Si va in farmacia, si cerca un test di gravidanza, e c’è l’imbarazzo della scelta: scegliere quello tradizionale, con uno speciale foglietto di carta che cambia colore in base al risultato del test, o uno di quelli moderni, elettronico e digitale, che mostra il risultato sotto forma di parole presentate su un display a cristalli liquidi?
Certo, quello elettronico è più costoso, però insomma è digitale, quindi sarà più preciso e userà una tecnologia più moderna, giusto?
Un ricercatore informatico, Foone, ha scoperto che non è proprio così. Il test di gravidanza elettronico che ha esaminato, un prodotto svizzero, è fondamentalmente un sensore che si limita a guardare il colore assunto dallo stesso, identico foglietto di carta usato nei test tradizionali e indicare lo stato di gravidanza o meno in base a quel colore.
In altre parole, il principio di funzionamento di entrambi i tipi di test è identico, ma quello elettronico dà l’impressione di essere più moderno. Il problema, a parte il costo (12 dollari contro i 20 centesimi del test cartaceo), è che il test elettronico genera molta più spazzatura. In pratica contiene un circuito integrato, tre LED, due sensori di luce, una batteria e un display, il cui unico scopo è leggere il foglietto di carta del test tradizionale. E tutto questo si butta dopo un solo utilizzo.
Non solo: visto che il test elettronico è alimentato da una batteria, che potrebbe scaricarsi col tempo, c’è il rischio che la carta chimica venga illuminata insufficientemente e che quindi il sensore non ne legga correttamente i colori, dando una risposta sbagliata. Non ha senso usare tutta questa elettronica per fare una cosa che chiunque è in grado di fare usando semplicemente i propri occhi.
Foone, però, non si è fermato a segnalare l’ingannevolezza e lo spreco di questi dispositivi digitali notando che il processore aveva più potenza di calcolo dei primi personal computer (i PC IBM); ha anche sostituito il display e il processore del dispositivo in modo che ci potessero girare il celebre videogioco Doom.
Yesterday I had a lot of retweets and reddit posts and such for playing Doom on a pregnancy test. But as I explained then, it wasn't really PLAYING on a pregnancy test, it was just a video being played back, not an interactive game.
Ricordate quel Gundam alto 18 metri in costruzione a Yokohama di cui scrivevo ad agosto? Beh, sta cominciando a muoversi. Nel video qui sotto le riprese sono accelerate 4 o 2 volte, ma anche tenendo conto che nella realtà il robot si muove molto più lentamente l’effetto è notevole.
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Le immagini delle sonde esplorative che abbiamo inviato su Marte sono meravigliose, ma spesso è difficile capire la scala delle formazioni che mostrano. L’artista digitale Seán Doran ha trovato una soluzione semplice, elegante e intuitiva a questa difficoltà: aggiungere un astronauta in scala alle foto reali della superficie marziana. Il risultato è straordinario.
Quanto tempo passerà prima che quell’astronauta ci sia davvero?
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Che senso ha un sito come Onemoretry.app, che mostra l’immagine della webcam del computer in ritardo di vari secondi? Molto più di quel che si potrebbe pensare a prima vista.
Onemoretry è la creazione di Tom Lum, che come skater si è reso conto che era molto scomodo registrarsi col telefonino per rivedersi mentre provava una nuova acrobazia con lo skateboard: significava far partire la registrazione, fare la prova, fermare la registrazione, cercare il punto in cui aveva fatto la prova, e poi cancellare e ricominciare. Perché non creare un software che facesse tutto questo in automatico?
Tom Lum è anche un informatico, per cui si è scritto da solo il software e già che c’era ha pensato di metterlo a disposizione di tutti gratuitamente.
A parte lo skateboard, Onemoretry è ideale per provare vestiti (per vedersi di spalle, per esempio), per provare un passo di danza, esercitarsi con un gioco di prestigio e per mille altre situazioni. Oltretutto il sito non acquisisce nulla, perché la registrazione e l’elaborazione avvengono sul computer dell’utente, e questo vuol dire che può essere usato anche senza essere connessi a Internet: basta visitare il sito, caricare la pagina di Onemoretry, dare i permessi di accesso a webcam e/o microfono, e poi ci si può scollegare. Il ritardo e la durata del loop di registrazione sono entrambi regolabili.
In Canada un ventenne è stato colto dalla polizia apparentemente addormentato nel posto di guida di una Tesla Model S che correva a oltre 140 km/h, col sedile reclinato. Anche il sedile del passeggero anteriore era reclinato e la persona che lo occupava sembrava essere addormentata. Il conducente è stato multato per eccesso di velocità e incriminato per guida pericolosa.
La vicenda, accaduta a luglio scorso, sta facendo il giro del mondo (Electrek; Tio; Vaielettrico.it) perché ripropone la questione delle auto con guida assistita e dell’incoscienza di chi scambia un assistente di guida per un sostituto.
Le automobili dotate di questi sistemi (non solo Tesla, ma molte altre marche) rendono molto chiaro, a ogni accensione, che si tratta di assistenti di guida e che il conducente resta in ogni momento responsabile, anche legalmente, per la condotta del veicolo. Ma c’è sempre qualche imbecille che decide di ignorare qualunque avviso.
Va chiarito, ancora una volta, che questi assistenti di guida sono estremamente limitati: funzionano correttamente soltanto su strade semplici e ben contrassegnate, e si limitano in sostanza a mantenere la distanza dal veicolo che precede e a mantenere il veicolo nella corsia riconoscendo le strisce di demarcazione. Non funzionano in città e sulle strade con segnaletica orizzontale complessa, scadente o assente (tratti di strada con strisce temporanee per lavori in corso o anche semplicemente con il sole basso di fronte); non sono in grado di gestire situazioni complesse; e non sono in grado di riconoscere un veicolo fermo che occupa parzialmente la corsia.
Chiunque pensi che una Tesla o un’altra marca possano “guidare da sole” si sbaglia gravemente, e se si mette al volante di uno di questi veicoli pensando di potersi fare un pisolino mentre l’auto è in movimento è un imbecille irresponsabile.
Per evitare abusi, i costruttori hanno installato sistemi di rilevamento dell’attenzione di vario genere, dalle telecamere che verificano la direzione dello sguardo del conducente a dei rilevatori di presenza delle mani sul volante, ma c’è sempre qualche incosciente che decide di aggirarli perché si ritiene più furbo dei progettisti del veicolo. I risultati, purtroppo, sono spesso fatali, sia per il conducente, sia per gli altri utenti della strada.
2020/09/18 20:00
Ho ricevuto conferma dalla polizia canadese che la foto mostrata nel loro tweet raffigura proprio la Tesla Model S coinvolta nella notizia:
La distorsione delle forme del veicolo è probabilmente dovuta all’effetto rolling shutter della fotocamera digitale utilizzata o all’uso di un obiettivo fortemente grandangolare.
Il comunicato stampa della polizia descrive la vicenda specificando che si tratta di una Model S del 2019, quindi piuttosto recente e pertanto dotata di hardware di assistenza di guida avanzato (telecamere che guardano in tutte le direzioni oltre al radar frontale, con riconoscimento degli oggetti), e prudentemente dice che il veicolo sembrava procedere in modalità di guida assistita mentre il conducente e il passeggero apparentemente dormivano. Viene inoltre descritta in parte la dinamica dell’intervento della polizia: l’auto avrebbe addirittura accelerato dopo che l’agente ha attivato le luci d’emergenza sul proprio veicolo. Non è chiaro come l’agente sia riuscito a far accostare l’auto.
On Thursday, July 9, at
approximately 4 p.m., Alberta RCMP received a complaint of a car
speeding south on Highway 2 near Ponoka. The car appeared to be
self-driving, travelling over 140 km/h, with both front seats completely
reclined and both occupants appearing to be asleep.
An Alberta
RCMP Traffic Services member located the vehicle, a 2019 Tesla Model S.
After the responding Officer activated emergency lights on their
vehicle, the Tesla automatically began to accelerate. The Officer was
able to obtain radar readings on the vehicle, confirming that it had
automatically accelerated up to exactly 150 km/h. After pulling over the
vehicle, RCMP charged the driver, a 20-year-old male from British
Columbia, with speeding and a 24-hour licence suspension for fatigue.
After
further investigation and consultation with Crown Counsel, a Criminal
Code charge of Dangerous Driving was laid against the driver, who was
served with a summons for court in December.
"Although
manufacturers of new vehicles have built in safeguards to prevent
drivers from taking advantage of the new safety systems in vehicles,
those systems are just that — supplemental safety systems," says
Superintendent Gary Graham of Alberta RCMP Traffic Services. "They are
not self-driving systems, they still come with the responsibility of
driving."
2020/09/20 7:30
Per chi non avesse familiarità con l’assistente di guida di Tesla (il cosiddetto Autopilot), le informazioni di base sono qui sul sito dell’azienda e spiegano chiaramente che questo assistente richiede sempre e comunque l’attenzione del conducente:
Do I still need to pay attention while using Autopilot?
Yes. Autopilot is a hands-on driver assistance system that is intended
to be used only with a fully attentive driver. It does not turn a Tesla
into a self-driving car nor does it make a car autonomous.
Before enabling Autopilot, you must agree to “keep your hands on the
steering wheel at all times” and to always “maintain control and
responsibility for your car.” Once engaged, if insufficient torque is
applied, Autopilot will also deliver an escalating series of visual and
audio warnings, reminding you to place your hands on the wheel if
insufficient torque is applied. If you repeatedly ignore these warnings,
you will be locked out from using Autopilot during that trip.
You can override any of Autopilot’s features at any time by steering,
applying the brakes, or using the cruise control stalk to deactivate.
Aggiungo, per esperienza personale con i vari modelli di Tesla, che l’Autopilot fa monitoraggio della presenza delle mani sul volante rilevando la lieve resistenza alla rotazione dello sterzo prodotta dalla massa delle mani e dai muscoli delle braccia del conducente. Se non la rileva per alcuni secondi, attiva un avviso luminoso; se continua a non rilevarla, attiva un avviso acustico; se il mancato rilevamento persiste ancora, riduce la velocità fino a fermare il veicolo.
Al momento non si può escludere che l’episodio verificatosi in Canada sia stato uno scherzo idiota degli occupanti, che potrebbero aver reclinato i sedili e finto di dormire (accelerando manualmente all’arrivo della polizia). Anche in questo caso, comunque, si tratterebbe di una condotta di guida totalmente irresponsabile.
C’è un mito molto diffuso in informatica, secondo il quale il termine “bug” (letteralmente “insetto”) usato per descrivere i difetti di un computer o del suo software sarebbe stato coniato nel 1947, esattamente alle 15.45 del 9 settembre, da parte di Grace Murray Hopper, una delle pioniere dell’informatica, creatrice dei compilatori e di gran parte dei linguaggi di programmazione COBOL e FORTRAN, matematica laureatasi a Yale nel 1934, ricercatrice informatica e
anche ufficiale della Marina degli Stati Uniti, promossa poi al grado di
contrammiraglio.
Quel giorno Grace Hopper lavorava al calcolatore elettromeccanico Mark II, un bestione lungo circa 16 metri, alto due metri e quaranta e profondo altrettanto installato alla Harvard University, e trovò nelle sue viscere elettroniche un insetto alato, incastrato in un relé. Lo appiccicò con un pezzo di nastro adesivo al suo quaderno di appunti di lavoro, con il commento “First actual case of bug being found” (“primo caso concretodi ritrovamento di un «bug»”).
Ma in realtà il termine inglese bug era già in uso in altri campi almeno sin dai tempi di Edison, nel 1889, per indicare un difetto di un circuito o di una macchina. La Pall Mall Gazette dell’11 marzo di quell’anno, infatti, riporta che “Il signor Edison... ha trascorso in bianco le due notti precedenti per scoprire un «bug» nel suo fonografo -- un’espressione che indica la risoluzione di un problema e sottintende che ci sia un insetto immaginario che si è nascosto dentro e sta causando tutti i problemi.”
Mr. Edison … had been up the two previous nights discovering a ‘bug’
in his phonograph–an expression for solving a difficulty, and implying
that some imaginary insect has secreted itself inside and is causing all
the trouble.’….
Nella sua lunghissima carriera, Grace Hopper raccontò spesso l'episodio, rendendo popolare il termine “bug” anche fra gli informatici, ma non fu lei a coniarlo: anzi, leggendo le sue annotazioni è chiaro che il termine era già in uso e lei era divertita alla scoperta di un “bug” fisico vero e proprio.
In italiano il termine “bug” viene spesso reso come “baco”, sia per assonanza, sia per il fatto che si usa il termine “bacato” per indicare qualcosa che contiene al suo interno un difetto di qualche genere.
Oculus ha presentato pochi giorni fa la versione 2 del suo visore per realtà virtuale Quest e ora propone questo dispositivo come strumento di lavoro con Oculus Infinite Office.
In sintesi, indossando l’Oculus si ha a disposizione ovunque un enorme schermo virtuale con il quale interagire direttamente con i gesti delle mani, senza dover impugnare controller. È possibile scrivere su una tastiera fisica vedendone i tasti, grazie a una modalità chiamata Spatial Passthrough che visualizza dentro il casco l’aspetto e la posizione effettiva della tastiera.
In un momento in cui molti si trovano a dover lavorare da casa senza la disponibilità di un ambiente da adibire a ufficio oppure di uno o più monitor sui quali lavorare, l’idea di avere tutto a disposizione all’interno di un visore portatile che non ha bisogno di connessioni cablate e offre riservatezza automatica è molto allettante, perlomeno nel modo in cui viene presentata nei video promozionali:
Il problema di questa proposta è che gli attuali visori sono troppo pesanti per indossarli per una giornata di lavoro. Io ho la prima versione del Quest, che pesa solo 100 grammi in più della versione 2, e indossarla a lungo affatica il collo e causa una pressione sul viso che lascia segni molto marcati. Chi si trucca, poi, ha il problema che qualunque make-up viene rimosso o sbavato nell’area di appoggio del visore sul viso.
Nel caso specifico di Oculus Infinite Office, inoltre, c’è il problema che Oculus è di proprietà di Facebook, che ora impone ai nuovi utenti Oculus di associare l’account di realtà virtuale al proprio account Facebook. Questo ha implicazioni di privacy fin troppo ovvie.
L’idea di indossare un oggetto del genere per ore in ufficio è una nuova forma di tortura digitale e apre la porta a nuove forme di lesione da stress ripetitivo.
Oggi nella puntata del Disinformatico radiofonico proverò a indossare il mio Quest per tutta la durata della puntata e condurre la puntata in questo modo. Vedremo quali saranno i risultati: nel frattempo, consiglio di moderare gli entusiasmi e di attendere versioni future, ben più leggere, dei visori per realtà virtuale.
2020/09/18 13:40. Non è andata bene. A parte il fastidio del peso sul viso, c’è il problema che la risoluzione delle telecamere del visore è molto modesta, e l’immagine in bianco e nero non aiuta.
Anche lo stitching per fondere le immagini delle varie telecamere ha una forte distorsione. Se questo è il passthrough previsto per Infinite Office, non è un buon inizio.
Ho resistito pochi minuti e sono riuscito a leggere una sola notizia usando il visore. Inoltre è ovviamente mancata completamente l’interazione con il mio collega in studio. Ringrazio Al Goritmo per lo screenshot.
Uno dei capisaldi del pensiero cospirazionista è “gli scienziati sanno, ma tacciono”. Gli scienziati hanno inventato l’automobile che va ad acqua, ma la tengono segreta. Hanno scoperto la cura per il cancro, ma non la rivelano. Hanno trovato gli alieni, ma fanno parte di una colossale congiura del silenzio.
In realtà questa visione iper-omertosa della comunità scientifica ce l’ha solo chi non ha mai conosciuto nessuno che si occupi di scienza per lavoro. Chi ha a che fare con gli scienziati, invece, sa benissimo che in realtà di fronte a una scoperta davvero sensazionale ci sarebbe sicuramente qualcuno di loro che, intenzionalmente o meno, la farebbe trapelare.
Un esempio di questa realtà verrà reso pubblico ufficialmente domani, ma è già stato diffuso in lungo e in largo dal passaparola. Anche in Rete se ne trovano ampie tracce nella cache di Google, grazie agli scienziati e giornalisti pasticcioni che hanno già preparato i comunicati stampa e gli articoli e li hanno messi online pensando che nessuno li avrebbe trovati.
Per rispetto formale all’embargo che è stato chiesto allo scopo di sincronizzare l’uscita della notizia in tutto il mondo, per ora non fornisco dettagli, ma la scoperta è davvero grossa, anche se si riassume in due lettere e una cifra.
Troverete tutti i dettagli qui sotto il 14 settembre dalle 17 ora italiana, quando cesserà formalmente l’embargo e la Royal Astronomical Society presenterà un video (incorporato qui sotto).
In ogni caso, visto che ormai l’embargo è stato violato da parecchie fonti, come Earthsky.org (addirittura due giorni fa), Astrobiology.com e Medium.com, e che io non l’ho mai sottoscritto, è inutile aspettare ancora: in sintesi, è stata rilevata una traccia chimica quasi certa di vita microbica su Venere, specificamente nella fascia alta della sua atmosfera. Ne scriverò in dettaglio stasera; nel frattempo ci sono appunto le suddette fonti in inglese che hanno già pubblicato i particolari della scoperta.
Anche il video di annuncio è trapelato; è stato rimosso ma non prima che qualcuno lo salvasse. Al momento è ripubblicato qui.
2020/09/14 19:00 - Scoperto un indicatore quasi certo di vita su Venere
Nell’atmosfera di Venere è stata trovata della fosfina (o fosfano, PH3), una molecola molto rara che, se presente in grandi quantità, è quasi sicuramente un indicatore di vita, perché non conosciamo processi non biologici che la possano generare in abbondanza. Con molta cautela, quindi, gli astronomi parlano di una possibile scoperta di vita microbica su Venere. Il comunicato stampa dell’ESO in italiano è qui.
La scoperta della fosfina nell’atmosfera di Venere è il frutto della collaborazione internazionale di ricercatori del Regno Unito, degli Stati Uniti e del Giappone, coordinati da Jane Greaves dell’Università di Cardiff, e si basa su osservazioni fatte con il James Clerk Maxwell Telescope (JCMT) alle Hawaii e confermate usando 45 antenne di ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) in Cile. La loro ricerca è pubblicata oggi nell’articolo Phosphine Gas in the Cloud Decks of Venus su Nature Astronomy. Il comunicato della Royal Astronomical Society è qui, e la conferenza stampa è qui sotto.
La fosfina è considerata da tempi non sospetti un biomarcatore o firma biologica (biosignature), ossia un indicatore della presenza di vita, perché esistono solo due modi conosciuti per produrla in quantità su un pianeta roccioso: industrialmente oppure tramite microbi che vivono in ambienti privi di ossigeno.
In entrambi i casi, insomma, se c’è fosfina c’è vita; ma dato che la presenza di industrie nell’atmosfera venusiana è piuttosto improbabile, resta solo l’ipotesi della presenza di microbi extraterrestri. Infatti i processi geologici (fulmini, vulcani, minerali scagliati dalla superficie, interazioni con la luce solare) non generano quantità paragonabili a quelle trovate nell’atmosfera di Venere, che sono diecimila volte maggiori di quelle generabili tramite questi processi, sempre ammesso che nell’inferno venusiano non ci sia qualche altro processo che non conosciamo ancora e che genera fosfina in quantità. Oltretutto la fosfina si degrada nel corso del tempo e quindi c’è bisogno di qualche fenomeno che la generi costantemente.
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È presto per dire che abbiamo scoperto con certezza la vita fuori dalla Terra, e che per di più l’abbiamo scoperta praticamente sull’uscio di casa invece che su qualche mondo lontanissimo, ma le premesse sono molto buone, anche perché tutto indica che Venere fosse un pianeta ospitale per la vita prima dell’innesco di un effetto serra catastrofico. La vita avrebbe avuto tempo di formarsi per poi adattarsi e rifugiarsi negli strati alti dell’atmosfera, fluttuandovi in eterno; è già stato immaginato un possibile ciclo vitale. E c’è sempre quella faccenda delle striature scure anomale dell’atmosfera di Venere, che assorbono la luce ultravioletta e sono composte da particelle di natura ignota ma grandi all’incirca quanto batteri terrestri. Se ne sta già occupando la sonda giapponese Akatsuki.
Serviranno però ulteriori osservazioni, e magari qualche sonda, per sciogliere i dubbi. Già ora, per esempio, potremmo verificare con i nostri telescopi e radiotelescopi se questa presenza inattesa di fosfina ha un andamento stagionale o altre variazioni compatibili con una fonte biologica, e se è accompagnata dalla presenza di altri gas associati alla vita come la conosciamo.
A proposito di sonde, Venere è bellissima da vedere, con la sua coltre perenne di nubi che la rende il pianeta più luminoso, ma in realtà è un postaccio: al suolo, le temperature sono sufficienti a fondere il piombo (circa 460 °C) e la pressione è letale (circa 90 volte quella terrestre). Un astronauta finirebbe schiacciato e cotto in men che non si dica. L’atmosfera, oltretutto, è quasi interamente composta da anidride carbonica, con una spruzzatina di azoto, e le nuvole sono fatte di acido solforico. Pochissime sonde si sono avventurate in questo inferno e pur essendo state costruite come carri armati refrigerati sono durate soltanto poche ore.
Però queste sono le condizioni sulla superficie. Nell’atmosfera venusiana, fra 48 e 60 chilometri dalla crosta cotta del pianeta, c’è una cosiddetta “zona temperata”, ossia una zona nella quale la temperatura è simile a quelle terrestri (ossia varia fra 0 e 100 °C) e la pressione è quella che si incontra sulla Terra. Ed è proprio lì che è stata rilevata la presenza di fosfina.
Come si può verificare se quella fosfina è davvero prodotta da forme di vita? C‘è un modo, e anche molto avventuroso. Si chiama HAVOC (che significa “caos” in inglese): un nome piuttosto adatto per una missione che consiste fondamentalmente nel far precipitare verso Venere un veicolo spaziale che si porta appresso l’involucro sgonfio di un dirigibile, e lo gonfia mentre sta precipitando.
Un viaggio verso Venere dura, con le attuali tecnologie, quattro o cinque mesi (le sonde Mariner 2 e Venus Express hanno impiegato rispettivamente 110 e 153 giorni). Arrivarci non è un problema, anche usando un vettore medio-pesante come un Falcon Heavy o un Delta IV Heavy, senza dover scomodare giganti come l’SLS. La parte difficile è tornare a casa con i campioni d’atmosfera raccolti (e con gli eventuali microorganismi alieni in sospensione in quell’atmosfera). Infatti Venere ha una gravità di poco inferiore a quella terrestre e quindi serve un vettore di ritorno molto più potente di quello necessario per tornare da Marte.
Il progetto HAVOC (High Altitude Venus Operational Concept), fattibile appunto con vettori medio-pesanti già esistenti, prevede un inserimento in orbita intorno a Venere a circa 300 chilometri di quota, dopo una frenata aerodinamica negli strati più tenui dell’atmosfera. Poi il veicolo (con o senza equipaggio) frena ancora usando i propri propulsori per uscire dall'orbita e precipita nell’atmosfera, proteggendosi con il proprio scudo termico, fino a circa 80 km di quota. A quel punto apre un paracadute supersonico (visto che sta cadendo a circa 1600 km/h), che lo rallenta, e comincia a gonfiare l’involucro mentre sta scendendo.
Se tutto va bene, il veicolo-dirigibile sgancia il paracadute e inizia a fluttuare nell’atmosfera venusiana a circa 60 km di quota, restando lì per il tempo necessario per raccogliere i campioni e fare tutte le osservazioni scientifiche del caso. Gli eventuali astronauti-aeronauti potrebbero uscire
all’aperto indossando una semplice tuta resistente agli agenti chimici,
non pressurizzata, e un respiratore, passeggiando magari su una balconata fra
le nuvole di Venere, cercando di non pensare che per il 90% sono fatte di acido solforico e che se l’involucro si sgonfia scenderanno inesorabilmente verso un forno grande come l’intero pianeta.
Se l’equipaggio non c’è e l’analisi viene fatta in loco con strumenti robotici, la missione non ha bisogno di prevedere un ritorno. Se invece si tratta di tornare sulla Terra, allora il veicolo si sgancia dall’involucro e inizia a precipitare verso l’inferno sottostante, sperando che i motori di risalita si accendano correttamente e lo riportino nello spazio e da lì verso casa.
The crazy keeps coming.
When you're done, live your nightmare of falling from the airship before you launch yourself home atop a missile. pic.twitter.com/LZAX01iQnF
Non è facile, insomma, ma non è impossibile. Sarebbe davvero ironico se si scoprisse che ci siamo dedicati per decenni a Marte mentre la vita ci aspettava svolazzante nelle nubi di Venere. “È ora di dare priorità a Venere”, ha tweetato poco fa Jim Bridenstine, Administrator della NASA. Speriamo in bene.
Fonti aggiuntive: Earthsky.org; Space.com; Astrobiology.com. Questo articolo fa parte delle Storie di Scienza: una serie libera e gratuita, resa possibile dalle donazioni dei lettori. Se volete saperne di più, leggete qui. Se volete fare una donazione, potete cliccare sul pulsante qui sotto. Grazie!
Il 10 settembre scorso sono stato ospite della Rete Uno della radio svizzera nel programma Millevoci, condotto da Nicola Colotti, per un'oretta di discussione sui cospirazionismi e in particolare sugli attentati dell’11 settembre 2001. Al telefono
è stata ospite Marina Montesano, professoressa ordinaria* di Storia Medievale al Dipartimento di Civiltà antiche e moderne dell’Università di Messina e autrice del libro Mistero americano dedicato alle tesi di complotto intorno a questi attentati che hanno cambiato la storia.
A distanza di tanti anni, si comincia a perdere il ricordo di come erano realmente le cose negli Stati Uniti prima di quell’11 settembre, e quindi prosperano dubbi e teorie basate su come stanno le cose oggi. Soprattutto, il tempo consente di fare pacatamente il punto: ci sono novità delle tesi alternative? Spoiler: no. E ce ne sono nella ricostruzione tecnica dei fatti? Spoiler: sì, e anche in quella politica (esempio). Ci sono tre terabyte di dati che pochissimi conoscono.
Se vi interessa, c’è lo streaming video della trasmissione qui (inframmezzata da radiogiornale e allerte traffico):
Se vi interessa saperne di più, il blog Undicisettembre.info è a vostra disposizione. Vi consiglio di leggerne almeno le risposte alle domande più frequenti prima di chiedere qualcosa nei commenti.
Per i complottisti assatanati che si scateneranno come sempre nei commenti: lasciate perdere, verrete cestinati. Non ho tempo per i vostri deliri. I fatti tecnici sono ormai accertati. Se preferite credere a un video visto su YouTube, è vostro diritto. Come è mio diritto non perdere tempo con voi. Fatevi una vita.
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