Charlie Duke, astronauta lunare che viaggiò in auto elettrica sulla Luna nel 1972 durante la missione Apollo 16, ora prova un’altra auto elettrica a quasi cinquant’anni di distanza: la splendida Porsche Taycan.
Due dei miei mondi preferiti che s'incontrano.
Chicca: la musica è di Matt Morton, autore delle musiche del documentario Apollo 11.
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L’astronauta privato Richard Garriott ha rivelato pochi giorni fa di aver portato di nascosto sulla Stazione Spaziale Internazionale parte delle ceneri di James Doohan, l’attore che interpretò l’indimenticabile Ingegner Scott (“Scotty”) della Serie Classica di Star Trek. Le ceneri sarebbero rimaste a bordo della Stazione, nascoste in un anfratto nel quale si troverebbero tuttora.
L’operazione clandestina, secondo il racconto di Garriott rilasciato al Times, è avvenuta dodici anni fa, nel 2008, quando lui ha visitato la Stazione come astronauta pagante, ed è stata tenuta segreta fino a oggi per evitare imbarazzi alle agenzie spaziali responsabili della gestione della Stazione.
Doohan aveva espresso il desiderio che le sue ceneri in qualche modo raggiungessero lo spazio. Due anni dopo la sua morte, avvenuta nel 2005 a 85 anni, una parte delle sue ceneri era stata portata fugacemente nello spazio da un volo suborbitale ma era poi rientrata subito a terra. Nel 2008 un’altra parte era stata lanciata in un volo orbitale, ma la missione era fallita per un problema al vettore. Nel 2012 SpaceX aveva portato in orbita un’altra parte ancora delle ceneri, che successivamente era rientrata disintegrandosi, come previsto.
Ma nel 2008 Chris Doohan, il figlio di “Scotty”, aveva contattato Garriott (che è figlio dell’astronauta Owen Garriott), pochi giorni prima della partenza di quest’ultimo per la Stazione, e gli aveva proposto di portare nello spazio delle piccolissime porzioni delle ceneri di James Doohan.
Garriott ha rivelato ora che le aveva a bordo di nascosto, incorporandole nella plastificazione di tre piccole foto dell’attore, e le aveva nascoste dentro i propri manuali di volo, senza farle controllare dagli addetti alla sicurezza.
Una delle foto è ora a casa di Chris Doohan; una seconda fu rilasciata nello spazio da Garriott ed ora è presumibilmente rientrata in atmosfera e si è disintegrata, mentre la terza è rimasta sulla Stazione, nascosta sotto il rivestimento del pavimento del modulo Columbus, dove dovrebbe trovarsi tuttora (anche se mi risulta che il modulo in questi anni sia stato oggetto di numerose “ristrutturazioni” interne, per cui qualcuno potrebbe aver trovato e rimosso la foto senza sapere cosa fosse esattamente).
L’articolo del Times include un video della foto plastificata con le ceneri di “Scotty” che fluttua a bordo della ISS, che vedete qui sotto.
La storia dell’astronautica è ricca di oggetti e cimeli portati di nascosto a bordo, e mi risulta che il modulo Columbus sia uno dei luoghi preferiti dove depositarli. Un giorno, quando saranno oggetti di archeologia spaziale, se ne potrà parlare più apertamente.
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Anni fa avevo chiesto ai lettori di questo blog se qualcuno era in grado di recuperare una foto fortemente sottoesposta, scattata durante l’escursione lunare di Apollo 11. La foto, classificata come AS11-40-5894, è particolarmente significativa perché è una delle pochissime che mostrano Neil Armstrong sulla Luna almeno parzialmente.
Mancano infatti fotografie di Armstrong a figura intera durante la sua storica passeggiata sulla Luna. Tutte le foto, infatti, ritraggono il suo compagno di missione, Buzz Aldrin. Di Armstrong ci sono solo alcune inquadrature molto parziali.
La foto in questione è questa, nella sua versione grezza: si scorge, in basso a sinistra, la sagoma di Neil Armstrong.
La NASA ne ha pubblicato una versione parzialmente restaurata, che però è comunque molto scura. Ma oggi il bravissimo restauratore di immagini Apollo Andy Saunders ha risposto a un mio invito su Twitter e ha recuperato l’immagine:
In dettaglio, ecco Neil Armstrong sulla Luna, come non è mai stato visto prima:
Andy Saunders ha dato prova delle proprie capacità anche con la missione Apollo 12, di cui ricorre il cinquantenario proprio in questi giorni:
Alan Bean: " Let me get the old camera on you, babe"
At 6:22 on this day 50 yrs ago Pete Conrad descended the ladder to become the 3rd moonwalker. Can we see Bean's reflection?
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Qualche giorno fa l’ESA ha tweetato una caption competition: un invito a comporre la didascalia migliore o più divertente per questa foto di Luca Parmitano:
Caption competition!
What was @astro_luca explaining to @AstroDrewMorgan at the Baikonur museum earlier this week? Funniest/best entry wins a #Beyond patch. Deadline Monday, reply to this tweet! #TGIF
Traduzione: "Luca Parmitano, membro dell'equipaggio di riserva, spiega il funzionamento del nuovo sistema di salvataggio per emergenze durante il lancio, mirato a ridurre i costi, noto anche come SGCTP, ossia ‘Salta Giù Che Ti Prendo’”.
Ho ricevuto un tweet privato di preavviso dall’ESA, che mi ha avvisato che la mia battuta improvvisata era piaciuta a Luca, e stamattina mi è arrivata questa:
Una versione leggermente ridotta di questo mio articolo è stata pubblicata per la prima volta nel numero di ottobre 2017 di Spazio Magazine dell’associazione ADAA. Ultimo aggiornamento: 2018/07/12 9:20.
La gestione sicura dei rifiuti solidi e liquidi del corpo umano è una questione tecnica essenziale per qualunque missione spaziale, ma raramente discussa in pubblico. Se chiedete a un astronauta come si va al gabinetto nello spazio, spesso risponderà con garbo e discrezione usando le parole rese famose dall’astronauta lunare Charlie Duke: “Very carefully”, ossia “Con molta attenzione.”
L’attenzione è meritatissima, perché in microgravità ciò che si vorrebbe allontanare il più rapidamente possibile dal proprio corpo tende a non farlo: per esempio, la tensione superficiale fa aderire i liquidi al corpo come una pellicola, mentre nel caso dei rifiuti solidi si verifica un particolare effetto di estrusione non lineare che i tecnici chiamano “the curl” (il ricciolo) sul quale forse non è il caso di spendere altre parole per non urtare gli animi più sensibili. Se avete presente come si comporta la pasta d’acciughe quando la spremete dal tubetto, non vi serve sapere altro.
Come se non bastasse, se l’astronauta o cosmonauta riesce ad allontanare correttamente da sé questi materiali indesiderati rischia di trovarsi circondato da una galassia di maleodoranti particelle liquide o solide fluttuanti, che sarebbe ovviamente pericoloso trovarsi addosso, inalare o ingerire e sarebbe poco salutare dover maneggiare o rimuovere dagli apparati tecnici di bordo, dove potrebbero creare intasamenti, contaminazioni e corti circuiti.
Sulla Terra, o su un altro corpo celeste come la Luna o Marte, la gravità fa andare tutto verso il basso nei recipienti appositi, ma in assenza di peso occorre trovare un altro modo di raccogliere e contenere le sostanze indesiderate. In altre parole, creare un gabinetto spaziale che funzioni a dovere è una sfida tecnica impegnativa, spesso taciuta ma assolutamente vitale per qualunque viaggio nel cosmo.
Primi esperimenti
I primi voli spaziali russi e americani con equipaggio furono talmente brevi che il problema della toilette non si pose, con una eccezione notevole: quella di Alan Shepard, che il 5 maggio 1961 divenne il primo americano a compiere un volo nello spazio nel quale ci si dovette confrontare con i limiti fisiologici del corpo umano in questo campo delicato. Il volo di Shepard (suborbitale, mentre i russi avevano già raggiunto l’orbita) aveva una durata prevista di quindici minuti, per cui non era stato previsto alcun sistema di gestione di urina e feci.
Ma il maltempo e alcuni problemi tecnici rinviarono il decollo per quattro ore, e alla fine l’astronauta si trovò costretto ad annunciare ai controllori della missione che aveva bisogno di orinare. Estrarlo dalla capsula sarebbe stato molto complicato e avrebbe richiesto il rinvio del lancio, per cui i tecnici si consultarono e diedero a Shepard il permesso di orinarsi addosso, dentro la tuta spaziale. Il liquido mandò in corto i sensori dei parametri fisiologici sul corpo dell’astronauta, che era coricato sulla schiena per il decollo, ma tutto andò bene e Alan Shepard completò il proprio volo con successo.
Fu avviato un programma di ricerca dettagliato per risolvere la questione, ma i risultati non furono molto positivi, anche perché l’unico modo per simulare l’assenza di peso senza andare nello spazio era (ed è tuttora) effettuare voli parabolici con aerei di linea appositamente modificati, che offrivano soltanto una ventina di secondi di caduta libera, durante i quali intrepidi volontari, e alcune volontarie, dovevano espletare i propri bisogni a comando in quei venti secondi e oltretutto sotto i riflettori delle cineprese che riprendevano da vicino l’intera procedura.
I filmati di queste sperimentazioni non sono mai stati rilasciati, ma leggenda vuole che alcune copie abusive dei test femminili venissero proiettate verso la fine delle feste più vivaci organizzate dagli astronauti e tecnici statunitensi.
Il maschilismo dell’epoca e un’anatomia femminile ritenuta a torto meccanicamente più impegnativa contribuirono per decenni a impedire che le donne partecipassero a missioni voli spaziali di lunga durata.
Queste limitazioni, insieme a quelle imposte dalla capacità di carico dei vettori spaziali che rendevano impraticabile avere a bordo l’ingombro e il peso di una latrina vera e propria, portarono per molti anni a un rimedio molto primitivo: nelle missioni statunitensi Gemini e Apollo, l’urina veniva raccolta in un sacchetto che si raccordava ai genitali maschili tramite una sorta di preservativo modificato e le feci venivano raccolte in un altro sacchetto, dotato di imboccatura adesiva da applicare alla parte interessata, agevolando il distacco delle feci tramite un dito inserito in un’apposita rientranza del sacchetto: a cose fatte, era necessario introdurre nel sacchetto un liquido germicida e impastare il tutto per evitare fermentazioni, perché i rifiuti solidi venivano tenuti a bordo per le analisi post-volo. Quelli liquidi venivano scaricati nello spazio, sublimandosi di colpo e creando una nube scintillante di particelle che l’astronauta Wally Schirra chiamò la Constellation Urion, ossia la “costellazione di Orinone”.
L’urina scaricata nello spazio crea la “costellazione di Orinone” (da National Geographic, aprile 1966). Credit: NASA/National Geographic.
Una fecal bag dell’epoca delle missioni Apollo. Foto mia presso la mostra A Human Adventure, Milano, febbraio 2018.
L’operazione poco gradevole, da effettuare naturalmente in assenza di peso e senza privacy, era complicata, richiedeva molti minuti e spesso non era coronata da pieno successo: vi sono registrazioni memorabili di astronauti (per esempio quelli di Apollo 10, nel 1969) che discutono di chi sia un frammento fecale fluttuante nella stretta cabina.
Trascrizione delle conversazioni in cabina di Apollo 10.
Schema del Waste Management System (sistema di gestione dei rifiuti umani solidi e liquidi) della capsula Apollo. Credit: NASA.
Ai cosmonauti russi delle Soyuz andava un po’ meglio, dato che il veicolo aveva due spazi abitativi separabili che consentivano un minimo di intimità e c’era una rudimentale toilette costituita da un imbuto e da un vasino collegati a un tubo aspirante.
L’addestratore russo per la “toilette” di bordo del veicolo Soyuz. Credit: CSA/Chris Hadfield.
Per le fasi di volo durante le quali astronauti e cosmonauti dovevano restare sigillati nella propria tuta pressurizzata e per le “passeggiate spaziali” si adottò (e si adotta tuttora) una sorta di pannolone, oggi chiamato elegantemente Maximum Absorbency Garment. L’introduzione di una dieta a basso residuo solido e di un clistere pre-volo consentì a russi e americani di contenere il problema ma non di risolverlo del tutto.
Verso soluzioni più dignitose
Con l’avvento delle prime stazioni spaziali (le Salyut sovietiche e lo Skylab statunitense negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso) e dello Shuttle americano fu possibile adibire una parte della cubatura del veicolo a latrina, come avviene anche oggi a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (ma non, a quanto risulta, sulla stazione cinese Tiangong, che per queste funzioni usa gli apparati semplificati del veicolo Shenzhou).
Inoltre, dopo tutte le riluttanze degli ingegneri degli anni Sessanta e Settanta, ci si rese conto che l’anatomia femminile era in realtà perfettamente gestibile usando semplicemente un un po’ di destrezza e un imbuto appositamente conformato (aderente al corpo e dotato di un’apertura per l’ingresso dell’aria, diversamente dall’imbuto maschile, per il quale l’aderenza ai genitali non è richiesta ed è anzi sconsigliata).
Lo Shuttle, per esempio, aveva un gabinetto vero e proprio: una piccolissima cabina nella quale l’astronauta si poteva fissare inserendo i piedi nelle apposite staffe per poi orinare dentro un imbuto dotato di impianto aspirante oppure “sedersi” su un sedile dotato di una piccola apertura di dieci centimetri di diametro, anch’essa collegata a un aspiratore.
L’uso di questo gabinetto spaziale richiedeva un apposito addestramento sulla Terra, con tanto di positional trainer: un simulatore fisico nel quale l’astronauta imparava a sedersi correttamente e ad allineare con precisione il proprio sfintere rispetto all’orifizio del gabinetto, con l’ausilio di una telecamera che inquadrava dall’interno della toilette l’intera manovra: sicuramente un modo per contemplare se stessi da un punto di vista inconsueto.
Una volta padroneggiato il positional trainer, si passava al functional trainer, nel quale bisognava procedere concretamente alle evacuazioni, eseguendo inoltre la complessa procedura di attivazione e gestione del sistema aspirante. Non era certo una soluzione agevole, ma era già un passo avanti rispetto al sacchetto o al vasino del passato. L’unico inconveniente era che i rifiuti liquidi spesso si ghiacciavano all’esterno dello Shuttle, causando frequenti intasamenti che rendevano inservibile questa toilette e obbligando gli astronauti a tornare ai sistemi tradizionali.
Questo nuovo sistema ebbe un rodaggio particolarmente sofferto. Durante il primo volo dello Shuttle (STS-1) il sistema di raccolta delle urine funzionò correttamente, ma quello fecale si intasò. Per fortuna c’erano a bordo, come riserva, i vecchi sistemi Apollo.
Durante questa missione di debutto si scoprì anche un altro problema: disseccare le feci usando il vuoto tendeva a generare polveri fecali che, se il sistema non funzionava alla perfezione, si potevano diffondere nell’atmosfera della cabina, cosa che accadde puntualmente durante il rientro di STS-1. Il rischio era che questa polvere entrasse in contatto con gli occhi, il naso o la gola degli astronauti e che l’umidità naturale di queste zone ricostituisse la materia fecale. Una situazione particolarmente indesiderabile. Il gabinetto spaziale fu drasticamente riveduto e semplificato per le missioni successive.
Sulla Stazione Spaziale Internazionale ci sono attualmente due gabinetti, uno nella sezione russa e uno nella sezione statunitense. Entrambi usano gli stessi principi meccanici già collaudati e richiedono lo stesso genere di addestramento all’uso: la gravità viene sostituita dall’aspirazione, un imbuto collegato a un tubo aspirante raccoglie i liquidi e un recipiente metallico in depressione raccoglie i solidi.
La miglioria importante rispetto al passato è che sull’imbocco del recipiente viene fissato ogni volta un sacchetto perforato che raccoglie le feci, riducendo il rischio di dover procedere a catture manuali di particelle fluttuanti. Il recipiente viene periodicamente sostituito ed eliminato mettendolo a bordo dei veicoli cargo destinati a disintegrarsi durante il rientro in atmosfera.
L’astronauta ESA Samantha Cristoforetti alle prese con un simulatore della toilette della Stazione Spaziale Internazionale sulla Terra. In mano ha il tubo aspirante per i liquidi; sul pavimento c’è il recipiente per i solidi. Credit: ESA.
Anche qui non mancano i problemi: l’accumulo di materiale fecale crea odori che si cerca di trattenere filtrando l’aria, lasciando che il freddo dello spazio congeli man mano il materiale e sigillando il contenitore dopo ogni uso, ma queste soluzioni hanno introdotto a loro volta le sfide tecniche denominate coloritamente fecal popcorning (le feci appena espulse tendono a rimbalzare per inerzia sulle pareti e smuovono quelle già congelate, creando un effetto simile al popcorn durante la cottura) e fecal decapitation (il materiale tende a riemergere inaspettatamente durante la richiusura del sigillo e viene tranciato, con effetti comprensibilmente poco entusiasmanti). Essere astronauti o cosmonauti, insomma, richiede sacrifici e impegno anche in questo campo.
Riciclando verso Marte
La tecnologia della toilette spaziale è ormai matura, ma per effettuare missioni nello spazio profondo occorre ridurre i consumi e quindi riciclare tutto il riciclabile: per questo a bordo della Stazione Spaziale Internazionale è stato introdotto dal 2008 un sistema che recupera, distilla e rende potabile l’umidità dell’aria di bordo generata dalla respirazione degli astronauti e gran parte dell’urina del gabinetto della sezione statunitense.
Questo complesso e delicato sistema riduce drasticamente la quantità d’acqua che è necessario portare nello spazio, contenendo i costi e consentendo missioni più lunghe, anche se ha qualche effetto psicologico da prendere in considerazione. Come dice l’astronauta Paolo Nespoli, infatti, il problema non è tanto l’idea che in un certo senso devi bere la tua stessa pipì: è che ti rendi conto che devi berti anche quella degli altri.
Una volta arrivati sulla Luna o su Marte sarà di nuovo possibile sfruttare la gravità per ottenere un gabinetto che funziona in modo normale in termini di raccolta dei rifiuti solidi e liquidi, ma resterà la necessità di riciclare, alla quale si aggiungerà quella di non contaminare l’ambiente circostante: due esigenze che valgono anche nella vita di tutti i giorni e che dimostrano che l’esplorazione dello spazio tende sempre a far emergere soluzioni, valori e principi che hanno un’importanza fondamentale per la coabitazione non distruttiva anche sulla nostra unica, insostituibile, grande astronave Terra.
Alan Bean nel suo studio a Houston, ottobre 2008. Credit: Carolyn Russo.
La recente scomparsa dell’astronauta lunare Alan Bean ha fatto riemergere molti ricordi di chi l’ha conosciuto. Fra i tanti ce n’è uno che mi ha colpito particolarmente ed è stato raccontato su Twitter da Phil Metzger (@DrPhiltill), esperto di planetologia, cofondatore dei laboratori di ricerca Swamp Works del Kennedy Space Center e attualmente docente all’UCF Florida Space Institute. Lo segnalo, riassumendolo qui di seguito, non solo perché rivela un aspetto forse poco noto dell’astronauta Alan Bean ma anche perché mette in luce una questione scientifica e astronautica sorprendente e raramente considerata: un allunaggio “sporca” l’intera Luna.
Nel 2010 Metzger contattò Alan Bean per chiedergli informazioni su una cosa che l’astronauta aveva visto sulla Luna. Lo scienziato stava svolgendo ricerche sul modo in cui il getto dei razzi proietta la polvere lunare durante gli allunaggi.
Le sue informazioni migliori sull’argomento provenivano dalla missione Apollo 12, durante la quale Pete Conrad e, appunto, Alan Bean fecero atterrare il proprio modulo lunare a soli 160 metri dalla sonda Surveyor 3, atterrata due anni e mezzo prima. La sonda, ormai inattiva, era rimasta esposta all’ambiente lunare per tutto questo tempo. Uno degli obiettivi di Apollo 12 era dimostrare un allunaggio di precisione e staccare dei pezzi dalla Surveyor per riportarli sulla Terra, in modo da scoprire il modo in cui l’ambiente lunare faceva deteriorare i vari tipi di materiali e di componenti dei veicoli spaziali.
Secondo il piano della missione, il modulo lunare sarebbe dovuto atterrare a questa distanza dalla Surveyor per ridurre al minimo l’effetto di sabbiatura a getto che si sarebbe verificato per via del grande motore di discesa del modulo lunare, il cui getto avrebbe spazzato via il terreno e la polvere della Luna. Ma 160 metri di distanza non furono sufficienti.
La missione Apollo 12 fu quella che allunò più vicino al terminatore lunare, ossia alla linea di confine fra la regione illuminata della Luna e quella buia: Conrad e Bean atterrarono in un punto e in un momento in cui il Sole era alto solo 5° sopra l’orizzonte locale. In altre parole, nel luogo di allunaggio era passata da poco l’alba.
Questo ebbe un grande effetto sull’allunaggio. Il modulo lunare di Apollo 12 parve sollevare molta più polvere, con il proprio motore di discesa, di qualunque altra missione: così tanta che gli astronauti non riuscirono neanche a vedere il terreno sotto il proprio veicolo. Conrad raccontò in seguito che non riusciva a capire se sotto di loro ci fosse un macigno o un cratere, per cui corse il rischio e atterrò alla cieca, rischiando di morire insieme a Bean. Eppure nelle registrazioni della loro discesa si sente Bean che incoraggia Conrad ad atterrare nonostante tutto.
Secondo Metzger, però, Apollo 12 in realtà non sollevò più polvere delle altre missioni, ma fu il Sole basso sull’orizzonte a rendere apparentemente più opaca la polvere: per illuminare la superficie, infatti, la luce del Sole dovette attraversare la coltre di particelle finissime molto più obliquamente (attraversando uno spessore circa doppio) rispetto agli altri allunaggi.
Metzger e i suoi colleghi stimarono, dopo molti anni di ricerca, che ogni allunaggio spostò più di una tonnellata di terreno lunare, scagliandola a velocità fra 400 m/s e 3000 m/s. Le particelle più fini volarono più velocemente e più lontano, nel vuoto lunare.
Tre chilometri al secondo sono un valore particolarmente significativo, perché è superiore alla velocità di fuga lunare (qualunque oggetto viaggi a questa velocità non ricade più sulla Luna). Questo significa, dice Metzger, che ogni allunaggio può aver generato un anello di polvere spazzata definitivamente via dalla Luna e immessa in orbita intorno al Sole.
Cosa più importante, questo valore significa che sulla Luna non esiste una distanza di sicurezza: qualunque punto della superficie lunare, non importa quanto lontano dal sito di allunaggio, verrà investito dalla polvere scagliata dal getto del motore. Man mano che aumenta la distanza dal punto di allunaggio diminuirà la quantità di polvere che vi arriva, ma è possibile che anche gli antipodi vengano raggiunti da qualche particella di polvere sollevata.
La missione Apollo 12 fornì un’occasione assolutamente unica di misurare concretamente questa polvere scagliata: dopo l’allunaggio, Conrad e Bean raggiunsero a piedi la sonda Surveyor e ne tranciarono via alcuni pezzi che erano stati esposti al violento flusso di polvere prodotto dal modulo lunare atterrato a soli 160 metri di distanza.
Nell’avvicinarsi alla Surveyor, Bean commentò via radio al Controllo Missione che se non ricordava male gli avevano detto che la Surveyor era bianca. Il Controllo Missione, perplesso, gli chiese di che colore fosse invece secondo Bean. L’astronauta rispose che era marrone.
Queste sue parole fecero discutere: cosa c’era, nell’ambiente lunare, che potesse alterare così tanto il colore della sonda? La teoria prevalente fu che le radiazioni presenti avessero alterato la composizione chimica della vernice. Questa teoria rimase indiscussa per circa quarant’anni.
Nel 2008 Metzger andò a Houston a prendere i campioni della sonda Surveyor raccolti da Apollo 12, tenendoli in una speciale cassaforte, con molte misure di sicurezza, perché erano tesori nazionali inestimabili. Li analizzò con numerosi metodi moderni, che non erano disponibili durante gli studi condotti quarant’anni prima, subito dopo il programma Apollo: microscopi elettronici a scansione, scanner laser, spettroscopia di fotoionizzazione a raggi X e spettroscopia elettronica a dispersione.
Metzger e colleghi scoprirono che la superficie della vernice era stata penetrata da particelle di terreno lunare grandi come granelli di sabbia (100 micron) che viaggiavano a circa 400 m/s. Ciascuna particella aveva prodotto un forellino nella vernice e si poteva scorgere una particella annidata in fondo a ciascun forellino.
Questa è un’immagine di un frammento di alluminio verniciato di bianco proveniente dalla Surveyor: si nota un foro di passaggio di un bullone, dove una rondella proteggeva la vernice, che quindi è ancora bianca. Il contrasto è stato aumentato per chiarezza.
L’ombra semicircolare è quella prodotta dalla testa del bullone che c’era nel foro: l’ombra è rimasta, anche se il bullone non c’è più. Quest’ombra fantasma è un effetto della sabbiatura prodotta dal flusso intenso della polvere lunare scagliata dall’allunaggio di Conrad e Bean a 160 metri di distanza dalla Surveyor.
Tutte le zone esposte al getto di polvere divennero più chiare, mentre tutte quelle protette rimasero scure. Era questo il colore marrone descritto da Bean sulla Luna.
Le ricerche precedenti avevano triangolato queste ombre e avevano dimostrato che indicavano la direzione del modulo lunare.
Le ricerche di Metzger e colleghi nel 2010 dimostrarono che il colore marrone non era stato prodotto dalle radiazioni, come avevano ipotizzato i ricercatori precedenti: le ombre erano fatte di polvere di Luna. Il colore marrone era polvere lunare già presente sulla sonda Surveyor prima dell’arrivo di Apollo 12. Il getto di sabbiatura della polvere lunare prodotto dall’allunaggio di Apollo 12 asportò dalla Surveyor più polvere di quanta ne depositò, e questo risultato fu una grande sorpresa.
Metzger e colleghi analizzarono la composizione chimica della polvere e scoprirono che conteneva minerali differenti sul lato est rispetto al lato ovest della Surveyor. Questa polvere, insomma, era ricca di misteri, per cui Metzger e i suoi pubblicarono un articolo scientifico intitolato appunto Further Analysis on the Mystery of the Surveyor III Dust Deposits.
Dopo aver cercato altri indizi negli archivi della missione, Metzger e colleghi si resero conto che dovevano parlare direttamente con Alan Bean per capire esattamente cosa avesse visto mentre camminava verso la Surveyor sulla Luna esclamando che era marrone. Un amico li mise in contatto telefonico.
Bean fu cortesissimo, dimostrando un grande senso dell’umorismo, e parve godersi la chiacchierata a proposito di quello che aveva visto sulla Luna. Ovviamente alcuni dei suoi ricordi dei dettagli erano ormai sbiaditi, ma fu in grado di confermare gli aspetti principali di quello che aveva visto e che servivano ai ricercatori. La conversazione durò, senza fretta, per circa un’ora; finita la discussione tecnica, Bean volle parlare delle sue opere artistiche e raccontò che aveva costruito in casa un diorama in scala del sito di allunaggio di Apollo 12 che occupava un’intera stanza. Ci teneva alla fedeltà dei suoi quadri, per cui prendeva misure precise sul diorama per assicurarsi che tutte le viste in prospettiva fossero corrette.
Bean raccontò il suo uso dei colori nei suoi quadri, notando che la maggior parte della gente vede solo grigi sulla Luna, ma lui l’aveva vista piena di colori, e i suoi quadri mostrano tutti questi colori nel terreno lunare. Spiegò anche che usava gli scarponi lunari e gli attrezzi geologici per creare rilievi nella pittura, parlando dei suoi quadri con passione per una decina di minuti. Poi Alan Bean disse una cosa che Metzger non dimenticherà mai.
L’astronauta disse che non era più un ingegnere ma un artista e che prendeva molto sul serio la propria arte. Disse che aveva in mente tutti questi quadri che voleva mettere su tela prima di morire. Si stava dedicando totalmente a raccontare la storia del programma Apollo prima che fosse troppo tardi. Sapeva che gli restava poco tempo e che il mondo aveva bisogno di vedere le missioni Apollo attraverso gli occhi di un artista. E così Bean concluse dicendo: “Non mi posso permettere di farmi coinvolgere di nuovo nell’ingegneria. Devo concentrarmi sull’arte. Per cui non... mi... chiami... mai... più”.
Metzger ci rimase male. Si chiese se avesse sbagliato a contattare l’astronauta, se avesse sottratto al mondo un’opera d’arte insostituibile portando via a Bean un’ora del suo tempo, eppure il tono della conversazione fino a quel momento aveva dato l’impressione che l’astronauta ci tenesse a parlare con i ricercatori, ma che lo volesse fare solo quella volta e mai più.
Metzger nota che mentre Alan Bean camminava in un mondo di grigi a perdita d’occhio vide solo colori: rossi, blu, gialli, viola, verdi, e quel veicolo spaziale marrone che ci si aspettava fosse bianco. Ci fu chi la considerò una questione tecnica di polvere sollevata: Alan Bean la vide come una questione cromatica.
Lo scienziato conclude così: “Ogni colore nel cuore di Alan era là, sulla Luna, nei suoi crateri, nelle sue rocce, nelle sue colline, perché in quel mondo stava camminando un essere umano, un artista, e dovunque vanno gli esseri umani c’è colore. Tutto il colore. Vorrò sempre bene ad Alan perché mi disse di non chiamarlo mai più. Davvero. Quello che stava facendo con l’arte era più importante di quello che stavo facendo io con la scienza e l’ingegneria, e lui lo sapeva, e aveva bisogno che lo capissimo anche noi alla NASA e che rispettassimo questo fatto. Ci sarà sempre tempo per far atterrare un veicolo spaziale sulla Luna per studiare come scaglia la polvere. Non ci sarà mai un altro momento in cui il primo gruppo di esseri umani che ha camminato su un altro mondo trasformerà quel senso di meraviglia in arte. Voglio bene ad Alan per averlo capito e per averlo difeso. La mia speranza è che tutti i quadri che aveva nel cuore siano arrivati alle sue tele prima che si esaurisse il suo tempo. Anche se io non camminerò sulla Luna, spero di poter vedere colori come li vedeva Alan ovunque io vada. E spero che condivideremo la sua passione e la sua dedizione a continuare a creare quadri -- ciascuno a modo proprio -- fino alla fine.”
Qui sotto trovate i tweet originali di Metzger.
I'd like to share the story of a personal interaction I had Alan Bean, Apollo Moon-walker and artist. In 2010, I needed more information about something Alan had seen when he was on the Moon. I was researching how rocket exhaust blows soil and dust during lunar landings. /1
2/ The best information on this topic was from Apollo 12, when Pete Conrad and Alan Bean landed their Lunar Module 160 m away from the old Surveyor 3 ("S3") spacecraft. S3 had sat on the Moon deactivated for about 2 and a half years exposed to the lunar environment.
3/ The Ap12 mission was planned to land near S3 to (1) demonstrate precision landing and (2) to cut pieces off S3 and bring them back to Earth to see how the lunar environment degrades various types of materials and spacecraft parts.
4/ They planned to land the Ap12 Lunar Module ("LM") about 500 ft away from S3 to minimize the amount of sandblasting that would occur to the S3 as the LM's big descent engine blew the lunar soil and dust. It turns out 500 ft wasn't nearly enough!
5/ Ap12 was also unique among the Apollo mission for how close they landed near the Moon's terminator line, which is the line that separates day and night on the surface. They landed where the sun was only 5 degrees above the horizon, so the local time was barely after sunrise.
6/ It turns out thus had a huge effect on the landing operations. At least, that is my own theory about what happened. You see, Ap12 blew more dust with its descent engine than the other 5 lunar landings. (Or, maybe it just it _looked_ that way.) It was so bad that...
7/ ...that they couldn't see the ground under all that dust. Pete Conrad later said he couldn't tell if there was a boulder or a crater in a bad spot, so he just took the risk and landed in the blind. There was a real risk of death, but they didn't come so close just to abort.
8/ You can find the Ap12 landing video online (YouTube?) and you can hear Alan Bean's distinctive voice encouraging Pete to just go ahead and put it down in the final seconds. Remember Pete's words about landing blind as you listen to Alan encouraging him.
9/ It was never explained why Ap12 blew so much dust compared to the other missions, but I hypothesized that it didn't really. Instead the dust just _looked_ more opaque because the sun was so close to the horizon its light traveled thru twice the dust to illuminate the surface.
10/ In any case, a LOT of dust was blown. My team later estimated after many year's research that well over a ton of soil was blown by each landing. It was blown at 400 m/s up to 3 km/s. Larger particles went slower. Fine dust flew faster & farther in the lunar vacuum,
11/ Moon junkies might recognize the significance of that last number: 3 km/s is higher than lunar escape velocity! That means a dust ring may have been blown completely off the Moon into solar orbit with each Moon landing. More importantly, there is no safe distance on the Moon.
12/ What I mean is that for every distance away from an LM landing site, there were dust particles that blew to that distance. At very long distances the amount of impacting dust became extremely tiny, but even on the back side of the Moon you might get hit by some ejected dust.
13/ Alan Bean's mission gave us an absolutely unique chance to really measure this blowing dust. After landing, Pete and Alan walked over to the S3 spacecraft and cut off pieces that had been subjected to the intense sandblasting of their LM landing just 160 m away.
14/ As Alan rounded the large "Surveyor Crater" and approached the S3 spacecraft he said to mission control via radio, "I thought you said this spacecraft is supposed to be white." (Not exact quote - I'm going from memory here.) Mission Control asked "Why? What color is it?"
15/ Alan said "It's brown!" This set off a lot of discussion back here on Earth. What did the lunar environment do to that spacecraft to change it from white to brown??? The leading theory was that radiation changed the chemistry of the paint. That theory held for 40 years.
16/ Around me 2008 I traveled to Houston and officially checked out all the white painted pieces that had been cut off the S3 spacecraft and returned to Earth by Ap12. I had to keep them in a special safe with lots of security since they are truly priceless national treasures.
17/ We analyzed those pieces using many modern methods that were not available 40 years earlier, right after the Apollo program, when earlier researchers had tried to study them. We used Scanning Electron Microscopes, laser scanners, X-ray photoionization spectroscopy,...
18/ ...and electron dispersive spectroscopy. We discovered the paint's surface was penetrated by sand-sized (100 micron) lunar soil particles travelling about 400 m/s. Each one made a pinhole in the paint, and we could see the soil particle lying in the bottom of each tiny hole.
19/ Give me a moment to see if I can download the picture of this...
20/ Aha! I found it and just now did some contrast enhancing. (Modern technology is amazing.) This was cut off off Surveyor 3 by Alan Bean and Pete Conrad. It is aluminum with white paint. You can see a bolt hole where a washer covered & protected the paint so it is still white.
21/ Now there are some SUPER interesting things we discovered in this, and it drove is to call Alan Bean by phone 40 years after his mission to discuss what it all means. For one, consider that semi-circular shadow next to the bolt hole...
22/ That is the shadow of the head of the bolt that used to be in that hole. The funny thing is that the bolt is now gone but its shadow is still there. Is it a ghost shadow? No. It is a sandblasted shadow formed by the intense spray of dust when Alan and Pete landed 160 m away.
23/ Everwhere that got sandblasted got turned lighter in color. Everywhere that was protected by shadowing stayed darker. That's the brown color Alan reported seeing on the Moon. Earlier researchers triangulated these shadows and proved that they point back to the Apollo LM.
24/ What my team did in 2010 is prove that the brown color was not really the result of radiation as prior researchers believed. Instead, we proved the shadows are actually MADE out of lunar dust. All the brown color is lunar dust that was already on S3 before the Ap12 arrived.
25/ The sandblasting spray of lunar dust from the Apollo landing actually removed more dust from S3 than it put onto S3. That discovery was shocking. We analyzed the chemistry of that dust and we discovered it had different minerals on the east versus west sides of the Surveyor.
26/ This story got overly long, so I'll get to the best part. We were amazed by all the mysteries of the dust on the Surveyor, and we even wrote a paper in 2010 where we called it a mystery. [link]
27/ We scoured the historical records of the mission for any more clues. We eventaully realized we needed to talk to Alan Bean himself to understand exactly what he saw as he walked toward S3 on the Moon and exclaimed to Houston about its brown color. So a friend set up the call.
28/ Alan was extremely nice. He had a great sense of humor and seemed to truly enjoy talking about his observations on the Moon. Of course his memories of some details had faded, but he was able to confirm the main things about what he saw, which we needed confirmed.
29/ We talked casually without any rush for about an hour. After we had finished the technical discussion he wanted to tell us about his art. He told us that he had set up a size-scaled diarama of the Apollo 12 landing site in his home, filling up an entire room.
30/ He cares about accuracy in his paintings so he takes precise measurements from the diarama to make sure all the perspective views at just right. He told us about the use of colors in his paintings. He said most people see only gray on the Moon, but he saw it full of color.
31/ His paintings show all colors in the lunar soil. (I found it interesting that he was the one who reported the color of the Surveyor spacecraft. He was indeed tuned into colors while on the Moon's surface.) He also told us about the texturing of his paintings.
32/ He uses boots and Apollo soil tools like the ones he used on the Moon to impress surface texture into the paint. He continued talking avout his art with passion for about 10 minutes. Then he wound down and finished by saying this, which I will never forget...
33/ He said he is not an engineer anymore, but an artist, and he takes his art extremely seriously. He said he has all these paintings in his head which he needed to get onto canvas before he died. He was devoted to telling the story of the Apollo program before it was too late.
34/ He knew he had limited time left in this world, and the world needs to see the Apollo missions through the eyes of an artist. He ended with, "I can't allow myself to get dragged back into engineering. I have to focus on art. So Don't...Ever...Call. Me...Again." Pow.
35/ Honestly it hurt when he said that. Did I make a mistake contacting him? Did I steal irreplaceable art from the world by taking an hour of his time? The tone of the conversation until that moment tells me he _wanted_ to talk with us. But only just that once, and never again.
36/ Second, that when walking in a world of never-ending gray he saw only color. Reds, blues, yellows, purples, greens...and the brown spacecraft that was supposed to be white. Some saw it as an engineering question of blowing dust. Alan saw it as a question of color.
37/ Every color in Alan's heart was there on the Moon, in its craters and rocks and hills, because a human was walking in that world -- an artist -- and wherever humans go there is color. All the color.
38/ And third, I will always love Alan because he told me to never call him again. Truly. What he was doing in art was more important than what I was doing in science and engineering, and he knew it, and he needed us in NASA to know it, too, and to respect it.
39/ There will always be more time to land spacecraft on the Moon to study how they blow dust. There will never be another time when the first set of humans that walked on another world turns the wonderment of that experience into art. I love Alan that he saw this and defended it.
40/40 My hope is that every painting he had in his heart made it onto his canvas before time ran out. Though I won't walk on the Moon, I hope I can see colors like Alan did everywhere I go. And I hope we'll share his passion & focus to keep painting--in our own ways--to the end.
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Oggi un razzo gigante privato, il più potente al mondo, spinto da ben ventisette motori, ha lanciato nello spazio per prova un’automobile, che ha trasmesso immagini surreali dal cosmo mentre si dirigeva verso un’orbita che la farà viaggiare per millenni tra l’orbita della Terra e quella degli asteroidi oltre Marte. E sul cruscotto ha scritto Don't Panic.
No, non è fantascienza.
Oggi SpaceX ha lanciato con successo per la prima volta il suo vettore Falcon Heavy: tre primi stadi Falcon 9 uniti insieme, per un totale di 27 motori attivi contemporaneamente, che hanno portato nello spazio un secondo stadio che trasportava un carico decisamente non standard, ossia la Tesla Roadster personale di Elon Musk, che a sua volta portava un “guidatore”, sotto forma di una tuta spaziale SpaceX posizionata come se fosse alla guida.
I due stadi esterni sono tornati sulla terraferma, con un elegantissimo atterraggio sincronizzato mai visto prima; il terzo ha tentato di atterrare su una nave appoggio nell’Oceano Atlantico, ma non c’è riuscito. Poco male: la missione primaria è compiuta e ora il carico è in rotta verso un’orbita che la farà viaggiare fra la Terra e Marte e oltre, ma senza mai incontrare il pianeta rosso per evitare il rischio di contaminazione biologica.
Questo è lo schema del complicatissimo profilo di volo:
C’è una bella animazione del volo, ma lasciate perdere. Ci sono le immagini vere. Tipo questa:
No, non è photoshoppata: è una vera Tesla Roadster che sta volando nello spazio.
Se state leggendo questo articolo nella notte di martedì 6, qui ci sono le immagini in diretta dalla Roadster, che è quella personale di Elon Musk, mentre si allontana sempre più dalla Terra, ruotando su se stessa (o più precisamente ruotando sull’asse del secondo stadio che la trasporta e sul quale è montata inclinata). Starman è il nome dato al manichino che indossa una tuta spaziale progettata da SpaceX.
Durante la notte (ora italiana) Elon Musk ha annunciato che l’orbita definitiva della Tesla Roadster la farà viaggiare ciclicamente fra l’orbita della Terra e quella della fascia di asteroidi tra Marte e Giove, quindi ancora più lontano delle previsioni iniziali:
Third burn successful. Exceeded Mars orbit and kept going to the Asteroid Belt. pic.twitter.com/bKhRN73WHF
Il Falcon Heavy è partito dalla rampa di lancio 39A del Kennedy Space Center in Florida: la stessa dalla quale partirono molti voli Apollo verso la Luna.
Il FH è alto 70 metri. Il Saturn V era alto 111.
Il FH è al momento attuale il lanciatore operativo più potente del mondo: eroga 2270 t di spinta ed è capace di portare in orbita bassa terrestre circa 64 tonnellate. Il Saturn V (1968-1973, 3450 t di spinta, 140 t di carico), l’Energia russo (100 t di carico) e lo Shuttle (3075 t di spinta) erano più potenti, ma non volano più. Il concorrente più vicino attualmente operativo è il Delta Heavy (28,3 t di carico).
Il FH costa circa 90 milioni di dollari: molto meno di tutti i concorrenti, attuali e passati, e solo 30 in più di un Falcon 9 standard. Un Delta Heavy costa circa 400 milioni e un SLS costa circa 500 o più.
Il FH è stato sviluppato interamente con fondi privati di SpaceX (circa 500 milioni di dollari).
I due primi stadi esterni hanno già volato: uno a maggio del 2016 (Thaicom 8) e uno a luglio 2016 (rifornimento della Stazione Spaziale con la missione CRS-9).
Era dai tempi dello sfortunato vettore lunare sovietico N-1 che nessuno tentava di usare un vettore con così tanti motori.
L’orbita definitiva della Roadster sarà ellittica eliocentrica fra Terra e la fascia degli asteroidi, con precessione e con scarsissime possibilità di colpire Marte.
La Roadster non è la prima automobile portata nello spazio: prima di lei ci sono andati le tre auto Rover delle missioni Apollo (1971-72), ora parcheggiate sulla Luna. Tutte e quattro sono elettriche, e tutte e quattro sono partite dalla stessa rampa di lancio 39A.
È stato fatto un tentativo di recuperare l’enorme carenatura usando dei paracadute, ma non ha avuto successo.
Anche se la missione è sperimentale, la sua traiettoria include un lungo periodo di volo per inerzia (senza propulsione) attraverso le fasce di Van Allen, per circa cinque ore, studiato appositamente per dimostrare la compatibilità del Falcon Heavy con i requisiti di lancio dei satelliti militari statunitensi (inserimento diretto in orbita geosincrona).
La tuta spaziale è un esemplare di preproduzione e non contiene sensori.
Il Falcon centrale non è riuscito a riaccendere i tre motori necessari per la frenata e si è schiantato nell’oceano a circa 500 km/h a un centinaio di metri dalla nave appoggio, danneggiandola leggermente.
Prima del lancio, Elon Musk ha dichiarato che il Falcon Heavy non verrà qualificato per voli con equipaggi, per cui l’annunciato volo privato intorno alla Luna non si farà.
La Roadster è montata nella carenatura in assetto inclinato, con una telecamera frontale e una laterale montata su bracci, come si vede nella foto qui sotto. Sul cruscotto, ha detto Musk durante la conferenza stampa, c’è una piccola Tesla Roadster che ha a bordo un piccolo pilota.
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Solitamente gli autoscatti degli astronauti durante le passeggiate spaziali sono abbastanza anonimi: la visiera dorata riflettente nasconde il volto e quindi l’identità e l’espressione. Ma durante l’attività extraveicolare effettuata il 24 marzo scorso, l’astronauta francese Thomas Pesquet ha usato una videocamera GoPro (al centro nella prima immagine qui sotto) per effettuare una ripresa video, che da 2:10 in poi lo mostra in una rara occasione a visiera alzata, durante il lavoro all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale, nel periodo in cui la Stazione sorvola la zona della Terra non illuminata dal Sole. Ecco alcuni fotogrammi dal video.
È importante sottolineare che oltre quei due sottili strati di casco trasparente c’è il vuoto dello spazio e quindi la morte pressoché istantanea.
Stasera alle 21 sarò ospite del Planetario di Lecco (Corso Giacomo Matteotti, 32) per una conferenza intitolata Astronautichicche e dedicata agli aspetti poco conosciuti dell'esplorazione spaziale: disastri sfiorati e taciuti, scherzi e figuracce degli astronauti, effetti inaspettati della vita in assenza di peso, raccontati attingendo alla documentazione audiovisiva e tecnica originale e alle testimonianze dirette dei protagonisti.
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Gianluca Atti, appassionato collezionista di cimeli astronautici e collaboratore del blog Apollo 11 Timeline, ha trovato in vendita su eBay due lettere personali di una giornalista che si trovava a Houston nei giorni della missione Apollo 11. Le lettere sono firmate semplicemente Carla. Secondo Paolo D’Angelo, storico e profondo conoscitore delle missioni spaziali, si tratta di Carla Stampacchia (1930-2014), che scriveva per il settimanale Epoca e che nel 1994-96 fu anche deputata.
La prima lettera, datata 15 luglio 1969, racconta bene l’atmosfera della vigilia del lancio ed è molto schietta nel descrivere l’ambiente dell’epoca senza i filtri del bon ton e della linea editoriale.
Cape Kennedy, 15 luglio 1969
Carissimi,
come state? Vi scrivo alla vigilia del lancio dell’Apollo 11 e imposto domani, in modo che i francobolli abbiano la data storica. A quanto pare, questo particolare ha molta importanza. Così come sarà importante spedire posta il giorno dello sbarco sulla Luna. I francobolli riguardano l’Apollo 8, e in sé non sono particolarmente interessanti: quelli che celebreranno l’impresa saranno emessi in agosto, dal momento che verrà portato il cliché sulla Luna e, al ritorno, dovrà fare la quarantena con gli astronauti. Vi ho mandato anche due cartoline per ognuno con la data di domani e ne ho mandate anche a Francesco e a Giorgio.
Stamattina, visitando la base spaziale di Capo Kennedy, abbiamo visto il momento del distacco di una delle rampe: così, il Saturno è rimasto attaccato alla rampa rossa, dalla quale si staccherà domattina alle 9,32. Noi ci alzeremo alle 5 e raggiungeremo la tribuna stampa abbastanza per tempo. Ho visto von Braun alla conferenza che ha dato ieri pomeriggio. Ho visto da vicino il Saturno 5 con l’Apollo 12, il successivo a questo della Luna, ancora in fase di costruzione. Sono cose che non si riesce a comprendere se non si vedono. L’edificio dove costruiscono i missili che trasportano la capsula è alto 37 piani e può contenere anche otto missili, che vengono montati pezzo per pezzo, uno sull’altro. Poi, vengono fatti uscire tutti dritti dall’edificio, che si spalanca completamente da un lato. Sono cose gigantesche. Ma più che la grandiosità, colpisce la straordinaria esattezza dei calcoli che hanno portato alla conquista dello spazio, e la libertà con la quale si può girare dentro la base spaziale di Capo Kennedy. Si può fotografare e riprendere con la macchina cinematografica. Poliziotti se ne cominciano a vedere soltanto in questi ultimi giorni.
Intanto, da oggi affluisce gente ad ogni ora che passa: colonne di macchine, elicotteri che sorvegliano il traffico, accampamenti lungo la spiaggia dell’oceano e lungo le rive dei fiumi Banana e Indian, che attraversano la penisola di Capo Kennedy. Gli americani sono davvero dei nomadi, e si portano dietro bimbi piccolissimi, belli e sporchi, mangiano come e dove capita, vanno in giro a piedi nudi e con degli incredibili vestiti. Lasciano perplessi: il primo impulso sarebbe di dare su di loro un giudizio negativo, rifiutando il loro modo di vita che si fa condizionare sempre di più dalla pubblicità. Poi, però, devi ammettere che hanno qualità non indifferenti. E la perplessità rimane.
In ogni caso, da qui ripartiremo giovedì mattina abbastanza presto per tornare a Houston. E io rientrerò in Italia lunedì 28 luglio, con il primo materiale fotografico dello sbarco sulla Luna (se saranno sbarcati e se ci sarà il materiale fotografico). La notte dell’allunaggio la passeremo davanti alla televisione, come forse un po’ tutto il mondo.
Ho parlato con Ruggero Orlando, sempre sbronzo, ho visto Moravia con la Dacia Maraini, ho visto la Oriana Fallaci. I giornalisti sono tanti e tutti aggressivi.
Adesso vi saluto. Spero che stiate in buona salute, mi auguro che il Giovannino si diverta al mare, e ci rivedremo presto, ai primi di agosto.
State bene e salutate Isa, Giorgio e le loro famiglie
Carla
La seconda lettera porta la data del 19 luglio 1969 e racconta il lancio di Armstrong, Aldrin e Collins.
Houston, 19 luglio 1969
Carissimi,
la vostra lettera indirizzata a New York e portata stamattina dalla segretaria del nostro corrispondente, mi ha fatto un grande piacere, anche perchè mi dava notizie di Giovanni e di Felice. A Felice avevo dato come recapito quello dello Sheraton Lincoln di Houston, al mio ritorno da Capo Kennedy; ma siccome adesso siamo alloggiati in un motel più vicino alla NASA (Houston è lontana un’ora di macchina dal centro spaziale), non so ancora se c’è una lettera per me. Nei prossimi giorni, quando avrò il tempo, andrò a Houston a controllare.
Abbiamo visto il lancio dell’Apollo 11. Ci siamo svegliati all’alba e ci siamo messi in macchina con migliaia di altre persone. Massima efficienza nel regolare il traffico. Ho visto il momento del lancio con l’occhio incollato alla cinepresa: spero che il film sia riuscito, e se così fosse (avevamo il sole in faccia a noi) ve lo porterò a far vedere, perchè è uno spettacolo che merita. La voce dello speaker inizia il conto alla rovescia a partire da dieci. Scende un silenzio totale fra la folla, tutta rivolta verso la rampa di lancio. Alle 9,32 in punto si accende una fiammata gialla e rossa, volute di fumo bianco e ancora nessun rumore. La folla comincia a entusiasmarsi, grida “Go! Go! Vai, vai”, e in realtà questo è il momento più drammatico, perchè sembra che il missile non vada mai sù. Quando parte, è un urlo. Poi si sente il rumore dello scoppio, che è come un tuono fragoroso che scende sulla terra. E intanto il Saturno corre veloce in cielo, come una palla di fuoco, mentre sulla sua sinistra si disegna fra le nuvole la sua ombra, molto allungata. Poi, silenzio di nuovo fra la folla. Dalla base della rampa di lancio si alza un’enorme nuvola nera che va a raccogliersi nel cielo.
I nostri venti lettori italiani erano emozionatissimi. Sono stata in mezzo a loro nel momento del lancio e devo dire che erano molto impressionati: come tutti noi, del resto. Li abbiamo fotografati con Vittorio Emanuele e Marina Doria, e con Johnson sullo sfondo. In serata hanno proseguito per Miami.
Ora noi ci troviamo di nuovo a Houston in attesa dell’allunaggio e del rientro. Io ho fatto un breve pezzo sui nostri italiani e poi curerò i dialoghi fra gli astronauti e il centro di controllo nel periodo dell’allunaggio. Per tornare dovrò attendere il 30 luglio, in modo da portare a Milano dell’altro materiale fotografico. Sarà un po’ come tirare il collo, perchè a volte non vedo l’ora di rivedere Felice e Giovanni (e anche voi, naturalmente). Ma bisogna aver pazienza. Il lavoro è duro, però ne vale la pena.
Nel giorno dell’allunaggio (il 21) vi manderò altre cartoline con i francobolli timbrati.
Mi fa piacere sapervi in buona salute. Se avete occasione di telefonare a Milano e al Lido dei Pini (e vi ringrazio per la premura) salutatemi tanto i miei uomini.
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Guardate queste foto (autentiche, non ritoccate) delle attività extraveicolari effettuate a bordo della Stazione Spaziale Internazionale. Avete notato l’alone annerito intorno al portello di uscita e d’ingresso degli astronauti?
Come è spiegabile un fenomeno del genere nel vuoto dello spazio? C’è stato un incendio a bordo della Stazione, come accadde nel 1997 a bordo della stazione russa Mir? È successo qualcosa di grave nella cabina di decompressione e l’hanno tenuto nascosto? Quale altre spiegazioni riuscite a trovare per queste bruciature?
Ovviamente questo quiz è un gioco: non sto proponendo alcuna teoria di complotto, ma voglio mostrare quanto è facile costruire un’accusa di cospirazione credibile presentando in maniera selettiva dei fatti apparentemente anomali e quanto è invece difficile trovare la reale spiegazione dell’apparente anomalia.
In altre parole, questa è una piccola dimostrazione della Teoria della Montagna di M*rda come spiegazione della persistenza di una teoria di complotto: son capaci tutti di farla facilmente, mentre pulirla è una faticaccia e comunque la puzza rimane.
Dilettatevi a investigare nei commenti: pubblicherò la mia soluzione domani (14 agosto).
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori ed è tratto dal mio e-book gratuito Almanacco dello Spazio. Se vi piace, potete incoraggiarmi a scrivere ancora (anche con un microabbonamento). Ultimo aggiornamento: 2016/04/13 15:20.
Sono le sette del mattino, ora della Florida, del 12 aprile 1981: a vent’anni esatti dal primo volo spaziale di un essere umano, dopo aver visitato sei volte la Luna, debutta il Columbia, che si leva dalla Rampa A del Complesso di Lancio 39 del Kennedy Space Center e in otto minuti porta nello spazio John Young (veterano di due voli in orbita terrestre con Gemini 3 e 10 e di due missioni lunari con Apollo 10 e 16) e Bob Crippen (al suo primo volo) per la missione STS-1, la prima di ben 135 che verranno effettuate nell’arco di trent'anni dalla flotta degli Shuttle (oltre al Columbia ci saranno poi Atlantis, Challenger, Endeavour e Discovery). STS sta per Space Transportation System. In questa prima missione il Columbia vola per due giorni, 6 ore e 20 minuti ed effettua 37 orbite, rientrando e planando sulla pista 23 presso la base militare Edwards in California il 14 aprile.
Il volo di debutto del Columbia avviene esattamente a vent’anni di distanza dallo storico volo di Gagarin solo per una felice coincidenza: la data di lancio prevista inizialmente per il Columbia era il 10 aprile, ma un malfunzionamento di uno dei computer di bordo ha imposto un rinvio di due giorni.
La missione è costellata di primati: è il primo volo con equipaggio da parte degli Stati Uniti dopo sei anni di pausa (il volo precedente era stato l’Apollo-Soyuz nel 1975); è la prima volta che un veicolo spaziale statunitense trasporta un equipaggio durante il volo inaugurale; è la prima volta che la NASA usa motori a propellente solido per un lancio con equipaggio; è la prima volta che un equipaggio rientra da un volo orbitale usando un veicolo dotato di ali, che effettua una planata e atterra come un aliante, invece di una capsula che precipita dallo spazio e poi tocca terra appesa a dei paracadute; è il primo volo di un veicolo orbitale riutilizzabile (solo il grande serbatoio esterno viene eliminato a ogni lancio, mentre i razzi laterali a propellente solido ricadono nell’oceano sotto dei paracadute e vengono recuperati); il Columbia è il veicolo spaziale più pesante (96 tonnellate, esclusi i razzi laterali e il serbatoio esterno) mai lanciato e riportato a terra fino a quel momento; è il primo a usare uno scudo termico ceramico riutilizzabile; è il primo aereo-razzo a volare in atmosfera a oltre 10 volte la velocità del suono; è il primo veicolo spaziale a usare un sistema di manovra interamente digitale fly-by-wire, progenitore di quelli usati oggi sugli aerei di linea.
La tecnologia avanzatissima (per l'epoca) dello Shuttle non è priva di rischi, dettati non solo dai finanziamenti insufficienti, che impongono scelte tecniche meno caute, ma anche dai requisiti estremi imposti dal Dipartimento della Difesa statunitense, che intende usare questo veicolo per missioni militari: durante il volo inaugurale e anche in quelli successivi, molte piastrelle dello scudo termico si staccheranno o verranno asportate dalla violenza del decollo. Nel 2003 John Young rivelerà che durante questo primo volo del Columbia la protezione termica ha una falla che permette a dei gas roventi di penetrare nel vano del carrello destro, facendolo cedere parzialmente. Il fatto stesso di mettere degli astronauti a bordo di un veicolo spaziale radicalmente nuovo che non ha mai volato prima, invece di effettuare un volo di verifica generale senza equipaggio, denota un’accettazione del rischio molto diversa da quella consueta della NASA, tanto che la NASA stessa definisce questa missione “il volo di collaudo più coraggioso della storia”.
Gli astronauti non sanno prendersi sul serio.
Crippen e Young il giorno prima di andare nello spazio su un
aereo-razzo che non ha mai volato prima.
L’America ritorna nello spazio: sono momenti di entusiasmo che però cederanno poi il passo alla realtà. Far volare “una farfalla legata ad un proiettile”, come dicono i suoi equipaggi, come se fosse un camion spaziale è un’impresa che spinge ogni volta al limite le risorse tecniche e umane della NASA.
La manutenzione del veicolo per riportarlo in condizioni di volo si rivelerà molto più complessa e costosa del previsto, rendendo impossibile arrivare alla frequenza di voli quasi settimanale annunciata all’inizio del progetto. La flotta Shuttle non raggiungerà mai i livelli di affidabilità attesi e le riduzioni di costo previste e causerà la morte di quattordici astronauti in due incidenti (Challenger, 1986, e Columbia, 2003). I lanci militari previsti dalla base di Vandenberg non avverranno mai, nonostante sia stata costruita un’apposita rampa di lancio, a causa di questi problemi, e il Dipartimento della Difesa tornerà gradualmente a usare vettori non riutilizzabili e senza equipaggio. Ma lo Shuttle e la sua grande capacità di trasporto (sia dalla Terra, sia verso la Terra), insieme all’insostituibile versatilità dei suoi equipaggi, daranno vita a moltissimi progetti spaziali, come il telescopio spaziale Hubble, i laboratori Spacehab e Spacelab, le sonde Galileo e Magellan e quasi tutta la Stazione Spaziale Internazionale.
Il Columbia volerà in tutto 28 volte, per un totale di poco meno di 301 giorni nello spazio, e concluderà tragicamente la propria storia disintegrandosi durante il rientro il primo febbraio 2003, portando con sé i sette membri del suo equipaggio. Ma questo, in quel festoso giorno di aprile del 1981, non lo sa ancora nessuno.
Questo articolo era stato scritto inizialmente per Il
Disinformatico
della Radiotelevisione Svizzera ma non è più disponibile sul sito della RSI,
per cui lo ripubblico qui in versione aggiornata. Ultimo aggiornamento:
2016/04/12 18:50.
Si celebra oggi il cinquantacinquesimo anniversario del primo volo spaziale
umano, quello effettuato dal russo Yuri Gagarin il 12 aprile 1961, e tornano le
ipotesi di messinscena o di altri voli precedenti che sarebbero falliti
tragicamente e sarebbero stati censurati e tenuti nascosti. C'è un fatto poco
conosciuto che può essere utile per chiarire come andarono le cose e conferma
che Gagarin andò davvero nello spazio: le sue trasmissioni video furono
intercettate dai servizi di intelligence statunitensi. Le immagini,
sgranate e distorte ma sufficienti a confermare la presenza di un cosmonauta a
bordo del veicolo orbitante, sono pubblicate da Sven Grahn in un
dettagliatissimo articolo intitolato
TV from Vostok. Le vedete qui accanto.
La fonte di queste immagini è un documento della CIA oggi disponibile su
Internet: s’intitola
Snooping on Space Pictures, risale al 1964 e fu reso pubblico nel 1994. Nel documento si dichiara che
“venti minuti [dopo il decollo della Vostok] furono rilevate trasmissioni
mentre il veicolo passava sopra l’Alaska. Solo 58 minuti dopo il lancio, l’NSA
riferì che la lettura in tempo reale dei segnali mostrava chiaramente un uomo
e lo mostrava mentre si muoveva. Prima che Gagarin avesse completato il suo
storico volo di 108 minuti, elementi dell’intelligence
avevano una conferma tecnica che un cosmonauta sovietico era in orbita ed era
vivo.”
L'annuncio ufficiale di Radio Mosca fu diramato pochi minuti prima di questa
conferma. Presso Firstorbit.org c’è un
magnifico video commemorativo, First Orbit, realizzato per il
cinquantenario della missione, che ricostruisce con estrema fedeltà, attraverso
immagini reali riprese da Paolo Nespoli a bordo della Stazione Spaziale
Internazionale fra dicembre 2010 e gennaio 2011, quello che vide Gagarin durante
la sua orbita. Il sito include una vasta
collezione
di registrazioni filmate e sonore e di fotografie rare.
Per tutti coloro che sono intrigati dalle tesi di chi sostiene che ci furono
altri cosmonauti prima di Gagarin e che Yuri fu il primo a tornare vivo rimando
all’ottimo libro di Luca Boschini, Cosmonauti perduti (edito da
Prometeo), che grazie a ricerche approfondite sui documenti sovietici originali
smonta queste fantasie ma rivela intrighi ancora più affascinanti: non
dimentichiamo che all’epoca il volo di Gagarin, come tutto il programma spaziale
sovietico, fu coperto da un segreto ossessivo che oggi sembra quasi
inconcepibile.
Nelle comunicazioni radio del volo di Gagarin, i responsabili e i tecnici a
terra furono citati usando numeri al posto dei nomi (Sergei Korolev era il
Numero 20, il generale Nikolai Kamanin era il Numero 33; Leonov fu citato solo
come Blondin). Il fatto che Gagarin non rimase a bordo fino
all'atterraggio (perché la capsula non era in grado di effettuare un atterraggio
morbido) fu tenuto segreto, anche per non invalidare l'omologazione
internazionale del record. Le foto degli altri cosmonauti furono censurate
sistematicamente per nasconderne le identità. La forma della
Vostok rimase ignota, obbligando i giornali a lavorare di fantasia.
Una foto di Gagarin rilasciata in tempi recenti dall’ente spaziale russo Roscosmos.
Adesso siamo abituati a vedere i lanci delle Soyuz russe in diretta TV e
ci sembra normale avere la GoPro di bordo che mostra Samantha Cristoforetti (e
prossimamente Paolo Nespoli) all’interno della capsulamentre si
arrampica verso lo spazio; ma queste sarebbero state cose inaudite in
quell’incredibile giorno di aprile del 1961, quando la fantascienza divenne
realtà, soltanto sedici anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Ecco un po’ di copertine di giornali e riviste italiane dell’epoca, tratte
dall’archivio di Gianluca Atti, che ringrazio per aver messo a disposizione la
sua vasta collezione anche per l’Almanacco dello Spazio. Notate le rappresentazioni della Vostok totalmente inventate: nessuno
sapeva com’era realmente al di fuori di pochissimi addetti ai lavori in Unione
Sovietica. L’ultima immagine la mostra com’era realmente.
Gagarin, in tuta da paracadutista e pilota (non in tuta spaziale), su Oggi.
L’illustrazione totalmente fantastica e improbabile della Domenica del Corriere, con una capsula alata e dotata di finestrini enormi.
L’illustrazione di Stampa Sera mostra addirittura Gagarin seduto in direzione opposta al senso di marcia.
La realtà, rivelata tempo dopo: la vera configurazione della Vostok.