Il cosiddetto “Segnale Wow” è uno dei capisaldi dell’ufologia e della ricerca scientifica di indizi di vita intelligente extraterrestre; ne ho già parlato in altre occasioni qui e qui, ma torno sull’argomento perché c’è un dettaglio importante da aggiungere alla vicenda. Ma cominciamo dall’inizio.
È il 15 agosto del 1977. Star Wars è uscito da poco nelle sale cinematografiche e sta spopolando in tutto il mondo. L’astronomo Jerry Ehman, però, quel giorno è preso da altre cose. Lavora al radiotelescopio Big Ear della Ohio State University: quel giorno guarda i tabulati che escono dalla stampante dello strumenti, prende una biro rossa, cerchia alcuni dati e scrive un grosso “Wow!” sulla stampa. Come George Lucas, non sa ancora di aver dato vita a una leggenda spaziale che durerà decenni.
Il Big Ear. Credit: Bigear.org/NAAPO (via INAF). |
La grafica delle stampanti è ancora terribilmente primitiva, per cui le informazioni vengono semplicemente rappresentate come caratteri. La sequenza 6EQUJ5 che Ehman ha cerchiato evidenzia una serie di livelli di intensità, in cui 1 è il minimo e Z è il massimo. Quella lettera U indica un segnale straordinariamente potente. Sarà il segnale più potente mai ricevuto dal Big Ear.
Al centro, Jerry Ehman. Credit: Credit: Bigear.org/NAAPO (via INAF). |
Ma la potenza non è l’unica cosa che ha stupito Ehman: il segnale ha un’origine molto ristretta, che suggerisce una fonte puntiforme. Usa una frequenza vicina a 1420.406 MHz, quella ritenuta ottimale per le comunicazioni interstellari (perché attraversa facilmente le grandi nubi di polvere cosmica), e ha una larghezza di banda di meno di 10 kHz, senza il tipico rumore intorno delle emissioni radio naturali.
C’è un altro aspetto che rende insolito questo segnale: il Big Ear non è orientabile e sfrutta la rotazione terrestre per spazzare il cielo man mano che la Terra si sposta, per cui può osservare un punto specifico della volta celeste solo per 72 secondi prima che esca dal suo campo di ricezione. Un segnale che duri di più o di meno è probabilmente un disturbo terrestre (satelliti artificiali compresi). Il Segnale Wow dura esattamente settantadue secondi. Non solo: il suo picco di intensità è proprio a metà della sua durata. È come se la sua fonte si spostasse insieme alle stelle fisse.
Insomma, ci sono tutte le caratteristiche che ci si aspetta da un segnale artificiale proveniente dallo spazio profondo. Con un tocco finale di ironia che ne cementa il mito nella storia della ricerca di vita extraterrestre: questo segnale viene captato una sola volta e mai più.
Negli anni successivi, i migliori radiotelescopi del mondo verranno puntati ripetutamente verso la porzione di cielo (nella costellazione del Sagittario) dalla quale sembra essere arrivato il segnale, ma non verrà mai ricevuto nulla di significativo.
Ancora oggi, il Segnale Wow viene presentato spesso come uno degli episodi più credibili di possibile contatto via radio con civiltà tecnologiche extraterrestri.
È meraviglioso ipotizzare che si sia trattato dell’ultimo, disperato segnale di qualche civiltà lontanissima, arrivato alle nostre orecchie elettroniche quando erano troppo primitive per poterne capire il contenuto. Se solo avessimo avuto i radiotelescopi di oggi e la capacità di registrare quel segnale, chissà.
Ma quando ci sono di mezzo le emozioni e c’è clamore mediatico è indispensabile togliere di mezzo l’inevitabile patina di mitologia che offusca i fatti scientifici, costi quel che costi. Ho passato decenni a fantasticare sul Segnale Wow e su cosa forse ci siamo persi perché eravamo troppo presi a finanziare armi per investire seriamente in ricerca. Fino a che ho conosciuto Jill Tarter.
Per chi non la conoscesse, Jill Tarter è un’astrofisica, che per anni ha diretto il centro SETI, dedicato alla ricerca scientifica di indicatori astronomici di tecnologie non terrestri. Il suo lavoro in questo campo ha ispirato il personaggio di Ellie Arroway nel film Contact di Bob Zemeckis (1997), tratto dall’omonimo romanzo dell’astronomo Carl Sagan. Se non l’avete letto, fatelo: è una lettera d’amore alla scienza e la conferma che si possono raccontare storie emozionanti e meravigliose senza rinunciare al rispetto della realtà scientifica.
Jodie Foster interpreta Ellie Arroway in Contact (1997). |
Incontro di persona Jill Tarter per la prima volta al festival della scienza Starmus a Trondheim, nel 2017: cordiale, disponibile, lucida e precisa, scambia due chiacchiere con tutti prima e dopo la sua conferenza sulla difficoltà di distinguere le comunicazioni di civiltà tecnologiche dai segnali naturali dell’Universo e su alcuni “trucchi” per intercettarle. È meraviglioso sentir parlare di queste cose con un tono di assoluta praticità e concretezza, così diverso dai deliri messianici degli ufologi.
Jill Tarter a Starmus 2017, Trondheim. Credit: Max Alexander/Starmus. |
Ritrovo Jill Tarter allo Starmus 2019, che si tiene a Zurigo. È lì, durante un panel che la vede ospite insieme all’astronoma Natalie Batalha, all’etologo e biologo evolutivo Richard Dawkins, e agli astrofisici Michel Mayor e Rafael Rebolo (scusate se è poco), che stronca con i fatti il mito del “Segnale Wow”.
Il radiotelescopio Big Ear che lo ricevette, spiega Tarter, era dotato di due ricevitori, e un segnale che fosse realmente arrivato dallo spazio sarebbe stato captato prima da uno dei ricevitori e poi dall’altro. Ma il segnale fu captato solo da uno dei due, e quindi è estremamente improbabile che provenisse realmente dallo spazio. Punto, fine.
Rimango a bocca aperta. A fine conferenza riascolto le sue parole nella mia registrazione del panel:
"That signal did not pass the test that I would have required to consider it extraterrestrial and deliberate. There were two receivers on the telescope, and a signal that was truly coming from a distance from the sky would have shown up in one receiver first, and then in the second receiver. It passed only the first part of that. It did not get verified, so I don't lose any sleep over the Wow signal. There's no way of really knowing what it was."
“Quel segnale non ha superato il test che io avrei preteso per considerarlo extraterrestre e intenzionale. C’erano due ricevitori sul telescopio, e un segnale che fosse provenuto realmente da lontano nel cielo sarebbe comparso prima in uno dei ricevitori e poi nel secondo. Ha superato solo la prima parte di questo [criterio]. Non è stato verificato, per cui non perdo il sonno sul segnale Wow. Non c’è modo di sapere veramente di cosa si trattò.”
Come mai non sapevo nulla di questo dettaglio decisivo dei due punti separati di captazione? Perché viene spesso taciuto o dimenticato nel racconto della storia del “Segnale Wow”. Eppure in realtà è già presente nelle parole scritte dallo stesso Jerry Ehman oltre vent’anni fa, nel 1997, sul sito del radiotelescopio, Bigear.org. Ehman conferma che il segnale misterioso fu ricevuto da uno solo dei due punti, e infatti il famoso tabulato del segnale contiene un solo picco anziché due.
Scrive Ehman:
The Big Ear used a dual-horn feed system [...] As the earth's rotation swung the two beams across the celestial sky, a signal (with positive energy) from a radio source was first seen by the west (negative) horn and generated an inverted bell-curve-like shape on the chart recorder. Within a minute or so after the negative horn response was essentially complete (i.e., showed little energy from the source), the same radio source began to be scanned by the east (positive) horn and a non-inverted (right-side up) bell-curve-like shape on the chart recorder was generated [...] However, this was not the case for the Wow! source.
Il Big Ear usava un sistema a due illuminatori a tromba [...] Man mano che la rotazione terrestre spostava i due fasci sulla volta celeste, un segnale (con energia positiva) da una fonte radio veniva visto prima dalla tromba ovest (negativa) e generava sul registratore grafico una forma a curva a campana inversa. Nel giro di circa un minuto dopo che era stata sostanzialmente completata la risposta della tromba negativa (ossia mostrava poca energia dalla fonte), la stessa fonte radio cominciava ad essere scansionata dalla tromba est (positiva) e veniva generata sul registratore grafico una forma a curva a campana non invertita (diritta) [...] Tuttavia questo non accadde per la fonte Wow!
Il debunking della vicenda, insomma, era lì da leggere da più di vent’anni, eppure la leggenda del possibile contatto radio extraterrestre si è diffusa lo stesso, sommergendo per pura quantità i resoconti originali.
È un fenomeno che si verifica spesso quando c’è di mezzo una storia accattivante: i fatti che la stroncano vengono tralasciati e quelli che la avvalorano vengono amplificati.
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Se volete un altro esempio famoso di questo fenomeno, restiamo in campo ufologico.
Quando fu coniato il termine “dischi volanti”, nel 1947, queste due parole non indicavano la forma degli oggetti non identificati, ma il modo in cui si muovevano nel cielo, come piatti fatti rimbalzare sul pelo dell’acqua.
Il testimone oculare dell‘avvistamento che diede il via all’ufologia moderna, l’aviatore Kenneth Arnold, descrisse a un giornalista della United Press il movimento degli oggetti volanti che aveva visto con queste parole: “like a saucer if you skip it across the water” (come un piattino quando lo fai rimbalzare sull’acqua). Arnold non disse che gli oggetti erano a forma di piattino. Disse che erano “piatti come una teglia per torte e a forma di pipistrello” o “simili a teglie per torte tagliate a metà con una sorta di triangolo convesso sul retro” o che erano “di tipo circolare” (“circular-type”, intendendo forse “curvilineo”) e senza coda, con una larghezza di circa trenta metri. Il fatto stesso che parlò di larghezza implica una differenza di dimensioni in senso longitudinale e laterale, come del resto mostrato da Arnold stesso in foto come questa:
Kenneth Arnold mostra nel 1966 una ricostruzione dell’oggetto volante da lui avvistato (The Atlantic/AP). |
Va detto, fra l’altro, che a quell’epoca l’aviazione militare statunitense stava collaudando in gran segreto dei velivoli ispirati dai progetti nazisti e aventi forme molto simili a quella mostrata da Arnold nella ricostruzione grafica, e quindi è possibile che gli oggetti avvistati dal pilota fossero veicoli militari segreti.
Una replica moderna di un Horten Ho 2-29, velivolo sperimentale a getto stealth nazista (Rediff.com/Northrop Grumman). |
Arnold non disse che i suoi UFO erano a forma di piattino, eppure il nome flying saucer prese subito piede e da allora l’iconografia ufologica rappresenta quasi sempre oggetti a forma di disco; il significato originale delle parole di Arnold si è perso. È così che si costruiscono i miti.
Una versione molto ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Le Scienze nel 2019. Questo articolo fa parte delle Storie di Scienza: una serie libera e gratuita, resa possibile dalle donazioni dei lettori. Se volete saperne di più, leggete qui. Se volete fare una donazione, potete cliccare sul pulsante qui sotto. Grazie!