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Il Disinformatico: vita extraterrestre

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2023/06/25

(AGG 23:55) Tutti i video del convegno Cicap “Siamo soli nell'universo? Alla ricerca della vita, fra mito e realtà”

Come ho segnalato qualche giorno fa, il 6 maggio scorso sono stato uno dei relatori del Convegno nazionale del Cicap intitolato “Siamo soli nell'universo? Alla ricerca della vita, fra mito e realtà” presso l’Aula Magna dell’Università dell’Insubria, a Como. Nei giorni scorsi il Cicap ha pubblicato man mano anche gli altri video, interessantissimi, del convegno, per cui raduno tutto qui in un unico post cronologico.

Prologo: diretta streaming Aspettando "Siamo soli nell'Universo?", con Amedeo Balbi, professore associato di astronomia e astrofisica all’Università di Roma “Tor Vergata”, intervistato da Serena Pescuma, medico chirurgo e coordinatrice dei social del CICAP.

 

I “canali” di Schiaparelli ed il mito dei Marziani - Patrizia Caraveo (Astrofisica)

 

Dagli UFO ai complotti spaziali - Paolo Attivissimo (Giornalista scientifico)

 

Il progetto SETI, alla ricerca di vita intelligente - Stefano Covino (INAF Brera)

 

La scoperta degli esopianeti - Monica Rainer (INAF Brera)

 

Le molecole della vita - Giuseppe Galletta (Senior-Unipd)

 

Esistono civiltà tecnologiche aliene? - Amedeo Balbi (Unitorvergata)

 

Viaggi interstellari: solo fantascienza? - Andrea Ferrero (Ingegnere spaziale)

2021/05/27

“Cercare gli alieni, trovare noi stessi”: lezione straordinaria di Jill Tarter (SETI), 1 giugno 2021 alle 21, ascoltabile anche in italiano

Ultimo aggiornamento: 2021/05/28 00:10.

Jill Tarter, l’astrofisica che per anni ha diretto il centro SETI, dedicato alla ricerca scientifica di indicatori astronomici di tecnologie non terrestri, terrà una conferenza pubblica su Zoom l’1 giugno 2021 alle 21 (ora italiana), intitolata Searching for aliens, finding ourselves (Cercare gli alieni, trovare noi stessi).

Se il suo nome vi suona familiare, è perché il suo lavoro nella ricerca di indicatori di civiltà extraterrestri ha ispirato il personaggio di Ellie Arroway nel film Contact di Bob Zemeckis (1997), tratto dall’omonimo romanzo dell’astronomo Carl Sagan.

L’evento è gratuito e organizzato da ASIMOF (Associazione Italiana Modelli Fedeli) in collaborazione con AstroTeam Le Pleiadi e con l'Osservatorio Astronomico della Regione Autonoma Valle d'Aosta. Sarà in lingua inglese, con la possibilità di avere la traduzione simultanea in italiano (di cui mi occuperò io). Per ascoltare l’audio tradotto si dovrà semplicemente cliccare in Zoom su Interpretazione e poi scegliere il canale italiano. Il pubblico potrà inviare domande a Jill Tarter usando la chat di Zoom.

Ci sono 500 posti disponibili. Il link Zoom è https://us02web.zoom.us/j/83605811653. Consiglio di collegarsi qualche minuto prima delle 21 per verificare le impostazioni audio, se volete ascoltare la traduzione, e di usare l’app Zoom invece della versione web. La serata si potrà seguire anche sulla pagina Facebook di AVTVweb.

2020/09/13

Storie di Scienza 12: No, gli scienziati non sanno tenere i segreti. Trapela la possibilità di vita extraterrestre su Venere

Ultimo aggiornamento: 2020/09/14 22:20.

Uno dei capisaldi del pensiero cospirazionista è “gli scienziati sanno, ma tacciono”. Gli scienziati hanno inventato l’automobile che va ad acqua, ma la tengono segreta. Hanno scoperto la cura per il cancro, ma non la rivelano. Hanno trovato gli alieni, ma fanno parte di una colossale congiura del silenzio.

In realtà questa visione iper-omertosa della comunità scientifica ce l’ha solo chi non ha mai conosciuto nessuno che si occupi di scienza per lavoro. Chi ha a che fare con gli scienziati, invece, sa benissimo che in realtà di fronte a una scoperta davvero sensazionale ci sarebbe sicuramente qualcuno di loro che, intenzionalmente o meno, la farebbe trapelare.

Un esempio di questa realtà verrà reso pubblico ufficialmente domani, ma è già stato diffuso in lungo e in largo dal passaparola. Anche in Rete se ne trovano ampie tracce nella cache di Google, grazie agli scienziati e giornalisti pasticcioni che hanno già preparato i comunicati stampa e gli articoli e li hanno messi online pensando che nessuno li avrebbe trovati.

Per rispetto formale all’embargo che è stato chiesto allo scopo di sincronizzare l’uscita della notizia in tutto il mondo, per ora non fornisco dettagli, ma la scoperta è davvero grossa, anche se si riassume in due lettere e una cifra.

Troverete tutti i dettagli qui sotto il 14 settembre dalle 17 ora italiana, quando cesserà formalmente l’embargo e la Royal Astronomical Society presenterà un video (incorporato qui sotto).

In ogni caso, visto che ormai l’embargo è stato violato da parecchie fonti, come Earthsky.org (addirittura due giorni fa), Astrobiology.com e Medium.com, e che io non l’ho mai sottoscritto, è inutile aspettare ancora: in sintesi, è stata rilevata una traccia chimica quasi certa di vita microbica su Venere, specificamente nella fascia alta della sua atmosfera. Ne scriverò in dettaglio stasera; nel frattempo ci sono appunto le suddette fonti in inglese che hanno già pubblicato i particolari della scoperta.

Anche il video di annuncio è trapelato; è stato rimosso ma non prima che qualcuno lo salvasse. Al momento è ripubblicato qui.


2020/09/14 19:00 - Scoperto un indicatore quasi certo di vita su Venere

Nell’atmosfera di Venere è stata trovata della fosfina (o fosfano, PH3), una molecola molto rara che, se presente in grandi quantità, è quasi sicuramente un indicatore di vita, perché non conosciamo processi non biologici che la possano generare in abbondanza. Con molta cautela, quindi, gli astronomi parlano di una possibile scoperta di vita microbica su Venere. Il comunicato stampa dell’ESO in italiano è qui.

La scoperta della fosfina nell’atmosfera di Venere è il frutto della collaborazione internazionale di ricercatori del Regno Unito, degli Stati Uniti e del Giappone, coordinati da Jane Greaves dell’Università di Cardiff, e si basa su osservazioni fatte con il James Clerk Maxwell Telescope (JCMT) alle Hawaii e confermate usando 45 antenne di ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) in Cile. La loro ricerca è pubblicata oggi nell’articolo Phosphine Gas in the Cloud Decks of Venus su Nature Astronomy. Il comunicato della Royal Astronomical Society è qui, e la conferenza stampa è qui sotto.

La fosfina è considerata da tempi non sospetti un biomarcatore o firma biologica (biosignature), ossia un indicatore della presenza di vita, perché esistono solo due modi conosciuti per produrla in quantità su un pianeta roccioso: industrialmente oppure tramite microbi che vivono in ambienti privi di ossigeno.

In entrambi i casi, insomma, se c’è fosfina c’è vita; ma dato che la presenza di industrie nell’atmosfera venusiana è piuttosto improbabile, resta solo l’ipotesi della presenza di microbi extraterrestri. Infatti i processi geologici (fulmini, vulcani, minerali scagliati dalla superficie, interazioni con la luce solare) non generano quantità paragonabili a quelle trovate nell’atmosfera di Venere, che sono diecimila volte maggiori di quelle generabili tramite questi processi, sempre ammesso che nell’inferno venusiano non ci sia qualche altro processo che non conosciamo ancora e che genera fosfina in quantità. Oltretutto la fosfina si degrada nel corso del tempo e quindi c’è bisogno di qualche fenomeno che la generi costantemente.

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È presto per dire che abbiamo scoperto con certezza la vita fuori dalla Terra, e che per di più l’abbiamo scoperta praticamente sull’uscio di casa invece che su qualche mondo lontanissimo, ma le premesse sono molto buone, anche perché tutto indica che Venere fosse un pianeta ospitale per la vita prima dell’innesco di un effetto serra catastrofico. La vita avrebbe avuto tempo di formarsi per poi adattarsi e rifugiarsi negli strati alti dell’atmosfera, fluttuandovi in eterno; è già stato immaginato un possibile ciclo vitale. E c’è sempre quella faccenda delle striature scure anomale dell’atmosfera di Venere, che assorbono la luce ultravioletta e sono composte da particelle di natura ignota ma grandi all’incirca quanto batteri terrestri. Se ne sta già occupando la sonda giapponese Akatsuki.

Serviranno però ulteriori osservazioni, e magari qualche sonda, per sciogliere i dubbi. Già ora, per esempio, potremmo verificare con i nostri telescopi e radiotelescopi se questa presenza inattesa di fosfina ha un andamento stagionale o altre variazioni compatibili con una fonte biologica, e se è accompagnata dalla presenza di altri gas associati alla vita come la conosciamo.


A proposito di sonde, Venere è bellissima da vedere, con la sua coltre perenne di nubi che la rende il pianeta più luminoso, ma in realtà è un postaccio: al suolo, le temperature sono sufficienti a fondere il piombo (circa 460 °C) e la pressione è letale (circa 90 volte quella terrestre). Un astronauta finirebbe schiacciato e cotto in men che non si dica. L’atmosfera, oltretutto, è quasi interamente composta da anidride carbonica, con una spruzzatina di azoto, e le nuvole sono fatte di acido solforico. Pochissime sonde si sono avventurate in questo inferno e pur essendo state costruite come carri armati refrigerati sono durate soltanto poche ore.

Però queste sono le condizioni sulla superficie. Nell’atmosfera venusiana, fra 48 e 60 chilometri dalla crosta cotta del pianeta, c’è una cosiddetta “zona temperata”, ossia una zona nella quale la temperatura è simile a quelle terrestri (ossia varia fra 0 e 100 °C) e la pressione è quella che si incontra sulla Terra. Ed è proprio lì che è stata rilevata la presenza di fosfina.

Come si può verificare se quella fosfina è davvero prodotta da forme di vita? C‘è un modo, e anche molto avventuroso. Si chiama HAVOC (che significa “caos” in inglese): un nome piuttosto adatto per una missione che consiste fondamentalmente nel far precipitare verso Venere un veicolo spaziale che si porta appresso l’involucro sgonfio di un dirigibile, e lo gonfia mentre sta precipitando.

Un viaggio verso Venere dura, con le attuali tecnologie, quattro o cinque mesi (le sonde Mariner 2 e Venus Express hanno impiegato rispettivamente 110 e 153 giorni). Arrivarci non è un problema, anche usando un vettore medio-pesante come un Falcon Heavy o un Delta IV Heavy, senza dover scomodare giganti come l’SLS. La parte difficile è tornare a casa con i campioni d’atmosfera raccolti (e con gli eventuali microorganismi alieni in sospensione in quell’atmosfera). Infatti Venere ha una gravità di poco inferiore a quella terrestre e quindi serve un vettore di ritorno molto più potente di quello necessario per tornare da Marte.

Il progetto HAVOC (High Altitude Venus Operational Concept), fattibile appunto con vettori medio-pesanti già esistenti, prevede un inserimento in orbita intorno a Venere a circa 300 chilometri di quota, dopo una frenata aerodinamica negli strati più tenui dell’atmosfera. Poi il veicolo (con o senza equipaggio) frena ancora usando i propri propulsori per uscire dall'orbita e precipita nell’atmosfera, proteggendosi con il proprio scudo termico, fino a circa 80 km di quota. A quel punto apre un paracadute supersonico (visto che sta cadendo a circa 1600 km/h), che lo rallenta, e comincia a gonfiare l’involucro mentre sta scendendo. 

Se tutto va bene, il veicolo-dirigibile sgancia il paracadute e inizia a fluttuare nell’atmosfera venusiana a circa 60 km di quota, restando lì per il tempo necessario per raccogliere i campioni e fare tutte le osservazioni scientifiche del caso. Gli eventuali astronauti-aeronauti potrebbero uscire all’aperto indossando una semplice tuta resistente agli agenti chimici, non pressurizzata, e un respiratore, passeggiando magari su una balconata fra le nuvole di Venere, cercando di non pensare che per il 90% sono fatte di acido solforico e che se l’involucro si sgonfia scenderanno inesorabilmente verso un forno grande come l’intero pianeta.

Se l’equipaggio non c’è e l’analisi viene fatta in loco con strumenti robotici, la missione non ha bisogno di prevedere un ritorno. Se invece si tratta di tornare sulla Terra, allora il veicolo si sgancia dall’involucro e inizia a precipitare verso l’inferno sottostante, sperando che i motori di risalita si accendano correttamente e lo riportino nello spazio e da lì verso casa.

Non è facile, insomma, ma non è impossibile. Sarebbe davvero ironico se si scoprisse che ci siamo dedicati per decenni a Marte mentre la vita ci aspettava svolazzante nelle nubi di Venere. “È ora di dare priorità a Venere”, ha tweetato poco fa Jim Bridenstine, Administrator della NASA. Speriamo in bene.

 

Fonti aggiuntive: Earthsky.org; Space.com; Astrobiology.com. Questo articolo fa parte delle Storie di Scienza: una serie libera e gratuita, resa possibile dalle donazioni dei lettori. Se volete saperne di più, leggete qui. Se volete fare una donazione, potete cliccare sul pulsante qui sotto. Grazie!

2020/08/06

Storie di Scienza 11: Il “Segnale Wow” e i “dischi volanti” di Kenneth Arnold, tormentoni ufologici da smontare

Ultimo aggiornamento: 2020/08/06 17:35. 

Il cosiddetto “Segnale Wow” è uno dei capisaldi dell’ufologia e della ricerca scientifica di indizi di vita intelligente extraterrestre; ne ho già parlato in altre occasioni qui e qui, ma torno sull’argomento perché c’è un dettaglio importante da aggiungere alla vicenda. Ma cominciamo dall’inizio.

È il 15 agosto del 1977. Star Wars è uscito da poco nelle sale cinematografiche e sta spopolando in tutto il mondo. L’astronomo Jerry Ehman, però, quel giorno è preso da altre cose. Lavora al radiotelescopio Big Ear della Ohio State University: quel giorno guarda i tabulati che escono dalla stampante dello strumenti, prende una biro rossa, cerchia alcuni dati e scrive un grosso “Wow!” sulla stampa. Come George Lucas, non sa ancora di aver dato vita a una leggenda spaziale che durerà decenni.

Il Big Ear. Credit: Bigear.org/NAAPO (via INAF).

La grafica delle stampanti è ancora terribilmente primitiva, per cui le informazioni vengono semplicemente rappresentate come caratteri. La sequenza 6EQUJ5 che Ehman ha cerchiato evidenzia una serie di livelli di intensità, in cui 1 è il minimo e Z è il massimo. Quella lettera U indica un segnale straordinariamente potente. Sarà il segnale più potente mai ricevuto dal Big Ear.

Al centro, Jerry Ehman. Credit: Credit: Bigear.org/NAAPO (via INAF).



Ma la potenza non è l’unica cosa che ha stupito Ehman: il segnale ha un’origine molto ristretta, che suggerisce una fonte puntiforme. Usa una frequenza vicina a 1420.406 MHz, quella ritenuta ottimale per le comunicazioni interstellari (perché attraversa facilmente le grandi nubi di polvere cosmica), e ha una larghezza di banda di meno di 10 kHz, senza il tipico rumore intorno delle emissioni radio naturali.

C’è un altro aspetto che rende insolito questo segnale: il Big Ear non è orientabile e sfrutta la rotazione terrestre per spazzare il cielo man mano che la Terra si sposta, per cui può osservare un punto specifico della volta celeste solo per 72 secondi prima che esca dal suo campo di ricezione. Un segnale che duri di più o di meno è probabilmente un disturbo terrestre (satelliti artificiali compresi). Il Segnale Wow dura esattamente settantadue secondi. Non solo: il suo picco di intensità è proprio a metà della sua durata. È come se la sua fonte si spostasse insieme alle stelle fisse.

Insomma, ci sono tutte le caratteristiche che ci si aspetta da un segnale artificiale proveniente dallo spazio profondo. Con un tocco finale di ironia che ne cementa il mito nella storia della ricerca di vita extraterrestre: questo segnale viene captato una sola volta e mai più.

Negli anni successivi, i migliori radiotelescopi del mondo verranno puntati ripetutamente verso la porzione di cielo (nella costellazione del Sagittario) dalla quale sembra essere arrivato il segnale, ma non verrà mai ricevuto nulla di significativo.

Ancora oggi, il Segnale Wow viene presentato spesso come uno degli episodi più credibili di possibile contatto via radio con civiltà tecnologiche extraterrestri.

È meraviglioso ipotizzare che si sia trattato dell’ultimo, disperato segnale di qualche civiltà lontanissima, arrivato alle nostre orecchie elettroniche quando erano troppo primitive per poterne capire il contenuto. Se solo avessimo avuto i radiotelescopi di oggi e la capacità di registrare quel segnale, chissà.

Ma quando ci sono di mezzo le emozioni e c’è clamore mediatico è indispensabile togliere di mezzo l’inevitabile patina di mitologia che offusca i fatti scientifici, costi quel che costi. Ho passato decenni a fantasticare sul Segnale Wow e su cosa forse ci siamo persi perché eravamo troppo presi a finanziare armi per investire seriamente in ricerca. Fino a che ho conosciuto Jill Tarter.

Per chi non la conoscesse, Jill Tarter è un’astrofisica, che per anni ha diretto il centro SETI, dedicato alla ricerca scientifica di indicatori astronomici di tecnologie non terrestri. Il suo lavoro in questo campo ha ispirato il personaggio di Ellie Arroway nel film Contact di Bob Zemeckis (1997), tratto dall’omonimo romanzo dell’astronomo Carl Sagan. Se non l’avete letto, fatelo: è una lettera d’amore alla scienza e la conferma che si possono raccontare storie emozionanti e meravigliose senza rinunciare al rispetto della realtà scientifica.

Jodie Foster interpreta Ellie Arroway in Contact (1997).


Incontro di persona Jill Tarter per la prima volta al festival della scienza Starmus a Trondheim, nel 2017: cordiale, disponibile, lucida e precisa, scambia due chiacchiere con tutti prima e dopo la sua conferenza sulla difficoltà di distinguere le comunicazioni di civiltà tecnologiche dai segnali naturali dell’Universo e su alcuni “trucchi” per intercettarle. È meraviglioso sentir parlare di queste cose con un tono di assoluta praticità e concretezza, così diverso dai deliri messianici degli ufologi.

Jill Tarter a Starmus 2017, Trondheim. Credit: Max Alexander/Starmus.

Ritrovo Jill Tarter allo Starmus 2019, che si tiene a Zurigo. È lì, durante un panel che la vede ospite insieme all’astronoma Natalie Batalha, all’etologo e biologo evolutivo Richard Dawkins, e agli astrofisici Michel Mayor e Rafael Rebolo (scusate se è poco), che stronca con i fatti il mito del “Segnale Wow”.

Il radiotelescopio Big Ear che lo ricevette, spiega Tarter, era dotato di due ricevitori, e un segnale che fosse realmente arrivato dallo spazio sarebbe stato captato prima da uno dei ricevitori e poi dall’altro. Ma il segnale fu captato solo da uno dei due, e quindi è estremamente improbabile che provenisse realmente dallo spazio. Punto, fine.

Rimango a bocca aperta. A fine conferenza riascolto le sue parole nella mia registrazione del panel:

"That signal did not pass the test that I would have required to consider it extraterrestrial and deliberate. There were two receivers on the telescope, and a signal that was truly coming from a distance from the sky would have shown up in one receiver first, and then in the second receiver. It passed only the first part of that. It did not get verified, so I don't lose any sleep over the Wow signal. There's no way of really knowing what it was."

“Quel segnale non ha superato il test che io avrei preteso per considerarlo extraterrestre e intenzionale. C’erano due ricevitori sul telescopio, e un segnale che fosse provenuto realmente da lontano nel cielo sarebbe comparso prima in uno dei ricevitori e poi nel secondo. Ha superato solo la prima parte di questo [criterio]. Non è stato verificato, per cui non perdo il sonno sul segnale Wow. Non c’è modo di sapere veramente di cosa si trattò.”

Come mai non sapevo nulla di questo dettaglio decisivo dei due punti separati di captazione? Perché viene spesso taciuto o dimenticato nel racconto della storia del “Segnale Wow”. Eppure in realtà è già presente nelle parole scritte dallo stesso Jerry Ehman oltre vent’anni fa, nel 1997, sul sito del radiotelescopio, Bigear.org. Ehman conferma che il segnale misterioso fu ricevuto da uno solo dei due punti, e infatti il famoso tabulato del segnale contiene un solo picco anziché due.

Scrive Ehman:

The Big Ear used a dual-horn feed system [...] As the earth's rotation swung the two beams across the celestial sky, a signal (with positive energy) from a radio source was first seen by the west (negative) horn and generated an inverted bell-curve-like shape on the chart recorder. Within a minute or so after the negative horn response was essentially complete (i.e., showed little energy from the source), the same radio source began to be scanned by the east (positive) horn and a non-inverted (right-side up) bell-curve-like shape on the chart recorder was generated [...] However, this was not the case for the Wow! source.

Il Big Ear usava un sistema a due illuminatori a tromba [...] Man mano che la rotazione terrestre spostava i due fasci sulla volta celeste, un segnale (con energia positiva) da una fonte radio veniva visto prima dalla tromba ovest (negativa) e generava sul registratore grafico una forma a curva a campana inversa. Nel giro di circa un minuto dopo che era stata sostanzialmente completata la risposta della tromba negativa (ossia mostrava poca energia dalla fonte), la stessa fonte radio cominciava ad essere scansionata dalla tromba est (positiva) e veniva generata sul registratore grafico una forma a curva a campana non invertita (diritta) [...] Tuttavia questo non accadde per la fonte Wow!


Il debunking della vicenda, insomma, era lì da leggere da più di vent’anni, eppure la leggenda del possibile contatto radio extraterrestre si è diffusa lo stesso, sommergendo per pura quantità i resoconti originali.

È un fenomeno che si verifica spesso quando c’è di mezzo una storia accattivante: i fatti che la stroncano vengono tralasciati e quelli che la avvalorano vengono amplificati.

---

Se volete un altro esempio famoso di questo fenomeno, restiamo in campo ufologico. 

Quando fu coniato il termine dischi volanti”, nel 1947, queste due parole non indicavano la forma degli oggetti non identificati, ma il modo in cui si muovevano nel cielo, come piatti fatti rimbalzare sul pelo dell’acqua. 

Il testimone oculare dell‘avvistamento che diede il via all’ufologia moderna, l’aviatore Kenneth Arnold, descrisse a un giornalista della United Press il movimento degli oggetti volanti che aveva visto con queste parole: “like a saucer if you skip it across the water” (come un piattino quando lo fai rimbalzare sull’acqua). Arnold non disse che gli oggetti erano a forma di piattino. Disse che erano “piatti come una teglia per torte e a forma di pipistrello” o “simili a teglie per torte tagliate a metà con una sorta di triangolo convesso sul retro” o che erano “di tipo circolare” (“circular-type”, intendendo forse “curvilineo”) e senza coda, con una larghezza di circa trenta metri. Il fatto stesso che parlò di larghezza implica una differenza di dimensioni in senso longitudinale e laterale, come del resto mostrato da Arnold stesso in foto come questa:

Kenneth Arnold mostra nel 1966 una ricostruzione dell’oggetto volante da lui avvistato (The Atlantic/AP).

Va detto, fra l’altro, che a quell’epoca l’aviazione militare statunitense stava collaudando in gran segreto dei velivoli ispirati dai progetti nazisti e aventi forme molto simili a quella mostrata da Arnold nella ricostruzione grafica, e quindi è possibile che gli oggetti avvistati dal pilota fossero veicoli militari segreti.

Una replica moderna di un Horten Ho 2-29, velivolo sperimentale a getto stealth nazista (Rediff.com/Northrop Grumman).


Arnold non disse che i suoi UFO erano a forma di piattino, eppure il nome flying saucer prese subito piede e da allora l’iconografia ufologica rappresenta quasi sempre oggetti a forma di disco; il significato originale delle parole di Arnold si è perso. È così che si costruiscono i miti.


Una versione molto ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Le Scienze nel 2019. Questo articolo fa parte delle Storie di Scienza: una serie libera e gratuita, resa possibile dalle donazioni dei lettori. Se volete saperne di più, leggete qui. Se volete fare una donazione, potete cliccare sul pulsante qui sotto. Grazie!




2018/02/21

Video: “Dove sono tutti quanti? Il mistero della vita extraterrestre”

Venerdì scorso ho partecipato come relatore a Un venerdì tra le stelle, a Omegna (VB), con una conferenza dedicata al celebre paradosso di Fermi a proposito della mancanza di segnali di civiltà extraterrestri. Il video integrale della conferenza è qui. Buona visione.

2017/11/30

No, non sono stati trovati batteri “extraterrestri” sulla Stazione Spaziale Internazionale

Ultimo aggiornamento: 2017/12/01 11:50.

Varie testate stanno riportando la notizia che sarebbero stati trovati dei batteri “alieni” o “extraterrestri” all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale:


La prima cosa da fare, in casi come questi, è andare all’origine della notizia, che è questo articolo in russo della TASS (copia su Archive.is). Si tratta di un’intervista molto corposa al cosmonauta Anton Shkaplerov, che sta per tornare nello spazio ed è stato fra l’altro comandante della Soyuz che ha portato alla Stazione Spaziale Internazionale Samantha Cristoforetti. L’intervista è ricca di riflessioni e informazioni sulle attività spaziali e sulla vita da cosmonauta e non ha nulla di sensazionale.

In questo articolo della TASS c’è, fra le tante altre informazioni, una breve parte nella quale Shkaplerov parla di quelli che alcuni media stanno chiamando “batteri alieni” (la traduzione arriva subito sotto, non preoccupatevi):

— Неоднократно сообщалось об эксперименте по поиску жизни на внешней обшивке МКС. В чем заключается этот эксперимент, что космонавты делают во время его проведения? Откуда жизнь на обшивке МКС?

— Есть такой эксперимент, он состоит из нескольких частей. Во-первых, во время выхода выносятся специальные планшеты и устанавливаются на внешней обшивке станции. В них содержатся различные материалы, которые сейчас применяются в космосе и которые в будущем хотят использовать для изготовления космических аппаратов. Эти планшеты находятся вне станции годами. Через определенное время мы их забираем, доставляем на Землю, и специалисты, ученые смотрят, что там есть.

Нашли бактерии, которые там три года на поверхности прожили в условиях космического пространства

Сейчас нашли бактерии, которые там три года на поверхности прожили в условиях космического пространства, где вакуум и температура колеблется от минус 150 до плюс 150, и остались живы. Такие эксперименты называются "Тест" и "Биориск".

Кроме того, во время выходов мы берем ватными тампонами мазки с внешней стороны станции. Нам с Земли указывают, где нужно взять мазок, например, в месте скопления отходов топлива, выбрасываемых при работе двигателей, или в местах, где поверхность станции более затемнена, или, напротив, где чаще попадает свет солнца. Эти тампоны мы тоже доставляем на Землю.

И теперь выяснилось, что откуда-то на этих тампонах обнаружились бактерии, которых не было при запуске модуля МКС. То есть они откуда-то прилетели из космоса и поселились на внешней стороне обшивки. Пока они изучаются и, похоже, никакой опасности не несут.

Grazie a Luca Boschini (l’autore dell’ottimo libro Il mistero dei cosmonauti perduti) e ad alcuni lettori (in particolare Raimondo C.) posso offrirvi la traduzione di questo brano:

Si è parlato ripetutamente dell'esperimento di ricerca della vita sul rivestimento esterno della ISS. In cosa consiste questo esperimento? Cosa fanno i cosmonauti durante la sua esecuzione? Da dove viene la vita sul rivestimento della ISS?

C'è un esperimento di questo genere, costituito da diverse parti. Per prima cosa, durante le uscite si portano con sé delle tavolette speciali che si installano sul rivestimento esterno della stazione. Su di esse si trovano diversi materiali, che ora vengono adottati per lo spazio e che in futuro si vuole utilizzare per la costruzione degli apparati spaziali. Queste tavolette si trovano fuori dalla stazione da anni. Dopo un certo tempo, le andiamo a prendere, le portiamo a terra e gli esperti, gli scienziati, guardano cosa c'è.

Adesso hanno trovato dei batteri, che sono vissuti là fuori sulla superficie per tre anni, nell'ambiente del vuoto cosmico, dove c'è il vuoto e la temperatura va da meno 150 a più 150, e sono rimasti vivi. Questi esperimenti si chiamano "Test" e "Biorisk".

Inoltre, durante le uscite noi prendiamo delle pennellate con dei tamponi d'ovatta sulla parte esterna della stazione. Dalla Terra ci indicano dove bisogna prendere il tampone, per esempio nel punto dove si accumulano i residui del propellente che fuoriesce durante il funzionamento dei motori, oppure nel punto dove la superficie della stazione è più in ombra o, al contrario, dove più spesso cade la luce del sole. Anche questi tamponi li mandiamo a terra.

E adesso è stato chiarito che da qualche parte in questi tamponi si sono manifestati dei batteri che non c'erano al lancio della ISS. Perciò, da qualche parte dello spazio devono essere venuti, e si sono posati sulla parte del rivestimento esterno. Per ora li stanno studiando e, pare, non recano nessun pericolo.

Tutto il clamore, insomma, deriva dall’ultimo paragrafo di questa parte dell’intervista: qualcuno ha pensato bene che se un cosmonauta parla di batteri che provengono da qualche parte dello spazio devono essere per forza batteri extraterrestri. Un’idea acchiappaclic irresistibile.

Prima di approfondire la questione scientifica, possiamo fare una semplice riflessione di buon senso. Scoprire la vita extraterrestre sarebbe clamoroso: perché un cosmonauta dovrebbe annunciarlo distrattamente, quasi per caso, insieme a tanti altri argomenti relativamente banali come la cucina e la ginnastica di bordo? Se davvero si trattasse di prove oggettive di vita aliena, l’intera intervista sarebbe dedicata a questo tema. E se ne parlerebbe nelle pubblicazioni scientifiche.

Inoltre, se si trattasse davvero di vita extraterrestre, come avrebbero fatto a decidere che si tratta proprio di batteri e non, che so, di virus o altri microorganismi? Che senso avrebbe classificare così categoricamente e rapidamente una forma di vita presumibilmente diversissima da quelle terrestri? E chi avrebbe fatto questa classificazione? Chiaramente qualcosa non quadra.

Infatti chi si occupa più seriamente di ricerca spaziale ha pubblicato articoli che spiegano la pseudonotizia: National Geographic, Slate, Popular Science chiariscono che parte del clamore deriva dalla traduzione erronea della parola russa космос, che in inglese è stata resa con outer space (spazio esterno o profondo), dando l’impressione che i batteri in questione arrivino da lontanissimo. Ma in realtà космос è semplicemente “spazio”: non implica affatto grandi distanze, visto che lo spazio inizia a cento chilometri dalla superficie terrestre (oltre la linea di Karman).

La presenza di batteri all’esterno della Stazione Spaziale Internazionale non è affatto sorprendente:
  • I componenti della Stazione non sono stati sterilizzati a fondo prima del lancio, come si fa per esempio con le sonde destinate a scendere su Marte, perché non c’è l’esigenza di non contaminare un ambiente extraterrestre.
  • La Stazione orbita a soli 400 km dalla superficie della Terra ed è quindi ancora nella termosfera, lo strato tenue dell’atmosfera terrestre nel quale si formano le aurore, dove c’è ancora abbastanza aria da frenare lievemente la Stazione (che infatti ha bisogno di essere riaccelerata periodicamente); non è impossibile che batteri sospesi nell’altissima atmosfera possano raggiungerla e depositarsi, visto che sono state trovate forme di vita anche a circa 80 km di quota (Appl Environ Microbiol. 1978 Jan;35(1):1-5).
  • Gli astronauti e cosmonauti periodicamente effettuano delle “passeggiate spaziali” (EVA) usando tute che non vengono sterilizzate e che stanno a lungo all’interno della Stazione, dove vengono toccate da tutti. La carica batterica che si accumula sull’esterno di queste tute può quindi trasferirsi alla superficie esterna della Stazione.
  • Quando gli astronauti effettuano una EVA, parte dell’atmosfera di bordo, quella presente nell’airlock (camera di compensazione), viene scaricata nello spazio e viaggia insieme alla Stazione, sulla quale può quindi portare batteri.
  • Sappiamo che molte spore e alcune forme di vita più complesse, come i tardigradi, sono in grado di sopravvivere nello spazio in condizioni estreme.

Insomma, ci sono molti motivi assai terrestri per spiegare la presenza di batteri all’esterno della Stazione. Prima di invocare spiegazioni straordinarie come quella di visitatori alieni, bisogna come sempre escludere le spiegazioni ordinarie. E magari cogliere l’occasione per imparare come funziona realmente l’Universo, che è sempre ricco di meraviglie e di sorprese.

2017/09/28

La strana storia dell’“autopsia dell’alieno” ha un seguito: a teatro

Nel 1995 il mondo intero parlò del filmato della cosiddetta “autopsia dell’alieno”: un filmato in bianco e nero di 17 minuti che mostrerebbe, appunto, l’autopsia effettuata sul cadavere di un extraterrestre precipitato nel 1947 a Roswell, nel New Mexico. Oggi lo si trova facilmente su Internet (per esempio qui; attenzione, è piuttosto impressionante), ma all’epoca molte TV nazionali pagarono fior di soldi per avere il privilegio di presentarlo ai telespettatori, che arrivarono a milioni, generando lauti incassi per le emittenti.

Sin da subito gli esperti di medicina, gli storici e gli esperti di effetti speciali segnalarono che si trattava di un falso: i metodi usati per l’autopsia erano contrari a ogni pratica medica, le riprese erano di pessima qualità e mostravano vari oggetti, oggi di uso quotidiano, che nel 1947 non esistevano ancora. Ma comunque il video divenne popolarissimo e ormai si è cementato nella cultura ufologica: molti lo conoscono ma non ne sanno le origini decisamente bizzarre.

Il video della presunta autopsia fu venduto come autentico alle TV di tutto il mondo da un imprenditore, Ray Santilli, insieme al socio Gary Shoefield, ma nove anni dopo, nel 2006, Santilli stesso ammise che non era autentico ma (a suo dire) era una “ricostruzione” di un filmato autentico che aveva visto nel 1992 e che si era deteriorato. Nessuno ha mai visto questo presunto originale deteriorato, e chi vede il video oggi non sa di queste ammissioni e di questi retroscena.

Adesso c’è una novità: un uomo di nome Spyros Melaris si è fatto avanti dicendo di essere l’autore delle finte riprese e ha raccontato tutta la propria storia in uno spettacolo teatrale a Londra, fornendo documenti e dettagli che sembrano confermare il suo ruolo di regista e autore del filmato. Dice che l’accordo originale con Santilli e Shoefield prevedeva che avrebbero realizzato il filmato e poi un documentario che avrebbe rivelato la messinscena. Melaris assoldò John Humphreys, esperto di effetti speciali che aveva lavorato alla serie TV britannica Doctor Who, e si procurò materiale chirurgico degli anni Quaranta e varie frattaglie animali. I “chirurghi” nel filmato erano in realtà lo stesso Humphreys e la compagna di Melaris.

Oggi Melaris si scusa pubblicamente per quello che ha fatto: “Per me era solo uno scherzo, un divertimento, ma ho imparato la lezione. Vorrei dire che c’è una parte importante di me che prova rimorso. Ho sottovalutato la reazione”. Ancora una volta, insomma, l’ufologia si dimostra un campo minato nel quale abbondano truffatori, impostori e ciarlatani che approfittano della passione delle persone per ricavarne soldi e popolarità: per questo è necessario essere estremamente cauti di fronte a qualunque asserzione straordinaria.


Fonti: Mysterious Universe, Paranoia Magazine.

2017/08/17

40 anni di “segnale Wow”

Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2020/08/06 17:25.

Il 15 agosto di quarant’anni fa, nel 1977, l’astronomo statunitense Jerry Ehman scrisse con una biro rossa l’esclamazione “Wow!” accanto a un segnale anomalo ricevuto dal radiotelescopio Big Ear della Ohio State University. Il segnale aveva tutte le caratteristiche che ci si aspettava da un segnale di una civiltà tecnologica extraterrestre. Ma non si è mai più ripetuto, e il mistero sulla sua origine è rimasto per decenni.

Ma Antonio Paris, professore di astronomia al St. Petersburg College, in Florida, di recente ha proposto una soluzione al mistero che ha ottenuto molta visibilità: il segnale, secondo lui, sarebbe stato prodotto per vie naturali da una cometa di passaggio. Ne avevo scritto nel 2008 e ne ho scritto in dettaglio nel numero di luglio scorso de Le Scienze, ma torno ancora brevemente sull’argomento per celebrare il quarantennale di questo rompicapo scientifico.

Vado subito al sodo: la spiegazione proposta da Paris è stata fatta a pezzi dagli esperti (la cometa non era nel punto dal quale provenne il segnale e comunque non era attiva), per cui il mistero rimane. Fra l’altro, i soliti fufologi si sono scatenati per quarant’anni a interpretare i caratteri 6EQUJ5 segnati da Ehman, senza capire che erano semplicemente indicazioni di intensità (1 = minima, Z = massima). All’epoca le stampanti non avevano grandi capacità grafiche, per cui l‘andamento del segnale veniva rappresentato usando lettere e numeri.

Vi propongo un po’ di bibliografia utile per approfondire l’argomento, che è una bella palestra di allenamento al metodo scientifico.


2020/08/06: C’è un aggiornamento in proposito.

2017/08/02

Antibufala mini: sì, la NASA cerca un “responsabile della protezione planetaria”. Ma non per difenderci dagli alieni

Catharine Conley.
OK, è una woman in black.
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La notizia che la NASA assume un “responsabile della protezione planetaria” (planetary protection officer) viene presentata in modo decisamente semiserio, come se sull’argomento esistesse una sola battutina possibile:

-- La NASA cerca "Men in Black", RSI
-- Nasa cerca 'Men in black' per proteggere la Terra, Ticinonews
-- NASA is hiring a Planetary Protection Officer to protect Earth from alien harm, USA Today, che nel testo cita i MIB.

Ma in realtà si tratta di una notizia reale e seria, anche se spiegata poco chiaramente.

L’offerta di lavoro della NASA chiarisce infatti che l’incarico consiste principalmente nel trovare modi per evitare che le nostre sonde spaziali vadano a contaminare altri mondi. Per esempio, andare a cercare la vita su Marte con una sonda piena di microorganismi terrestri sarebbe un’idea poco intelligente e rischierebbe di far fuori eventuale vita marziana.

Molto secondariamente, la “protezione planetaria” riguarda anche la Terra, nel senso che eventuali campioni di altri mondi riportati sul nostro pianeta dai nostri veicoli spaziali dovranno essere tenuti in opportuno isolamento per evitare contaminazioni.

Planetary protection is concerned with the avoidance of organic-constituent and biological contamination in human and robotic space exploration. NASA maintains policies for planetary protection applicable to all space flight missions that may intentionally or unintentionally carry Earth organisms and organic constituents to the planets or other solar system bodies, and any mission employing spacecraft, which are ntended to return to Earth and its biosphere with samples from extraterrestrial targets of exploration.

Un altro dettaglio importante è che non si tratta di una mansione nuova: come spiega egregiamente The Verge, il problema della contaminazione nei due sensi fu sollevato già nel 1967, con una serie di trattati dell’ONU (United Nations Treaties and Principles on Outer Space), e la NASA ha già una persona che copre questo ruolo. Si chiama Catharine Conley e dirige l’Office of Planetary Protection.

Il clamore dei media è stato tale che la NASA ha dovuto pubblicare un video di chiarimento:



Quindi le risatine sono fuori luogo: oltre alle considerazioni di rispetto verso la natura, lanciare una sonda spaziale costa miliardi. Farlo per poi trovarsi ad analizzare campioni di vita portati maldestramente dalla Terra perché un tecnico ha starnutito vicino alla sonda sarebbe stupido.

2017/07/21

“Strano segnale” da una stella vicina? Interessante, ma non è ET

Ultimo aggiornamento: 2017/07/27 8:00. 

Come sempre quando il mondo scientifico annuncia di aver ricevuto segnali interessanti dal cosmo, anche stavolta si è scatenato l’entusiasmo di chi spera che si tratti finalmente della prova dell’esistenza della vita intelligente al di fuori della Terra. Ma vista l’importanza della questione e la frequenza dei falsi allarmi, è meglio andarci cauti.

Qualche giorno fa Repubblica ha titolato (piuttosto sobriamente, va detto) “Ross 128, captato uno strano segnale dalla stella vicina”, a firma di Giacomo Talignani, e ha riassunto bene i fatti tecnici, tratti dall’annuncio originale: il professor Abel Méndez, dell’Università di Puerto Rico, ha descritto la ricezione, presso il sensibilissimo radiotelescopio di Arecibo, di un segnale radio “strano” dalla stella Ross 128, che si trova a 11 anni luce da noi nella costellazione della Vergine (praticamente sotto casa).

Tutte le stelle emettono segnali radio insieme alla luce visibile e ad altre radiazioni, per cui l’esistenza di un segnale in sé non è insolita: però le caratteristiche di questo segnale erano anomale (pulsazioni quasi periodiche), per cui meritavano un approfondimento.

Méndez ha messo subito le mani avanti dicendo che “l’ipotesi aliena è in fondo all’elenco dopo molte altre spiegazioni migliori” e che ha “una Piña Colada pronta per festeggiare se i segnali sono di natura astronomica” e pubblicando un tweet molto chiaro: “Aspettiamo tutti i risultati prima di giungere a una conclusione sulla natura dei segnali da #Ross128 questa settimana. Spoiler: niente alieni”.

Ieri (20 luglio) è arrivata la spiegazione: è molto probabile che si tratti di un disturbo radio proveniente da un satellite artificiale terrestre. Niente Piña Colada, insomma.

Non è la prima volta che capita che un segnale apparentemente promettente si riveli poi molto banale, come quando ci si accorse dopo cinque anni di mistero cosmico che il radiotelescopio di Parkes, in Australia, aveva in realtà captato il segnale manifestamente artificiale di un forno a microonde.

Ed è per questo che prima di pensare a ET è prudente scartare una per una, pazientemente, tutte le altre ipotesi alternative.


2017/07/27 8:00. Il SETI Institute ha annunciato che il segnale proviene dai satelliti geostazionari in orbita intorno alla Terra. La verifica è stata resa possibile dal radiotelescopio Allen Telescope Array e da osservazioni congiunte di altri radiotelescopi.


Fonti aggiuntive: The Verge, Washington Post.

2017/07/05

Stamattina sono stato a Radio3Scienza: Roswell, segnale “wow” e ufologia

Questa mattina sono stato ospite di Radio3Scienza per parlare del celebre incidente ufologico di Roswell, di cui ricorre il settantesimo anniversario e che nasconde una storia assolutamente affascinante (i militari mentirono davvero, ma per una ragione molto speciale), e per fare il punto sull’altrettanto celebre “segnale WOW” captato nel 1977 e mai più ricevuto (la “spiegazione” cometaria proposta di recente, fra l’altro, non regge).

Ho raccontato anche la vicenda della presunta “autopsia dell’alieno”, che è stata un disastro per la credibilità dell’ufologia negli anni Novanta, e ho cercato di distinguere fra visita extraterrestre (tutta da dimostrare e affollata di ciarlatani) e vita extraterrestre (un campo di ricerca scientifica assolutamente rispettabile).

Nella stessa puntata c’è anche Raffaele Saladino, presidente della Società Italiana di Astrobiologia, e in chiusura Silvia Bencivelli racconta Alan Turing.

Se la cosa vi può interessare, trovate qui il podcast.

Ci vediamo domani sera a Gubbio per parlare di alieni?

Domani sera sarò ospite di Gubbio Scienza 2017 per un caffè scientifico intitolato “C’è vita nell’universo? Mah, un po’ il sabato sera...”, per parlare di ricerca scientifica della vita extraterrestre insieme alla professoressa Nadia Balucani.

L’appuntamento è per giovedi 6 luglio alle 21 in piazza Giordano Bruno, ma date un’occhiata anche al resto del programma della manifestazione, ricco di interventi ed eventi interessanti. Fra l’altro, Gubbio è legata a doppio filo alla vita extraterrestre e alla necessità di un programma spaziale, visto che è lì che è stata trovata la conferma geologica di un grande impatto asteroidale che ha probabilmente portato all’estinzione i dinosauri.

Come consueto, porterò con me qualche copia cartacea del mio libro sui complottismi lunari.

Visto che a fine mese iniziano le consegne delle auto elettriche Tesla Model 3 come quella che ho prenotato un anno fa e che mi dovrebbe arrivare entro fine 2018, ho provato a pianificare il viaggio dal Maniero Digitale (Lugano) a Gubbio come se lo dovessi fare con quest’auto, che ha 350 km di autonomia stimata nel modello base:

– partenza da casa con il “pieno”;
– tappa per ricarica a Modena dopo 255 km al Supercharger dell'Hotel Baia del Re (con relativo pranzo mentre l’auto ricarica e fa il “pieno” per una quarantina di minuti),
– tappa per ricarica al Supercharger di Fano dopo 206 km (mezz’ora per un buon caffè, rispondere a qualche mail e sgranchirsi le gambe)
–  arrivo a Gubbio dopo 77 km, con autonomia sufficiente a tornare a Fano per il viaggio di ritorno.

Rispetto al viaggio che ho fatto realmente (in auto a benzina) ci sarebbe stata soltanto una sosta leggermente più lunga a Fano e la strada percorsa sarebbe stata la stessa: anche se l’auto a benzina sarebbe stata in grado di fare il viaggio senza soste in termini di autonomia, abbiamo comunque dovuto fare due soste per mangiare e sgranchirci.

L’importanza di una rete di ricarica veloce e capillare e di una buona autonomia è insomma fondamentale per il successo delle auto elettriche, che in queste condizioni possono sostituire quelle tradizionali con un minimo adattamento delle abitudini di viaggio anche su percorsi lunghi.

2016/09/01

Il presunto segnale “alieno” captato in Russia è molto probabilmente terrestre

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L’entusiasmo mediatico per l’annuncio di un possibile “segnale sospetto da 95 anni luce” (Repubblica) fatto cautamente dal SETI Institute (ente che cerca segnali radio di origine intelligente extraterrestre) è solo rumore: come era prevedibile, è arrivata la smentita.

La presunta scoperta proveniva da un radiotelescopio russo, il RATAN-600, e risaliva a maggio del 2015. La direzione del cielo dalla quale proveniva il segnale radio anomalo (potente e concentrato in una banda piuttosto stretta di frequenze intorno a 11 GHz) era la costellazione di Ercole. I ricercatori russi avevano proposto come possibile origine del segnale la stella HD 164595, di tipo simile al Sole e dotata di almeno un pianeta di tipo simile a Nettuno. È bastato questo per scatenare la fantasia degli appassionati a briglia sciolta e dei giornalisti in cerca di titoli ad effetto.

Ma la realtà e il SETI Institute stesso hanno smorzato subito gli entusiasmi prematuri: il comunicato ufficiale dell’Osservatorio Astrofisico Speciale dell’Accademia Russa delle Scienze dice che “elaborazioni ed analisi successive [al rilevamento iniziale] hanno rivelato che è molto probabilmente di origine terrestre... si può dire con fiducia che nessun segnale desiderato è stato finora rilevato”. Il 28 agosto scorso il SETI Institute ha usato i propri strumenti per ascoltare la stessa porzione di cielo e non ha trovato nulla. Ha poi ripetuto l’ascolto il 30 agosto, sempre senza risultati favorevoli.

La scoperta di un segnale radio proveniente da un’intelligenza extraterrestre sarebbe sensazionale. Per questo bisogna esaminare i possibili candidati con molta cautela prima di lanciarsi in fantasie. I criteri di base sono che il segnale deve provenire da una zona fissa del cielo (altrimenti potrebbe essere un satellite o un riflesso radio di un’emittente terrestre), deve ripetersi (altrimenti potrebbe essere un disturbo spurio) e deve essere confermato da radiotelescopi distanti fra loro (altrimenti potrebbe essere un disturbo locale). Il segnale in questione non soddisfaceva neanche questi criteri essenziali.

Un’informazione realmente efficace, non sensazionalista, dovrebbe sapere queste cose e non pubblicare nulla se non vengono superati almeno questi requisiti. Ma chi sa resistere all’idea accattivante di un incontro via radio con ET e di un titolone acchiappaclic? Il risultato è una serie continua di falsi allarmi che ridicolizzano un campo scientifico serio ed importante e creano un’assuefazione da “al lupo, al lupo” nel pubblico. Peccato.


Fonti: Astronomy.com, TASS, Ars Technica.

2015/10/15

“Tecnologia aliena” avvistata intorno a una stella? Andiamoci piano

Ultimo aggiornamento: 2015/12/21 00:05.

Lasciando da parte i toni un po' sensazionalisti, la notizia pubblicata da Repubblica a proposito delle anomalie nella luce di una stella che fanno ipotizzare una “tecnologia aliena” ha un fondo di realtà. Piccolo, ma ce l'ha.

Tutto parte da un articolo scientifico in attesa di revisione e pubblicazione, che ha esplorato le insolite variazioni della luce provenienti dalla stella KIC 8462852, a circa 1500 anni luce dalla Terra, e registrate dalla sonda spaziale Kepler. Queste variazioni vengono usate in astronomia per identificare la presenza di pianeti extrasolari, perché se il pianeta passa davanti alla stella (dal punto di vista della sonda Kepler) ne riduce molto leggermente la luminosità (tipicamente di circa l'1% o meno) con cadenza periodica.

Le variazioni di KIC 8462852 sono insolite perché non sono periodiche e sono molto estreme: fino al 22% di diminuzione di luminosità. Questo indica che l'oggetto che copre la stella ha una forma irregolare ed è colossale: paragonabile a metà della larghezza della stella. Nessun pianeta, neppure un super-Giove, si avvicina neanche lontanamente a queste dimensioni.

Agli astronomi finora manca un fenomeno naturale conosciuto che possa spiegare tutti i dati (anche se alcuni fenomeni li spiegano quasi tutti), per cui è venuta spontanea l'ipotesi di un fenomeno artificiale, specificamente una civiltà aliena che costruisca immense strutture orbitanti per catturare l'energia della propria stella: un concetto non nuovo, noto come sfera di Dyson e immortalato fra l'altro in una bellissima puntata di Star Trek (Relics).

Contrariamente a quanto scrive Repubblica, le civiltà extraterrestri non sono affatto “argomento tabù per la scienza”, per cui gli astronomi ne discutono apertamente e concretamente, proponendo una nuova campagna di osservazioni astronomiche della stella: costerebbe poco e non richiederebbe nuovi apparati. E comunque stiano le cose quella stella è scientificamente interessante perché è insolita.

Questa storia è una bella dimostrazione del fatto che sarebbe impossibile tenere segreta la scoperta di una civiltà extraterrestre: gli astronomi non riuscirebbero a tenere la bocca chiusa e farebbero a cazzotti per essere i primi a pubblicare la notizia e assicurarsi fama eterna.

Trovate maggiori dettagli tecnici nel bell'articolo dell'astronomo Phil Plait per Slate e in questo articolo di The Atlantic (entrambi in inglese).


2015/12/21: La NASA segnala che un’indagine separata della medesima stella, già svolta esaminando i dati raccolti dal telescopio spaziale Spitzer, che osserva l’universo nell'infrarosso, rende molto probabile una spiegazione cometaria: oggetti rocciosi (o artificiali) avrebbero un’emissione termica che invece manca. Questa mancanza è giustificabile ipotizzando delle comete, per natura molto fredde, che orbitano in uno sciame intorno alla stella. Ma per saperne di più serviranno ulteriori osservazioni.
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