Il Corriere della sera di oggi, nell’edizione cartacea, a pagina 13, ha scritto che
“ieri 7 italiani su 10 hanno pranzato al ristorante”. L’articolo è a firma di Rinaldo Frignani.
La stessa idiozia è stata ripetuta al TG1 della RAI oggi alle 13.30.
Nessuno, ma proprio nessuno, che si sia chiesto come sarebbe stato possibile per quarantadue milioni di italiani recarsi contemporaneamente a pranzo al ristorante e come avrebbero fatto i ristoratori a sfamarli tutti di colpo.
C’è poi il problema degli incassi: se a Roma si fossero davvero incassati 5 milioni di euro su 2 milioni di pasti (il 70% di 2,9 milioni di abitanti), vorrebbe dire che ogni pasto è stato pagato un paio di euro e spiccioli.
Non c’è niente da fare: la discalculia impera e i giornalisti non sanno resistere al fascino dei numeri e delle pseudostatistiche.
La probabile origine di questa scemenza è spiegata da Giornalettismo: un comunicato stampa di Coldiretti, che titola “Covid: 7 italiani su 10 a pranzo fuori nel week end” ma nel testo dice che quei 7 su 10 erano gli italiani che pranzavano fuori almeno un sabato o una domenica al mese.
Se l’ipotesi è corretta, allora alcuni giornalisti hanno anche difficoltà a capire quello che leggono. Il Post fa bene il punto sulla desolante consuetudine del giornalismo basato su comunicati stampa letti male e mai verificati. E l’Ordine dei Giornalisti pare troppo impegnato a pettinare lampadine. Siamo in buone mani.
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Scrive così Maria Rosaria Spadaccino sul Corriere della sera il 5 febbraio 2021: “Napoleone non venne mai a Roma, ma la desiderò molto. A lei si ispirò e
ai suoi imperatori Augusto, Alessandro Magno, ma anche a Giulio Cesare”.
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Questa è Repubblica. Il giornale cartaceo. Quello che si paga per avere
informazioni corrette. Ma il 6 febbraio 2021, ieri, Piero Melati su quel
giornale cartaceo ha scritto che la Stazione Spaziale Internazionale orbita
intorno alla Luna.
“I primi pionieri sono pronti a partire. Da Hollywood, naturalmente. Tom
Cruise ha annunciato che il suo prossimo set saranno le stelle. In ottobre
decollerà insieme al regista Doug Liman a bordo di uno space shuttle, per
raggiungere la Stazione spaziale internazionale che orbita intorno alla
Luna.”
No, Melati: la Stazione orbita intorno alla Terra, a 400 chilometri di quota, non
intorno alla Luna, che sta a quattrocentomila chilometri. Il volo di
Tom Cruise è stato rinviato di uno o due anni. E l’attore non prenderà uno Shuttle, visto che lo
Shuttle ha smesso di volare dieci anni fa. Volerà su una capsula
Dragon.
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Quando un lettore paga il Corriere della sera per leggere un articolo
firmato da Carlo Lucarelli, si aspetta che l’articolo sia scritto da Carlo
Lucarelli. Immagino che anche i lettori di Repubblica si aspettino che
se un articolo porta la firma di Alessandro Baricco sia scritto appunto da
Alessandro Baricco. Ma sembra che anche queste ormai siano pretese eccessive:
il giornalismo italiano sa raggiungere vette sempre nuove di cialtroneria e di
presa in giro dei suoi lettori.
Questo è Carlo Lucarelli sul Corriere della sera di sabato 6 febbraio
2021. O almeno così sarebbe portato a credere il lettore, vista la firma:
Come spiega
Giornalettismo, le due recensioni sono identiche, ma non si tratta di plagio da parte di
Lucarelli o Baricco: Repubblica ha pubblicato, al posto della sintesi
dell’intervento video di Baricco, un testo di Lucarelli inviato da Einaudi.
Lucarelli ha spiegato pubblicamente la situazione: “Ragazzi, non so che dirvi. Ho scritto la mia recensione molto tempo fa,
non conoscevo quella di Baricco e sono sicuro che lui non aveva letto la
mia. Che ribadisco sincera e sinceramente mia”.
In altre parole, l’ennesimo esempio di metodo redazionale colabrodo. Però le
fake news, signora mia, son colpa di Internet.
Come al solito arriveranno quelli che diranno
“Eh, dai, non è morto nessuno, gli errori possono capitare, te la prendi
troppo”. Ma a furia di commettere un errore oggi, un errore domani, un errore tutti i giorni, la fiducia del lettore crolla. E non si rialza più.
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L’uomo che vedete nella foto si chiamava Alan Shepard. È morto nel 1998, a 74 anni. È la prima e finora unica
persona, nella storia dell’umanità, ad aver mai giocato a golf sulla Luna.
Questo evento bizzarro accadde proprio cinquant’anni fa, il 6 febbraio 1971,
durante la missione
Apollo 14.Shepard, appassionato giocatore di golf oltre che
astronauta celeberrimo (fu il primo americano a volare nello spazio, nel
1961), era sulla Luna insieme al collega Ed Mitchell, e alla fine della loro
estenuante escursione sulla superficie lunare estrasse da una tasca della sua
tuta spaziale una testa di bastone da golf, la agganciò al manico di uno degli
strumenti scientifici usati per la raccolta dei campioni e la usò per
lanciare alcune palline da golf che aveva portato con sé nella stessa tasca.
L’evento fu trasmesso in diretta TV, e rimase celebre la frase che Shepard usò
per descrivere il risultato dei suoi tiri, effettuati nonostante l’impaccio della
rigidissima tuta spaziale ma con il vantaggio della ridotta gravità lunare (un
sesto di quella terrestre) e dell’assenza di resistenza aerodinamica (non
essendoci un’atmosfera).
“Miles and miles and miles!”, disse scherzosamente Shepard. Miglia e
miglia e miglia. Durante il viaggio di ritorno, riferì via radio che stimava che una pallina avesse percorso circa duecento metri e l’altra ne avesse coperti circa quattrocento. Ma come andarono realmente le cose? Era chiaro sin da subito
che quelle miglia erano un’esagerazione, viste le condizioni difficilissime
del tiro, ma oggi sappiamo con precisione quanta strada fecero quelle palline
grazie alle ricerche degli esperti e al restauro digitale delle immagini
scattate all’epoca sulla Luna.
Le palline da golf tirate da Shepard e le posizioni di tiro sono state infatti
localizzate nelle fotografie, come mostrato qui sotto (divot è il
termine inglese usato per indicare un incavo nel terreno prodotto dal bastone
da golf nel colpire la pallina):
L’immagine qui sopra è una composizione digitale di varie fotografie scattate
dall’interno del Modulo Lunare (il veicolo che aveva portato sulla Luna i due
astronauti).
Il restauratore di fotografie Andy Saunders ha recuperato le immagini migliori
disponibili della missione e ha prodotto questi ingrandimenti delle zone
intorno alle due palline da golf (l’asta nella prima foto proviene da un
esperimento per il vento solare e fu lanciata dal collega Ed Mitchell come se
fosse un giavellotto):
Sì, sulla Luna ci sono due palline da golf, ripetutamente cotte e congelate da cinquant’anni
di esposizione al calore del sole e al gelo della notte lunare (un “giorno”
lunare dura circa 29 giorni terrestri). E ora sappiamo anche a che distanza si
trovano dal punto di tiro.
Infatti Saunders ha elaborato digitalmente tramite stacking i
fotogrammi della ripresa del decollo dalla Luna, fatta dall’interno del Modulo
Lunare usando pellicola cinematografica nel formato 16 mm, e ha ottenuto
quest’immagine della zona di decollo, nella quale si possono scorgere le due
palline e il “giavellotto”.
Quest’immagine, però, è inclinata, per cui è difficile usarla per determinare
le distanze esatte. Ma dal 2009 la sonda Lunar Reconnaissance Orbiter
fotografa l’intera superficie lunare da una quota di circa 100 chilometri, con
occasionali discese a quote più basse, e nel 2011 ha scattato un’immagine
della zona di allunaggio di Apollo 14 che è una veduta sostanzialmente
verticale della zona e come tale non è affetta da distorsioni di prospettiva.
Saunders l’ha elaborata per ottenere questo risultato: 22 metri per il primo
tiro e 36,5 metri per il secondo.
Il bastone da golf usato sulla Luna fu riportato sulla Terra e ora è presso il
museo della USGA, che
racconta in dettaglio
tutta la vicenda, spiegando che la testa è una Wilson Staff Dyna-Power da
ferro 6 (credo che si dica così nel gergo del golf italiano) e mostrando anche
le foto di una delle fosse e delle impronte lasciate nella polvere lunare da
Shepard quando si posizionò per uno dei tiri. L’astronauta non rivelò mai la marca delle palline usate, per evitare pubblicità, anche se ci sono alcuni indizi in proposito: gli furono donate da un professionista del golf, Jack Harden, presso il River Oaks Country Club di Houston.
Questa è una foto di Shepard, scattata qualche anno dopo, che mostra bene l’attacco della testa e le dimensioni molto compatte del manico ripiegabile.
Il gesto di Alan Shepard fu un momento di umanità in una serie di missioni a volte caratterizzate da un eccesso di tecnologica freddezza, ma ebbe anche un valore simbolico. Il golf divenne il
primo sport giocato su un altro corpo celeste e gli Stati Uniti dimostrarono anche in questo modo
la loro maestria nel campo spaziale rispetto ai sovietici, che non riuscivano
neppure a far arrivare sulla Luna un cosmonauta mentre gli americani si permettevano persino di giocare. Non va dimenticato che le missioni Apollo erano un esercizio di propaganda politica nel quale la scienza era secondaria.
Fra l’altro, inizialmente la NASA si era opposta all’idea di Shepard. L’astronauta spiegò che il bastone e le due palline non sarebbero costate nulla al contribuente americano e che li avrebbe usati soltanto se la missione avesse avuto successo e soltanto al termine di tutte le attività pianificate. In un’intervista nel 1998, Shepard raccontò di aver detto molto chiaramente a Bob Gilruth, direttore del Manned Spaceflight Center che era contrario alla proposta, queste parole: “Non sarò così frivolo. Voglio aspettare la fine della missione, mettermi davanti alla telecamera, dare una botta a queste palline con questo bastone improvvisato, ripiegarlo, mettermelo in tasca, risalire la scaletta, chiudere la porta e andare.”
In ogni caso, quei due tiri di Alan Shepard
costituirono un esperimento di fisica non banale. L’idea di giocare a golf sulla Luna era stata lanciata per scherzo dal popolarissimo comico statunitense Bob Hope durante una sua visita alla NASA e Shepard notò che sarebbe stato un ottimo modo per mostrare agli spettatori della missione la differenza della gravità lunare. Nessuno aveva mai tirato una
pallina da golf nel vuoto, dove non c’è l’effetto Magnus
prodotto dall’interazione delle fossette della pallina con l’aria. Inoltre il fatto
stesso di riuscire a centrare le palline con la testa del bastone, nonostante
la limitatissima visibilità verso il basso offerta dalla tuta e la rigidità
delle articolazioni delle braccia della tuta, fu una testimonianza dell’abilità
e della determinazione di Alan Shepard.
Quelle palline sono ancora là, piccole testimoni di un’avventura incredibile
di mezzo secolo fa, in attesa che qualcuno ritorni a visitare quei luoghi
alieni e silenti.
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altri metodi.
È disponibile la puntata
di stamattina
del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, condotta da me
insieme a
Tiki. La mia sublime imitazione del verso di una foca è a 8:10 circa del podcast.
Anche la Polizia di Stato italiana si associa all’allarme per i furti di account WhatsApp: in un comunicato, segnala e spiega la tecnica utilizzata dai ladri.
La vittima riceve un messaggio sul proprio telefonino con una richiesta apparentemente innocente: “Scusa, ti ho inviato per sbaglio un codice, me lo puoi rimandare?” o qualcosa di analogo. La vittima ha in effetti ricevuto pochi istanti prima via SMS un codice di sei cifre e quindi pensa di fare un favore al proprio interlocutore rimandandoglielo.
Ma è una trappola: il codice, infatti, è quello che WhatsApp manda all’utente quando si vuole trasferire il proprio account a un altro telefono o a un altro numero. Chi ha quel codice può prendere il controllo dell’account.
La trappola è particolarmente credibile perché spesso la richiesta di mandare il codice sembra arrivare da una persona che si conosce e di cui quindi ci si fida: in realtà, spiega la Polizia di Stato, solitamente il conoscente è “un’altra vittima
della frode che ha già subito il furto dei dati, in particolare della
rubrica, nella quale c’era anche il vostro numero di telefono”.
La difesa è semplice: se ricevete una richiesta di questo genere, per prima cosa ignoratela e non mandate nessun codice a nessuno. Se conoscete il mittente, contattatelo usando un altro canale (una telefonata o un incontro di persona) e avvisatela del problema. E se potete, segnalate il caso alle autorità. Per maggiore sicurezza, attivate l’autenticazione a due fattori (o verifica in due passaggi) su WhatsApp, spiegata qui.
Se il furto di account è già avvenuto, potete consultare le apposite FAQ di WhatsApp per tentare il recupero dell’account.
Se vi state chiedendo perché qualcuno dovrebbe volervi rubare l’account WhatsApp, la risposta è complessa: a volte si tratta di un ficcanaso che conoscete e che vuole farsi i fatti vostri o farvi un dispetto o una molestia (un ex partner, un bullo), ma più spesso si tratta di criminali informatici che usano gli account WhatsApp rubati per compiere estorsioni semplici (“pagami se vuoi riavere il tuo account”) o più articolate (“ho le tue foto intime o quelle del tuo partner, pagami o le mando in giro”), oppure per fare spamming.
Polle Vanderhoof, un ricercatore olandese di sicurezza informatica, si è accorto che alcune macchine per caffè Nespresso Pro dotate di un lettore di smart card per i pagamenti erano vulnerabili, e per dimostrarlo ha creato sulla propria tessera un credito di ben 167.772 euro e 15 centesimi di credito per consumare caffè.
Vanderhoof ha infatti scoperto che questi distributori usavano delle smart card obsolete, le Mifare Classic della NXP Semiconductor, le cui insicurezze sono note dal 2008.
Ma Nestlé (titolare del marchio Nespresso) ha continuato a usare queste smart card vulnerabili, e così Vanderhoof ha usato un lettore di carte NFC e del software per analizzare le comunicazioni crittografate fra le smart card e il distributore ed è riuscito a decifrarle.
Ha scoperto così che il valore della carta veniva salvato sulla carta stessa invece di risiedere su un server remoto: una soluzione molto semplice, snella ed efficace, ma anche molto vulnerabile.
Il ricercatore ha così alterato i tre byte (24 bit) usati per memorizzare il credito disponibile sulla tessera e ci ha scritto il valore massimo possibile, ossia 167.772,15 euro.
Per chi stesse pensando di imitare Vanderhoof per avere caffè gratis a vita: sarebbe un reato, e comunque Nestlè ha già modificato i propri sistemi, proprio perché Vanderhoof l’ha avvisata: il ricercatore ha infatti agito responsabilmente e ha prima avvisato l’azienda e poi, una volta sistemato il problema, ha pubblicato un articolo tecnico che lo spiegava.
La vicenda resta utile come promemoria: per le altre aziende, del fatto che usare tecnologia obsoleta è un rischio; per noi comuni utenti, del fatto che la crittografia e le insicurezze informatiche si possono nascondere ovunque. Persino in un banale caffè.
La crescente popolarità di social network solo audio come Clubhouse (e le funzioni analoghe in arrivo su Twitter) e dei messaggi vocali su WhatsApp e simili è un’occasione per riflettere sulle nuove forme di comunicazione e sui loro pregi e limiti. Sembra che la tendenza stia portando sempre più ad abbandonare la telefonata classica e anche il messaggio di testo in favore dei messaggi vocali.
Molti utenti trovano che usare un messaggio vocale invece di scrivere sia più veloce e renda più chiara l’intenzione e il tono di chi parla; inoltre è possibile produrli mentre si hanno le mani impegnate o quando manca la possibilità di concentrarsi su schermo o tastiera.
Ci sono poi tanti casi nei quali un messaggio vocale è l’unica via: analfabetismo, difficoltà a scrivere una lingua ma non a parlarla, dislessia,
ipovisione o cecità, impossibilità fisica a scrivere. In questo senso i messaggi vocali sono estremamente utili e preziosi.
Ma attenzione agli abusi, soprattutto per lavoro. Molti mandano messaggi vocali semplicemente per pigrizia, senza considerare che mandare
un messaggio vocale farcito di errori e di "uh.. eh...uhm..."
e che non va al sodo, invece di scrivere, vuol dire che chi manda considera più importante il
proprio tempo di quello di chi dovrà ascoltarselo.
Leggere è di solito molto più veloce che ascoltare. E non sempre è possibile
ascoltare un vocale, per esempio nei luoghi affollati o rumorosi, senza privacy, o nei quali
si deve mantenere il silenzio e non disturbare gli altri. Inoltre non è possibile fare ricerche all’interno dei messaggi vocali per ritrovare un’informazione.
Considerate quindi l’opportunità di usare la funzione di trascrizione della voce, invece di un messaggio vocale, ovviamente ricontrollando che cosa ha capito il telefonino prima di inviarlo, per evitare malintesi. Oppure semplicemente rinviate l’invio di un messaggio fino al momento in cui potete fermarvi a scriverlo e comporlo in modo efficace e comprensibile.
So che oggi può sembrare un’eresia, ma ricordate che potreste anche molto semplicemente telefonare.
Il messaggio vocale, insomma, fa risparmiare tempo a chi lo manda ma lo fa spendere a chi lo riceve. E se qualcuno si offende e si giustifica dicendo che i vocali si possono ascoltare mentre si fa altro e invece i messaggi di testo richiedono di fermarsi a leggerli, suggerisco questa risposta: “In altre parole, mi stai dicendo che le cose che faccio sono così
stupide e facili che posso farle anche mentre ascolto messaggi. Secondariamente, mi stai dicendo che i tuoi messaggi sono così poco importanti che posso ascoltarli mentre sto facendo altro.”
Tutti stanno parlando di Clubhouse, il social network basato sulle conversazioni audio: solo voce, niente testo. In meno di un anno ha già raggiunto una valutazione di mercato di un miliardo di dollari. Se ne parla anche grazie alla scelta di dargli un’immagine di esclusività limitando l’accesso (bisogna procurarsi un invito da chi è già utente) e offrendo l’app soltanto per iPhone.
Chi è su Clubhouse può seguire uno specifico utente, per esempio una delle numerose celebrità che si sono iscritte, oppure un argomento o un cosiddetto club a tema, e selezionare delle stanze virtuali temporanee nelle quali è in corso una conversazione che può includere anche migliaia di persone che ascoltano conferenze o discorsi di qualcuno che ritengono interessante.
Si può “applaudire” premendo rapidamente l’icona del microfono, e chi vuole dire qualcosa, “alza la mano” virtualmente e l’amministratore della stanza può dargli la facoltà di parlare a tutti i presenti.
La caratteristica principale di Clubhouse è che tutto è basato appunto sulla voce e sulla diretta: le conversazioni, una volta fatte, svaniscono per sempre (o almeno così dice Clubhouse). La voce è uno strumento molto immediato e dà la sensazione di essere molto più presenti e partecipi rispetto a una chat di testo. È come trovarsi seduti a tavola con una persona famosa. Diretta e solo voce: una volta queste cose si chiamavano radio.
A seconda dei gusti, Clubhouse può essere una forma di intrattenimento facilmente fruibile (basta ascoltare, non c’è nemmeno bisogno di leggere o guardare uno schermo) oppure una colossale perdita di tempo, visto che a differenza di una chat di testo non è possibile fare ricerche per parole chiave o citare facilmente le parole di una persona, e a differenza della radio la registrazione delle conversazioni è formalmente vietata, anche se il divieto è facilmente aggirabile con qualunque registratore esterno all’app e le norme di privacy di Clubhouse avvisano che Alpha Exploration, l’azienda che gestisce Clubhouse, è la prima a registrare tutto temporaneamente per motivi di sicurezza.
Come tutti i social network, anche Clubhouse raccoglie montagne di dati personali sui suoi utenti: i tipi di conversazioni ai quali si partecipa, le persone con le quali si conversa, la durata e l’orario delle conversazioni, e la localizzazione approssimativa. E gli utenti sono scarsamente tutelati, tanto che alcuni esperti parlano di lacune pesanti nella conformità al GDPR e alla normativa europea sulla protezione dei dati (Cybersecurity360.it).
Dal punto di vista della sicurezza c’è solo una raccomandazione di fondo: attenzione a quello che dite su Clubhouse. La voce identifica le persone con molta precisione, anche dal punto di vista legale. In una chat di testo è sempre possibile negare di aver detto una certa cosa affermando che è stato qualcun altro che ha avuto accesso all’account (il classico “non l’ho scritto io, signor giudice, mi hanno hackerato”). In una chat vocale è proprio la vostra voce a dire le cose che vi vengono contestate.