A Jake Sully hanno appena detto che i film devono avere anche una trama.
Ieri sera sono andato a vedere Avatar - La via dell’acqua. Senza fare
spoiler, ho solo un consiglio: se volete vedere lo stato dell’arte degli
effetti speciali digitali, cinque anni avanti rispetto a tutto quello che
avete mai visto, con immagini perfettamente realistiche, un 3D sobrio e
immersivo senza essere sfacciato, un rendering dei personaggi digitali
stupendamente espressivo, fluido e impeccabile, un
motion capture subacqueo che lascia a bocca aperta, e una creazione
straordinaria di un intero universo di creature, macchine e ambientazioni,
andate a vederlo nel cinema meglio attrezzato, con lo schermo più grande
possibile, l’impianto audio più potente e meglio calibrato e con il 3D più
luminoso che potete raggiungere: da questo punto di vista ne vale
assolutamente la pena.
Il livello degli effetti digitali delle creature è impeccabile e l’interazione
di queste creature con l’acqua (un incubo assoluto per gli animatori digitali)
è semplicemente perfetta. James Cameron, ancora una volta, ha fatto
fare un balzo in avanti alla tecnologia di ripresa e al software di
animazione.
Ma se nulla di tutto questo vi interessa, lasciate perdere. Il problema di
così tanta perfezione degli effetti visivi e nella resa del 3D è che in pochi
minuti ci si dimentica di guardare dei personaggi e degli ambienti interamente
sintetici, li si accetta come reali... e a quel punto la tecnologia strepitosa
passa in secondo piano e ci si accorge che la storia è inesistente,
prevedibile, forzata e ricopiata dal film precedente aggiungendoci una
spruzzata fin troppo sfacciata di Titanic e Star Wars.
Per citare Boris, il film ha tutti gli ingredienti classici di un
prodotto generato da un algoritmo commerciale: c’è pure l’immancabile “storia
teen”. Però siccome James Cameron è James Cameron, qui non si applica il
borisiano “nun lo famo ma lo dimo”, ma è un “lo famo” continuo,
roboante, chiassoso e ostentato. Oserei dire smarmellato.
Capisco che Cameron, con tutti i soldi che ci sono in gioco, abbia voluto
scegliere una storia ipersemplificata, con un messaggio ambientalista facilone
che viene spiattellato in faccia allo spettatore come se fosse un deficiente
che ha bisogno dei disegnini per comprendere le cose più elementari. Per
coprire le spese, questi film devono essere digeribili (culturalmente e anche
politicamente) in ogni paese del mondo che abbia un numero significativo di
spettatori potenziali paganti e quindi bisogna andare sul semplice e toccare
valori universali e basilari, ma il risultato è una coloratissima,
annacquatissima minestra riscaldata.
Sinceramente, se Cameron avesse lasciato perdere tutte le battaglie e gli
scontri personali (forzatissimi) e avesse offerto tre ore di immagini delle
creature e della vita su Pandora, con quella fantasia creativa, quella
fotografia ricercata e quel senso del meraviglioso che spiccano nelle (poche)
pause fra una scena d’azione e l’altra, Avatar - La via dell’acqua mi
sarebbe piaciuto molto di più: le scene di “volo” subacqueo, per esempio,
lasciano a bocca aperta per la bellezza, la qualità, la fluidità e il realismo.
La forza di Avatar non è la sua trama, ma la sua capacità di immergere
lo spettatore in un universo ricchissimo, pieno di creature strane e colori
stupendi, e di far sembrare tutto questo assolutamente reale. Peccato che in
questo secondo film James Cameron abbia voluto raccontare più guerre che
meraviglie.
Ho visto Dune al cinema alcuni giorni fa (il primo film visto al cinema da oltre un anno) e l’uscita del trailer esteso che vedete qui sotto mi ha ricordato quanto mi è piaciuto questo adattamento della saga classica di Frank Herbert, che è una delle narrazioni che più mi ha affascinato da ragazzino e mi affascina tuttora.
Non so come sia il doppiaggio italiano, ma l’audio originale è splendido (la Voce è resa perfettamente, in maniera semplice ma ingegnosa) e gli attori sono perfetti per le rispettive parti. Nonostante la battutina presente in uno dei trailer (ma non in quello qui sotto), questo non è un film Marvel dove ogni azione drammatica deve essere contrappuntata da una trovata sdrammatizzante: Dune si prende molto sul serio, e per farlo oggigiorno bisogna aver lavorato davvero bene, altrimenti la boria e la noia sono dietro l’angolo (vero, DC?).
Il regista Denis Villeneuve e la sua squadra di costumisti, scenografi e maestri degli effetti speciali hanno lavorato davvero bene. Gli ornitotteri sono perfetti nel loro design ibrido fra insetto e macchina, senza strafare. Le navi della Gilda sono colossali, i giganteschi vermi della sabbia sono resi maestosamente e le inquadrature ne rendono perfettamente la scala. Le comunicazioni segrete, non vocali, fra i personaggi sono rese con una soluzione molto elegante. Tutta l’architettura e lo stile visivo, insieme alla musica di Hans Zimmer, si impegnano molto seriamente per far capire che questo non è l’universo di Star Wars (che ha attinto a piene mani dall’universo di Dune, anche se gli spettatori più giovani probabilmente penseranno il contrario), ma è un universo ben differente, ostile, violento, paradossalmente antitecnologico e per nulla a misura d’uomo. I Sardaukar non sono le imbranate truppe d’assalto di George Lucas; le Bene Gesserit sono il vero potere occulto dell’Impero, temute, spietate e lungimiranti, e la scelta di Herbert (sessant’anni fa!) di avere così tante donne in ruoli forti e di potere è perfetta per i nostri tempi in cui finalmente si comincia, a fatica, a discriminare meno.
Chi ha letto i libri troverà un film parecchio fedele all’originale, sia pure con alcune compressioni e omissioni necessarie per esigenze narrative, e apprezzerà il modo in cui Villeneuve ha quasi completamente evitato il problema di spiegare allo spettatore un universo così ricco e diverso dalle ipertecnologie sfavillanti della fantascienza cinematografica contemporanea senza ricorrere a pistolotti esplicativi. Chi arriva al film senza aver letto almeno il primo libro di Dune si perderà forse un po’ nella giungla di termini e nei sottintesi che emergono solo a una seconda o terza visione, ma riuscirà comunque a seguire e apprezzare la storia.
Lasciate perdere il Dune di David Lynch, mezzo massacrato dai tagli e dall’impossibilità di raccontare degnamente le visioni di Frank Herbert senza gli effetti speciali praticamente perfetti di oggi. Guardatelo sullo schermo più grande che potete trovare e con il volume alto. Questo è Dune come me lo immaginavo. Spero che sia come ve lo immaginavate voi.
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Per staccare un attimo oggi la Dama del Maniero e io abbiamo visto il film Infinite, con Mark Wahlberg, Chiwetel Ejiofor e Sophie Cookson. Beh, il film è potabile, ma a una condizione: abbandonate ogni pretesa di razionalità e godetevi gli effetti speciali, gli inseguimenti e qualche battutina. Ma la gasolina citata in una battuta, che è pronunciata in italiano anche nell’originale e non è stata corretta in sede di doppiaggio, proprio se la potevano risparmiare e ci ha fatto fare un salto sul divano.
Spiego senza spoiler: nell'audio originale un personaggio femminile fa una sorta
di waterboarding a un altro usando benzina. Nell'originale parla in italiano (a circa 32 minuti dall’inizio).
"Perché dimenticare la sofferenza" dice "e te ne ricorderai come se fosse acqua passata. Adesso arriva la GASOLINA."
Quando l’abbiamo sentita è partito un gastrospasmo doppio: totale interruzione dell’immersione nell’azione e risata di coppia. La frase in italiano non ha alcun senso e in realtà non ha senso neppure la scena stessa, nell’ambito della trama, ma è un film fracassone da popcorn dove le violazioni della fisica sono più numerose dei proiettili sparati e delle auto distrutte, per
cui non è il caso di farsi troppe domande.
L'attrice che pronuncia lo strafalcione, stando ai credits, è Giorgia Seminara, che non ho
capito se è italiana e quindi consapevole della perla che le hanno fatto
dire oppure è ignara della questione. Ma chi gliel’ha scritta poteva almeno usare Google Translate invece di prendere gasolina dallo spagnolo (vuol dire benzina).
Lo so, è la mia condanna: non riesco a non notare errori di questo genere.
2021/10/10. C’è un aggiornamento divertente su questa storia: mi ha scritto l’attrice, spiegandone i retroscena.
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Ho deciso di installare una dashcam fronte/retro a bordo di TESS, che essendo
una “vecchia” Tesla non integra direttamente questa funzione. Un giorno,
magari alla prossima Cena dei Disinformatici, vi racconterò il motivo di
questa decisione.
Quella che mi serve è una dashcam che registri automaticamente in HD tutto quello
che avviene davanti e dietro il veicolo mentre è in marcia. Per
“automaticamente” intendo che quando avvio l’auto si accende da sola e fa
partire la registrazione video continua su entrambe le telecamere, in loop
(sovrascrivendo la registrazione più vecchia quando esaurisce lo spazio in
memoria).
Sono gradite ma non indispensabili funzioni come l’etichettatura automatica
degli eventi (decelerazioni rapide, sbandate, eccetera), la localizzazione GPS
e la registrazione della velocità (rilevata tramite GPS) con indicazione fissa
sullo schermo (sovrimpressione). La connessione Wi-Fi al telefonino non è indispensabile: mi va benissimo poter estrarre fisicamente la schedina di memoria e leggerla con un computer.
Ho visto stasera (26/12) The Midnight Sky, l’ultima fatica cinematografica di e con George Clooney. In estrema sintesi, e senza spoiler (che ci possono essere invece nei commenti):
Soporifero.
Prevedibile.
Effetti speciali molto belli (ILM è una garanzia).
Soporifero l'ho già detto? Devo essermi riaddormentato, scusate.
Non pensate troppo alle implicazioni biologiche del finale,
sporcaccioni.
Ci sono almeno quattro assurdità scientifiche di base che mi hanno fatto accapponare la pelle e rovinato la sospensione dell’incredulità, e una è assolutamente banale e terra terra, ma non voglio fare spoiler. Le trovate se frugate nei commenti qui sotto.
Il mio abbraccio più sentito va a chiunque lo veda e, a una, uhm... certa scena,
senta la tentazione insopprimibile di dire:
-“Ben?”
-“Tu andrai al Sistema Dagobah...“
-“Sistema...Dagobah...”
Per i Trekker: sì, quello al'inizio (a 3:14) è Tim Russ, Tuvok di Star Trek Voyager e indimenticato pettinatore di deserti in Balle Spaziali.
C’è anche Ethan Peck (Star Trek Discovery). E ovviamente la protagonista di The Midnight Sky, Felicity Jones, è un volto molto familiare per gli appassionati di Star Wars, essendo la protagonista di Rogue One.
Questa immagine, oltre a Peck, mostra anche un oggetto che uno dei commentatori di questo blog conosce molto bene :-).
Quiz: perché alcuni degli specchi nella seconda foto sembrano di colore diverso dagli altri?
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Le parole sono pietre, si dice spesso, ma in alcuni casi le parole sono manette. Una persona è stata arrestata in Thailandia per una recensione di un albergo su TripAdvisor, ritenuta diffamatoria.
Wesley Barnes, un cittadino americano che lavora in Thailandia, ha postato su TripAdvisor diverse recensioni negative del Sea View Resort, sull’isola di Koh Chang, dove era stato di recente.
L’albergo ha avviato una causa per diffamazione, che è culminata in una “sessione di mediazione”, supervisionata dalla polizia, al termine della quale l’hotel ha dichiarato che ritirerà la propria azione legale se il signor Barnes farà una dichiarazione di scuse all’albergo e all’ente turistico thailandese e darà spiegazioni all’ambasciata statunitense.
Il recensore improvvisato rischiava fino a due anni di carcere sulla base delle leggi locali contro la diffamazione, che sono piuttosto severe.
Insomma, valutate bene il contenuto delle vostre recensioni online, perché possono costarvi caro e rovinare una vacanza. E anche senza arrivare a questi estremi, una serie di recensioni negative fasulle può causare fortissimi danni a qualunque albergo, in un momento in cui il settore turistico è particolarmente sofferente.
Ho appena visto la prima puntata di Star Trek: Picard. Non anticipo nulla, ma è un gran bell’inizio col botto per la nuova serie. Tanta carne al fuoco, concentrata in una puntata che delinea bene il contesto in cui si svolgerà la storia.
Questo è il vero Star Trek, quello che coniuga azione, personaggi ben costruiti e accattivanti e una riflessione etica e morale di fondo che affronta temi delicati della nostra attualità. Quello che ha il coraggio di ammettere che il tempo è passato e che anche gli eroi invecchiano e sono umani e fragili, invece di fingere di essere ancora dei ragazzini sempre bellissimi e perfetti grazie agli effetti speciali. Ma i loro ideali non vacillano.
Patrick Stewart si conferma un interprete misurato e delicato nel riprendere in mano i panni impegnativi del Capitano Picard. E il suo Numero Uno merita una menzione speciale.
È bello avere di nuovo una puntata di Star Trek da aspettare ogni settimana, e l’esordio di una nuova serie è sempre un momento magico: è come quando sei sull’ottovolante, in cima alla salita, e sai che stai per avere una botta indimenticabile di adrenalina insieme agli amici di sempre. Ed è solo l’inizio. Splendido.
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Come avrete notato dagli articoli dei giorni scorsi, sono stato a Starmus, dove fra le altre cose mi sono imbattuto in un oggetto che pensavo fosse impossibile trovare al di fuori dei centri di ricerca delle aziende specializzate: fra i vari apparati di realtà virtuale messi a disposizione dalla Swiss Society of Virtual and Augmented Reality (SSVAR.ch), c’era un Magic Leap.
Come potete notare dalla foto qui sopra, in cui guardo chi mi sta parlando mentre sto indossando il Magic Leap, si tratta di un dispositivo per realtà aumentata, non per realtà virtuale: non blocca completamente la visione del mondo esterno per rimpiazzarla con immagini sintetiche, ma sovrappone delle immagini create digitalmente sulla realtà circostante e le allinea in modo che sembrino integrate nel mondo reale.
Nella foto qui sotto, sto guardando la demo realizzata per Starmus: un astronauta in grandezza naturale, tridimensionale e animato, che fluttua nello spazio davanti a me. Gli posso girare intorno, posso avvicinarmi e allontanarmi, e posso vederlo da tutti i lati e anche dal basso: è trasparente e quindi un po’ spettrale, ma è come se fosse davanti a me.
Magic Leap non ha bisogno di sensori di posizione: guarda l’ambiente circostante, ne riconosce la forma e individua alcuni punti di riferimento per rilevare gli spostamenti dell’utente, cambiando la visualizzazione che gli viene proposta in base a dove si trova nello spazio. Questo tracking dello spostamento dell’utente è risultato molto fluido e preciso, nonostante le condizioni di illuminazione poco favorevoli (pareti uniformi, nere e poco illuminate).
Il dispositivo è leggerissimo (molto più leggero di un Oculus Quest, per fare un esempio) ed è completamente autonomo: è alimentato a batterie e ha soltanto uno scatolotto che contiene il processore principale (quello che vedete in mano alla persona che mi sta aiutando nella demo). L’interazione con gli oggetti virtuali viene effettuata usando un piccolo controller.
L’illusione della presenza degli oggetti virtuali viene un po’ spezzata non solo dalla loro trasparenza ma anche dal fatto che gli schermi incorporati nelle lenti del visore non coprono tutto il campo visivo ma solo la sua parte centrale: il risultato è che gli oggetti risultano troncati quando debordano dalla superficie degli schermi. Anche l’Hololens di Microsoft ha la stessa limitazione, ma in maniera più marcata: i suoi schermi sono più piccoli di quelli del Magic Leap rispetto all’ampiezza del campo visivo, perlomeno secondo la mia impressione di due anni fa:
Anche con queste limitazioni, gli usi possibili di un Magic Leap sono molto interessanti: per esempio come dispositivo per inviare istruzioni a un tecnico sul campo, mentre l’esperto è altrove ma vede la situazione attraverso gli occhi digitali del Leap. Il suo prezzo non trascurabile (circa 2300 dollari) lo posiziona come oggetto per applicazioni professionali più che come piattaforma di gioco.
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Pochi giorni fa ho comprato un’auto elettrica, una Peugeot iOn usata (costo circa 10.000 euro), e sto cominciando a usarla. Queste sono le mie prime impressioni sparse d’uso concreto.
In sintesi: funziona egregiamente nel modo in cui serve al mio caso particolare, permettendomi di portare agevolmente la spesa davanti a casa e di sgusciare nel traffico e nei parcheggi, ma ora comincio a capire molto meglio le difficoltà e le esitazioni di chi si affaccia all’auto elettrica.
Soprattutto ora mi è concretamente chiaro che l’usabilità di questo tipo di veicolo non è soltanto questione di batterie: senza una campagna di alfabetizzazione, senza un coordinamento delle infrastrutture e soprattutto senza il contributo dell’informatica, l’auto elettrica non può aspirare a un successo di massa. Questi fattori sono essenziali per la sua diffusione. Ed è per questo che l’idea di Tesla (basata in grandissima parte sul software nell’auto, nell’app e nella rete di ricarica dedicata) ha fatto la differenza rispetto a tutti i tentativi precedenti, anche se per ora è limitata al segmento di prezzo medio-alto.
1. Usare l’elettrica ben entro i suoi limiti per evitare gli stress
La prima cosa che mi sono ripromesso, quando ho acquistato la iOn, è che non mi sarei fatto prendere dall’ansia da autonomia (range anxiety, nel gergo inglese del settore). Avendo comunque un’auto a benzina, ho deciso di usare l’elettrica esclusivamente per viaggi che posso fare tranquillamente andando e tornando senza dovermi fermare a ricaricare in giro. Non ho tempo e non ho voglia di trovarmi a piedi o penalizzato in alcun modo perché la colonnina di ricarica su cui dovrei contare è guasta o occupata da un cretino con un’auto a carburante fossile. Se ho il minimo dubbio che l’elettrica non abbia autonomia sufficiente, vado con l’auto a benzina. La Dama del Maniero mi sta spingendo verso avventure elettriche più spavalde, ma queste ve le racconterò prossimamente.
L’autonomia dichiarata dal computerino di bordo della iOn, basata sul mio attuale stile di guida tutt’altro che ottimizzato, è 80 chilometri (anche se sta migliorando man mano). Quindi faccio solo viaggi a non più di 40 chilometri di distanza, così posso sicuramente tornare a casa anche senza ricaricare in giro. Questo può sembrare estremamente penalizzante, ma visto che i miei percorsi abituali (andare a fare la spesa, andare alla radio, andare nelle scuole del Canton Ticino) sono solitamente ben al di sotto di questo limite, per me non è affatto un problema. Ho risolto l’ansia da autonomia usando l’auto elettrica in maniera estremamente prudenziale e tenendomi ampi margini.
Lezione numero uno: se volete vivere assolutamente senza ansie, prendete l’autonomia dichiarata dai costruttori (secondo i generosissimi criteri NEDC, di solito) e dimezzatela. Se è comunque sufficiente, siete a posto. Altrimenti rassegnatevi, perché l’ansia da autonomia sarà vostra compagna.
Con questi criteri molto prudenziali mi godo serenamente l’auto elettrica: accendo il riscaldamento (elettrico) tutte le volte che mi serve (in questi giorni fa un freddo cane anche intorno al Maniero Digitale), faccio le partenze veloci ai semafori, accelero e sorpasso quando voglio e non mi faccio prendere dall’ansia, ma anzi mi diverto: la iOn non è un fulmine, ma ha la giusta dose di grinta in città. Arrivo a casa, attacco l’auto alla presa, e l’indomani mattina riparto col “pieno” senza neanche andare al distributore.
2. C’è tanto da (re)imparare. Anche le cose più banali
Cambiare auto richiede sempre un periodo di apprendimento, ma qui è tutto diverso.
Il riscaldamento è elettrico (dietro le bocchette di ventilazione c'è una resistenza che scalda l’aria, come un phon, e il sedile è riscaldabile) e consuma moltissima energia, quindi incide pesantemente sull’autonomia, visto che la batteria è da soli 16 kWh. Qui non c’è un motore endotermico che genera quantità esagerate di calore da smaltire. La neve sul cofano non si scioglie, perché il cofano resta freddo. Conviene coprirsi bene in auto.
L’auto è totalmente silenziosa quando è accesa e ferma. All’inizio è disorientante, poi diventa un piacevole promemoria che stai viaggiando in elettrico.
Togliere il piede dall’acceleratore frena la macchina, perché interviene la rigenerazione che ricarica la batteria.
Anche la prima parte della corsa del pedale del freno attiva la rigenerazione. Trovo meravigliosa la consapevolezza che invece di buttare via stupidamente energia sotto forma di calore e consumo dei freni a ogni rallentamento, come avviene con un’auto endotermica, genero un po’ di energia che ricarica la batteria. Una discesa diventa una fonte di energia invece di una causa di consumo dei freni. Mi rendo conto di quanto sia stupidamente inefficiente qualunque auto tradizionale.
Il problema di fondo, però, è dove imparare queste cose. C’è una generale mancanza di informazioni pratiche e precise.
Non ci sono, che io sappia, corsi di preparazione offerti dai concessionari o dai fabbricanti: tutto è lasciato alla passione e all’iniziativa personale.
Il manuale della iOn, per esempio, non spiega affatto che il connettore per la carica domestica in realtà è usabile anche con le colonnine pubbliche di ricarica e dà l’impressione che solo il connettore veloce (CHAdeMO) possa essere usato per caricare in giro. Se neanche chi fabbrica le auto informa correttamente, siamo messi male.
Le informazioni fornite dal manuale sono davvero laconiche per tutta la parte di trazione elettrica e di gestione della batteria.
Se non avessi avuto la rete di amici che hanno già un’auto elettrica non avrei avuto modo di scoprire molte delle cose che ho descritto qui sopra e che è indispensabile sapere per usare in modo efficace questo genere di auto.
3. Carica domestica: una pacchia, ma migliorabile
Arrivare a casa con il “serbatoio” quasi vuoto e “riempirlo” semplicemente attaccando una spina a una presa, quasi come se l’auto fosse un telefonino, è splendido (dico quasi perché la presa, i cavi e il contatore devono essere in grado di reggere 2,3 kW continui, che sono molto più di quello che assorbe un cellulare; il mio impianto elettrico è in grado di farlo, ma non tutti lo sono).
Certo, la carica completa sulla presa domestica richiede circa cinque ore, ma tanto avviene di notte, per cui la durata non è un problema. In emergenza ho sempre l’auto a benzina. L’indomani mattina avrò il “pieno” elettrico senza sprecare neanche un minuto al distributore (foto qui accanto). E avrò speso circa un quarto di quello che mi sarebbe costato un rifornimento equivalente di benzina.
Sempre come un telefonino, l’auto ha un indicatore di carica in corso sul cruscotto e visualizza le tacche di carica anche quando è spenta. Comodo.
Piccolo problema: devi ricordarti di mettere l’auto sotto carica, altrimenti l’indomani mattina sarai appiedato. Idem se per caso scatta il salvavita o s’interrompe la corrente durante la notte. All’inizio questo gesto di collegare l’auto alla presa potrebbe non venire automatico. Cosa peggiore, una volta diventato automatico potresti non ricordare se l‘hai fatto o no, e quindi ti toccherà tornare in garage a vedere se l’auto è sotto carica o no. Sto pensando di mettere una webcam.
Questo è uno dei casi nei quali il software fa una grande differenza: avere un’app che dialoga con l’auto tramite la rete cellulare e ti informa sullo stato di carica è decisamente più rassicurante ed evita di doversi rimettere il cappotto per andare a vedere come sta l’auto. Non solo: un’app di controllo remoto permette di programmare l’orario di inizio della ricarica in modo da sfruttare le tariffe notturne ridotte. Confesso che con questo freddo non ho nessuna intenzione di uscire di casa dopo le 22 per andare ad avviare la carica quando inizia la tariffa ridotta; se potessi farlo dal mio telefonino, cambierebbe tutto. Se si vuole rendere appetibile l’auto elettrica, queste piccole grandi comodità ci devono essere. Sì, le Tesla le hanno, dannazione: le paghi care, ma in cambio ti danno molto.
Venerdì scorso per la prima volta sono andato a lavorare alla Radiotelevisione Svizzera, a Lugano, in auto elettrica. È stato il primo viaggio fatto per ragioni pratiche, di lavoro, e non per prova: venticinque chilometri tra andata e ritorno, senza inquinare e senza fare rumore. Da oggi per le strade svizzere c’è un’auto a benzina in meno. Non ho neanche acceso l’autoradio per godermi il silenzio di bordo.
4. Carica in viaggio: un delirio frustrante
Le cose cambiano completamente se si tenta di ricorrere alle ricariche in viaggio. Se riuscite a immaginare un mondo nel quale le auto a benzina o diesel vanno usate a queste condizioni:
fra un distributore di carburante e l’altro ci sono duecento chilometri;
per rifornirsi è necessario avere fatto in anticipo un abbonamento che varia da catena a catena;
ci sono diciassette tipi di carburante differenti, di cui solo due sono compatibili con la vostra specifica auto;
avete un’idea di cosa significa oggi usare un’auto elettrica di qualunque marca se si dipende dai punti di ricarica delle varie reti municipali e commerciali (con l’eccezione, ancora una volta, di Tesla, che ha semplificato il tutto).
Per curiosità ho provato a fare una carica presso un punto di ricarica della rete ticinese Emoti. Mi sono documentato prima: sono andato sul sito, ho consultato la cartina delle colonnine di questa rete, cercando quelle compatibili con uno dei miei due connettori (CHAdeMO e Tipo 1). Poi ho installato l‘app di Emoti sul mio smartphone, ho creato un account e vi ho caricato del credito usando la mia carta di credito.
Sono arrivato alla colonnina, che sapevo essere libera grazie all’app, ho collegato il cavo Tipo 1 (l’unico compatibile con la mia auto fra quelli disponibili) e ho tentato di avviare la carica dall’app. Non ha funzionato. Ho ricontrollato tutto, scollegato tutto e riprovato. L’app si è piantata in continuazione. E così sono iniziati i dubbi del principiante.
Sarà che l’auto va spenta completamente? Devo togliere le chiavi dall’avviamento? Devo chiudere a chiave le portiere? Devo prima tentare di avviare la carica dall’app e poi collegare il cavo, come si fa con una pompa di benzina self-service, o viceversa? Sarà che non è vero che posso usare il connettore domestico per caricare in giro (visto che il manuale non dice che si può)? Boh.
Non c’era nessun manuale che me lo dicesse. Non c’era un “benzinaio” che mi facesse assistenza. C’era soltanto un numero di telefono da chiamare.
Solo dopo vari esperimenti e tentativi ho scoperto due cose fondamentali. La prima è che l’app che comanda la colonnina chiama sinistro e destro i connettori (ce ne sono due serie) dal punto di vista di chi sta davanti alla colonnina e guarda la colonnina, non dal punto di vista di chi sta davanti alla colonnina e guarda la propria auto. Per cui stavo cercando di attivare il connettore sul lato sbagliato, e la mia inesperienza mi faceva pensare a chissà quale altro mio errore ben più tecnico o a un’incompatibilità dell’auto. Scemo io, certo, ma come ergonomia sarebbe meglio chiamarli A e B (etichette assolute) invece di sinistro e destro (etichette relative).
Non è vero che gli altri due connettori (Cavo tipo 2 e Domestica CH) sono collegati a delle auto, ma dalle diciture parrebbe di sì.
Sì, la carica di questo tipo è lentissima (va bene se parcheggi e vai a fare altro) e cara.
Il display della colonnina Emoti. Pulsanti misteriosi, e non è vero che devo presentare una tessera (ho l’app).
La seconda, una volta decifrata la questione sinistra-destra, è che il connettore non si era innestato bene perché il cavo sospeso lo tirava leggermente. Ho scollegato il tutto e ho ricominciato. Stavolta ha funzionato e sono riuscito a caricare (lentamente, ma ci sono riuscito).
Indicatore di carica in corso e di livello di carica presenti anche ad auto spenta e chiave disinserita. Comodo.
Ma che fatica: e questo nonostante io mi fossi preparato prima. Immaginate uno che è in giro e sta cercando di caricare, o un turista elettrico che arriva dall’estero: pensate che si metterà a scaricare l’app, creare un account e caricarvi del credito? Ovviamente no.
È esattamente quello che è successo mentre stavo caricando (la carica è lenta: la colonnina eroga 7 kW sul connettore Tipo 1, ma la iOn è in grado di assorbirne solo 3,2, praticamente come a casa). È arrivata una Tesla, il cui proprietario era incuriosito dalla colonnina nuova, ma quando ha saputo da me quanto era complessa la procedura per usarla ha lasciato perdere. Un cliente perso.
Tutto questo è semplicemente ridicolo.
Ci sono almeno cinque connettori differenti sul mercato: Tipo 1, Tipo 2/Mennekes, CHAdeMO, CCS, Tesla. Se non hai i cavi adattatori, che costano un botto e sono ingombrantissimi, o trovi la colonnina compatibile col connettore della tua auto o sei fregato: la colonnina c’è ma non la puoi usare. Decidersi per uno standard unico no?
Non c’è un’opzione di pagamento diretto (con carta di credito), come c’è da millenni presso le stazioni di servizio self-service tradizionali: bisogna passare dall’app, e per usare l’app bisogna creare un account e metterci del credito, oppure avere una tessera prepagata. Di nuovo, se non hai tutte queste cose, la colonnina c’è ma non la puoi usare. Perché?
Dopo che hai fatto tutta la trafila dell’account e dell’app o ti sei procurato in anticipo la tessera, puoi comunque usare solo le colonnine di quella rete. Tutte le altre ti restano inaccessibili. Il roaming fra questa rete e le altre non c‘è. Geniale.
L’app di Emoti, fra l’altro, è instabile e macchinosa, con parti in tedesco frammiste all’italiano (ho già scritto ai gestori con alcuni commenti costruttivi). Se crasha mentre stai caricando, come è successo a me, che si fa? La carica si interrompe? Solo a furia di tentativi ho scoperto che non si interrompe e che bisogna rifare login nell‘app riavviata, andare poco intuitivamente sotto Cariche (che sembra un log delle cariche fatte ma include anche la carica in corso) e toccare il pulsante Arrestare. Non oso immaginare cosa sarebbe successo se nel frattempo mi si fosse scaricato lo smartphone.
Se volete che la gente non usi l’auto elettrica, continuate così, state andando benissimo.
Di nuovo, Tesla insegna come si fa a eliminare tutti questi problemi: ha costruito una rete dedicata di punti di ricarica Supercharger o Destination Charger (le cui ubicazioni sono indicate sul navigatore dell’auto). Così inserisci il connettore standard della colonnina e sei a posto. Puoi persino prenotare la colonnina in anticipo. L‘app sul telefonino ti avvisa quando la carica è finita, così sai quanto tempo ti resta da aspettare anche se sei lontano dall’auto. Tutto qui. È questo il segreto del suo successo: la semplificazione di servizi che già esistevano, ma in forma scomoda e macchinosa. In altre parole, Tesla è l'iPhone delle auto elettriche (anche nel prezzo). Speriamo che i concorrenti imparino da questo esempio.
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Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Foto per gentile concessione di Marco Genocchio. Pubblicazione iniziale: 2017/08/09 18:46. Ultimo aggiornamento: 2019/10/10 20:00.
Stamattina ho provato per un’oretta la Opel Ampera-e, un‘auto puramente elettrica con 520 km di autonomia (secondo gli standard NEDC; 380 km EPA/WLTP), sorprendentemente pratica, rassicurantemente semplice e facile da usare, relativamente abbordabile come prezzo, piacevolissima da guidare e soprattutto disponibile subito. Perlomeno qui in Svizzera.
Cominciamo dai dati di base:
-- batteria a ioni di litio da 60 kWh garantita 8 anni/160.000 km;
-- 42.000 franchi* (circa 37.000 euro) di prezzo base, ma offerta con una formula di leasing che ne riduce drasticamente il costo di gestione (ne parlo più avanti);
-- ricarica di 150 km in circa 30 minuti nei punti di ricarica a 50 kW di qualunque gestore;
-- caricabile (lentamente) anche con un normale impianto elettrico domestico (220 V 6 A);
-- cinque posti comodi;
-- trazione anteriore;
-- motore da 150 kW/204 CV;
-- peso 1691 kg:
-- come già detto, 380 km di autonomia realistica (402 a 105 km/h costanti, nel test di Consumer Reports).
* 2018/10/22: Il prezzo attuale è salito a 52.700 franchi perché viene offerta soltanto la versione più completa e accessoriata.
** 2019/10/10: Il prezzo attuale è sceso a 46.700 franchi.
Le specifiche tecniche complete in italiano sono in questo listino prezzi (PDF); altra documentazione (elenco agenti, depliant, informazioni su impianti di ricarica domestici) è presso questa pagina di download Opel. I dati e i video dei crash test, inoltre, sono qui.
Ringrazio innanzi tutto il Garage Della Santa SA di Bellinzona, che ha organizzato la prova (disponibile a tutti tramite il sito Opel svizzero), che è consistita in una spiegazione dettagliatissima del funzionamento dell’auto da parte del consulente di vendita Alan Zuffi, seguita da una guida in percorso misto: città, autostrada, collina, con tre persone a bordo (io, mia moglie e il mio amico e collega Marco). Il rappresentante Opel ci ha affidato l’auto e ci ha detto di divertirci liberamente (nei limiti di legge), e lo abbiamo fatto, come vedrete nel video in fondo a questo articolo.
I sedili posteriori. Notare le prese USB.
La prima impressione, salendo in auto, è la sua spaziosità sorprendente. È un TARDIS, più grande dentro che fuori: è lunga 4,16 m, quindi compatta per parcheggiare agevolmente in città, ma con un muso corto e spiovente che lascia spazio abbondante per cinque persone e un bagagliaio più che decente (381 litri). Io sono alto un metro e 84, ma mi sono trovato comodo sia davanti che dietro, con una posizione di guida “da furgone” su sedili leggermente più stretti della media ma comunque più che soddisfacenti. Se vi ricordate la vecchia Ampera, con quattro posti (o cinque a patto di non avere le gambe), questa è tutta un’altra storia.
Gli interni non sono lussuosi, ma sono funzionali, con un comodo bracciolo centrale, poggiatesta abbattibili e schienali posteriori ribaltabili. L’interfaccia utente, spina nel fianco di tanti progetti di auto del futuro, che finiscono per essere troppo complicati e fonte di distrazione, è rassicurantemente semplice: icone grandi e intuitive, senza sovraccarico d’informazioni.
Davanti al volante c’è un display interamente digitale, nel quale campeggia grandissima la velocità (essenziale, perché è molto facile superare i limiti grazie alla silenziosità e all’accelerazione notevole di 0-50 km/h in 3,2 secondi e 0-100 km/h in 7,3 secondi). Al centro del cruscotto c’è un grande display secondario, con le funzioni di informazione e intrattenimento, predisposto per Carplay e Android Auto, in modo da usare le risorse dello smartphone del proprietario.
La leva del cambio è poco più di un pomello centrale, un po’ disorientante all’inizio (come vedrete nel video qui sotto) per via del pulsante laterale, necessario per alcuni cambi di marcia, e per via del fatto che non cambia posizione in base alla marcia inserita (torna sempre alla posizione standard), per cui manca l’informazione tattile e visiva su quale marcia sia inserita, anche se sul pomello e sul cruscotto si illumina una lettera indicatrice. Questo, a mio avviso, è un aspetto di ergonomia criticabile, che richiede un po’ più di pratica e di attenzione del normale, ma non è un dramma, visto che alla fine si cambia marcia molto raramente: avanti, indietro, parcheggio.
Ci sono due prese USB per caricare lo smartphone o altri dispositivi e nel bracciolo c’è un alloggiamento con scanalatura per far passare il cavo di carica (in opzione c’è anche la carica a induzione per gli smartphone predisposti).
Il pomello del cambio, con indicazione luminosa della marcia inserita.
Foto tratta dal depliant Opel.
Anti-Tesla? Sì, ma non in quel senso
Spesso la Ampera-e (o Chevrolet Bolt, come viene chiamata negli Stati Uniti, dove è nata ad opera della General Motors, anche se dal design e dagli interni europei non si direbbe grazie alla progettazione in Corea) viene paragonata alla Tesla Model 3.
Non è un paragone corretto: la Model 3 è (per chi sta in Europa, sarà, viste le quasi 500.000 prenotazioni e una catena di montaggio che sta partendo solo ora) non solo una berlina sportiva elettrica: è anche un’auto con con software aggiornabile ed è predisposta per la guida assistita o autonoma. È un computer su quattro ruote, che appassiona qualunque geek malato di tecnologia, con easter egg e novità a getto continuo che arrivano via Internet.
La Ampera-e è l’opposto: è un mini-SUV elettrico a lunga autonomia, punto e basta (e scusate se è poco: un’auto del genere era fantascienza fino a pochi anni fa). Non è un difetto: è una differenza. Una differenza che a molti automobilisti, inquietati e confusi dalla transizione alla trazione elettrica, potrebbe offrire la semplicità rassicurante di cui hanno bisogno.
Il vano motore della Ampera-e.
Mentre le Tesla richiedono uno studio preliminare e possono risultare un po’ eccessive nel loro sfoggio di tecnologia e funzioni e nella loro dipendenza da un monumentale tablet centrale, questa Ampera-e è un’auto che si potrebbe tranquillamente dare in mano a un guidatore che non sa nulla di auto elettriche, di aggiornamenti over the air, di kilowattora e di rigenerazione: la si guida e basta, leggermente disorientati dal totale silenzio quando è ferma al semaforo e inebriati dalla sua accelerazione immediata che spinge contro lo schienale.
Sali, la accendi, guardi il normalissimo cruscotto per sapere quanta autonomia hai e vai: tutto il resto, le geekaggini e le migliorie per fare hypermiling, può venire dopo, quando hai preso dimestichezza. In queste condizioni la migrazione dal motore a pistoni a quello elettrico è a portata di chiunque, specialmente se si è già abituati al cambio automatico.
Se volete un paragone telefonico, la Tesla Model 3 è l’iPhone; la Opel Ampera è lo smartphone Android. Se volete i pareri dei Teslari in proposito, sono qui.
Autonomia e ricarica
Chi guida un’auto elettrica ha tre ansie principali: quanta strada può fare, dove ricaricare e quanto tempo richiederà la carica.
380 km di autonomia reale (secondo lo standard WLTP, migliorabili con una guida morbida e con le funzioni avanzate dell’auto) tolgono qualunque ansia di autonomia per un uso abituale. In città bastano e avanzano, ovviamente; ma si può visitare una località distante 150 km senza preoccuparsi di dover trovare un punto di ricarica e di perdere tempo a ricaricare. Tanto quando si torna a casa il distributore è in casa: si mette l’auto in garage (per chi ce l’ha, s’intende) e la si mette sotto carica per la notte. L’indomani mattina l’auto ha il pieno.
I cavi di ricarica in dotazione, nel doppio
fondo del bagagliaio
La Ampera-e, fra l’altro, non vi farà saltare il contatore: può essere caricata persino su una normale presa a 220 V 6 A, usando il caricatore fornito (incluso nel prezzo) e senza rivoluzionare l’impianto elettrico domestico, a patto di avere molto tempo a disposizione, perché in queste condizioni parsimoniose l’auto carica circa 12 km di autonomia per ogni ora. Se immaginate di tenere acceso un asciugacapelli o un condizionatore, avete un’idea del carico e dei requisiti dell’impianto.
In altre parole: non è strettamente indispensabile installare una colonnina in casa se, come molti, fate una media di 60 km al giorno (Driving and parking patterns of European car drivers – a mobility survey (2012), pag. 63) e lasciate l’auto in garage sotto carica da quando arrivate a casa a quando ripartite per il posto di lavoro. Se avete un po’ di potenza domestica in più, potete dire all’auto di assorbire 10 A e quindi caricare al ritmo di 20 km di autonomia per ogni ora.
Questa carica lentissima e leggera risponde anche, almeno in parte, a uno dei tormentoni della trazione elettrica: tutti chiedono come farà la rete elettrica a sopportare il carico di migliaia o milioni di auto che si caricano contemporaneamente. Semplice: mica tutti fanno 500 km ogni giorno e devono “fare il pieno” ogni giorno e per di più in tutta fretta. Normalmente le auto verranno caricate lentamente, per rabboccare i km fatti quel giorno, e graveranno sulla rete grosso modo quanto gravano i condizionatori d’aria.
A proposito, ricordate il panico quando ci fu il boom dei condizionatori e si temeva che avrebbero fatto schiantare la rete elettrica? La rete fu potenziata e ottimizzata, senza grandi drammi o stravolgimenti. La stessa cosa è fattibile per le auto elettriche.
Ovviamente se siete in giro non avrete nessuna voglia di aspettare 30 ore per fare il pieno abbeverandovi a una presa elettrica standard: per questo ci sono i punti di ricarica rapida di vari fornitori (trovate una mappa europea completissima su LEMnet). Un punto di ricarica da 50 kW offre 150 km di autonomia in circa 30 minuti (dipende da quanto è carica la batteria, perché si carica in fretta quando è quasi scarica e più lentamente man mano che si “riempie”). La Ampera-e ha un connettore CCS, compatibile con un gran numero di punti di ricarica pubblici e commerciali in tutta Europa.
Certo, se dovete fare viaggi da 600 km dovrete quindi prepararvi prudenzialmente ad almeno un paio di soste ben pianificate (Opel offre un’app che informa sulla posizione dei punti di ricarica), e qui i punti di ricarica Tesla (120 kW) sono imbattibili in quanto a velocità, e ovviamente un’auto a benzina/diesel batte tutti. Ma quante volte vi capita di fare viaggi del genere senza mai fare soste? Se la risposta è spessissimo, allora lasciate perdere le auto elettriche e procuratevi una ibrida: per il vostro caso la tecnologia elettrica non è ancora matura.
In tutti gli altri casi, se volete passare all’auto elettrica, che inquina molto meno localmente ed è molto più silenziosa, potete farlo. E farlo senza mortificarvi: anzi, l’Ampera-e è dannatamente divertente da guidare anche in città, con le sue sgommate senza sensi di colpa (non romba e non inquina).
Costi
Lo so, 37.000 euro (prezzo 2017) per un’auto piccolina sono un bel po’ di soldi. Ma al di là dell’investimento a favore dell’ambiente, ci sono due fattori da considerare: le modalità di acquisto e il risparmio di benzina. Entrambi possono comportare risparmi non trascurabili che potrebbero rendere abbordabile anche un prezzo di listino del genere.
Parto dalla benzina: io, facendo 24.000 km/anno, con la mia auto attuale (Opel Mokka) in Svizzera spendo 2650 franchi (circa 2350 euro) l’anno in carburante (tengo traccia accurata di tutti i rifornimenti e chilometraggi). Se vado a caricare presso una colonnina di un centro commerciale (molti, qui dalle mie parti, offrono la carica gratis a chi fa la spesa), risparmio oltre duemila euro l’anno. Se mi abbono a una delle reti di ricarica locali, spendo 206 franchi (il primo anno; 106 i successivi) per caricare illimitatamente.* Duemila euro di risparmio l’anno non sono da disprezzare. Questa drastica riduzione (o azzeramento) dei costi di ”carburante” vale ovviamente per qualunque auto elettrica.
* 2018/10/22 11:20: questa tariffa flat non esiste più e ora si paga a consumo.
L’acquisto è la vera sorpresa: è possibile acquistare una Ampera-e in contanti, ma conviene di gran lunga il leasing, che è a 4 o 5 anni, senza anticipo e senza riscatto, perché l’auto verrà ripresa da Opel. In pratica la si noleggia a lungo termine, per esempio nel mio caso a 680 CHF (575 euro) al mese per 5 anni senza acconto. Se considero il mio risparmio sulla benzina, una cinquantina di franchi in meno di assicurazione e 345 franchi in meno di bollo*, per me significherebbe avere un’auto elettrica a lunga autonomia per cinque anni a 440 CHF (386 euro) al mese. In altre parole, vorrebbe dire che spenderei meno di quello che spendo adessoper la mia auto tradizionale.
*L’imposta di circolazione in Canton Ticino, secondo il calcolatore online del Cantone, dovrebbe ammontare a 177 CHF usando i seguenti parametri: etichetta energia 1OC563, emissioni di CO2 0 g/km, peso a vuoto 1711 kg, peso totale 2056 kg, potenza 150 kW, consumo di energia 14,5 kWh/100 km, equivalente benzina: 1,7 l/100 km. Attualmente spendo 522 CHF per la mia Opel Mokka.
Questo ribalta completamente gli equilibri ai quali siamo abituati, con le auto elettriche che costano molto più di quelle a scoppio. È una formula che oltretutto mette l’acquirente al riparo dall’inevitabile obsolescenza rapida di questo settore in evoluzione rapidissima: fra quattro o cinque anni, se ci sarà disponibile un’altra auto con autonomia maggiore o carica più rapida o con guida autonoma, chi ha comprato un’Ampera-e in leasing non avrà il problema di rivendere quella attuale.
Come dicevo, inoltre, quest’auto è disponibile subito (perlomeno in Norvegia, Olanda e Svizzera): mi è stato detto che se la ordinassi ora la riceverei a ottobre. Di quest’anno. Per contro, la mia prenotazione Tesla (Model 3), fatta più di un anno fa, mi dice che se tutto va bene potrei riceverla verso la fine del 2018. Forse. Per cui potrei prendere la Ampera-e, passare subito a un’auto elettrica, tenerla per qualche anno e poi guardarmi di nuovo in giro con calma per vedere cos’è successo nel frattempo.
Funzioni extra
L’Ampera-e ha molte altre caratteristiche rispetto a quelle che ho descritto qui: potete vederle sul sito della Opel e potete documentarvi in dettaglio nel manuale d’uso in italiano (PDF). Ne segnalo una sola che ho trovato particolarmente curiosa e divertente, oltre che pratica: la frenata da bicicletta (il nome ufficiale è one pedal driving, ma è troppo serioso). Sul retro di una delle razze del volante c’è una levetta piuttosto larga, che fa intervenire la frenata tramite rigenerazione intensa. Mi spiego tra un attimo e sottolineo che questa è una funzione che non è indispensabile imparare subito (ma mi ero documentato prima, per cui ho voluto provarla).
Un’auto elettrica, diversamente da una a carburante fossile, può frenare in due modi: quello tradizionale, tramite il pedale del freno, in cui l’energia di movimento viene dissipata attraverso i freni a disco e si perde; e quello a rigenerazione, in cui il motore viene usato come generatore e l’energia di movimento viene convertita in elettricità che ricarica la batteria. In parole povere, un’auto con motore a scoppio butta via energia a ogni frenata e inquina disseminando particelle dei dischi dei freni, mentre un’auto elettrica recupera un bel po’ di questa energia e non consuma i freni.
Normalmente (ossia quando si preme il pedale del freno) la Ampera-e frena in maniera tradizionale, usando principalmente i freni e aggiungendo un piccolo recupero di energia; ma se premo questa levetta il recupero interviene più intensamente, tanto che in città si può frenare usando anche solo la levetta, senza toccare il pedale del freno e quindi senza consumare i freni, ottenendo un recupero di energia molto elevato. Si può impostare l’intensità della rigenerazione anche tramite la leva del cambio, ma andare in auto e frenare con le mani, come in bicicletta, è divertente, anche se un po’ sconcertante. Mi sono abituato in fretta.
Morale della storia
A questo punto del mio racconto molti di voi si staranno chiedendo che fine ha fatto il fanboy di Tesla che solitamente scrive in questo blog. Ho davvero intenzione di prendere una Opel elettrica al posto di una Tesla?
Dipende. Primo, giusto per capirci, non sono un fanboy: per carità, adoro le Tesla e il loro approccio al futuro dell’automobile, ma il mio obiettivo principale non è comprare un computer su ruote. È, ed è sempre stato, smettere di inquinare o almeno ridurre il mio inquinamento. L’auto elettrica, qualunque auto elettrica che abbia batterie smaltibili e un’autonomia e un costo accettabili, è un passo importante in questa direzione. Per cui se ora Opel me ne propone una subito invece di farmi aspettare, perché no? Mica ho sposato Elon Musk.
Vi terrò aggiornati. Intanto ho montato alla buona questo video che riassume i commenti durante la prova, catturati dalla GoPro che ho montato sul cruscotto. Per evitare equivoci, chiarisco che la persona accanto a me non è il rappresentante Opel, ma è Marco, un mio amico, anche lui interessato alle auto elettriche. Dietro c’è mia moglie Elena, la Dama del Maniero Digitale. Il rappresentante ci ha affidato l’auto e ci ha lasciati liberi di andare.
Aggiornamento: prezzo aumentato di 5700 euro?
A novembre vari siti hanno segnalato che la Ampera-e è aumentata di prezzo di circa 5.700 euro in Norvegia (e, secondo Sicurauto, in tutta Europa) a causa del passaggio di Opel da GM (che produce la Ampera-e negli Stati Uniti) a PSA, secondo le dichiarazioni di un portavoce di Opel in Norvegia. Il prezzo in Svizzera al momento (2017/12/01) risulta invariato a 41.900 franchi.
Aggiornamento: prezzo aumentato ed esemplari contingentati
A dicembre 2017 mi è arrivata conferma che i prezzi della Ampera-e sono stati aumentati anche in Svizzera e che il contingente disponibile è ora più limitato di quanto lo fosse inizialmente: al momento in cui scrivo questo aggiornamento (giugno 2018) Opel.ch la offre a partire da 52.700 franchi IVA inclusa.
Aggiornamento (2018/10/22)
In Svizzera è tuttora disponibile unicamente la versione Excellence, dotata di tutti gli accessori, che costa 52.700 CHF. A questi prezzi, e con i sedili disponibili soltanto in pelle, non fa per me.
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Si parla spesso del primo uomo sulla Luna, perché la nostra cultura è affascinata dai primati; si parla assai meno spesso degli ultimi, e in questo dell’ultimo a camminare sulla Luna: Gene Cernan.
Se il primo, Neil Armstrong, era un nerd riservato, travolto e perseguitato da una celebrità immensa che cozzava con la sua modestia, l’ultimo è un uomo che ha abbracciato l’incredibile sorte che gli è capitata – essere uno degli unici dodici esseri umani, in tutta la storia dell’umanità, ad aver camminato su un altro mondo – e ne è diventato uno dei testimoni viventi più eloquenti e appassionanti.
Sentire Gene Cernan dal vivo, come mi è capitato qualche tempo fa, è avvincente: non ti racconta soltanto cosa ha fatto sulla Luna, facendoti sentire come se tu fossi stato lì con lui, ma ti spinge a riflettere sul significato profondo di quel viaggio. Se lui, cresciuto in una fattoria senza corrente elettrica e senza neppure un trattore, è riuscito a fare così tanta strada da arrivare ad essere scelto per andare sulla Luna, quali altre cose straordinarie possiamo fare se ci impegniamo? Con che coraggio diciamo “non si può fare”? Forse è una retorica d’altri tempi, ma Cernan la sa porgere con rara potenza.
La storia personale di Gene Cernan è raccontata in un documentario, The Last Man on the Moon, che è ora finalmente disponibile in streaming anche in Italia e in Svizzera su iTunes e su Netflix. Questo è il trailer:
The Last Man on the Moon (IMDB) include moltissime riprese rare o inedite e ricostruzioni delle missioni con ottimi effetti speciali, ospita molti nomi storici dell’astronautica (Gene Kranz, Charlie Duke, Alan Bean, Jim Lovell, Chris Kraft, Dick Gordon, per citarne solo alcuni) e riepiloga non solo la missione Apollo 17, quella che portò Cernan a camminare sulla Luna e terminare la prima esplorazione umana della Luna nel 1972, ma anche le sue altre missioni spaziali: la Gemini 9A in orbita terrestre e Apollo 10, che fu la prova generale dello sbarco sulla Luna e arrivò a soli 14 chilometri dalla superficie lunare per acquisire esperienza in tutte le fasi dello sbarco tranne l’atterraggio vero e proprio sulla Luna.
Ma non c’è solo avventura: il documentario parla anche dei drammi personali della vita d’astronauta di allora: l’ansia da prestazione, l’estraniamento dalle famiglie, i compagni caduti, le angosce delle mogli (“Se pensate che andare sulla Luna sia difficile, provate a restare a casa”, dice appunto sua moglie).
La versione su iTunes è in inglese con sottotitoli in varie lingue ma non in italiano: quella su Netflix italiano, mi dicono, ha i sottotitoli italiani con l’audio inglese. Il sito di supporto, ricco di ulteriori chicche e immagini, è http://thelastmanonthemoon.com.
A proposito di chicche, e anche per trasparenza: conosco uno dei montatori del documentario, che è la stessa persona che mi ha permesso di avere le riprese restaurate che potete vedere nel mio documentario Moonscape. Ho comunque pagato come chiunque altro la mia copia di The Last Man On the Moon e non scrivo questa recensione per fare un favore a un conoscente, ma per segnalare un gran bel film che non può mancare a chiunque abbia la passione per lo spazio e per le grandi imprese. In compenso, però, il montatore mi ha fatto sapere che per una di quelle singolari coincidenze che costellano il mondo dell’astronautica compaio in una delle riprese del documentario insieme a Luigi Pizzimenti (di Ti Porto la Luna), anche se la scena è stata tagliata. Buona visione.
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ALLERTA SPOILER
Questo articolo e i suoi commenti rivelano dettagli essenziali della trama del film. Se non volete rivelazioni o anticipazioni che possono guastare la visione de Il Risveglio della Forza, NON LEGGETE OLTRE.
Siete stati avvisati.
Visto che molti vorrebbero discutere de Il Risveglio della Forza senza l’intralcio del divieto che ho imposto altrove di rivelare dettagli della trama per non guastare le sorprese a chi non ha ancora visto il film, pubblico questo mini-articolo per creare uno spazio per i vostri commenti.
Già che ci sono, includo questa chicca che mi è stata mandata da Marco C. e che ho leggermente riveduto e ampliato):
Un personaggio in una missione segreta trova dei dati importantissimi, ma capisce che sta per essere catturato da un cattivo con una maschera nera, così li nasconde in un droide e lo fa scappare con la speranza che almeno lui si salvi. Il droide viene trovato casualmente da una persona giovane e disagiata che vive in un pianeta desertico e ha un talento innato per il pilotaggio. Questa persona poi incontra un personaggio anziano che è stato importante nelle precedenti vicende della galassia e che si offre come sua guida.
Durante le loro peripezie, i nostri eroi visitano un bizzarro bar pieno di creature aliene mostruose, dove si suona musica terrestre dal vivo, e lì fanno incontri importanti. Uno dei nostri viene torturato dal cattivo con la maschera nera affinché riveli un segreto importantissimo. Con un po' di fortuna gli eroi riescono a portare in salvo i dati nel droide e scoprono che i cattivi hanno creato una superarma grande come un mondo, che può distruggere un intero pianeta e che viene usata con effetti devastanti, causando milioni di vittime. I buoni devono trovare in fretta un piano per fermare quest’arma, perché i cattivi li hanno tracciati, hanno scoperto dov’è la loro base segreta e minacciano di eliminare anche loro con un solo colpo.
Viene trovata una falla tecnica con cui l’arma può essere distrutta colpendola nel punto giusto facendo incursione con dei caccia monoposto in un’epica battaglia aerea, e il pilota più bravo riesce nella missione infilandosi in un canalone artificiale: la superarma esplode in modo spettacolare. Purtroppo nel frattempo il personaggio anziano è stato ucciso dentro la superarma quando si è confrontato con il cattivo, a cui era molto legato personalmente in passato. Il cattivo con la maschera nera si salva, ma per il resto tutto finisce bene.
Ora chiedetevi: avete appena letto la trama del primo Guerre Stellari o quella del Risveglio della Forza? Tanto per dire quanto è ampia e ripetuta la scopiazzatura. E questo è il succo della mia recensione: visivamente azzeccato, con attori ottimi, ma con una trama assolutamente copiata dalla trilogia originale. Il Risveglio attinge infatti anche a L’Impero colpisce ancora, visto che in entrambi i film gli eroi incontrano un alieno piccolo e vecchissimo che si rivela profondo dispensatore di saggezza e di rivelazioni (Maz Kanata è Yoda) e il protagonista ha delle visioni che riguardano il suo passato e il suo futuro e che la pongono di fronte a un dramma interiore sulla propria identità (Rey nel Risveglio, Luke ne L’Impero).
Poteva andare molto peggio (Episodio I insegna), ma con un minimo di inventiva si poteva fare un grande film invece di fare il copiaincolla dei film precedenti. Capisco il bisogno di fare una Grande Storia Epica e Spettacolare, ma c’era proprio bisogno di riciclare l’idea specifica della superarma sferica grande come un pianeta ma con un punto debole a portata di attacco da parte di piccoli caccia? Non si poteva inventare qualcosa di meno scopiazzato?
E che dire di tutta la gonfiatissima campagna promozionale per il capitano (o la capitana) Phasma, che pareva fosse un personaggione ed è invece ridotto a fare due rapide apparizioni e conclude la propria presenza in modo umiliante e ridicolo? Diciamolo pure: era semplicemente una scusa per vendere una variante in più delle truppe d’assalto.
Aggiungo un po’ di chicche spoilerose:
– Daniel Craig ha interpretato in gran segreto una delle truppe d'assalto (quella che stringe maggiormente i vincoli che legano Rey al tavolo di tortura) (Gizmodo; Entertainment Weekly).
– Nei trailer ci sono parecchie scene significative che non compaiono nel film (Gizmodo).
– 22 chicche da scovare quando il film uscirà in Blu-Ray, streaming e DVD (Io9).
– Il film ha già raggiunto il miliardo di dollari e lo ha fatto con un andamento (immagine qui sotto) che non farà che incoraggiare Hollywood a produrre ancora film fatti in questo modo.
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Per favore non mettete dettagli della trama de Il risveglio della Forza nei commenti. Se lo fate, dovrò cestinarli. Se volete discutere senza problemi di spoiler, ho preparato uno spazio apposito. Grazie.
Questa recensione non contiene spoiler. Per una ragione molto semplice: se conoscete Star Wars, non c’è praticamente niente da spoilerare, perché avete già visto tutta la trama. Star Wars: Il Risveglio della Forzaè un copiaincolla di scene già viste nella trilogia classica. Talmente copiaincolla che al cinema io e chi era con me ne abbiamo ripetutamente anticipato sotto voce parecchie battute pur non avendo mai visto il film: perché erano le stesse, identiche della trilogia classica.
Intendiamoci: le citazioni sono sempre piacevoli, gli omaggi pure. Ma quando il film è composto quasi esclusivamente da ripetizioni di cose già viste nei film precedenti della stessa serie, cambiate giusto quel tantino che serve per non farsi trascinare in tribunale per plagio, e quando l’intera trama ricalca quella del primo film (Star Wars Episodio IV: Una nuova speranza, o Guerre Stellari come lo conoscono i veterani), non è più citazione. Non è più omaggio. È copiare. È rifilare minestra riscaldata spacciandola per fresca.
Non so voi, ma io mi sento preso per i fondelli. Di nuovo, perché J.J. Abrams ha fatto lo stesso copiaincolla anche con Star Trek. Speravo che Star Wars fosse più nelle sue corde e ho osato essere ottimista, ma mi sono dovuto ricredere.
Piacerà? A chi non conosce gli originali probabilmente sì, perché non sa che Il Risveglio della Forza è una scopiazzatura spudorata e c'è molta azione, ci sono scene spettacolari, ci sono personaggi interessanti, c'è una storia epica. Ai fan un po’ attempati, quelli che come me si sono innamorati da bambini dell’universo meraviglioso creato da George Lucas, probabilmente no, se non per effetto nostalgia.
Poteva andare peggio? Certamente. Se il confronto è con Episodio I: La Minaccia Fantasma, questo film è riuscitissimo. Abrams ha senz’altro fatto meno peggio di Lucas. Ma con tutti i soldi che danno agli sceneggiatori, perché dobbiamo sempre accontentarci di un misero meno peggio? Pagando la differenza, non si potrebbe avere almeno un guizzo di originalità? Una trama non già vista e stravista? Perché non basta prendere le scene dei film precedenti e rimescolare un po’ l’assegnazione delle battute ai personaggi per dire di aver scritto una sceneggiatura(metodo già usato da Abrams per Star Trek Into Darkness).
Cari fratelli e sorelle starwarsiani, ora saprete come ci siamo sentiti noi fan di Star Trek dopo che ci ha messo le mani Jar Jar Abrams. Preparo i fazzolettini anche per voi.
Quello che si salva
La musica di John Williams. Il tema di Rey è meraviglioso, un classico tema grandioso, romantico e avventuroso di quelli che solo John Williams sa comporre; il resto della colonna sonora è un gran bel supporto alle immagini, anche non è ai livelli probabilmente irripetibili di Una nuova speranza e de L'Impero colpisce ancora, e la fanfara iniziale mette ancora i brividi dopo quasi quarant’anni. Se J.J. Abrams pubblica una versione del Risveglio della Forza senza dialoghi e soltanto con la colonna sonora musicale e gli effetti sonori abbassati di volume, la compro.
Gli effetti speciali. Ottimi e ineccepibili, ma è anche vero che oggi è la norma, se hai un buon budget, e qui c’erano circa 200 milioni di dollari. Non posso dire nulla del 3D, perché l’ho visto in 2D.
Lo stile visivo. Questo film è fantasticamente fedele allo stile, al design e alla fotografia della trilogia originale. Moltissimi set e modelli fisici (anche se estesi e arricchiti digitalmente), molte creature fatte in animatronica invece che in grafica computerizzata, la stessa aria vissuta e logora degli ambienti e dei veicoli che è da sempre una delle caratteristiche geniali e inventive di Star Wars e che mancava in modo dissonante nei prequel, troppo patinati (anche per via dell’epoca diversa che descrivevano) e digitalizzati. Fra l’altro, i lens flare che Abrams ha fastidiosissimamente strausato nei suoi film precedenti qui si contano sulle dita di una mano.
Gli attori. Harrison Ford, nonostante gli anni siano passati, è perfetto nei rivestire i panni di un Han Solo più vecchio e più amaro, e Carrie Fisher è altrettanto all’altezza della situazione. Tutti gli altri attori nuovi se la cavano benissimo, specialmente Daisy Ridley, la protagonista (Rey), che è brava e intensa, e John Boyega (Finn). Il droide BB-8 è simpatico e adorabile senza essere infantile. Anche Peter Mayhew rende bene Ciubecca (o Chewbacca, a seconda del doppiaggio che considerate canonico), forse addirittura meglio che nella trilogia classica, tanto da strappare parecchi sorrisi di divertimento e di affetto per un vecchio amico ritrovato. Rivederli in azione è una gioia, anche se rifanno cose già viste.
L’umorismo. Non ci sono battute folgoranti e memorabili, ma momenti divertenti ce ne sono, e siamo anni luce (o dovrei dire “dodici parsec”) lontani dai livelli di George “gli-faccio-pestare-una-cacca-che-fa-sempre-ridere” Lucas nei prequel.
Le (poche) parti originali. Quando le scene non sono copiate, i dialoghi sono frizzanti e vivaci, molti simili come stile a quelli della trilogia originale; i personaggi vengono delineati rapidamente ma in modo chiaro. Peccato non aver osato essere creativi nella trama.
La scelta di umanizzare una Truppa d’Assalto. Questa, devo riconoscere, è una decisione originale che mostra un aspetto inesplorato dell’universo di Star Wars. E ben venga la scelta di far interpretare la parte da un attore di colore.
La scelta di avere una donna come protagonista. Considerato che le donne nella trilogia originale (a parte Leia) erano praticamente irrilevanti, anche questo è un buon passo avanti. E Rey è un personaggio subito simpatico: forte, autosufficiente, con un forte senso morale, capace di difendersi, a differenza del suo equivalente in Guerre Stellari, ossia Luke Skywalker, che all’inizio è un ragazzetto petulante che pensa solo a svagarsi al bar con gli amici.
Una scena. Ho promesso che non avrei fatto spoiler, per cui non vi dico quale, ma una scena che mi ha emozionato tanto c'è stata.
Quello che va nello sciacquone
CORREZIONE: Terminologia fondamentale cambiata. Inizialmente avevo scritto che avevo rilevato un clamoroso errore di traduzione, ma mi sono dovuto ricredere e chiedo scusa al traduttore: ho avuto modo di ascoltare l’audio originale del Risveglio e il traduttore in realtà è stato fedele alla bizzarra scelta terminologica di Abrams.
Mi spiego: nella mitologia di Star Wars, la Forza ha da sempre un lato oscuro (dark side) e uno chiaro (light side), anche se nei film l’espressione “lato chiaro” non viene mai usata esplicitamente (questo avviene solo in altre fonti dell’universo espanso di Star Wars, secondo la Wookieepedia). Ma nel Risveglio della Forza i personaggi parlano ripetutamente del “Lato Oscuro” (della Forza) e lo contrappongono alla “luce”, cosa che mi ha sconcertato quando l’ho sentita al cinema (e so di non essere il solo).
Ho sospettato un errore del traduttore, pensando che nella battuta “The Dark Side and the Light” non fosse stato capito che dopo Light c’era un sottinteso side. Non luce, insomma, ma chiaro. E invece no: nell’audio originale del Risveglio, a 59 minuti dall'inizio, Kylo Ren dice “Forgive me, I feel it again, the call to the light.... show me again the power of the darkness”. A 1h:07m, un altro personaggio cita la Forza parlando di “the light”. E a 1h:25m un altro personaggio ancora dice “There’s still light in him”. Quindi è proprio “luce”: un cambiamento spiazzante per chi conosce bene la saga. Perché?
Inoltre Stormtrooper non si traduce assaltatore, ma truppa d’assalto (come da celebre battuta di Leia “Non sei un po' basso per appartenere alle truppe d'assalto?” in Guerre Stellari).
I cattivi. Uno è un moccioso viziato; un altro, il suo superiore, è di una banalità tediosa e sconcertante. Nessuno dei due è temibile. Darth Vader, l'Imperatore e Tarkin (c'è una copia anche di lui) erano tutt’altra cosa.
La trama. Tutta. La forza dirompente del primo Star Wars non scaturiva soltanto dall'uso innovativo degli effetti speciali: sgorgava dal sovvertimento degli archetipi e delle regole classiche della trama. L’eroe senza macchia che non conquista la principessa; la principessa che invece di essere una donzella in pericolo è un peperino sarcastico; l’universo logoro e consunto, con le cose che cadono a pezzi invece di essere lucenti e asettiche; la scelta di entrare subito nell’azione, saltando persino i titoli di testa (tanto che George Lucas per questo si prese una multa); l’autoironia, all’epoca rara o inesistente nei film di fantascienza; gli alieni che parlano con i sottotitoli; eccetera, eccetera. Al Risveglio della Forza manca quasi completamente questa carica d’innovazione. È la fiera del già visto.
Ho promesso che non farò spoiler, per cui starò sul vago, ma questo è un breve elenco delle tantissime, troppe premesse o scene pigramente copiate e riconfezionate. Se non volete nemmeno questi vaghi accenni, smettete di leggere qui.
– Non si chiama più l'Impero, ma il Primo Ordine. Stessa minestra di prima.
– Non si chiama Tatooine, ma Jakku. Stesso pianeta sabbioso popolato da straccioni.
– Non si chiamano Jawa, ma la solfa è la stessa.
– I cattivi hanno costruito una superarma sferica ammazzapianeti che bisogna distruggere.
– La suddetta superarma si distrugge usando esattamente la stessa tecnica dei film precedenti. Persino Han Solo lo fa notare.
– I piani segreti di qualcosa d’importante sono nascosti e trafugati dai buoni usando esattamente lo stesso espediente dei film precedenti.
– Un alieno molto vecchio e saggio, di piccola statura, dispensa consigli di vita e custodisce segreti importanti. Solo che stavolta non è verde: in un prodigioso guizzo di originalità... è arancione.
– Il cattivo indossa una lunga tunica nera e una maschera.
– Il cattivo è ossessionato dal potere ed è manipolato, senza rendersene conto, da un cattivo più cattivo.
– La scena onirica nella quale un personaggio si confronta con i fantasmi del proprio passato (come nell’albero magico su Dagobah ne L'Impero colpisce ancora).
– Il bar popolato di alieni bizzarri dove c’è il complesso di altri alieni che suonano musica terrestre molto male: praticamente Cantina di Mos Eisley - Nuova gestione.
– Qualcuno dice che un personaggio passato al Lato Oscuro ha ancora del buono dentro di sé e lo hanno percepito (come ne Il Ritorno dello Jedi).
– Il supercattivo parla tramite ologramma con il cattivo in seconda in una sala apposita (come ne L'Impero colpisce ancora) e si discute dell’idea che uno dei buoni andrebbe portato al Lato Oscuro (come ne L'Impero colpisce ancora).
– I cattivi si chiedono l’un l’altro se hanno avvertito un tremito (pardon, un risveglio) nella Forza.
– Mentre gli eroi sono nascosti nel ventre della base nemica, a uno di loro succede qualcosa di grave, un altro grida per lo shock e così le truppe imperiali... ehm, del Primo Ordine si accorgono di colpo della presenza degli intrusi (in Una nuova speranza, Luke grida quando Ben Kenobi viene abbattuto da Darth Vader nell’hangar della Morte Nera).
– Ce ne sono molte altre, assolutamente centrali per il film, ma come dicevo non farò spoiler. Ve ne accorgerete da soli. E griderete anche voi “NNNNOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!!!!”.