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Adoro la tecnologia spaziale russa: è dannatamente
pratica. Al diavolo l’estetica, la complessità e la sofisticazione: con un approccio più da fabbrica di boiler che da gioiellieri, i russi hanno collezionato e tuttora collezionano risultati eccezionali.
Adesso si parla molto delle nuove immagini dalla Luna scattate dai cinesi usando un veicolo robotico sofisticato, ma oggi ricorre il cinquantenario di una delle più eleganti dimostrazioni di questo modo russo rustico di esplorare lo spazio: il 3 febbraio 1966, infatti, atterrò sulla Luna la sonda sovietica
Luna 9, che nei giorni successivi trasmise le prime immagini ravvicinate del suolo lunare nell’Oceano delle Tempeste. Gli inglesi le intercettarono e le pubblicarono prima dei russi, con un beffardo
scoop, ma questa è un’altra storia, che racconto nel numero de
Le Scienze di questo mese (
“Fregati dalla Luna”, nel numero 570 della rivista). Quello che vorrei raccontarvi qui è come i russi riuscirono, prima di chiunque altro, a posare un veicolo sulla superficie della Luna cinquant'anni fa: è una lezione di ingegnerizzazione della semplicità che andrebbe ripassata spesso da chi risolve tutto con un
“lo sistemiamo dopo col software aggiornato”.
La sonda (immagine qui accanto) pesava circa 1600 chili e aveva un razzo di discesa che veniva attivato negli ultimi istanti della caduta verso la Luna (un po' come fa SpaceX oggi per far atterrare i suoi razzi Falcon). Ma la tecnologia dei motori a razzo degli anni Sessanta non consentiva di regolare con affidabilità e precisione la spinta in modo da consentire un atterraggio delicato. Soluzione tipicamente russa: lasciare che la sonda si sfracelli, ma mettere a bordo un modulo eiettabile incapsulato in un
air-bag (la parte scura in alto a destra nella foto qui accanto). Sotto la sonda c'era un’asta: quanto quest’asta toccava il terreno, si attivava l'espulsione verso l'alto del modulo, che ricadeva e semplicemente
rimbalzava sulla superficie lunare fino a fermarsi da qualche parte.
Risolto alla buona il problema di sopravvivere all’impatto, restava quello di disporre il modulo di atterraggio in assetto verticale, con la telecamera e le antenne in alto. Altra soluzione tipicamente russa: il modulo era a forma di ghianda, con il baricentro spostato verso il basso, per cui il modulo non doveva fare altro che rotolare fino a disporsi spontaneamente nell’assetto desiderato. A questo punto si aprivano quattro petali che stabilizzavano il modulo e fungevano oltretutto da riflettori per le quattro antenne a stilo che dovevano trasmettere le immagini della Luna verso la Terra.
Per riprendere la panoramica fu usata una tecnica da sommergibili: la telecamera era pesante e massiccia, per cui fu tenuta ferma ma puntata su uno specchio che sporgeva dalla sommità del modulo di atterraggo e ruotava, fungendo quindi da periscopio.
Ma la chicca più bella è la soluzione usata per indicare nelle fotografie qual è la verticale locale. Sensori? Grafici sovrimpressi? Telemetria ricevuta a Terra? No. Semplicemente
quattro fili a piombo appesi alle antenne e visibili alla telecamera. Geniale.
Fonti: NASA, NASA, Zarya.