di cambiare l’asse di rotazione di una ruota di bicicletta in rotazione, tenuta con le mani tra le proprie braccia tese: si noterà che la ruota tenderà a ruotare non come ci si aspetterebbe, ma in direzione perpendicolare sia alla forza applicata che all’asse di rotazione.

Il sistema CMG della ISS è montato nel modulo Z1 Truss, il primo elemento ad essere messo in orbita (nell’ottobre del 2000 con la missione STS-91), che si trova approssimativamente al centro dell’intera struttura e contiene quattro volani del peso di 98 kg l’uno, che ruotano a 6600 rpm nominali.

Fig. 5 - Esploso della Stazione Spaziale Internazionale. L'Integrated Truss Structure Z1, dove è installato il CMG, è indicato dal cerchio rosso (Credit: NASA).

Quando sono in posizione neutrale (coppia nulla e posizione iniziale), gli assi di rotazione di questi quattro grossi volani puntano verso il centro del quadrato. Ogni volano gira in direzione contraria a quello opposto, generando in totale una coppia nulla. Se invece si vuole far ruotare la ISS o cambiare il suo assetto, si applica una forza al doppio gimbal sui quali sono montati i volani in modo che la ISS ruoti nella direzione voluta. 

Due giroscopi sarebbero sufficienti per ruotare la ISS in tutte le direzioni. Tuttavia averne quattro permette di avere una buona ridondanza ed efficienza nel sistema.

Fig. 6 - Funzionamento del CMG della ISS. A sinistra: i quattro volani in posizione neutrale. Al centro: parzialmente allineati. A destra: totalmente allineati per fornire la coppia massima disponibile.

Tutto bene, sembrerebbe, ma il problema è che prima o poi l’asse di rotazione del CMG si allineerà con la forza applicata. A quel punto il sistema non sarà più in grado di creare alcuna coppia e bisognerà riportare i giroscopi nella posizione iniziale e si dirà che il CMG è saturato. A questo punto, come già visto con le ruote di reazione, l’unica soluzione è utilizzare gli RCS, con conseguente consumo di propellente e produzione di gas di scarico.

La desaturazione del CMG avviene più di frequente dei reboost, soprattutto dopo operazioni come il docking (attracco) e l’undocking (sgancio) di una navicella, o una EVA (Extra Vehicular Activity) che, come già detto, richiedono una variazione nell’assetto della ISS, sia all’inizio che alla fine. In più, i retrorazzi dovranno puntare nella direzione giusta (altrimenti la ISS, invece di ruotare, cambierebbe parametri orbitali) e in maniera estremamente precisa per non creare rotazioni non volute.

Inoltre l’intero CMG deve essere estremamente affidabile per non incorrere mai in una saturazione completa con la ISS ancora in rotazione e per misurare con precisione la velocità angolare. Un satellite giapponese, Hitomi, realizzato con la partecipazione di NASA ed ESA, andò distrutto poco più di un mese dopo il lancio, nel 2016, a causa di una serie di malfunzionamenti ed errori progettuali presenti nel CMG di bordo che lo portarono a ruotare su se stesso a velocità tali da farlo disintegrare rapidamente. È chiaro che un rischio del genere è impensabile nel caso di un satellite con astronauti e/o cosmonauti a bordo come la ISS. Va anche considerato che se dovessero presentarsi dei problemi al CMG mentre la ISS è in rotazione su se stessa e fosse necessaria la desaturazione, sarebbe di fatto impossibile per una navicella di emergenza agganciarsi o sganciarsi dalla stazione, rendendo impossibile l’uso di retrorazzi.

Il sistema deve anche agire in “loop chiuso”, in quanto i razzi devono modulare la coppia con precisione per non consumare inutilmente propellente e per puntare in ogni istante nella direzione giusta. Le navicelle russe sono connesse al sistema direttamente. Le Dragon e le altre capsule USA, non essendo progettate per questo scopo, non sono al momento – a quanto ho capito, ma potrei essere smentito – in grado di garantire questo loop chiuso, il che richiederebbe una modifica progettuale importante.

Comunque sia, anche a causa della posizione dei retrorazzi su queste navicelle, l'operazione potrebbe non risultare molto efficiente. Ovviamente si potrebbe aggiornare una delle navicelle USA disponibili per svolgere questo compito al meglio. Ma la posizione dei retrorazzi sarebbe difficile se non impossibile da cambiare in un veicolo già in fase avanzata di progetto. Nella prospettiva realistica che la ISS venga decommissionata entro qualche anno e considerato il tempo tipico necessario per sviluppare, testare e validare anche minimi cambiamenti in questo settore, è improbabile che una soluzione arrivi in tempo utile.

Naturalmente questo scenario è ipotetico e resta altamente improbabile. Dichiarazioni a parte, le operazioni della Stazione Spaziale Internazionale continuano come al solito. Nonostante le minacce di Rogozin, astronauti e cosmonauti rientrano tranquillamente in Kazakistan. Insieme. Anche perché se proprio si volesse arrivare a dispetti reciproci e a voler danneggiare deliberatamente città ed infrastrutture di Paesi terzi al conflitto lo si potrebbe fare a terra molto più semplicemente. Senza dimenticare che, come notato da molte fonti, la Federazione Russa danneggerebbe prima di tutto se stessa e la sua unica possibilità di accesso allo spazio per molti e molti anni.


Paolo G. Calisse, astronomo ed appassionato di astronautica

2022/04/02

CryptoChallenge: riuscite a decodificare questo (possibile) messaggio in codice di Star Trek? / Can you decode this (possible) Star Trek message?

English summary: Episode 2.05 of Star Trek: Picard conspicuously shows a calling card with an elaborate cutout pattern, which is also present in the credit sequence of the show. This pattern resembles a so-called “annular barcode” or “Shotcode” and may contain a message (the links lead to technical info describing the structure of these codes). We’re pooling our skills to see if we can reconstruct the exact pattern and then find out what it says (if anything). Help is welcome!

Ho il sospetto che questa immagine tratta dalla seconda stagione Star Trek: Picard contenga un messaggio in codice. Come ho scritto altrove, il numero di telefono è reale (risponde una segreteria molto particolare), e quindi è possibile che quello schema circolare di vuoti e pieni non sia casuale.

Oltretutto lo stesso tipo di schema compare anche nella sigla di testa, ed è identico perlomeno nella parte inquadrata:

Se qualcuno sa usare Photoshop o simili per “srotolare” lo schema o riesce pazientemente a ricostruire lo schema leggendo le immagini, possiamo provare a interpretarlo. Non si vince nulla, che io sappia, ma se per caso il codice rivela come vincere qualche ricompensa o avere qualche chicca nascosta, la condividerò volentieri con chi mi ha dato una mano!

Ho provato a elaborarla un pochino per vedere meglio i dettagli: io conto 10 righe e 57 o 58 colonne. Partendo dalla destra della riga diametrale e andando in senso antiorario, leggo per esempio (con 1 = pieno, 0 = vuoto) 10-10-10-10-10, 01-00-10-10-00-11... e poi mi perdo. Idee?

Ho trovato un file STL per stampa 3D del biglietto da visita. Se è attendibile, questa dovrebbe essere un’immagine più facilmente decodificabile, perché è vista frontalmente:



Primi risultati: @massimomusante segnala che somiglia moltissimo a un annular barcode, le cui specifiche tecniche sono descritte qui. Interessante: questi annular barcode ospitano 56 caratteri (e io ne ho contati 57 o 58, forse sbagliando) e il loro bordo esterno alterna vuoti e pieni per fornire una linea di riferimento per gli scanner. Il presunto codice sul biglietto da visita in effetti ha un anello esterno che è quasi tutto composto da un’alternanza di questo tipo.

La ricerca continua...

18:45. Ecco uno “srotolamento” fatto da Lorenzo Poderi:

2022/04/03 00:15. @leoschumy nota che codici di questo genere sono stati chiamati anche shotcode e risalgono al 1999 (Wikipedia). Il sito originale, Shotcode.com, non esiste più ma è archiviato su Archive.org. Forse qualcuno riesce a recuperare un software di decodifica?

Nei commenti, Nico Chiavegato suggerisce che si tratti di una codifica UTF-8 e ci sono vari tentativi di “srotolamento” (questo di Word Smuggler è particolarmente promettente). C’è anche un thread su Twitter con alcuni spunti.

01:42. Alberto Franchi, nei commenti, segnala la sua decodifica:

1010101010 end char
0110101101
1010101101 0010111110 1111000001
0111011111
1101011111
0001011111
1010001111
0000001111
1000101111
0000001111
1000010000
0110100001 1111110100
0100110100
1000100101
0000010000
1000010000
1001000011
0010000011
1111110011
0101111011
0101111011
1110000111
0110000001
1101001111
0000001001
1000000111
0001101000
1101111011
0101101011
1000001011
0001000001 1011101110

Buon divertimento!

9:45. Questa è la decodifica di Lorenzo Poderi:

10:10. Questo è lo srotolamento grafico di Alberto Franchi:

Colgo l’occasione per segnalare un altro celebre messaggio circolare nascosto: quello sul paracadute marziano del rover Perseverance. Magari le tecniche usate per quella codifica possono ispirarvi per questa.

20:45. Alberto Franchi ha preparato anche questo grafico preliminare:

2022/04/04 9:40. Diego Cuoghi ha realizzato uno srotolamento molto chiaro:


23:50. Via Twitter, un altro ricercatore, @jaysenw, mi ha mandato queste informazioni, con il permesso di pubblicarle:

I have tried both circularly (outer rings) to inner rings, both with 1 for dark and 0 for light as well as in reverse (1 for light 0 for dark)

I have tried using the columns as well (outer to inner, inner to outer) with both with 1 for dark and 0 for light as well as in reverse.

I have attached my excel spreadsheet.  The raw data is on worksheet one.  I used an arbitrary starting point for the ring locations.

The inner ring is likely not a code as it is all dark, but I encoded it on my spreadsheet anyway.  I think there are 10 “data” rings and maybe 1 or two control rings (outer/inner).

I like the idea of a barcode.  I was trying:

  1. 7 or 8 digit ASCII codes
  2. 4 or 5 bit binary to decimal (like the perseverance code)
  3. Looking for repeats between sets of digits (like the perseverance code)
  4. Searching for vowels, www or periods (.) in the ASCII codes  (7/8) bit to see if any repeats.

None of these methods have yielded any fruitful results.

Il file Excel di cui parla è qui a vostra disposizione.

2022/04/05 00:20. Da @Elis4b arriva un’idea molto originale: e se fossero istruzioni per un carillon?

2022/04/01

Un paio di chicche di Star Trek: Picard, seconda stagione (SPOILER)

Questo articolo contiene anticipazioni sugli avvenimenti della seconda stagione di Star Trek: Picard. Se non volete conoscerle, non leggete oltre. Non ci saranno ulteriori avvertimenti :-).

Nella quinta puntata Q mostra a... qualcuno un biglietto da visita sul quale c'è un numero di telefono:

Diversamente dai numeri usati abitualmente nei telefilm, che sono quasi sempre finti (iniziano col prefisso 555), questo corrisponde a un numero reale. Cosa succede se lo si chiama? Questo (ho provato personalmente, essendo oggi il primo d’aprile temevo si trattasse di una burla):

La voce inimitabile di John DeLancie (che interpreta Q) dice: "Hello! You have reached the Q Continuum. We are unable to get to the phone right now, because we are busy living in a plane of existence your feeble, mortal mind cannot possibly comprehend. Furthermore, it’s pointless to leave a message, because we of course already knew that you would call, and we simply do not care. Have a nice day."

Sempre nella stessa puntata, a 1m46s, c’è un bel riferimento nascosto alle missioni Apollo (che verranno poi citate esplicitamente nel corso dell’episodio):


L’allarme 1202 è quello che storicamente, durante il primo allunaggio nel 1969, causò non poche preoccupazioni agli astronauti: indicava un sovraccarico del computer di bordo, causato da un eccesso di compiti da svolgere (executive overload), a sua volta provocato da un errore di impostazione degli strumenti di bordo. Il computer era progettato così bene che riuscì a risolvere il problema con una serie di riavvii istantanei senza perdere il controllo del veicolo di allunaggio. A Terra il Controllo Missione sapeva di questa cosa e disse agli astronauti di proseguire lo stesso la manovra di discesa. Trovate una spiegazione più dettagliata in italiano qui su Tranquillity Base.

Podcast RSI - La Dannazione del Default: la strana storia delle case maledette dalla geolocalizzazione

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È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate presso www.rsi.ch/ildisinformatico (link diretto) e qui sotto.

I podcast del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite feed RSS, iTunes, Google Podcasts e Spotify.

Buon ascolto, e se vi interessano i testi e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.

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Prologo

CLIP AUDIO: Qualcuno bussa con forza a una porta

Siamo nello stato americano del Kansas, a maggio del 2011. La porta alla quale stanno bussando con insistenza due vicesceriffi è quella della fattoria dove abitano James e Theresa Arnold. Una coppia tranquilla che vive appena fuori Potwin, un paesino altrettanto tranquillo, con poco meno di cinquecento abitanti. James e Theresa si sono trasferiti lì da pochi giorni. I vicesceriffi stanno cercando un furgone rubato, di cui però la coppia non sa assolutamente nulla. La polizia tornerà ripetutamente, alla ricerca di refurtiva di vario genere, e ogni volta James e Theresa dovranno spiegare che non hanno nulla di rubato. Qualche tempo dopo, riceveranno più volte visite degli agenti dell’FBI, che cercano bambini scappati di casa. E poi arriveranno gli ispettori delle tasse, con l’accusa di frode fiscale. E infine la coppia verrà assediata dalle ambulanze in cerca di persone in pericolo di vita e dalle telefonate di persone che la accusano di truffe di vario genere. Non lo sanno ancora, ma la colpa di questi equivoci è tutta di MaxMind. No, non è un arcinemico dei fumetti: è un’azienda che, senza rendersene conto, ha condannato James e Theresa Arnold a un supplizio squisitamente informatico dal nome piuttosto criptico: il default di localizzazione degli indirizzi IP.

Questa è la storia di come una scelta informatica apparentemente banale può trasformare in un inferno la vita di persone innocenti.

Benvenuti al Disinformatico, il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle storie insolite dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.

SIGLA DI APERTURA

La fattoria di James e Theresa Arnold non è maledetta o posseduta dagli spiriti, e non nasconde un covo segreto di ladri e ricettatori. Lo sa bene il loro locatore, l’anziana signora Taylor: è tutto in regola e non c’è nessun deposito di refurtiva, ma misteriosamente tutte le persone che affittano la sua fattoria vengono bersagliate da richieste di pagamenti di tasse evase e da visite di agenti di polizia, di giorno e di notte, alla ricerca di merci rubate o persone scomparse. Ogni volta è necessario spiegare pazientemente che no, la refurtiva che la polizia sta cercando non è lì e nella fattoria non sono nascosti bambini scappati. E la cosa va avanti da almeno una decina d’anni. Lo sceriffo locale ha fatto mettere un cartello all’ingresso della fattoria avvisando tutti, e soprattutto i rappresentanti del fisco o delle forze dell’ordine federali, di non avvicinarsi e di contattarlo per chiarimenti.

Per venire a capo di questo mistero ci vorranno altri cinque anni e ci vorrà un uomo di nome Kashmir Hill. No, non è un detective: è un giornalista informatico. Arriviamo così al 2016, quando Hill, nell’ambito di un’indagine su un caso analogo avvenuto ad Atlanta, fa una scoperta che cambierà la vita della famiglia Arnold e la libererà (o quasi) dalla persecuzione.

Per capire questa scoperta bisogna fare un passo indietro e parlare di una cosa che a prima vista non c’entra nulla: la cartografia digitale, e specificamente la localizzazione degli indirizzi IP. Ogni dispositivo che si collega a Internet riceve un indirizzo IP, che è un identificativo unico che gli serve per comunicare con gli altri dispositivi. Quando visitate un sito con il vostro computer o smartphone, per esempio, il sito viene informato del vostro indirizzo IP. Ci sono aziende (per esempio Whatismyipaddress.com) che associano gli indirizzi IP ai luoghi geografici, per cui un sito può sapere se un visitatore si trova, che so, in Francia o negli Stati Uniti. Spesso questa associazione è abbastanza precisa da poter indicare la città esatta nella quale si trova l’utente, o addirittura l’edificio specifico. Spesso, ma non sempre.

CLIP: Maxmind

Maxmind, che ha sede in Massachusetts, è una delle aziende che vendono questo tipo di informazione, molto ambita per esempio dai pubblicitari, che la usano per mostrare a ogni utente pubblicità pertinenti alla sua regione. La usano anche le agenzie governative, per sapere dove si trovano le persone che si rivolgono a loro. MaxMind offre i propri servizi a oltre 5000 aziende.

Ma c’è un problema: l’associazione fra indirizzo IP e indirizzo geografico a volte sbaglia di grosso. In alcuni casi viene fatta facendo il cosiddetto wardriving, ossia mandando in giro automobili dotate di GPS e computer che cercano le reti Wi-Fi aperte, ne identificano gli indirizzi IP e li abbinano alle coordinate geografiche del posto in cui si trovano in quel momento. Altre volte viene fatta usando allo stesso modo gli smartphone degli utenti quando vanno in giro. In altri casi ancora viene ottenuta guardando l’indirizzo IP di un’azienda e guardando dove si trova fisicamente la sede di quell’azienda.

Ma in alcuni casi non è possibile risalire all’ubicazione geografica precisa di un certo indirizzo IP e quindi nei registri di aziende come MaxMind si annotano, al posto delle coordinate geografiche reali, delle coordinate di default. Se si sa soltanto che un certo indirizzo IP si trova da qualche parte in una certa città, allora a quell’indirizzo IP verranno abbinate le coordinate geografiche del centro di quella città.

E se MaxMind non ha proprio nessun dato geografico da abbinare a un certo indirizzo IP, nasce un problema: qualcosa bisogna pur scrivere nel database delle coordinate, e così MaxMind assegna delle coordinate completamente arbitrarie. Specificamente, nel caso di qualunque indirizzo IP di cui sa solo che è statunitense, assegna le coordinate del centro geografico degli Stati Uniti, arrotondate per non avere troppe cifre decimali: 38 gradi nord, 97 gradi ovest

Indovinate cosa c’è a quelle coordinate. Esatto: la fattoria degli Arnold.

In altre parole, qualunque reato o inadempienza fiscale associati a un indirizzo IP di cui MaxMind non ha informazioni geografiche punta a quella fattoria. Se funzionari governativi, inquirenti, ispettori delle tasse, forze dell’ordine chiedono a MaxMind dove si trova un certo indirizzo IP di cui MaxMind non sa nulla, l’azienda non risponde con un sincero “boh, non ne ho la minima idea”, ma fornisce le coordinate geografiche di James e Theresa Arnold. Che così si sono trovati accusati di reati informatici, furti di identità, molestie informatiche e persino di “detenzione di ragazze presso l’abitazione allo scopo di realizzare film pornografici”: così dicono i documenti legali.

Il giornalista informatico, Kashmir Hill, insieme all’esperto di sicurezza Dave Maynor, consulta un database pubblico di MaxMind e scopre che gli indirizzi IP di cui l’azienda non ha nessuna informazione reale di localizzazione sono oltre seicento milioni. Se uno di questi indirizzi IP viene usato da un truffatore o da un criminale informatico o da una persona in difficoltà che contatta un servizio di soccorso, MaxMind dirà che quel malfattore o quella persona nei guai sta a casa degli Arnold, a Potwin, in Kansas. Nessuno, alla MaxMind, si è chiesto se per caso alle coordinate geografiche di default immesse automaticamente nei loro archivi ci fosse qualcuno. Nessuno nell’azienda ha pensato di assegnare delle coordinate geografiche che non potessero causare problemi a persone innocenti e inconsapevoli.

Kashmir Hill, nel 2016, contatta i signori Arnold e spiega la sua scoperta. I coniugi, capita la causa dei loro problemi, avviano subito un’azione legale contro MaxMind, chiedendo un risarcimento di oltre 75.000 dollari. L’azienda si impegna a posizionare le coordinate di default nel centro di specchi d’acqua, boschi o parchi invece che davanti alle case delle persone. Ma molti dei clienti di MaxMind non aggiornano regolarmente i propri archivi, per cui la persecuzione non è ancora del tutto terminata.

La vicenda dei coniugi in Kansas non è l’unica del suo genere: il giornalista Hill cita molti altri casi, come quello del signor Tony Pav, che vive ad Ashburn, in Virginia, dove si trovano i grandi datacenter di Google e Facebook. Di conseguenza, oltre 17 milioni di indirizzi IP puntano ad Ashburn, e MaxMind aveva scelto, come coordinate geografiche generiche di Ashburn, proprio la casa di Tony Pav, che così una sera ha trovato la polizia che stava per sfondargli la porta alla ricerca di un laptop del governo che risultava trovarsi lì, perlomeno stando al suo indirizzo IP. Il povero signor Pav è perseguitato da situazioni di questo genere e teme che qualcuno che ha subìto un torto, prima o poi, venga di persona a casa sua a farsi giustizia sommaria. MaxMind ha cambiato anche queste coordinate.

E poi c’è anche il caso del signor Dobson di Las Vegas, che si vede perennemente incolpato ingiustamente di aver rubato telefonini perché casa sua si trova proprio davanti a un’antenna di telefonia mobile geolocalizzata.

Fra l’altro, questo non è un problema limitato agli Stati Uniti. Tre anni più tardi, nel 2019, a Pretoria, in Sud Africa, un uomo e sua madre si trovano accusati di rapimento da un investigatore privato che è sulle tracce di una bambina rapita ed è stato portato davanti alla casa dei due da un dispositivo di tracciamento che secondo lui è infallibile. La famiglia si trova spesso in situazioni del genere, a volte anche pericolosamente aggressive, perché la casa, come le precedenti, si trova in un punto geografico informaticamente maledetto.

In questo caso sudafricano, l’artefice della maledizione digitale è nientemeno che un’agenzia governativa di intelligence statunitense, la National Geospatial-Intelligence Agency.

CLIP: NGA

Quest’agenzia fa parte del Dipartimento della Difesa e fornisce anche servizi di geolocalizzazione aperti al pubblico. Per questi servizi ha scelto, per indicare l’intera città di Pretoria, le coordinate esatte della casa dei due malcapitati. E in questo caso non c’è nulla da fare, se non traslocare.

---

Questi episodi assurdi di persecuzione digitale dimostrano la noncuranza con la quale troppo spesso in informatica si scelgono valori predefiniti arbitrari senza pensare alle loro conseguenze nel mondo reale, ma mettono anche in luce due errori molto diffusi fra gli utenti: il primo è un’eccessiva e mal riposta fiducia nei servizi di localizzazione basati sugli indirizzi IP, che spesso contengono dati errati o inventati; il secondo è pensare che delle coordinate geografiche con tanti decimali siano precisissime, mentre in realtà quei decimali sono soltanto il risultato di approssimazioni e arrotondamenti. 

Questi servizi, infatti, non sono pensati per trovare una specifica abitazione ma solo per dare un’indicazione approssimativa della zona geografica in cui dovrebbe trovarsi un certo dispositivo. Per cui se usate un sito come Iplocation.net, prendete i suoi risultati con molta cautela. A me, per esempio, dice che sono in questo momento a Zurigo, mentre in realtà mi trovo a Lugano, e dice di sapere dove mi trovo con ben dodici cifre decimali di precisione. In teoria, mi sta dicendo che sa dove mi trovo con una precisione di meno di un milionesimo di millimetro, ma in realtà sbaglia di circa 155 chilometri in linea d’aria.

Morale della storia: la geolocalizzazione è una cosa seria, ma se usata male può causare guai a non finire a persone che non hanno nessuna colpa. Per cui non andate a bussare a casa di sconosciuti perché la vostra app preferita di localizzazione tramite indirizzo IP vi ha portato davanti a una certa abitazione. E pregate di non abitare in una casa che qualche azienda, dall’altra parte del pianeta, ha scelto come coordinate di default per i propri archivi senza pensare alle conseguenze.

Fonti aggiuntive: Half As Interesting, Sophos, Ars Technica.

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