Ieri a Genova è crollato il ponte Morandi. Ci sono decine di vittime. Questo non ha impedito agli sciacalli e agli inetti di far circolare foto che non c’entrano nulla o che travisano completamente il contesto.
La falsa foto dei danni da corrosione
Come segnalato dal collega David Puente, questa foto dei danni pre-crollo non proviene dal ponte Morandi, ma dal ponte di Ripafratta, e risale a vari anni fa:
Questa foto viene attribuita al #PonteMorandi a #Genova e ritenuta scattata qualche settimana fa. Le settimane diventano anni (la troviamo in articoli del 2011) e associata al ponte di Ripafratta.
In realtà la foto risale al 15 settembre 2001 e mostra uno dei cani da soccorso al World Trade Center; si trova su Wikimedia Commons ed è opera del giornalista Preston Keres.
Le foto della parte “erosa” del ponte: non è erosa
C’è anche questa foto che molti stanno facendo circolare credendo che mostri un assottigliamento anomalo del ponte, ma in realtà il Morandi era fatto così: il tratto centrale delle campate era strutturalmente differente e più sottile per progetto, come spiega Il Post.
La foto del pilone che “si sta appoggiando alle case”: no, è sempre stato così
Questa foto circola sui social network come “prova” che uno dei piloni restanti starebbe cedendo e si starebbe appoggiando a un edificio sottostante, ma in realtà l’edificio è sempre stato così, con una rientranza per ospitare la struttura del ponte, come segnala l’indagine di Noallebufale.it.
Il “video” del crollo del ponte: è un’animazione fatta da una TV russa
Siamo nell’era digitale, siamo tutti online, abbiamo tutti uno smartphone, ma a quanto pare ci sono persone che non riescono a rendersi conto che un video che mostrerebbe il crollo è in realtà un evidentissimo cartone animato digitale.
Non è difficile rendersi conto che è un falso, nonostante la qualità pessima della ripresa, grazie a un fatto molto semplice che non richiede nessuna competenza digitale: a Genova quel giorno pioveva a dirotto, mentre il video mostra una giornata di sole.
Come se non bastasse, questi inetti digitali pensano che il video sia segreto e che venga cancellato per nascondere chissà quali prove di chissà cosa. No, è pubblicissimo ed è un’animazione fatta da Channel One Russia. Grazie al lavoro dei colleghi di Bufale un tanto al chilo, potete vedere una copia molto meno sgranata e distorta, dalla quale si capisce chiaramente (o perlomeno si dovrebbe capire) che è un’animazione.
La foto di oggetti pendenti prima del crollo: non è la parte crollata e non sono elementi strutturali
NOTA: Questa sezione è stata riscritta estesamente dopo l’arrivo di nuove informazioni.
Una fotografia, pubblicata anche da Repubblica, sembra mostrare lesioni drammatiche al ponte, con qualcosa di filiforme che pende sotto una campata. È una delle immagini più diffuse, anche a livello internazionale, per mostrare lo stato di degrado del ponte (esempio: Daily Mail), ed è anche, almeno a prima vista, una delle più incriminanti.
Sempre Repubblica, in un altro articolo, ha scritto invece che la foto mostra lo stato del ponte Morandi “a qualche settimana dal crollo” e l’ha descritta parlando di “evidenti segni di cedimento dell’armatura metallica sotto la campata”.
Ho chiesto conferme a Repubblica via Twitter. Matteo Pucciarelli, di Repubblica, mi ha risposto pubblicamente che la foto gli “è stata girata dalla persona che l’ha scattata una settimana fa” e successivamente (il 16/8) ha spiegato che ha ricevuto personalmente la foto da un “tizio di fronte all'obitorio che trasportava cadaveri - col quale attaccai bottone per aver notizie in un giorno infernale - e che m'ha girato la foto da lui scattata”, aggiungendo che non ha “chiesto esattamente data e ora dello scatto limitandomi al suo "una settimanina fa"“. In quel momento c’erano ben altre priorità e quindi non ha approfondito ulteriormente, né desidera farlo. Rispetto la sua scelta, sia pure a malincuore. Però questo è quello che Repubblica chiama verifica.
L‘articolo di Repubblica è stato poi aggiornato un paio di giorni dopo il disastro, rimuovendo foto e didascalia senza alcuna rettifica pubblica.
la foto rappresenta una parte del ponte che non è crollata.
gli oggetti non sono elementi strutturali del ponte e non rappresentano affatto “evidenti segni di cedimento dell’armatura metallica sotto la campata” come aveva scritto Repubblica.
Questa è una versione non cerchiata della foto in questione, che ho trovato su Twitter:
Durante la diretta di Rainews è stata mostrata una ripresa nella quale si vedono gli stessi oggetti, che quindi sono tuttora presenti (grazie a giobatta80 per aver notato e salvato questo fermo immagine):
Inoltre giobatta80 mi ha inviato questa foto, mandatagli da un suo contatto e scattata la mattina del 16 agosto:
Un altro lettore, Maurizio Monti, citato con il suo permesso, mi ha inviato questa foto scattata da lui il 16 agosto 2018 alle 19:18, secondo i dati EXIF.
Il 17 agosto, @DivirgilioC mi ha segnalato questa foto:
Si vede chiaramente che gli oggetti filiformi penzolanti non hanno nessuna funzione strutturale, ma sembrano semplicemente dei resti di cablaggi e di una rete anticaduta collocata sotto l’impalcatura:
Qualunque cosa siano, quegli oggetti sono tuttora lì e non hanno affatto l’aria di essere elementi strutturali come suggeriva invece Repubblica.
Dalle ricerche dei lettori (grazie Decio) è poi emersa un’altra foto, per certi versi analoga, che mostra altri oggetti filiformi pendenti dal ponte Morandi nei mesi precedenti, in una zona adiacente a quella mostrata nella foto in discussione:
Sul margine sinistro della foto si nota un’altra impalcatura, che è quella accanto all’oggetto filiforme nella foto in discussione.
L’immagine qui sopra risale almeno a febbraio scorso: è mostrata, ridotta, in questo articolo del Secolo XIX del 7/2/2018. L’articolo dice che si tratta di un ponteggio per la manutenzione, staccatosi per il forte vento.
Un lettore (grazie Michele_Danielli) ha trovato una foto di Google Street View, datata luglio 2018, che mostra gli stessi oggetti filiformi:
Sembra insomma che quei frammenti d’impalcatura siano rimasti penzolanti molto a lungo (da febbraio a luglio).
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La discussione sui cambiamenti climatici è da tempo politicizzata, teologizzata e lobbyizzata, tanto che si è persa di vista l’essenza della questione. Ogni tanto arriva qualcuno che riesce a riportarci al sodo. È il caso di questa vignetta di Joel Pett, vincitore del premio Pulitzer.
Ci si perde in dibattiti infiniti che presentano sempre le stesse domande: i cambiamenti climatici esistono? Se esistono, sono causati dall’umanità? Se lo sono, cosa dobbiamo fare?
Di solito non si supera neanche la prima domanda, perché arrivano i negazionisti, i dubbiosi, i giornalisti che dicono “gli scienziati sono unanimi, ma dobbiamo far sentire anche l’altra campana”, quelli che rifiutano di accettare i dati perché temono che guasteranno il loro stile di vita e dovranno spendere soldi e mortificarsi, e non si conclude nulla. Ancora una volta tutto viene rinviato.
La vignetta di Pett mostra una conferenza sul clima. Sul podio c’è un relatore che illustra i punti della politica di gestione dei cambiamenti climatici che propone: indipendenza energetica, conservazione delle foreste pluviali, sostenibilità, posti di lavoro nelle attività “verdi”, città vivibili, fonti rinnovabili, acqua e aria pulite, bambini sani, eccetera.
Dal pubblico si alza uno scettico e domanda: “Che facciamo se è tutta una grande truffa e creiamo un mondo migliore per niente?”
Il dilemma è tutto qui: se i negazionisti dei cambiamenti climatici hanno torto ma si impongono, siamo fregati e ci siamo giocati l’unico pianeta che abbiamo. Se invece hanno torto i sostenitori dell’esistenza dei cambiamenti climatici, il peggio che ci può capitare è che abbiamo ripulito il mondo. Che scelta difficile.
Per dirla con altre parole: se saltasse fuori che non c’è nessun pericolo derivante dal riscaldamento globale e che l’umanità non è responsabile, allora avremmo semplicemente fatto uno sbaglio di eccessiva prudenza. Ma se risultasse che il pericolo c’era e non abbiamo fatto nulla per rimediarlo, a quel punto sarebbe troppo tardi per fare qualunque cosa, e saremmo condannati al disastro. Messa in questi termini, non sembra una decisione difficile da prendere.
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Come preannunciato nella prima parte, ecco il resoconto del mio tentativo di aumentare l’autonomia di una “vecchia” auto elettrica e compiere un viaggio decisamente al di fuori del suo normale ambito d’uso: 75 km con un’auto che normalmente ha 80 km. E c’è una salita di 1000 metri all’arrivo, abbiamo una cinquantina di chili di legna a bordo e nessuna possibilità di ricaricare una volta arrivati a destinazione.
Preparativi
Gli aspetti economici non sono primari in questo esperimento, ma non sono neanche trascurabili. Per ridurre ancora di più i costi energetici del viaggetto, il giorno precedente (11 agosto) ho caricato in parte ELSA (la mia piccola auto elettrica, una Peugeot iOn di seconda mano) presso la colonnina che si trova al centro commerciale vicino al Maniero Digitale e che per ora è gratuita.
Infatti dalle mie parti è in corso una transizione dalle colonnine vecchie (foto qui sotto), comandate con una chiave, alle nuove colonnine “smart”, e in questa fase i gestori hanno gradevolmente deciso di lasciare libera a tutti la carica presso le colonnine non ancora aggiornate. Probabilmente hanno calcolato che i costi delle cariche regalate sono inferiori al costo di mantenere il vecchio sistema a chiave accanto a quello nuovo basato su tessere RFID e app.
Un ”pieno” di ELSA fatto al Maniero mi costa 2,3 franchi a tariffa notturna o 3 franchi a tariffa diurna, per cui il risparmio concesso dalla colonnina gratuita è nel mio caso molto modesto, ma tutto fa brodo.
A proposito di brodo: ho raggiunto la tappa simbolica di 3000 km percorsi in elettrico nei sei mesi da quando ho ELSA. Se li avessi fatti con la mia auto a benzina, avrei speso 242 franchi in più. In pratica, risparmio in media una quarantina di franchi al mese, nonostante io usi ELSA solo per il 18% circa dei miei percorsi in auto (sì, tengo statistiche dettagliate dei consumi e delle percorrenze). A questo ritmo mi ci vorrebbero circa ventisei anni per ripagare il costo dell’auto (ma cinque se facessi in elettrico tutti i miei spostamenti). Ma non ho comprato un’auto elettrica per l’unico scopo di risparmiare denaro.
Ho completato il “pieno” a casa intanto che caricavo la legna da portare alla destinazione che la Dama del Maniero e io volevamo raggiungere (degli amici presso un rustico sui Monti di Tizzerascia). Una zavorra che aumenterà i consumi e che contribuirà a rendere più ridotti i margini di autonomia per quest’avventuretta.
Ho anche fatto un’altra cosa per aumentare l’autonomia: ho “hackerato” ELSA per sbloccare le modalità di recupero di energia nascoste, come raccontato nella prima parte. Non c’è nessun intervento software, ma solo un lavoro di Dremel: basta rimuovere il tratto tappato della fessura sagomata presente nella mascherina del “cambio”. Nella prima foto la vedete capovolta, per mostrare il tratto tappato; nella seconda la vedete a faccia in su, dopo il mio piccolo intervento.
Ora ho, oltre al normale recupero energetico medio (modalità D, di serie), anche le modalità B (recupero massimo) e C (recupero minimo). La modalità B è ottima per la guida in città e offre la massima frenata elettromagnetica (che non è comunque più drastica di un freno motore di un’auto a pistoni); la modalità C serve per i viaggi in autostrada, per evitare che un lieve rilascio dell’acceleratore attivi la rigenerazione e causi rallentamenti e consumi inutili.
Infatti quando si procede a velocità costante è più efficiente evitare che l’auto “freni” a ogni minimo rilascio dell’acceleratore: quello che si guadagna in ricarica della batteria è sempre meno di quanto si spende per riprendere la velocità persa. Si impara molto, quando si ha un’auto elettrica, specialmente se è limitata come ELSA e la si vuole portare al limite delle sue prestazioni.
Ho controllato la pressione delle gomme, per evitare che gli pneumatici sgonfi aumentino la resistenza al rotolamento e quindi facciano aumentare i consumi, riducendo l’autonomia.
Ho anche verificato di avere saldo sufficiente sui conti prepagati delle app Emotì e Swisscharge. È importante, perché a differenza dei distributori di benzina, che accettano contanti e carte di credito, le colonnine accettano solo pagamenti tramite le rispettive app o carte RFID.
Un altro preparativo importante è il monitoraggio preciso dello stato della batteria e dei consumi. Ho acquistato tempo fa un OBD Link LX Bluetooth: un oggettino che si inserisce nel connettore OBD dell’auto e ne trasmette via Bluetooth i dati diagnostici a un’app presente su uno smartphone o su un tablet. Nel mio caso ho scelto CanIon, app realizzata appositamente per gli utenti Peugeot iOn dagli sviluppatori Martin e Xavier (non è un’app ufficiale Peugeot).
10.15. La Dama e io partiamo dal Maniero. È un giorno di traffico vacanziero intenso, qui in Canton Ticino, per cui in autostrada (sulla A2) si viaggia a circa 90 km/h su entrambe le corsie. Tenere una velocità bassa per ridurre i consumi, quindi, non ci pesa: tanto non abbiamo scelta.
10.40. La prima tappa è Bellinzona, dove c’è una colonnina di ricarica veloce GOFAST lungo l’autostrada. Qui ci capita la prima sorpresa: dopo 32 km abbiamo consumato pochissimo (un quarto della batteria invece di un terzo come al solito), nonostante l’arrampicata per superare il Monte Ceneri. Merito della velocità ridotta e della modalità C di risparmio energetico che ho appena sbloccato. Di conseguenza facciamo solo un rabbocco di qualche kWh, fermandoci 15 minuti e scambiando due parole con un altro automobilista elettrico, un belga che ha una Mini ibrida e sta cercando di caricare ma non ci riesce perché non ha l’app adatta: un problema classico e decisamente assurdo del mondo elettrico. Gli spiego come fare, e il tempo vola. Ripartiamo con l’88% di carica.
10.55. Inizia ora la tappa più impegnativa: dobbiamo consumare il meno possibile nonostante i 50 kg di zavorra e soprattutto i circa 1000 metri di dislivello (la nostra destinazione è a 1240 metri e partiamo da quota 200) e percorrere 43 km, conservando abbastanza energia per tornare a un punto di ricarica (il più vicino è a circa 15 km).
Nel tratto autostradale, fino a Biasca, andiamo a circa 90 km/h, usiamo la modalità C, acceleriamo lentamente, ci mettiamo nella scia delle roulotte (a distanza di sicurezza), e in effetti arriviamo a Biasca con il 50% di carica residua. Meglio delle previsioni: siamo a posto per il ritorno. Almeno così crediamo.
11.45. La salita finale, 9 km di stradine da affrontare a 40 km/h con una serie infinita di tornanti, si rivela un incredibile vampiro di energia. Arriviamo a destinazione, ma con un margine decisamente minore di quello che avevo stimato io e di quello che era emerso dai calcoli teorici dei lettori: sei km di autonomia residua, con l’indicatore di carica che lampeggia nell’equivalente elettrico della “riserva”. Questo è male. Nel rustico dove ci fermiamo non c’è una presa di corrente utilizzabile (c’è solo un po’ di energia elettrica fornita da un pannellino solare, sufficiente per le luci interne e per una piccola TV LCD).
Siamo comunque arrivati a destinazione, per cui ci godiamo la compagnia degli amici per la giornata, al fresco e con cibarie memorabili. Riusciremo a tornare a casa? Ci penseremo dopo, a pancia piena.
Ritorno
18.00. Non ci era mai capitato di partire per un viaggio con sei chilometri residui di autonomia; secondo le previsioni, avremmo dovuto averne quasi trenta. Possiamo solo sperare che i mille metri di dislivello, stavolta in discesa, ricarichino ELSA abbastanza da permetterci almeno di raggiungere la colonnina lenta di Malvaglia, che sta a 15 km.
Metto la modalità B (ufficialmente inesistente sulla iOn, ma sbloccata dal mio piccolo “hackeraggio”) che massimizza il recupero e ci permette di scendere lungo i tornanti praticamente senza toccare mai i freni e caricando invece la batteria.
Ma il recupero è decisamente modesto: dopo 1000 metri di dislivello abbiamo riacquisito circa 20 km di autonomia, grosso modo la metà di quello che abbiamo speso per salire. Non bastano per raggiungere il punto di ricarica veloce previsto, che sta a 39 km dal punto di partenza, ma sono sufficienti a raggiungere non solo quello lento di Malvaglia, ma anche il successivo, che sta a Biasca. Insomma, non resteremo a piedi.
Arriviamo così a Biasca, dove ci stiamo per rassegnare ad almeno un’ora di sosta per caricare lentamente alla colonnina Emotì locale, ma poi guardiamo il contachilometri di ELSA e ci rendiamo conto che scendendo non abbiamo soltanto caricato un po’ la batteria: abbiamo anche percorso 19 km senza consumare energia. Morale della storia: siamo a 20 km dalla colonnina veloce e abbiamo circa 20 km di autonomia. Che fare?
La cosa prudente sarebbe caricare una mezz’ora a Biasca, per avere un po’ di margine. Ma ci piace rischiare e possiamo confidare in qualche chilometro extra di “modalità tartaruga”, per cui decidiamo di tentare di raggiungere la colonnina GOFAST sulla A2 in direzione sud. Andiamo a 90 km/h, in modalità C, quella ottimale per i percorsi rettilinei a velocità costante.
18.57. Raggiungiamo la colonnina di ricarica rapida con qualche km di autonomia di margine e facciamo una carica di 25 minuti, che porta la batteria all’80% di carica. Il Piano A è riuscito, nonostante tutto: una carica veloce all’andata e una al ritorno.
Approfitto della pausa per raccogliere qualche dato dalla “telemetria” dell’OBD Link LX:
A questo punto possiamo rilassarci e correre fino al Maniero (sono solo 35 km) alla massima velocità consentita dai limiti locali. Anzi, cogliamo l’occasione per una piccola tappa a Lugano.
20:10. Arriviamo al Maniero dopo aver percorso 152 km con due tappe di ricarica veloce. Metto sotto carica ELSA, così domattina avrò di nuovo il “pieno”, e tiro le somme di quest’avventuretta.
Le due cariche veloci (10 kWh complessivi) mi sono costate in tutto 14.52 CHF (4.35 all’andata e 10.17 al ritorno), per cui il viaggio elettrico mi è costato leggermente meno dei 16,5 CHF che avrei speso se avessi usato la mia auto a benzina. Ma caricare rapidamente alle colonnine costa molto più che farlo lentamente a casa: quei 10 kWh che ho caricato in tutto sarebbero costati, a casa mia, circa un franco e mezzo. La comodità di poter caricare in giro e di poterlo fare rapidamente si paga.
Un’auto elettrica con un pochino di autonomia in più della piccola ELSA (16 kWh) avrebbe potuto fare tutto il viaggio senza tappe di ricarica e quindi avrebbe speso circa 4,4 CHF contro i 16,5 dell’auto a benzina (valori stimati sul percorso in piano e da maggiorare per via della variazione altimetrica, soprattutto nell’auto a benzina, che in discesa non recupera nulla ma anzi consuma i freni).
L’altra lezione di questo viaggio è che le salite consumano tantissimo e il recupero energetico in discesa è piuttosto modesto, perlomeno su quest’auto di sette anni fa. Se vivete in aree montuose o dovete affrontare dislivelli notevoli, tenetene conto nella pianificazione dei vostri viaggi elettrici.
I dati della “telemetria” sono utili per capire quali dispositivi e quali comportamenti di guida consumano di più e per monitorare il reale andamento della carica dell’auto, che è variabile in base a vari parametri (primo fra tutti il livello di carica di partenza). Servono anche per rendersi meglio conto dei dislivelli e delle lievi pendenze del terreno, che con un’auto a pistoni sono quasi irrilevanti (aumentano i consumi, ma tanto l’autonomia è enorme e ci sono distributori ovunque) ma che con un’auto elettrica diventano importanti.
Un altro aspetto messo in luce da questo viaggio è l’effetto vistoso della velocità sull’autonomia. Partire un pochino prima e viaggiare a 100 km/h fa davvero molta differenza, in termini di consumi, rispetto a viaggiare a 120 km/h e risparmiare qualche minuto.
A proposito di consumi, la media approssimativa del viaggio è 138 Wh/km, nonostante la salita. Avevo infatti 16 kWh alla partenza, ne ho aggiunti 10 in viaggio e sono tornato a casa con 5 kWh residui, per cui ne ho consumati circa 21.
Infine, una piccola scoperta inattesa: usare un’auto elettrica in montagna può ridurre la nausea da movimento sui tornanti, sia in salita, sia in discesa. Io normalmente ne soffro molto, ma oggi non ho avuto il minimo problema. Sospetto che sia merito del fatto che con un’elettrica non ci sono mai i rallentamenti e gli strappi prodotti dal cambio delle marce.
Cosa più importante, la Dama e io ci siamo divertiti insieme, viaggiando nel silenzio, inquinando meno e trasformando un aspetto banale di una giornata (il viaggio) in un momento di piccola avventura e di apprendimento.
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Nel numero de Le Scienze di questo mese racconto la storia sorprendente della risposta a una domanda apparentemente stupida: perché non vediamo tutto mosso quando spostiamo lo sguardo da un punto a un altro? Se lo facciamo con una telecamera, l’effetto è ben visibile e anzi fastidioso. Ma i nostri occhi non manifestano questo fenomeno.
Potete anche fare questo semplice esperimento: guardatevi allo specchio, spostate lo sguardo altrove e poi guardatevi di nuovo. Non solo non vedrete mosso, ma non vedrete neanche i vostri occhi muoversi. Perché? È almeno dal 1898 che ce lo chiediamo.
La spiegazione completa è nell’articolo che ho scritto per la rivista, ma posso dirvi che non solo ha conseguenze importanti nella vita di tutti i giorni (se un automobilista si giustifica dicendo che non ha visto un pedone che gli passava davanti, potrebbe essere sorprendentemente vero), ma rivela anche quanto è sofisticato il cervello nell‘inventarsi correzioni della percezione, al punto di ricostruire la realtà e ingannarci.
Se vi serve un video di un orologio a lancette per un altro degli esperimenti che consiglio nell’articolo, eccovelo:
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No, non mi sto Aranzullando: voglio solo segnalare questa splendida, concisa lezione di sicurezza segnalata da Dan Tentler. Riuscite a capire come mai la porta si apre usando semplicemente un foglio di carta?
— D̒͂̕ᵈăᵃn̕ᶰ Ť̾̾̓͐͒͠ᵗe͗̑́̋̂́͡ᵉn̅ᶰtᵗl̀̓͘ᶫe̓̒̂̚ᵉrʳ (@Viss) August 9, 2018
La lezione è questa:
Una porta “chiusa” è chiusa soltanto per oggetti o esseri viventi al di sopra di certe dimensioni. Tipicamente quelle del progettista.
In ogni automatismo, bisogna chiedersi sempre quale oggetto o condizione imprevista può farlo attivare.
La soluzione, se volete, è nei commenti al tweet di Tentler.
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Sono passati un paio di giorni, mi sono passati i crampi del troppo ridere e così posso riassumere qui per i posteri la curiosa vicenda di un hashtag, #PerFontanaSonoTroppi, che del tutto involontariamente e in parte per colpa mia è arrivato in cima ai trending italiani su Twitter.
Nello screenshot qui accanto lo vedete al secondo posto, e forse è arrivato anche al primo, ma non ha importanza: ci siamo comunque tutti divertiti tanto e forse abbiamo fatto qualcosa di buono.
Tutto inizia con una dichiarazione del Ministro della Famiglia, Lorenzo Fontana, riportata dall’ANSA così: “Fontana: troppi 10 vaccini ma non sono medico”. La frase esatta, presente nel video pubblicato dall’ANSA, è “ritengo che forse l’obbligo di così tanti vaccini sia un po’ esagerato, bisognerebbe andare ad analizzar bene, però non sono un medico, non sono uno scienziato, quindi sono da questo punto di vista... riconosco la mia ignoranza.”
La concisione estrema della versione ANSA rende evidente l’assurdità della presa di posizione personale di Fontana: non essendo un esperto di immunologia, la sua opinione personale su quanti vaccini siano “troppi” non vale nulla. Nel suo ruolo di ministro la cosa giusta da fare sarebbe non pronunciarsi su argomenti di cui egli stesso ammette di essere ignorante. Soprattutto se l’argomento è quello, delicatissimo, della salute e delle vaccinazioni. Il calo della copertura vaccinale sta facendo vittime, e non solo in Italia.
Leggo la notizia ANSA e faccio un commento al volo su Twitter:
— Fabio Galletti🇪🇺🇮🇹 (@Fabio_Galletti) 6 agosto 2018
Poi arrivano altri utenti con variazioni sul tema:
-- #troppi 10 comandamenti, ma non sono un teologo
-- Troppe 5 zampe nel Modulo Lunare, ma non sono un ingegnere della Grumman. 😉
-- Troppi 451 gradi Fahrenheit, ma non sono Ray Bradbury
-- Troppi 40 ladroni, ma non sono Alì Babà
-- Troppi 35 centimetri, ma non sono Rocco Siffredi e ce l'ho piccolo
-- Troppi 24 mila baci, ma non sono Celentano
-- Sono troppe tre civette sul comò, ma non sono la figlia del dottore
-- Troppe note caro Mozart, ma non sono Giuseppe II
-- Troppe tre leggi per descrivere il moto dei pianeti, ma non sono Keplero
-- Troppe 200 miliardi di stelle nella Via Lattea, ma non sono un astronomo
-- Troppi 640k, ma non sono Bill Gates
-- Troppi 33 trentini, ma non sono un antropologo
-- #troppi due testicoli, ma non sono un andrologo
-- Troppi 50 anni e troppi 5 figli, ma non sono De Gregori -- troppi 2 piccioni. Ma io non sono una fava "Troppi 3,141592653589793238462643383279502884197169399375105820974944
5923078164062862089986280348253421170679 per il Pi Greco, ma non sono un
matematico" -- Troppi quattro salti in padella, ma non sono il Capitano Findus -- Troppi 365°, ma non sono un goniometro -- Troppi 7 nani, ma io non sono Biancaneve -- Troppe 88 miglia all'ora, ma non sono Doc
e così via. Ne cito un paio delle più argute e sottili (tipo Troppi 6,022*10^23 atomi in una mole, ma non sono Avogadro), e poi mi assento da Twitter per un po’. Quando torno scopro che è scoppiato davvero il meme, o meglio l’hashtag, come presentivo:
All‘hashtag #PerFontanaSonoTroppi e alla presa in giro della dichiarazione del ministro Fontana vengono addirittura dedicati articoli di Giornalettismo e Repubblica, nei quali trovate altri esempi della creatività umoristica degli utenti di Twitter. Se proprio volete strafare e leggerli (quasi) tutti, potete cercare l’hashtag su Twitter.
E questo è tutto. Non c’è stata nessuna azione coordinata e non ci sono stati di mezzo i troll di Bruxelles, come ha insinuato qualche utente Twitter: è stata una cosa spontanea e nata per caso mentre facevo tutt’altro (se volete saperlo, stavo ricablando il Maniero Digitale). Spero che vi abbia divertito, e che magari qualcuno abbia imparato qualcosa.
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Stamattina ho trovato nella mia posta una mail di notifica di Google Calendar che mi avvisava di un appuntamento per oggi alle 4.30 del mattino e conteneva questa frase: “I am Ms.Eunice please i have an important issue to discuss with you regarding my inheritance.Please Email Me Here Ms_Eunice...”.
Incuriosito, sono andato a vedere nel mio Google Calendar ed effettivamente c’era l’appuntamento notificato:
Il testo completo dell’appuntamento-spam, contenuto nel titolo, è questo:
I am Ms.Eunice please i have an important issue to discuss with you regarding my inheritance.Please Email Me Here Ms_Eunice.Akach2018@hotmail.com
Noterete che l’indirizzo citato nel testo (Ms_Eunice.Akach2018@hotmail.com) è diverso da quello del creatore dell’appuntamento (kooho002@gmail.com).
Ho segnalato l’evento come spam (Altre azioni - Segnala come spam) e l’evento è stato rimosso automaticamente.
È piuttosto assurdo che per default chiunque possa inserire appuntamenti in Google Calendar. Il problema si risolve, a quanto pare, andando nelle Impostazioni di Google Calendar (l’ingranaggino grigio), scegliendo Impostazioni evento e poi attivando, in Aggiungi automaticamente gli inviti, la voce No, mostra solo gli inviti a cui ho risposto. Staremo a vedere.
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Un bel proiettile per il l'attivissimo coglione e puff sparito.
Deve avere dei brutti ricordi della scuola.
Legnato dai bianchi.
Deriso dai bianchi.
Due di picche dalle bianche.
E' la vita degli inferiori.
E' il destino di voi con la pelle sporca.
Coraggio,puoi sempre suicidarti.
L’originale:
Un bel proiettile per il l'attivissimo coglione e puff sparito.
Deve avere dei brutti ricordi della scuola.
Legnato dai bianchi.
Deriso dai bianchi.
Due di picche dalle bianche.
E' la vita degli inferiori.
E' il destino di voi con la pelle sporca.
Coraggio,puoi sempre suicidarti.
Io tutto sommato mi occupo di temi relativamente poco controversi, con giusto qualche puntatina nel complottismo; non faccio politica né ne scrivo; sono maschio, bianco ed europeo; per cui sono sostanzialmente al riparo dai battibecchi, dal sessismo e dal razzismo. Roba come questa mi arriva di rado. Non oso immaginare come sia la vita online per chi tocca argomenti difficili e si trova in una situazione più vulnerabile. Spero che troviate sempre la forza di resistere.
2018/08/07 10:40
Per chi mi chiede se intendo segnalare alle autorità queste minacce: restate sintonizzati. Potrebbero esserci sviluppi interessanti.
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Ho pensato a un pesce d’aprile quando l’ho letto inizialmente, ma l’annuncio è ufficiale: Patrick Stewart, memorabile interprete del Capitano Jean-Luc Picard in Star Trek: The Next Generation e in vari film di Star Trek, riprenderà lo stesso ruolo in una nuova serie che verrà trasmessa negli Stati Uniti da CBS All Access.
Questo è uno spezzone dell’annuncio, totalmente a sorpresa, fatto da Stewart stesso poche ore fa a una convention di Star Trek a Las Vegas.
Executive Producer Alex Kurtzman and @SirPatStew surprised fans today at #STLV with news that he will be returning to the iconic role of Jean-Luc Picard for a new Star Trek series coming to @cbsallaccess. pic.twitter.com/8F0EPnQMXn
Ed ecco la dichiarazione formale di Patrick Stewart:
It is an unexpected but delightful surprise to find myself excited and invigorated to be returning to Jean-Luc Picard and to explore new dimensions within him. Read my full statement in the photo. #StarTrek@cbsallaccess Photo: @shervinfotopic.twitter.com/8Ynuj3RBNm
“Sarò sempre molto orgoglioso di aver fatto parte di Star Trek: The Next Generation, ma quando terminammo le riprese di quel film finale a primavera del 2002, pensai sinceramente che il mio periodo con Star Trek fosse giunto alla sua conclusione naturale. Ê quindi una sorpresa inattesa ma incantevole scoprirmi emozionato e rinvigorito all’idea di tornare a Jean-Luc Picard e ad esplorare nuove dimensioni dentro di lui. Alla ricerca di nuova vita per lui quando pensavo che quella vita fosse finita. In questi anni trascorsi, ho provato grande soggezione nel sentire i racconti di come The Next Generation ha dato conforto alle persone, le ha aiutate in momenti difficili delle proprie vite o di come l’esempio di Jean-Luc ha ispirato così tanti a seguire le sue orme e intraprendere la scienza, l’esplorazione e ruoli di guida. Sento di essere pronto a tornare da lui per lo stesso motivo: per cercare e vivere qualunque luce confortante e riformatrice possa proiettare su questi tempi spesso molto cupi. Non vedo l’ora di lavorare con la nostra squadra creativa geniale mentre ci sforziamo di portare di nuovo alla vita una storia originale, inattesa e pertinente. Patrick”
Mi sono reso conto solo ora di aver previsto il futuro con questo tweet del 16 luglio scorso. Mi candiderò al Premio Randi.
I costumi per la nuova serie di Star Trek con Patrick Stewart lasciano un po' a desiderare. https://t.co/n9tqY1qocm
La CBS ha pubblicato il video integrale dell’annuncio.
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Come molti di voi sanno, da qualche mese ho una piccola auto elettrica di seconda mano, una Peugeot iOn del 2011, che uso con molto piacere per tutti gli spostamenti in città e a corto raggio, dove posso usare aria condizionata o riscaldamento a volontà e accelerare senza ritegno (stando nei limiti di velocità). È assolutamente una city car, ma ogni tanto mi diverto a portarla ai limiti delle sue prestazioni.
Stavolta la sfida sarà fare nei prossimi giorni, con un’auto che ha circa 90 km di autonomia reale, un tragitto di 150 km fra andata e ritorno, con due persone (io e la Dama del Maniero), 50 chili di carico a bordo all’andata e una salita fino a quota 1200 metri per arrivare alla destinazione, dove oltretutto non c’è nessuna presa elettrica utilizzabile: è un rustico alimentato da un piccolo pannello fotovoltaico da 250 W dove la Dama e io staremo per la giornata con degli amici. Sì, persino io riesco ogni tanto ad andare offline e off-grid.
Potremmo farlo agevolmente con la nostra auto a benzina, ma perché inquinare e rinunciare a una piccola avventura? Oltretutto, visto che la destinazione è in mezzo al verde (sui Monti di Tizzerascia, se volete saperlo), arrivarci senza puzze e rumori ci starebbe bene.
Oltre al silenzio di marcia e alla riduzione dell’inquinamento, vale la pena di considerare anche i costi, sui quali tornerò in dettaglio in un prossimo articolo: se facessi questo viaggio a benzina (con la mia Opel Mokka), spenderei circa 16,5 franchi di carburante; facendolo in auto elettrica, spenderò 2,3 CHF per il “pieno” fatto al Maniero prima di partire (tariffa notturna) più qualche franco per le due o tre ricariche fatte in viaggio. Se avessi un’elettrica a lunga autonomia, spenderei in tutto 4,4 franchi, perché non dovrei caricare alle colonnine e mi basterebbe il “pieno” fatto alle tariffe domestiche: spenderei insomma circa un quarto di quello che mi costerebbe andarci a benzina.
E poi devo ammettere che per me la pianificazione di queste avventurette fa parte del divertimento elettrico: è come pensare a un viaggio in aereo di linea, confortevole ed efficiente ma noioso, e poi dirsi “Certo che farlo in aliante sarebbe più divertente...” e sorridere. Questione di gusti: se non fa per voi, non leggete oltre.
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Siete ancora qui? Bene. Allora vi racconto il problema di questa sfida: non è arrivare a destinazione, ma tornare al Maniero Digitale.
So per esperienza che ELSA, la mia auto elettrica, è in grado di coprire quei 75 km di andata nonostante la salita del Monte Ceneri a metà strada, il carico extra e l’arrampicata finale di circa 1000 metri (il fondovalle è a circa 200 m di altitudine), e ormai non mi angoscia più neanche fare viaggi con margini di 15 km di autonomia stimata.
Fra l’altro, ELSA ha un piccolo margine di autonomia di emergenza, circa 10 km in “modalità tartaruga”, che ho dovuto usare una sola volta in tutti questi mesi; sul cruscotto si accende proprio un’icona a forma di tartaruga, che si intravede nella foto qui sotto.
In basso verso destra, l’icona circolare gialla
della “modalità tartaruga”. Fonte: KiwiEV.com.
Al ritorno la Dama e io saremo in discesa e quindi la frenata elettromagnetica caricherà un po’ la batteria di ELSA, ma non so quanto: scoprirlo è uno dei motivi di quest’avventuretta. Di certo non la caricherà a sufficienza da fare 75 km fino al Maniero, e oltretutto la salita la scaricherà maggiormente.
Soluzione: fare una ricarica rapida durante l’andata, per arrivare a destinazione con più autonomia residua, e una al ritorno. Lungo il percorso d’andata, sull’autostrada A2, c’è una colonnina GOFAST con connettore CHAdeMO (quello usato da ELSA per le ricariche rapide). Sta a 32 km dal Maniero e la potrò prenotare, per cui ci potrò arrivare comodamente e fermarmici per fare un rabbocco di circa un quarto d’ora (ammazzerò il tempo moderando i commenti del blog e facendo un po’ di lavoro; offline, ma solo fino a un certo punto).
Però questa carica rapida porterà la batteria all’80%, non al “pieno”. Infatti le auto elettriche sono come i bicchieri di vino: puoi riempirli rapidamente all’inizio, ma se vuoi colmarli devi versare molto lentamente verso la fine. Questo significa che avremo, a questo punto, circa 72 km di autonomia. Per arrivare a destinazione al rustico ci resteranno 43 km: ci arriveremo quindi comodamente, con circa 29 km di autonomia residua (probabilmente qualcosina meno per via del dislivello).
Quei 29 km di autonomia, però, non ci basteranno per andare dal rustico alla colonnina rapida GOFAST che c’è sulla via del ritorno e fare 20 minuti di ricarica per poi tornare a casa. La colonnina, infatti, sta a 39 km di distanza. Dieci di troppo. Certo, la discesa ci darà un pochino di autonomia in più, ma è improbabile che ci dia ben 10 km aggiuntivi, che sono circa 2 kWh, e comunque la salita ce ne toglierà.
Secondo i calcoli mandatimi dai lettori (grazie, Fx e Paolo Perotti) dopo la pubblicazione iniziale di questo articolo, la formula da usare per salite e discese è questa:
energia potenziale in joule = massa di ELSA e occupanti in kg (circa 1400 kg) x dislivello in m (1000) x accelerazione di gravità (9,81)
ossia, convertendo i joule, circa 3,85 kWh, di cui probabilmente ELSA recupererà circa la metà, e a ELSA ne servono grosso modo 2.
Devo insomma cercare di andare dalla colonnina di ricarica al rifugio e ritorno consumando il meno possibile, in modo da allungare l’autonomia di circa 10 chilometri. Oppure attingere alla “modalità tartaruga”. È un bel rischio, ma se funziona, questo è il Piano A. Dubito che funzionerà (però almeno adesso so quanta energia consumerò salendo). Per questo c’è un Piano B.
Parentesi per gli elettroscettici: sottolineo che questo non è il modo normale di usare un’auto elettrica. Sono io che la sto spingendo al limite e forse anche un po’ oltre. Normalmente, se si ha un’elettrica con autonomia adeguata, non ci si fa nessuno di questi problemi, perché l’autonomia basta e avanza per tutto il viaggio o per raggiungere comodamente un punto di ricarica veloce e fare tappa.
Il Piano B prevede che se vediamo che l’autonomia ottenuta dalla discesa non ci basta per arrivare alla colonnina rapida, possiamo fermarci alla colonnina di ricarica lenta Emotì di Malvaglia, che sta a 15 km dal rustico lungo la via del ritorno, fare il punto della situazione e se necessario fare un piccolo ma lentissimo rabbocco che ci consenta di raggiungere la colonnina rapida. La lentezza non è colpa della colonnina; è ELSA che carica lentamente, a circa 15 km/h (ossia 15 km di autonomia per ogni ora di carica), sul connettore Tipo 1, l’unico offerto dalla colonnina Emotì che sia compatibile con ELSA. Un’altra sosta è una scocciatura, ma è sempre meglio che restare a piedi.
C’è anche un Piano C, perché bisogna sempre avere un piano B e magari anche un piano C, quando si va in auto elettrica, finché l’autonomia sarà modesta rispetto al tragitto e le colonnine di ricarica rapida saranno così rade. Se per caso la colonnina di ricarica rapida all’andata è guasta, occupata o irraggiungibile per qualunque motivo, il Piano C consiste nell’andare direttamente da casa fino alla colonnina lenta di Malvaglia (60 km), lasciare l‘auto sotto carica per circa 4 ore (meno del tempo che trascorreremo al rustico) e farci venire a prendere e riportare dagli amici che stanno già alla destinazione. Con il “pieno”, poi, torneremmo direttamente a casa. Non è un granché, ma eviterebbe completamente le due soste intermedie (40 minuti in tutto).
In realtà ho anche un Piano D: all’andata, fermarmi alla colonnina rapida e caricare oltre l’80%, in modo da avere autonomia sufficiente per arrivare a destinazione e tornare alla colonnina rapida. Ma sarebbe un procedimento lungo, proprio perché la parte finale (l’ultimo 20% circa) della carica di una batteria è lenta anche sulle colonnine veloci. Un dato importante, valido per qualunque modello di auto elettrica, da tenere presente quando si pianifica un viaggio lungo.
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Insomma, portare una mini-auto elettrica oltre i limiti del suo normale utilizzo cittadino non è facile e ci vuole un certo spirito d’avventura. Ma ho tre, forse quattro trucchi a mia disposizione per aumentare l’autonomia: contenere la velocità, verificare la pressione delle gomme, migliorare l’aerodinamica e “hackerare” ELSA.
Velocità
Ridurre anche leggermente la velocità ha effetti notevolissimi sul consumo di energia: in un‘auto a pistoni la differenza si nota poco, ma quando si ha poca autonomia, come nel mio caso, si nota tantissimo. La resistenza aerodinamica, infatti, aumenta con il quadrato della velocità, quindi anche 10 km/h di velocità in meno possono fare molta differenza sui consumi e sorprendentemente poca sui tempi di percorrenza.
Per esempio, una Tesla Model S 85 ha un’autonomia di 640 km a 60 km/h, di 482 km a 90 km/h e di 370 km a 120 km/h (presumendo, ipoteticamente, una velocità costante).
Allo stesso tempo, per fare 100 km a 100 km/h di media ci vuole ovviamente un’ora, ma per farli a 90 km/h ci vogliono solo sette minuti in più. 100 km a 130 km/h sono 46 minuti; a 120 sono 50 minuti (4 in più, il tempo di una canzone alla radio).
Questo significa, per esempio, che un conducente Tesla che deve fare 400 km può:
a) percorrere i primi 370 a 120 km/h, mettendoci 185 minuti, per poi doversi fermare qualche decina di minuti per caricare e poi coprire gli ultimi 30 km in 15 minuti andando a 120 km/h: totale 200 minuti di guida più il tempo della ricarica.
b) percorrere tutti e 400 i km a 105 km/h senza ricaricare, mettendoci 230 minuti.
Se la sosta di ricarica del caso a) dura più di 30 minuti, insomma, chi corre più veloce arriva più tardi.
Come regola generale, insomma, è piuttosto stupido correre per poi doversi fermare decine di minuti a caricare. Farò quindi l’esperimento di viaggiare al massimo a 100 km/h anche dove il limite sarebbe di 120 km/h.
Morale della storia: superare il limite di velocità di 10 km/h “per arrivare prima e rischiare la multa ma non troppo”, come fanno in tanti, non ha nessun senso, e questo vale sia per le auto elettriche, sia per quelle a pistoni. Usare un’elettrica fa risaltare cose come questa, e guidare auto elettriche è un’arte che combina fisica e matematica, come navigare a vela: o piace, o è meglio prendersi un motoscafo.
Pressione
La pressione ottimale delle gomme è importantissima in un’auto che deve consumare poco (elettrica o a pistoni che sia): la resistenza al rotolamento prodotta dagli pneumatici incide parecchio sull’autonomia, e questa resistenza aumenta al diminuire della rigidità dello pneumatico. Questa rigidità, a parità di pneumatico, diminuisce al diminuire della pressione. In altre parole, gomme sgonfie consumano di più.
Partire dopo aver controllato che le gomme non siano sgonfie è quindi una buona regola anche per questioni di risparmio energetico oltre che di sicurezza (Pirelli; Nokian; EVObsession).
ELSA non è un capolavoro di aerodinamica; del resto, è pensata per l’uso cittadino, nel quale le velocità sono modeste e quindi l’aerodinamica è poco importante. Ma se c’è da fare un viaggio a velocità sostenuta come quello che sto descrivendo, anche l’efficienza nel fendere l’aria può contribuire ad aumentare l’autonomia.
Ci sono piccoli miglioramenti aerodinamici molto facili da mettere in pratica, come togliere l’antenna radio (tanto non useremo la radio, ma ascolteremo musica su una chiavetta USB). Farà probabilmente pochissima differenza, ma se non ci serve ed è facile toglierla e rimetterla, tanto vale provarci.
Ci sono anche altre modifiche aerodinamiche più impegnative, che emergono se si esplora il mondo dei modder di automobili elettriche (o ecomodder), che si sono dedicati parecchio a quest’auto: i cerchi lenticolari (salt flat disc, moondisc o moonhubcap)e le carenature (wheel skirt o fender skirt) per i vani delle ruote posteriori. Le superfici irregolari dei cerchioni e dei vani delle ruote sono una delle principali fonti di turbolenza in qualunque auto, e la turbolenza aumenta i consumi.
I modder propongono vari modi per carenare facilmente le ruote posteriori (quelle anteriori, sterzando, sporgono e quindi sono difficili da carenare): nastro adesivo telato, pannelli rimovibili e altri accrocchi esteticamente discutibili e probabilmente pericolosi in caso di distacco. Credo che eviterò.
I cerchioni lenticolari, invece, sembrano più fattibili: non si pone il problema della ventilazione inadeguata dei freni perché, a differenza delle auto a pistoni, la frenata sulle auto elettriche è quasi sempre elettromagnetica e usa poco i freni tradizionali. Ce ne sono parecchi in vendita su Amazon (uno; due; tre), ma ci sono anche le soluzioni eccentriche come leteglie per pizza agganciate ai cerchioni e i teli elasticizzati calzati sopra i cerchioni standard. Ê come il modding per computer, solo che è su ruote.
Ma anche questa è per me una tecnica difficile da adottare, perché ELSA ha i cerchi in lega, senza un bordo di innesto per copricerchioni. Dovrei procurarmi dei cerchi in ferro, montarvi le gomme e poi comprare dei copricerchioni lenticolari e installarli. Magari un’altra volta.
Ci sarebbe anche un altro trucco aerodinamico: sfruttare la scia di un altro veicolo, per esempio un autobus o un camion. Anche mantenendo la distanza di sicurezza, un veicolo largo crea comunque dietro di sé una scia notevole che riduce l’energia usata per fendere l’aria da parte di un veicolo che sta in scia.
L’effetto è misurabile, ma prendere un’auto elettrica per poi mettersi in coda a un camion o autobus puzzolente e inquinante mi sembra un controsenso totale, per cui non intendiamo usare quest’approccio. Quando arriveranno i camion elettrici, però...
Hackerare?
Per “hackerare” intendo “sbloccare le due modalità nascoste di frenata rigenerativa”.
La frenata rigenerativa è la caratteristica delle auto elettriche o ibride che consente di usare il “freno motore” (ossia il motore diventa una sorta di dinamo) per ricaricare la batteria mentre si viaggia, invece di frenare con i freni tradizionali e buttar via energia cinetica e polveri fini di pastiglie (inquinanti).
ELSA è una Peugeot iOn, che come la Citroen C-Zero è una Mitsubishi i-Miev rimarchiata, con interni differenti e -- sentite questa -- con una semplice mascherina di plastica che blocca la corsa del selettore (la “leva del cambio”) in modo che non possano essere selezionate le modalità B e C di frenata rigenerativa, come spiegato nel video mostrato qui sotto da 1:49 in poi, in questo articolo (copia su Archive.is), in quest’altro e in queste foto.
Per i nostalgici dell’informatica, è come se scopriste che il vostro PC ha un selettore Turbo, ma è coperto da un tappo di plastica incollato.
Perché Peugeot e Citroen hanno fatto questa scelta? Secondo un articolo del 2010, trovato da motogio dopo la pubblicazione iniziale di questo mio articolo, l’hanno fatta per proporre una guida semplificata ai clienti europei: “"Nous tenions à simplifier l'interface homme-machine", explique Philippe Barriac, en charge du projet iOn depuis son origine. "La sélection du bon rapport en fonction de l'allure et de la pente ne dérange pas le client japonais. Point tant son homologue européen. Ainsi avec la iOn, quel que soit le profil de la route, c'est la boîte et le calculateur qui sélectionnent le bon taux de récupération de l'énergie cinétique. On ne peut faire plus simple"”.
Sostituendo semplicemente la mascherina con la versione Mitsubishi (part number 2420A081XB) e facendo un pochino di, ehm, chirurgia plastica, le due modalità tornano disponibili anche sulla iOn.
La modalità B offre il recupero energetico massimo ed è quindi ottimale per le discese, mentre la modalità C ne offre uno ridotto rispetto a quello predefinito (che è il D) e quindi è ideale per i percorsi a velocità costante, dove l’intervento della frenata rigenerante a ogni minimo rilascio dell’acceleratore ridurrebbe l’autonomia rispetto alla semplice inerzia (coasting). Se avrò tempo prima di questo viaggetto, proverò anche questa modifica, in modo da massimizzare il recupero di carica su quel dislivello di mille metri e ridurre la scarica durante il viaggio autostradale.
2018/08/09 19:50.Funziona! Ho sbloccato le modalità nascoste di ELSA.
2018/08/10 9:40. Ecco un paio di foto al volo.
È importante notare che su queste auto (iOn/Miev/C-Zero) le luci di stop non si accendono quando si usa la frenata rigenerativa, per cui potrebbe essere sconsigliabile usare la modalità B (frenata rigenerativa drastica) se si ha dietro un’altra auto che segue da vicino: potrebbe non accorgersi che state rallentando e quindi tamponarvi. In questo caso, una leggera pressione sul pedale del freno fa accendere gli stop.
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Funzionerà tutto questo? Resteremo appiedati a metà salita o fra una colonnina e l’altra? Lo saprete nella prossima puntata.
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