È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della
Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo
trovate presso
www.rsi.ch/ildisinformatico
(link diretto) e qui sotto.
Le puntate del Disinformatico sono ascoltabili anche tramite
feed RSS,
iTunes,
Google Podcasts
e
Spotify (salvo che questa puntata venga bandita perché contiene una canzone
controversa).
Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle
fonti di questa puntata, sono qui sotto.
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[CLIP: Heart on My Sleeve - "Drake & The Weeknd" di Ghostwriter]
State ascoltando Heart on My Sleeve, una canzone uscita neanche una
settimana fa e subito bandita da YouTube, Tidal e Spotify e in via di
sparizione da TikTok dopo circa 15 milioni di visualizzazioni. La rimozione
sta avvenendo su richiesta diretta dell’etichetta discografica UMG, Universal
Music Group, che considera illegale
questo brano perché a suo dire non rispetta i suoi accordi con le piattaforme
di streaming e viola il copyright.
Infatti le voci, che avrete probabilmente riconosciuto, non sono in realtà
quelle di Drake e The Weeknd. O meglio, in un certo senso sono le loro,
ma loro non hanno mai cantato questo brano. Un software di intelligenza
artificiale ha “ascoltato” le loro voci, ne ha imparato le caratteristiche
peculiari e ha generato voci sintetiche che hanno quelle stesse
caratteristiche, usandole per eseguire un brano originale. È giusto farlo? È
legale? È la fine della musica come la conosciamo, perché gli artisti verranno
soppiantati da loro cloni digitali, pilotati dall’onnipresente intelligenza
artificiale?
Questa è la storia di come la tecnologia di registrazione, la
digitalizzazione, lo streaming e ora l’evoluzione esplosiva dell’intelligenza
artificiale stanno trasformando caoticamente l’industria musicale, creando
scenari inattesi che includono le paure di chi si guadagna da vivere con la
musica e gli entusiasmi di chi vede queste innovazioni come strumenti di
libertà e creatività per tutti.
Benvenuti alla puntata del 21 aprile 2023 del Disinformatico, il
podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie
strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo.
[SIGLA di apertura]
L’industria musicale è un’anomalia storica
Siamo ormai abituati da tempo ad avere migliaia di brani musicali nelle
memorie dei nostri smartphone e milioni di altri a portata di mano grazie ai
servizi di streaming audio e video. Poter riascoltare qualunque artista,
compresi quelli del passato, ci sembra normalissimo, e ci sembra altrettanto
normale che un artista si guadagni da vivere andando in sala di registrazione,
incidendo dei brani e vendendo copie di quelle registrazioni, magari senza mai
esibirsi in pubblico. Ma in realtà questo modello commerciale è un’anomalia,
ed è anche un’anomalia relativamente recente.
Per secoli, l’unico modo in cui un cantante o un suonatore di strumenti
musicali poteva campare era cantare o suonare dal vivo. Mecenatismi a parte,
se non si esibiva, non veniva pagato. Le registrazioni semplicemente non
esistevano. Se la cavavano un po’ meglio i compositori, che potevano scrivere
un brano o un’opera su commissione o comporre uno spartito e venderne copie,
oppure i fabbricanti di
carillon o di
pianole.
Ma tutte queste tecnologie di riproduzione musicale sono piuttosto recenti su
scala storica: i carillon portatili nacquero negli ultimi anni del Settecento,
la pianola fu inventata alla fine dell’Ottocento, e la vendita di massa degli
spartiti iniziò nel Novecento. Prima di queste invenzioni, o si cantava e
suonava dal vivo, o niente. E la voce dell’artista era legata
indissolubilmente alla sua presenza fisica.
Anche quando arrivarono il fonografo di Edison, nel 1877, e il grammofono di
Berliner, nel 1894, questi apparecchi meccanici in grado di registrare suoni,
strumenti e voci furono visti inizialmente come delle trovate frivole per via
del loro suono gracchiante e poco fedele. Ci volle una celebrità assoluta come
il tenore italiano
Enrico Caruso
per dare loro rispettabilità: fu lui il primo cantante a rendersi conto del
“potere mediatico”, come si dice oggi, delle tecnologie di registrazione e fu
il primo a usarle per guadagnare milioni di dollari* (cifre enormi per
l’epoca) vendendo le registrazioni della sua voce fatte fra il 1904 e
il 1920.
* Nel 1923 il
New York Times
scrisse che gli eredi di Caruso avevano ricevuto oltre 585.000 dollari per i
diritti dei due anni precedenti, ossia
10,2 milioni di dollari
di oggi.
[CLIP: Caruso in “La donna è mobile” (1908),
Wikipedia]
Poi vennero tutti gli altri, e il resto è storia: storia dell’industria
musicale. Grazie a dischi, nastri e poi supporti digitali e ora lo streaming,
la voce di un cantante è diventata un’entità distinta dal cantante stesso, un
prodotto commerciale separato che viene protetto da leggi specifiche e gestito
da un’industria, ma tutto questo soltanto da poco più di cent’anni. Per tutto
il resto della storia della cultura umana non è stato così. Su scala storica,
le case discografiche sono un fenomeno passeggero. E con l’arrivo
dell’elaborazione digitale e dell’intelligenza artificiale potrebbero essere
soppiantate.
Digitalizzazione: la pirateria diventa di massa
Quando una tecnologia crolla di prezzo e diventa facile da usare, succedono
sempre cose strane, inaspettate e dirompenti. Per capire cosa sta succedendo
adesso è utile riesplorare il passato e far emergere la parola chiave di tutta
la vicenda attuale, che è controllo.
La pirateria musicale non è un’invenzione dell’era digitale: già nel 1906 nel
Regno Unito furono adottate leggi per proteggere i compositori di musica
popolare da coloro che duplicavano abusivamente i loro
spartiti
e li rivendevano a metà prezzo. La
pirateria degli spartiti
era un problema talmente serio da giustificare irruzioni di polizia nelle
tipografie e nei negozi.
Nei decenni successivi, il fenomeno dei bootleg, ossia delle copie
abusive dei dischi, divenne più vasto; ma si trattava comunque di attività che
richiedevano macchinari complessi e ingombranti e quindi piuttosto difficili
da nascondere a lungo alle autorità. Gli utenti erano tanti, ma i
produttori di musica contraffatta erano relativamente pochi e quindi
abbastanza facili da tenere sotto controllo. Anche con l’avvento degli
impianti stereo personali e dei radioregistratori a doppia piastra che
consentivano di duplicare dischi e cassette a livello amatoriale, negli anni
Ottanta del secolo scorso, la pirateria rimase un fenomeno tutto sommato
modesto per via della scomodità del procedimento, ma questo non impedì
all’industria discografica di reagire con celebri campagne terroristiche e
slogan come
Home taping is killing music (“la registrazione domestica sta uccidendo la musica”).
Quarant’anni dopo quello slogan, la musica non è ancora morta.
Il vero shock, però, arrivò con la diffusione di massa della musica digitale e
poi di Internet. I CD erano in sostanza delle raccolte di file audio, pronte
da duplicare ad alta velocità e senza la perdita di qualità tipica delle copie
analogiche. E a giugno del 1999 nacque
Napster, il primo circuito
di scambio musicale peer-to-peer, seguito da Gnutella, Freenet,
LimeWire, Kazaa e tanti altri.
Di colpo, con Napster duplicare la musica, legalmente o meno, richiedeva
soltanto un computer, un accesso a Internet e del software gratuito. Niente
più macchinari ingombranti e costosi; non serviva neanche più il
masterizzatore per registrare copie dei CD. Di conseguenza, la pirateria
musicale divenne un fenomeno di massa, incontrollabile e su vasta scala.
Ciascun utente scaricava centinaia o migliaia di brani e li condivideva con
tutti.
Le case discografiche, allarmatissime, agirono prontamente e drasticamente,
avviando una causa già a dicembre del 1999, e Napster chiuse a luglio del
2001. Ma altri sistemi peer-to-peer
ne presero il posto, e ancora oggi i vari circuiti Torrent fanno circolare
musica, video e film tra milioni di persone al di fuori di ogni controllo
significativo dei titolari dei diritti.
La legalità di questi circuiti dipende da come funzionano, da cosa viene
scambiato e dalle leggi nazionali, ma quello che conta, in questa storia, è
che il crollo dei prezzi e della difficoltà d’uso di questa tecnologia ha
avuto l’effetto inatteso di far diventare sostanzialmente impossibili il
controllo e la repressione* di questi scambi e scaricamenti.
* Le case discografiche ci provarono, introducendo tecnologie per bloccare
la duplicazione della musica digitale su CD e nei file scaricabili, come il
cosiddetto DRM o Digital Rights Management, ma invano, tanto
che alla fine Steve Jobs, nel 2007, pubblicò una storica lettera aperta,
Thoughts on Music, nella quale disse chiaramente che i sistemi anticopia erano inutili e
controproducenti per l’industria e per gli utenti legittimi (e anche per le
vendite degli iPod di Apple) e quindi andavano aboliti. Nel giro di pochi
anni la sua proposta fu adottata da tutte le case discografiche, facendo
esplodere le vendite legali di musica digitale.
Scaricare e conservare
la musica, però, sta passando di moda. Oggi prosperano servizi commerciali e
legali di streaming, come TikTok, YouTube e Spotify, che in sostanza mandano
al singolo utente in tempo reale il brano desiderato di volta in volta e
riportano gli utenti a dipendere da un sistema di distribuzione centralizzato,
opposto a quello decentrato dei circuiti
peer-to-peer.
Questo stesso modello centralizzato è attualmente usato dai sistemi di
intelligenza artificiale più popolari, come Midjourney, DALL-E, Stable
Diffusion o ChatGPT: normalmente l’utente li adopera collegandosi ai loro
siti, senza dover installare nulla. Questo permette alle aziende e alle
autorità di esercitare un controllo centrale sulle attività degli utenti,
reprimendo quelle ritenute inaccettabili o illegali, come per esempio la
generazione di false immagini pornografiche di persone reali a scopo di
molestia e ricatto.
Certo, esistono delle versioni installabili di questi prodotti, ma sono
complicate da installare e configurare e richiedono computer potenti e lunghi
tempi di addestramento ed elaborazione e quindi sono al di fuori della portata
di moltissimi utenti non esperti. Almeno per ora. Ma le cose stanno cambiando
in fretta. Molto in fretta.
L’app per diventare Kanye
A fine marzo uno YouTuber,
Roberto Nickson, ha
trovato su Reddit un modello della voce di Kanye West generato tramite
intelligenza artificiale da ignoti. Nel giro di due ore e mezza ha scritto,
registrato e diffuso un
video
nel quale ha prima eseguito con la propria voce uno spezzone di rap inventato
da lui [CLIP] e poi ha applicato a quello spezzone il modello vocale
trovato su Reddit. Il risultato è quello che sembra un brano originale inedito
di Kanye West [CLIP]. Questa breve dimostrazione di Roberto Nickson ha
superato i 33 milioni di visualizzazioni solo su Twitter.
Secondo Nickson
sono già in lavorazione modelli vocali di altri artisti, come Eminem, Tupac,
Michael Jackson e altri ancora, tutti assolutamente non autorizzati e tutti
man mano più facili da utilizzare. E la tecnologia galoppa, per cui i modelli
diventano anche man mano più fedeli.
Di questo passo, dice Nickson, tra pochi mesi potremo ascoltare brani inediti
cantati dalle voci di artisti famosi, senza neppure sapere che sono in realtà
generati da software. Frank Sinatra che canta una canzone di Adele? Rihanna
che canta in perfetto italiano? Si può fare, fuori da ogni controllo. Basta
che ci sia in giro un numero sufficiente di campioni vocali di buona qualità.
Enrico Caruso sintetico che canta il repertorio di Lady Gaga forse lo
scamperemo, ma per tutto il resto il materiale da campionare non manca.
Per ora le case discografiche hanno reagito con interventi centralizzati: nel
caso del finto brano di Drake e The Weeknd, hanno tentato di bloccare la sua
circolazione agendo sui gestori dei sistemi di intelligenza artificiale e sui
grandi distributori di contenuti, ossia i social network e i servizi di
streaming. Ma la canzone sintetica continua a circolare lo stesso attraverso
mille altri canali (compreso questo podcast, che spero non venga bloccato da
Spotify).
Quando questi software saranno disponibili sotto forma di app da installare
sullo smartphone, il controllo e la repressione saranno impraticabili e
qualunque intervento legislativo sarà sostanzialmente inapplicabile. E
l’incentivo economico non manca: quel finto brano di Drake e The Weeknd, nei
pochi giorni in cui è rimasto online, ha fruttato al suo creatore quasi
duemila dollari calcolando la tariffa peggiore di Spotify, che è 3
millesimi di dollari per ciascun ascolto, secondo la
BBC.
In sintesi: questa tecnologia sta per trasformare completamente l’industria
musicale, e sta per farlo a una velocità infinitamente superiore a quella di
qualunque provvedimento di legge. Anzi, lo sta già facendo. La rivista
specializzata
Variety, per esempio, ha notato che su TikTok sono già in crescita le canzoni
generate tramite l’intelligenza artificiale dai fan, che prendono brani
esistenti e li alterano in modo che sembrino cantati da un altro artista. E i
fan di Drake usano regolarmente un generatore basato sull’intelligenza
artificiale per
creare
brani nello stile di questo rapper canadese.
Leggi, case discografiche e Spotify
La legalità del finto brano di Drake e The Weeknd è tutta da chiarire. UMG lo
definisce chiaramente illegale e le piattaforme di streaming lo hanno rimosso
per scrupolo e per evitare complicazioni, ma le leggi attuali sul copyright
riguardano la realizzazione di copie di una registrazione di una specifica
interpretazione; secondo alcuni
esperti,
l’imitazione della pura voce di un artista, fatta da un software che non
campiona, non rimonta spezzoni, ma impara uno stile e lo fa per un brano
inedito, probabilmente non è soggetta a vincoli di legge. Anzi, la canzone
risultante potrebbe anche essere considerata un’opera creativa a sé stante e
quindi essere protetta dalla legge, a patto ovviamente di non attribuirla al
cantante imitato. UMG, però, ribatte che serve il consenso dei titolari per
dare in pasto a un’intelligenza artificiale delle canzoni sotto copyright.
Ma c’è da considerare il fatto che anche alcuni artisti stanno usando questa
tecnologia senza cavillare troppo sulle autorizzazioni. Per esempio, di
recente David Guetta ha usato il sito
Uberduck.ai per imitare la voce di Eminem,
senza chiedergli il consenso, aggiungendola a un suo brano, che
non può
però distribuire commercialmente. Questo:
[CLIP]
E infine va notato che il fronte delle aziende dell’industria musicale non è
così compatto come potrebbe sembrare. Gli artisti e le case discografiche
mugugnano in coro di fronte al boom della musica generata dall’intelligenza
artificiale, ma le piattaforme di streaming hanno un atteggiamento un po’
differente.
Queste piattaforme, infatti, devono ovviamente girare parte dei propri
introiti agli artisti di cui diffondono i brani. E altrettanto ovviamente, se
questi artisti non esistessero in carne e ossa ma fossero generati dal
software, non ci sarebbe bisogno di pagarli. Quindi se la gente pagasse per
ascoltare musica sintetica prodotta dall’intelligenza artificiale, magari
nello stile di qualche cantante o musicista famoso, i guadagni delle
piattaforme di streaming sarebbero massimizzati e quelli delle case
discografiche verrebbero azzerati.
Forse è questa la spiegazione di un piccolo mistero scovato su Spotify pochi
giorni fa da un utente,
Adam Faze: decine di
brani musicali
strumentali che hanno titoli e autori completamente differenti ma durano tutti
esattamente 53 secondi, hanno immagini di copertina assolutamente blande e
generiche e soprattutto sono tutti estremamente simili.
[CLIP]
Non è la prima scoperta del suo genere. Già nel 2017
Music Business Worldwide
aveva pubblicato un elenco di circa 50 artisti inesistenti che però erano
fortemente presenti su Spotify e solo lì: senza nessun’altra presenza online,
né su altre piattaforme di streaming né su Instagram, Facebook, SoundCloud o
altro. Questi finti artisti erano stati ascoltati ben 520 milioni di volte,
per un controvalore di circa 3 milioni di dollari.
Secondo Music Business Worldwide si tratta di persone che accettano compensi
microscopici per produrre brani musicali riempitivi molto banali, allo scopo
di “ridurre la percentuale della musica delle etichette discografiche legittime
nelle playlist… in modo che Spotify possa ridurre i propri costi e
l’influenza delle etichette”.
Anche il quotidiano svedese
Dagens Nyheter
[paywall] ha
trovato
una vicenda analoga nel 2022: centinaia di falsi nomi di artisti su Spotify, i
cui brani sono riconducibili in realtà a una ventina di autori. Uno di questi
compositori usava ben 62 pseudonimi e aveva generato da solo quasi 8 milioni
di ascolti al mese.
Per le piattaforme di streaming, sostituire questi artisti fittizi con musica
generata direttamente dall’intelligenza artificiale sembra essere il passo
successivo più logico.
Siamo insomma alla confluenza di vari fenomeni: l’intelligenza artificiale
sempre più efficace, i costi di utilizzo sempre più bassi, una zona grigia
legale impossibile da colmare in tempo, degli interessi economici in conflitto
e degli utenti estremamente motivati che hanno a disposizione strumenti sempre
più potenti e sempre meno controllabili centralmente.
In queste condizioni, non ci sarebbe troppo da stupirsi se fra qualche anno
diventasse assolutamente normale avere un’app per scegliere liberamente non
solo quali canzoni vogliamo ascoltare nella nostra playlist, come
facciamo adesso, ma anche chi vogliamo che ce le canti e come le vogliamo
arrangiate, con o senza il consenso degli artisti o delle loro case
discografiche. Le loro voci non sono più loro, e non c’è nulla che possano
fare per riprenderne il controllo.
Ormai indietro non si torna, insomma, e alle etichette musicali resta solo da
decidere se vogliono cercare di opporsi invano alle novità tecnologiche o se
vogliono stare al passo con i tempi e diventare parte attiva nell’uso di
queste novità, per esempio diventando garanti dell’autenticità delle
esecuzioni canore o musicali. E potrebbero nascere nuovi mestieri, come il DJ
che propone abbinamenti creativi e azzeccati fra voce, strumenti e canzone.
Perlomeno finché anche questo compito verrà delegato all’intelligenza
artificiale.
Fonti aggiuntive:
The Verge,
Medium,
Britannica,
Financial Times
(copia su Archive.is),
BBC (copia d’archivio),
New York Post,
BBC.