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Il Disinformatico: Repubblica

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2021/10/22

La bufala della Tesla schiantatasi in Texas e "nessuno era al volante"

Ricordate la vicenda della Tesla Model S che ad aprile 2021 si era schiantata vicino a Houston mentre "nessuno era al volante", secondo la polizia e come scriveva Repubblica? Le due persone a bordo erano morte.

Ora la perizia tecnica del National Transportation Safety Board dimostra, sulla base dei dati recuperati dalla “scatola nera” di bordo, che c’era eccome una persona al posto di guida e che l’acceleratore era premuto praticamente a fondo (al 98,8%) e che la velocità massima registrata nei cinque secondi precedenti l’impatto è stata di 108 km/h.

Data from the module indicate that both the driver and the passenger seats were occupied, and that the seat belts were buckled when the EDR recorded the crash. The data also indicate that the driver was applying the accelerator in the time leading up to the crash; application of the accelerator pedal was found to be as high as 98.8 percent. The highest speed recorded by the EDR in the 5 seconds leading up to the crash was 67 mph.

L’Autopilot, insomma, avrà anche un nome discutibile, ma in questo caso proprio non c’entra nulla. Vediamo se i giornali che hanno pubblicato la notizia iniziale pubblicheranno la rettifica. Per ora l’articolo di Repubblica è ancora al suo posto, com’era sei mesi fa, senza alcuna menzione dei nuovi risultati della perizia. Ne salvo una copia permanente, non si sa mai che qualcuno scopra il ravvedimento operoso.

La mia indagine iniziale, con tutti i dettagli e la cronologia della vicenda, è qui.


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2021/10/12

Il Capitano Kirk (William Shatner) va nello spazio. Stavolta per davvero

Ultimo aggiornamento: 2021/10/14 8:20. L’articolo è stato ampiamente riscritto dopo la conclusione del volo.

L’attore William Shatner, noto ai Trekker come il Capitano Kirk di Star Trek e a molti altri fan come T.J. Hooker dell’omonimo telefilm e come Danny Crane di Boston Legal, ha effettuato un volo spaziale suborbitale a bordo di un razzo New Shepard di Blue Origin il 13 ottobre, diventando la persona più anziana ad andare nello spazio: ha novant’anni (è nato il 22 marzo 1931), ma decisamente non li dimostra.

 

L’equipaggio di questo volo. Da sinistra: Chris Boshuizen (ex ingegnere NASA e cofondatore di Planet Labs), William Shatner, Audrey Powers (vicepresidente delle operazioni di missione e di volo di Blue Origin, che viaggia come rappresentante dell’azienda) e Glen de Vries (vicepresidente della sezione Life Sciences & Healthcare della Dassault Systèmes e cofondatore di Medidata).

Per l’occasione Shatner ha registrato questo bel video:

È stato un volo piuttosto breve, una decina di minuti in tutto: la capsula RSS First Step è salita fino a 341.859 piedi (104,19 km), raggiungendo quindi lo spazio perché ha superato la linea di Karman che definisce arbitrariamente il confine fra atmosfera terrestre e spazio, ma è ridiscesa subito dopo, perché non ha la velocità orizzontale (28.000 km/h) necessaria per entrare in orbita. Questa traiettoria offre comunque qualche minuto di assenza di peso.

La diretta streaming è stata disponibile su Blueorigin.com ed è embeddata qui sotto:

Chicca: formalmente Shatner non è il primo attore di Star Trek ad andare nello spazio, perché altre persone che hanno recitato nella saga ci sono già andate. Mi vengono in mente almeno tre nomi: Mae Jemison, Terry Virts e Michael Fincke. Sono infatti astronauti che hanno fatto piccole parti da attore in varie puntate della saga. Per cui Shatner è il primo attore di Star Trek che diventa astronauta, mentre gli altri sono astronauti che poi sono diventati attori di Star Trek.

Altra chicca: Shatner non ha pagato per questo volo, che gli è stato offerto da Blue Origin. Lo stesso vale per Audrey Powers. Solo Boshuizen e de Vries sono clienti paganti a tutti gli effetti.

---

Questi sono i momenti salienti del video qui sopra:

1h31m Salita lungo la scala fino alla capsula

1h36m Entrata nella capsula

2h23m Decollo

2h26m Separazione della capsula dal vettore

2h30m Atterraggio del vettore

2h31m Apertura dei paracadute della capsula

2h33m Atterraggio della capsula

2h43m30s Apertura del portello (eseguita da Jeff Bezos) e uscita degli astronauti, con commenti profondamente commossi di Shatner.

2h55m Bezos consegna la spilla da astronauta all’equipaggio.

È stata pubblicata una breve ripresa delle reazioni a bordo durante il periodo di assenza di peso. Notate lo sbigottimento totale di Shatner, rapito dalla bellezza di quello che sta vedendo:

Su YouTube ce n’è una versione più nitida:

Blue Origin ha pubblicato anche un’altra versione nella quale l’audio delle parole di Shatner e la sua commozione sono più chiare:

Come al solito, i giornali italiani si dimostrano ancora una volta incapaci di capire la differenza enorme fra volo suborbitale e volo orbitale, disinformando i propri lettori. Stavolta è il turno di Repubblica, che titola “Dalla fiction alla realtà Bezos manda in orbita l’anziano capitano Kirk”.

Fonti aggiuntive: Blue Origin, Blue Origin. Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico) o altri metodi.

2021/10/02

Repubblica e i lama che “affollano... le montagne del Tibet”

Daniele Mastrogiacomo su Repubblica scrive quanto segue (copia permanente, evidenziazione mia):

“I lama contro il Covid. Sì, proprio loro: i quadrupedi camelidi che affollano le Ande e le montagne del Tibet sembrano avere tutte le caratteristiche per difenderci dal male di questo inizio secolo.”

Mi è venuto il dubbio che i lama (Lama glama, quadrupedi), oltre a essere presenti in America Latina, siano allevati in Tibet come lo sono in altre parti del mondo, ma ho cercato senza trovarne alcuna conferma. 

Se Mastrogiacomo ha delle fonti che documentano una massiccia presenza di Lama glama in Tibet in aggiunta ai lama (monaci bipedi), o se le ha qualcuno che mi legge, le vorrei conoscere. 

Sottolineo che questa notizia compare nella sezione riservata agli abbonati, per cui Repubblica chiede che la gente paghi per leggerla.

Se il nome di Mastrogiacomo vi sembra familiare, è perché ad aprile 2020 fu coinvolto in questo plagio, sempre su Repubblica.

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2021/10/05. Zitta zitta, senza una parola di rettifica o di scuse per la scemenza scritta, Repubblica ha corretto l'articolo. 


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2021/02/07

Per Piero Melati di Repubblica, la Stazione Spaziale Internazionale orbita intorno alla Luna e Tom Cruise volerà su uno Shuttle

Questa è Repubblica. Il giornale cartaceo. Quello che si paga per avere informazioni corrette. Ma il 6 febbraio 2021, ieri, Piero Melati su quel giornale cartaceo ha scritto che la Stazione Spaziale Internazionale orbita intorno alla Luna.

“I primi pionieri sono pronti a partire. Da Hollywood, naturalmente. Tom Cruise ha annunciato che il suo prossimo set saranno le stelle. In ottobre decollerà insieme al regista Doug Liman a bordo di uno space shuttle, per raggiungere la Stazione spaziale internazionale che orbita intorno alla Luna.”

No, Melati: la Stazione orbita intorno alla Terra, a 400 chilometri di quota, non intorno alla Luna, che sta a quattrocentomila chilometri. Il volo di Tom Cruise è stato rinviato di uno o due anni. E l’attore non prenderà uno Shuttle, visto che lo Shuttle ha smesso di volare dieci anni fa. Volerà su una capsula Dragon.

Tre notizie false in un colpo solo.



Ringrazio @BibMarino per la segnalazione.

 

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Carlo Lucarelli e Alessandro Baricco “firmano” due recensioni identiche. Dello stesso libro. Su due giornali differenti. Allora, chi ha copiato? Nessuno

Ultimo aggiornamento: 2021/02/07 13:30.

Quando un lettore paga il Corriere della sera per leggere un articolo firmato da Carlo Lucarelli, si aspetta che l’articolo sia scritto da Carlo Lucarelli. Immagino che anche i lettori di Repubblica si aspettino che se un articolo porta la firma di Alessandro Baricco sia scritto appunto da Alessandro Baricco. Ma sembra che anche queste ormai siano pretese eccessive: il giornalismo italiano sa raggiungere vette sempre nuove di cialtroneria e di presa in giro dei suoi lettori.

Questo è Carlo Lucarelli sul Corriere della sera di sabato 6 febbraio 2021. O almeno così sarebbe portato a credere il lettore, vista la firma:

E questo è, sempre stando a quello che si legge, Alessandro Baricco su Repubblica il 26 gennaio 2021 (link alla fonte, successivamente modificata; copia permanente su Archive.org):

Screenshot della versione originale, tratto da Archive.org:


La straordinaria coincidenza è stata scoperta da @magellano83 e segnalata in questo suo tweet:

Come spiega Giornalettismo, le due recensioni sono identiche, ma non si tratta di plagio da parte di Lucarelli o Baricco: Repubblica ha pubblicato, al posto della sintesi dell’intervento video di Baricco, un testo di Lucarelli inviato da Einaudi.

Lucarelli ha spiegato pubblicamente la situazione: “Ragazzi, non so che dirvi. Ho scritto la mia recensione molto tempo fa, non conoscevo quella di Baricco e sono sicuro che lui non aveva letto la mia. Che ribadisco sincera e sinceramente mia”.

Repubblica si è scusata e si è difesa parlando di “errore redazionale”.


In altre parole, l’ennesimo esempio di metodo redazionale colabrodo. Però le fake news, signora mia, son colpa di Internet.

Come al solito arriveranno quelli che diranno “Eh, dai, non è morto nessuno, gli errori possono capitare, te la prendi troppo”. Ma a furia di commettere un errore oggi, un errore domani, un errore tutti i giorni, la fiducia del lettore crolla. E non si rialza più.

 

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2021/01/30

Antibufala Classic: L’immagine delle “crepe” nello Shuttle Columbia (2003)

I sette del Columbia

I sette del Columbia: da sinistra, Rick D. Husband, William C. McCool, Ilan Ramon, David M. Brown, Michael P. Anderson, Laurel B. Clark, Kalpana Chawla. Per aspera ad astra.

 

Indagine iniziale: 2003/02/02. Ultimo aggiornamento: 2021/01/31 14:55. La versione originale di quest’indagine è pubblicata qui su Attivissimo.net. Alcuni link potrebbero essere obsoleti. I tempi verbali sono stati aggiornati per tenere conto del tempo trascorso.

 

English abstract (il resto è in italiano)

Following the Columbia Space Shuttle disaster in February 2003, many TV and press reports showed a photograph which allegedly depicted cracks in the structure of Columbia, suggesting them as the cause of her disintegration upon reentry, which killed all seven astronauts on board.

Actually, the photograph doesn’t show cracks; it shows folds of the thermal insulation inside Columbia’s payload bay, which has nothing to do with protection from the heat of reentry. The payload bay is closed during reentry, so the area shown in the photograph is not exposed to any heat at all.

 

Premessa

Questa non è la solita pagina antibufala semiseria. Sette persone morirono nell’incidente dello Shuttle Columbia, l’1 febbraio 2003. Intorno alle loro morti si fece molto pessimo giornalismo e soprattutto nacque un falso scoop su presunte immagini di “crepe” nella navetta, la cui smentita non fu pubblicata dai media tradizionali con la stessa risonanza con la quale fu pubblicata la notizia fasulla iniziale, scaturita da una vergognosa incompetenza dei giornalisti preposti nel riferire l’accaduto.

 

La foto delle “crepe”

Numerosi giornali, emittenti televisive e siti Web, fra cui Repubblica.it, Rai.it, Corriere.it e sicuramente tanti altri italiani ed esteri, pubblicarono con grande evidenza, e senza alcuno spirito critico, una foto che circolava su giornali e TV in Israele. L’immagine era tratta da un video ripreso durante la missione del Columbia e avrebbe mostrato delle “crepe” o dei danni alla superficie della navetta.

La versione del Corriere, per esempio, è qui (copia permanente). 


 

Qui sotto presento un paio delle tante versioni in circolazione, che sono state più o meno ritoccate digitalmente (non da me) per esaltarne i colori e i dettagli.

immagine delle presunte crepe in colori originali

 

immagine della presunta crepa in colori ritoccati

Le immagini delle presunte “crepe” dello Shuttle.

 

Perché l’immagine è fasulla

Il dettaglio mostrato nell’immagine non mostra l’ala dello Shuttle e non mostra delle crepe nel rivestimento esterno della navetta.

Infatti qualunque cosa siano i dettagli mostrati, sono sicuramente sulla parte superiore della navetta, non in quella inferiore (dove si ritenne inizialmente che fosse avvenuto l’impatto al decollo e che si fosse scatenato il danno che poi causò il disastro) e nemmeno sul bordo dell’ala (dove si scoprì in seguito che si era verificato il danno principale).

Lo si capisce da due considerazioni molto semplici:

  • la prima è che l’intera parte inferiore della navetta è nera (grigio molto scuro, per essere pignoli) e il bordo dell’ala è nero o grigio, mentre la zona mostrata nel video è bianca;
  • la seconda è che sullo Shuttle non ci sono finestrini che guardano sotto. E per questa missione non era presente il famoso braccio robotizzato (il Canadarm) che poteva portare una telecamera al di fuori della navetta. 
Potrebbe allora essere un dettaglio della superficie superiore delle ali? Molti analisti, compresi numerosi esperti aerospaziali, nella foga del momento smentirono quest’ipotesi dicendo che
"...da nessun finestrino della navetta è possibile vedere l’ala del veicolo... questa circostanza è stata appena confermata dagli esperti delle altre sei agenzie che partecipano alla realizzazione della ISS (la stazione spaziale internazionale): oltre a Nasa e Esa, le agenzie di Canada, Russia, Giappone, brasiliana".

Una dichiarazione analoga fu riportata ad esempio presso Repubblica.it.

Ma la smentita non era corretta. In realtà le ali erano almeno parzialmente visibili dai finestrini dello Shuttle rivolti verso il vano di carico. Lo dimostra questa foto Nasa, tratta proprio dalla sfortunata missione del Columbia. L’originale ad alta risoluzione è disponibile presso Spaceflight.nasa.gov:

Le ali dello Shuttle erano visibili eccome dalla cabina. Questa foto fu ripresa attraverso i finestrini rivolti verso il vano di carico.

 

In teoria, quindi, quell’inquadratura presentata dai media potrebbe mostrare un dettaglio della superficie superiore delle ali. Ma le ali non hanno nessun elemento nero sporgente come quello mostrato nella foto misteriosa. Questo per ovvi motivi tecnici: non si possono lasciare sporgenze così esagerate su una superficie di un’ala, perché causerebbero una resistenza aerodinamica assurda. È un fatto facilmente verificabile nelle innumerevoli foto dello Shuttle disponibili sul sito della Nasa.

La spiegazione al mistero viene proprio ricercando quell’elemento nero: come segnalato presso Strangecosmos.com, si tratta di uno dei perni di accoppiamento sui quali si innestano i portelloni del vano di carico dello Shuttle.

Sul sito della Nasa, per esempio, c’è un’immagine panoramica in formato Quicktime VR che inquadra il vano di carico ed è ripresa da una delle telecamere che erano montate all’interno del vano stesso negli Shuttle. Se la scaricate e la ruotate verso destra, compare indiscutibilmente una struttura estremamente simile all’oggetto nero ritratto nella foto misteriosa.

Qui sotto ho raccolto alcuni fotogrammi della panoramica, carrellando da sinistra verso destra:

fotogramma della panoramica

fotogramma della panoramica

fotogramma della panoramica

fotogramma della panoramica con perno

Eccolo lì: l’oggetto misterioso.

 

Ora che l’oggetto misterioso è identificato, è facile trovarlo in altre foto della Nasa e soprattutto capire il punto di vista dal quale fu ripresa l’immagine in discussione: dall’interno del vano di carico dello Shuttle, guardando verso la paratia anteriore o posteriore del vano stesso.

Nel vano di carico c’erano appunto delle telecamere, comandabili dall’interno della navetta, e il bordo superiore delle paratie del vano era dotato di sedici perni di accoppiamento (otto sulla paratia anteriore, otto sulla posteriore). Queste informazioni sono facilmente reperibili nel sito della Nasa usando le parole chiave bulkhead latches e payload bay e sfogliando l’archivio fotografico della Nasa.

Nel Press Kit del tragico volo del Columbia c’è, a pagina 12, una foto del vano di carico, esattamente come fu configurato proprio per questa missione, che mostra bene la collocazione della telecamera presente sulla paratia anteriore del vano (freccia verde) e di due dei perni di accoppiamento (frecce gialle):

In questa immagine il muso dello Shuttle Columbia è in alto a destra e si notano i due rettangoli scuri che sono i finestrini della cabina dai quali si poteva osservare il vano di carico.

 

Dettaglio dell’immagine precedente.

La freccia indica la collocazione della telecamera sulla paratia anteriore del vano di carico. Immagine tratta dal Press kit della missione finale del Columbia.

 

Nell’immagine Nasa mostrata qui sotto, tratta da un’altra missione, sono visibili una telecamera (cerchiata in arancione) e alcui perni (due dei quali sono cerchiati in verde).

vista telecamera e perni


Da questi elementi si capisce che nella foto misteriosa, la telecamera è stata orientata verso l’esterno, in modo da inquadrare appunto uno dei perni situati nelle sue vicinanze.

Di conseguenza, la “crepa” che nell’immagine misteriosa compare in basso al centro (quella che a detta di alcuni sarebbe tenuta insieme dal nastro adesivo) era con tutta probabilità semplicemente una delle normali giunzioni irregolari della copertura termica flessibile che riveste l’interno del vano di carico, e l’“ammaccatura” era quindi verosimilmente una semplice piega di questo rivestimento.

Il "nastro adesivo" più grande era probabilmente un riflesso interno della lente della telecamera, mentre il "nastro" più esterno sembra essere stato un dettaglio della superficie del vano di carico. Sicuramente sfogliando l’immenso archivio della Nasa si trovano delle conferme: lascio a voi il cimento. 

L’ideale sarebbe recuperare il video integrale dal quale è tratta l’immagine controversa, in modo da capirne il contesto e il punto di ripresa: non sono riuscito a trovarlo, ma secondo il Corriere dell’epoca si tratta di una ripresa fatta “durante la telefonata fra Sharon e Ramon”, ossia fra l’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon e l’astronauta israeliano Ilan Ramon. Questa comunicazione, tecnicamente una in-flight conference, avvenne il 21 gennaio 2003, secondo le foto d’archivio di Getty Images.

Perni e rivestimento sono ben visibili in quest’altra immagine Nasa, disponibile ad alta risoluzione qui e relativa alla missione STS-109:

perni e rivestimento

Uno dei perni di innesto, situato sulla paratia posteriore del vano di carico (cerchio verde), e un esempio del rivestimento flessibile (cerchio arancione).

 

perni e rivestimento ingranditi

Ingrandimento di uno dei perni (la zona cerchiata in verde nell’immagine precedente). Notate anche quanto è irregolare e frastagliato il rivestimento termico: sembra "ammaccato".

 

dettaglio giunzioni

Un altro dettaglio delle giunzioni, di forma molto irregolare, del rivestimento termico all’interno del vano di carico.

 

Una delle telecamere del vano di carico è visibile insieme a un perno in quest’altra immagine, tratta dalla missione STS-103:

telecamera e perni

Una telecamera (riquadrata in arancione) e uno dei perni di innesto (riquadrato in verde).

 

telecamera e perni in dettaglio

Una telecamera esterna, in un ingrandimento della zona riquadrata in arancione nell’immagine precedente.

 

Le varie navette non erano tutte identiche: ognuna era leggermente diversa dall’altra. Anche le telecamere cambiavano da navetta a navetta, ma il concetto non cambia: ogni Shuttle aveva una o più telecamere nel vano di carico.

Per esempio, questa è una vista dall’alto della navetta Endeavour, presa dalla Stazione Spaziale Internazionale il 7 giugno 2002: mostra molto chiaramente una telecamera (di modello diverso da quella mostrata qui sopra) e i perni della paratia anteriore. L’immagine originale ad alta risoluzione è disponibile qui.

telecamera dell’Endeavour

Una telecamera (cerchiata in verde) della navetta Endeavour.

 

telecamera e perni dell’Endeavour

Un ingrandimento dell’immagine precedente: si vedono benissimo una telecamera (cerchiata in verde) e i perni (quelli del lato sinistro sono cerchiati in arancione).

 

Altre foto, trovate dagli utenti del newsgroup it.scienza.astronomia, mostrano chiaramente perni e telecamere. Per esempio, questa è una foto molto dettagliata della navetta Endeavour.

 

Conclusioni

Mistero risolto, dunque. Sarebbe stato bello che i media "ufficiali" si fossero  rimangiati la falsa notizia con la stessa enfasi con la quale la sbatterono maldestramente in prima pagina. Se ero riuscito a risolvere l’enigma io, con l’aiuto dei lettori, come mai non c’erano riusciti loro, pur avendo mezzi ben più potenti? Se vi vien voglia di mormorare "voglia di scoop", non siete soli.

Un lettore mi segnalò che il 3/2/2003 "...il TG5 aveva già smentito la notizia della crepa sulle ali e ammesso che invece si trattava del vano di carico." Io stesso fui intervistato da Caterpillar, la trasmissione di Radiodue, il 6/2/2003 per smentire questa foto. Ma tutto questo non impedì a Corrado Augias di ripresentare con enfasi la foto su Raitre, durante la trasmissione Enigma, il 7/2/2003. L’intervento di Augias era preregistrato, ma l’etica professionale avrebbe suggerito di non mandarlo in onda piuttosto che diffondere notizie sbagliate.

 

Ringraziamenti

Grazie ai tanti lettori che hanno contribuito a quest’indagine, segnalandomi dichiarazioni, dettagli tecnici e foto, e in particolare a glucrezi, Marco Fa** e Alex (un lettore di ZeusNews.it). Senza di loro, frugare negli archivi della Nasa e nella miriade di siti dedicati alla tragedia del Columbia sarebbe stato impraticabile.

 

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2021/01/24

Disperati che fanno “centinaia di migliaia di chilometri” nel retro dei camion. Il giornalismo del copiaincolla a neuroni spenti

La notizia è triste, ma il modo in cui viene gestita dal giornalismo è quasi altrettanto triste. O meglio, patetico.

Carlotta Rocci, su Repubblica, scrive (copia permanente):

Il più piccolo ha 12 anni, il più grande 17, alcuni di loro sono fratelli. Hanno viaggiato centinaia di migliaia di chilometri nascosti nel retro dei camion. La polizia stradale di Torino li ha trovati martedì, nell’area servizio di Stura Nord. Erano in 7, tutti afghani. 

Floriana Rullo, sul Corriere, scrive (copia permanente):

Il più piccolo di loro ha 12 anni, il più grande 17. Sono due coppie di fratelli, così come anche gli altri tre. Hanno viaggiato centinaia di migliaia di chilometri nascosti nel retro dei camion che doveva scaricare merce alla Pirelli di Torino. 

Notate delle somiglianze? Eppure sono due articoli firmati, su due testate differenti, che contengono lo stesso ridicolo errore delle “centinaia di migliaia di chilometri”. Evidentemente chi ha scritto l’articolo non ha ben chiare le dimensioni del pianeta sul quale vive. La circonferenza terrestre è 40.000 chilometri. Andare dall’Afghanistan a Torino facendo centinaia di migliaia di chilometri, oltretutto in sei mesi, come spiega uno degli articoli, richiederebbe un percorso leggermente tortuoso.

Ma la cosa più importante è che questo errore rivela che due articoli firmati da due giornaliste differenti hanno chiaramente copiato dalla stessa fonte e l’hanno fatto a neuroni spenti.

Allego gli screenshot per i comprensibilmente increduli:



La cosa curiosa è che cercando quello stesso errore in Google compaiono molte altre fonti che lo commettono:

Come se tutti avessero attinto alla stessa fonte, senza citarla e soprattutto senza nemmeno rileggerla. Un altro esempio di giornalismo copiaincolla, dove tutti prendono lo stesso testo standard da qualche parte e lo ripubblicano senza pensare a cosa stanno pubblicando, come qui, qui e qui.

Non so se è questo che si intendeva con il pluralismo dell'informazione.

Ho chiesto spiegazioni alle dirette interessate. Finora nessuna risposta.

 

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2020/12/08

Repubblica, Antonello Guerrera e la Mela di Newton

Ultimo aggiornamento: 2020/12/09 13:30.

Nuova puntata del grande giornalismo di Repubblica: "Antonello Guerrera e la Mela di Newton". Guerrera, a proposito di Isaac Newton, scrive della "celebre mela che gli cadde in testa a Woolsthorpe Manor da un albero". E linka pure una fonte per questa caduta. Un bel gesto, piuttosto raro nel giornalismo italofono.

Ma cosa dice la fonte linkata? Quella che dovrebbe confermare la storia della mela caduta in testa? Questo (copia permanente):

 

 

In altre parole, vista così, si ha l'impressione che Antonello Guerrera non abbia neppure letto le fonti che cita. Anzi, non ne avrebbe neppure letto il titolo. Credo che sia la prima volta che un giornalista cita le fonti che smentiscono il suo stesso articolo.

Ma sono sicuro che ci sarà un'altra spiegazione creativa, tipo "è stato il titolista", "il software ci mangia i neretti ma abbiamo continuato a usarli lo stesso" o "i link li aggiunge lo Stagista Schiavo di Boris, ora lavora qui"


2020/12/09 00:15. Roby, nei commenti, segnala che c‘è un’altra perla nell’articolo di Guerrera:

“Spesso tutti noi non ci interroghiamo sul concetto di luce, ma è quella porzione dello specchio elettromagnetico che risulta visibile all’occhio umano.”

Sì, c’è proprio scritto “specchio”.


2020/12/09 13:30. Repubblica ha rettificato e risposto: “Nessuno stagista, quello dello specchio/spettro è solo un refuso in un contenuto d'archivio che non è stato @antoguerrera ad aggiungere. Per quanto riguarda la mela, abbiamo esplicitato meglio che si tratta di un mito, pensavamo bastasse definirla "celebre" con tanto di link.”


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2020/10/24

La Svizzera nega la rianimazione agli anziani malati di Covid? No. Per ora no, e cerca di evitarlo. Ma si prepara al peggio

Pubblicazione iniziale: 2020/10/24 17:57. Ultimo aggiornamento: 2020/11/01 23:30. 

La Stampa ha pubblicato un articolo di Fabio Poletti (copia permanente qui) che cita il protocollo di triage svizzero da adottare in caso di esaurimento delle risorse mediche. L’articolo in sé è corretto, ma il titolista lo ha massacrato con un sensazionalismo acchiappaclic che è decisamente fuori luogo, intitolandolo “La Svizzera sceglie: rianimazione negata agli anziani malati di coronavirus”. Come se già adesso i medici andassero in giro a lasciar morire gli anziani. È falso.

Repubblica, invece, ha scritto che il protocollo sarebbe stato già “attuato”, titolando Se la Svizzera non cura gli anziani (tempo presente, come se stesse già accadendo adesso) e ribadendo nel catenaccio “Attuato un protocollo per le terapie intensive che riguarda gli over 75 in caso di disponibilità limitate”. Nel testo, l’articolo senza firma dice che “anche nella civilissima Svizzera gli anziani vengono messi da parte”. Di nuovo il tempo presente.

L’articolo iniziale de La Stampa è stato ripreso da Il Fatto Quotidiano e ANSA e approfondito (con link alle fonti, come si deve) da Open. Il clamore italiano ha indotto la stampa svizzera ticinese a parlarne (per esempio Ticinonews).

Ne scrivo brevemente perché molti di voi mi hanno segnalato l’articolo sapendo che abito in Svizzera e quindi mi hanno chiesto lumi in proposito.

Il protocollo in questione è questo (a La Stampa o Repubblica non costerebbe nulla linkarlo, ma non lo fa, a differenza di Open) e non è affatto applicato in questo momento. Se Repubblica o La Stampa hanno prove del contrario, che le tirino fuori. 

Questo protocollo fa semplicemente parte di quei piani che ogni governo, ogni pubblica amministrazione, ogni Protezione Civile che abbia un minimo di buon senso prepara in anticipo per decidere come affrontare le situazioni più drammatiche qualora si presentassero.

Il documento, intitolato “Pandemia Covid-19: triage dei trattamenti di medicina intensiva in caso di scarsità di risorse” e redatto dall’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche e dalla Società Svizzera di Medicina Intensiva, lo mette subito in chiaro: “Se le risorse a disposizione non sono sufficienti, occorre prendere decisioni di razionamento”

Per ora le risorse sono sufficienti, ma l’aggravarsi della pandemia da Covid fa prospettare il rischio che le risorse non bastino per tutti. E se si arriverà a quel punto, allora bisognerà avere pronte delle regole precise su come assegnare quelle risorse. Il protocollo definisce queste regole: pragmatiche, severe, ma necessarie. Immagino che il governo italiano abbia un documento analogo, che so, in caso di eruzione del Vesuvio (questo) o di crollo di una diga.

Per esempio, il documento svizzero dice di non voler considerare criteri tipo “l’estrazione a sorte, il principio «first come, first served», la priorità a persone con un elevato valore sociale”. E descrive i principi etici fondamentali da usare: equità, salvare il maggior numero possibile di vite, proteggere gli specialisti coinvolti, eccetera.

Il triage è un concetto assolutamente normale per chiunque lavori nella gestione delle emergenze: in medicina, per esempio nelle liste d’attesa per donazioni di organi. C’è un solo organo donato e cinque pazienti compatibili in fin di vita che ne hanno bisogno. A chi lo dai? Tiri la monetina?

Lo stesso vale in tempo di guerra, o in caso di attentato o disastro che causa tanti morti. Medici e soccorritori arrivano e per prima cosa fanno triage: se si rendono conto di non avere risorse sufficienti a salvare tutti, devono fare delle scelte terribili, come lasciar perdere o dare palliativi a quelli che sanno di non poter salvare e concentrarsi su quelli salvabili. Ed è inutile fare i buonisti in poltrona: no, spesso non è possibile salvare tutti.

Fra l’altro, il documento svizzero risale al 20 marzo scorso, non è neanche una novità: ne parlava già il Corriere del Ticino in quella data. 

Insomma, non so quale sia il senso di questi articoli. Il fatto che le autorità si preparino a gestire una situazione drammatica che comporta sacrifici e scelte durissime e non la affrontino tirando a indovinare sul momento non dovrebbe essere una novità. L’esistenza di questo documento svizzero è una non notizia. A meno che l’obiettivo di questi giornali sia far pensare ai propri lettori “oddio guarda gli svizzeri, come sono freddi ’sti gnomi di Berna che già pianificano chi lasciar morire” per acchiappare qualche clic pubblicitario in più. Come se gli ospedali italiani non fossero già popolati di primari e infermieri esausti e in lacrime che fanno queste scelte tutti i santi giorni. E come se i medici italiani non avessero già pronti protocolli analoghi. Di cui Il Fatto Quotidiano parlava già a marzo scorso.


2020/11/01 18:00

La Radiotelevisione Svizzera di lingua italiana parla della vicenda in questo articolo del 26 ottobre, confermando le mie spiegazioni. Il dottor Paolo Merlani, direttore sanitario dell’Ospedale di Lugano, dice che la notizia «Presentata così come ha fatto la stampa italiana non è corretta».

Poco più di una settimana dopo la pubblicazione iniziale di questo mio articolo, la necessità di scegliere a chi assegnare i posti in terapia intensiva è diventata terribilmente concreta. Tio.ch segnala che nel canton “Soletta i posti in terapia intensiva si stanno esaurendo: già venerdì erano solo 15, a fronte di 17 pazienti che ne avrebbero avuto bisogno. Anche nel Giura le strutture sono sovraccariche, e alcuni pazienti sono stati trasferiti a Basilea.” Nel canton Vallese, “un ultraottantenne ricoverato all'ospedale di Sion con gravi sintomi di Covid ha dovuto interrompere il trattamento. «Normalmente avremmo trasferito questa persona in terapia intensiva, in modo che avesse una minima possibilità di sopravvivenza» ha dichiarato alla Nzz am Sonntag Bienvenido Sanchez, vice-capo del reparto terapia intensiva. «Nella situazione attuale, però, preferisco tenere liberi gli ultimi letti per i casi in cui c'è più speranza». In realtà il problema non sono tanto i "letti" in sé. All'ospedale di Sion ce ne sono ancora quattro liberi. Ma manca il personale”.

 

Ringrazio @damariani1 per la segnalazione del protocollo italiano e @davidegrandi per la segnalazione del piano per il Vesuvio. Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

2020/04/20

Repubblica copia da El País e se ne strafrega delle proteste della giornalista plagiata. Poi corregge silenziosamente

Ultimo aggiornamento: 2020/04/21 13:10.

La giornalista Catalina Oquendo di El País ha pubblicato questo articolo (copia su Archive.org) il 18 aprile scorso. Daniele Mastrogiacomo, su Repubblica, ha pubblicato lo stesso giorno un articolo pressoché identico (screenshot). Parlano entrambi del dramma della fame nella periferia di Bogotà a causa della pandemia. Usando, stranamente, le stesse cifre e persino le stesse dichiarazioni.

Questo, per esempio, è un brano dell’articolo di Oquendo:

Somos una familia de nueve personas y no estamos en ningún listado del Gobierno, tengo una mujer embarazada y dos niños más en la casa y no tengo nada para darles de comer. Por eso estoy acá”, decía una mujer mientras sacudía una camisa roja de puntos blancos.

Questo è invece un brano dell’articolo originale di Mastrogiacomo:

“Siamo una famiglia di nove persone e non appariamo in alcuna lista del governo di sostentamento. Ho una moglie incinta e due bambini ma in casa non ho nulla da mangiare”, spiega un uomo con indosso una camicetta rossa e bianca a una cronista attirata sul posto dalle voci che si rincorrono in una città spettrale. “Per questo adesso sono qui”.

Notate qualche somiglianza? Chi sarà mai la “cronista attirata sul posto” che Mastrogiacomo non nomina? E chi saranno mai queste persone che cambiano sesso ma dicono entrambe esattamente la stessa cosa indossando tutt’e due la stessa camicetta rossa e bianca?

Oquendo ha contestato pubblicamente il plagio:



La risposta di Mastrogiacomo: si è “ispirato”, non capisce il problema.



Screenshot:


In traduzione (correggetemi se ho sbagliato qualcosa): “Salve Catalina, [scusami] se mi sono ispirato al tuo articolo, l'ho trovato pieno di dettagli importanti in un momento così difficile che coinvolge tutto il mondo. Non capisco il problema. Come vedi l'ho scritto in italiano basandomi sulle informazioni che tu hai riportato dalla Colombia, dove tu vivi e io no. Succede la stessa cosa con i miei articoli, più volte.”

Da Mastrogiacomo e Repubblica nessuna attribuzione, nessuna citazione della fonte, nessun link all’articolo di Oquendo.

Poi la gente mi chiede perché non faccio il buonino e contatto privatamente giornalisti e redazioni. Mi chiede perché uso etichette come “giornalismo spazzatura”. Ecco perché. Perché chi copia e plagia, e chi risponde così ipocritamente a chi lo rimprovera, e se ne fotte della deontologia, va sputtanato pubblicamente.

Questo è il giornalismo di Repubblica. Questi sono quelli (FIEG) che si lamentano che Telegram ruba gli articoli. Questi sono quelli (Ordine Nazional dei Giornalisti) che vorrebbero mettere i bollini alle notizie.


2020/04/21 13:10


L’articolo su Repubblica, quello del quale Mastrogiacomo non capiva il problema, è stato aggiornato estesamente per citare la fonte. Ecco a confronto la versione originale e la versione attuale, priva di qualunque scusa o indicazione di rettifica, con buona pace della deontologia. Ho evidenziato in grassetto le modifiche principali.

Versione originaleVersione attuale
Un drappo, una maglietta, una felpa, una federa. Tutti rossi. Punteggiano le facciate dei palazzi di Soacha, periferia povera di Bogotá. Sono i nuovi segnali di soccorso: uomini e donne, giovani coppie, intere famiglie da tre settimane tappate in casa per arginare il coronavirus e che adesso hanno finito i soldi, non possono neanche più comprare da mangiare. Qui vivono 50mila persone, gente costretta a lasciare paesi e campi, fattorie e animali, vittime di un esodo forzato, ex guerriglieri che da tre anni cercano di ricostruirsi una vita, venezuelani fuggiti da una catastrofe sopportati a fatica da un popolo che sopravvive con difficoltà. E che adesso, in piena emergenza Covid 19, costretti a stare a casa, con le strade vuote, senza più possibilità di vendere le cose che hanno sempre venduto, di svolgere quei lavori informali, senza alcuna protezione, assistenza, cure sanitarie, patiscono la fame. Accade nei quartieri popolari della capitale.Un drappo, una maglietta, una felpa, una federa. Tutti rossi. Punteggiano le facciate dei palazzi di Soacha, periferia povera di Bogotá. Sono i nuovi segnali di soccorso: uomini e donne, giovani coppie, intere famiglie da tre settimane tappate in casa per arginare il coronavirus e che adesso hanno finito i soldi, non possono neanche più comprare da mangiare. Qui vivono 50 mila persone, gente costretta a lasciare paesi e campi, fattorie e animali, vittime di un esodo forzato, ex guerriglieri che da tre anni cercano di ricostruirsi una vita, venezuelani fuggiti da una catastrofe sopportati a fatica da un popolo che sopravvive con difficoltà. E che adesso, in piena emergenza Covid 19, costretti a stare a casa, con le strade vuote, senza più possibilità di vendere le cose che hanno sempre venduto, di svolgere quei lavori informali, senza alcuna protezione, assistenza, cure sanitarie, patiscono la fame. Accade nei quartieri popolari della capitale.
Ma questo simbolo di una crisi che oltre a essere sanitaria colpisce la parte più debole dei debole dei colombiani, l’esercito degli ambulanti, degli invisibili, gli ultimi degli ultimi, il 45 per cento della popolazione, si sia trasformato in un simbolo di lotta e di protesta. Nelle comunas alte di Medellín, dove dai balconi si battono i mestoli contro pentole e padelle, nelle calde pianure della Magdalena, nord del Paese, nelle lande paludose di Ciudad Bolívar, periferia estrema di Bogotá, nel quartiere di Bosa Porvenir, sempre ai margini della capitale, le stoffe rosse sono il nuovo Sos lanciato da chi cerca di salvarsi dalla pandemia ma rischia di morire di fame.La giornalista di El País, Catalina Oquendo, ha raccolto questo grido di aiuto e con notevole coraggio visto i rischi del coronavirus, riuscendo a ottenere un permesso per uscire di casa assieme a un fotografo, si è recata sul posto e ha confermato quello che le voci raccontavano in una Bogotà blindata. Nella sua corrispondenza racconta come questo aspetto nascosto di una crisi che oltre a essere sanitaria colpisce la parte più debole dei colombiani, l’esercito degli ambulanti, degli invisibili, gli ultimi degli ultimi, il 45 per cento della popolazione, si sia trasformato in un simbolo di lotta e di protesta. “Nelle comunas alte di Medellín, dove dai balconi si battono i mestoli contro pentole e padelle, nelle calde pianure della Magdalena, nord del Paese, nelle lande paludose di Ciudad Bolívar, periferia estrema di Bogotá, nel quartiere di Bosa Porvenir, sempre ai margini della capitale”, osserva la collega, “le stoffe rosse sono il nuovo Sos lanciato da chi cerca di salvarsi dalla pandemia ma rischia di morire di fame”.
Perfino i lenzuoli e le federe bianche appese alle finestre ad asciugare sono state macchiate con vernice rossa in un sentimento di solidarietà collettiva che avvolge tutta la Colombia. “Siamo una famiglia di nove persone e non appariamo in alcuna lista del governo di sostentamento. Ho una moglie incinta e due bambini ma in casa non ho nulla da mangiare”, spiega un uomo con indosso una camicetta rossa e bianca a una cronista attirata sul posto dalle voci che si rincorrono in una città spettrale. “Per questo adesso sono qui”.Perfino le lenzuola e le federe bianche appese alle finestre ad asciugare sono stati macchiati con vernice rossa in un sentimento di solidarietà collettiva che avvolge tutta la Colombia. “Siamo una famiglia di nove persone e non appariamo in alcuna lista del governo di sostentamento. Ho una moglie incinta e due bambini ma in casa non ho nulla da mangiare”, spiega a Catalina Oquendo un uomo con indosso una camicetta rossa e bianca, “per questo adesso sono qui”.
La chiamano la “strategia del drappo rosso”. È stata adottata anche da alcune amministrazioni. Il municipio di Envigado, il più ricco della Colombia, ha deciso di appendere una bandiera rossa all’ingresso del palazzo comunale. “Abbiamo fatto nostra questa iniziativa popolare”, dice il sindaco Braulio Espinosa, “per chiedere un aiuto più concreto e meno burocratico al governo nazionale e agli imprenditori”.La chiamano la “strategia del drappo rosso”. È stata adottata anche da alcune amministrazioni. Il municipio di Envigado, il più ricco della Colombia, ha deciso di appendere una bandiera rossa all’ingresso del palazzo comunale. “Abbiamo fatto nostra questa iniziativa popolare”, conferma sempre alla cronista di El País il sindaco Braulio Espinosa, “per chiedere un aiuto più concreto e meno burocratico al governo nazionale e agli imprenditori”.
Chi non ha più nulla in frigo e nelle dispense alla fine scende per strada. Agita le bandiere rosse, indossa capi rossi, si copre viso e naso con pezzi di stoffa anche questi rossi. Protestano e alzano cartelli. Tutti sanno cosa chiedono. Qualcuno si è organizzato per raccogliere un po’ di cibo. Altri girano per le case e recuperano quello che alcuni sono disposti a offrire. Poi passano davanti alle porte delle case che hanno lanciato la richiesta di aiuto e lasciano sull’uscio qualcosa che li sfamerà. Tutti conoscono questo popolo di lavoratori informali che lo Stato non ha mai registrato. Gente venuta dalle regioni interne, costrette a fuggire per gli scontri tra bande e guerriglia, approdata in una città dove ricchi e poveri, poveri e poverissimi, si mischiano in un circuito fatto di piccoli commerci, lavori saltuari e improvvisati. Una catena infinita che consente di sopravvivere adesso spezzata da un virus che minaccia di ucciderti anche di fame.Chi non ha più nulla in frigo e nelle dispense alla fine scende per strada. Agita le bandiere rosse, indossa capi rossi, si copre viso e naso con pezzi di stoffa anche questi rossi. Protestano e alzano cartelli. Tutti sanno cosa chiedono. Qualcuno si è organizzato per raccogliere un po’ di cibo. Altri girano per le case e recuperano quello che alcuni sono disposti a offrire. Poi passano davanti alle porte delle case che hanno lanciato la richiesta di aiuto e lasciano sull’uscio qualcosa che li sfamerà. Tutti conoscono questo popolo di lavoratori informali che lo Stato non ha mai registrato. Gente venuta dalle regioni interne, costrette a fuggire per gli scontri tra bande e guerriglia, approdata in una città dove ricchi e poveri, poveri e poverissimi, si mischiano in un circuito fatto di piccoli commerci, lavori saltuari e improvvisati. Una catena infinita che consente di sopravvivere adesso spezzata da un virus che minaccia di ucciderti anche di fame.


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2020/03/20

Repubblica e il super razzo “capace di superare di 27 volte la velocità della luce”

Anna Lombardi, su Repubblica, scrive che la Russia ha pronto un super razzo, capace di superare di 27 volte la velocità della luce, percorrendo fino a 33 mila chilometri in un'ora (copia permanente su Archive.org).

Per l’ennesima volta, Repubblica decide di far scrivere sulle proprie pagine gente che non sa nemmeno la differenza fra velocità della luce e velocità del suono. E Repubblica ha anche il coraggio di parlare di “notizie verificate” nel suo testo promozionale, proprio sotto un articolo che dice che 33.000 chilometri l’ora equivale a 27 volte la velocità della luce.

Alcuni di voi mi hanno rimproverato per queste correzioni. “Ma dai, Paolo” mi avete detto “te la prendi per sciocchezze, sono errorini che càpitano. Le notizie importanti le scrivono bene”. Ma càpitano spesso.

Ieri Gianluca di Feo, sempre su Repubblica, ha tirato fango inutilmente su un'azienda bresciana perché non si è nemmeno degnato di contattarla. La Copan Diagnostics è stata accusata di essere parte di chissà quale macchinazione per portare di nascosto negli Stati Uniti tamponi per il coronavirus. “Coronavirus, mezzo milione di tamponi da un'azienda di Brescia agli Stati Uniti”. Un’accusa portata con una serie di domande che facevano presagire complotti e italiani lasciati a corto di test in un momento così drammatico. Tutto questo perché Gianluca di Feo non ha fatto la cosa più elementare: verificare.

L'azienda lo ha scritto chiaramente: “Non c’è stata nessuna operazione in sordina, la merce è stata regolarmente sdoganata e ceduta a prezzo di mercato, Copan non ha venduto ad alcun governo. E, soprattutto, nessun tampone è stato tolto ai bresciani, ai lombardi, agli Italiani o agli Europei [...] Per avere risposta ai tanti interrogativi sollevati sarebbe bastato consultarci".

Cosa che Di Feo non ha fatto, secondo Copan (e Di Feo, nel suo nuovo articolo, non dice di aver fatto). Perché se l’avesse fatto, addio titolone, addio clamore e addio vendite.

In altre parole, anche le notizie serie si fanno con lo stesso metodo di quelle frivole. Ossia fottendosene del lettore, della deontologia, della dignità. Inventando titoli come “Prima pena di morte in Cina per uomo che tenta la fuga da Wuhan” quando non era a Wuhan e ha ucciso due funzionari (Huffington Post). Scrivendo imbecillità come “Un asteroide grande come l'Everest sfiorerà la Terra il 29 aprile” (TgCom24) o “Per paura del contagio annullate in #Cina le celebrazioni per i 60 anni dell' #Imperatore” (ANSA).

Però, mi raccomando, prendetevela pure con me quando uso l'espressione "puttane del clic". E nell’usarla mi scuso con le puttane, che fanno un servizio trasparente, attendibile e corretto.

Le avete volute, le avete pagate con il bombardamento pubblicitario e la profilazione di massa, continuate a cliccarle, continuate a tollerare un Ordine dei Giornalisti che gioca alle belle statuine, e questo è il risultato. Nel pieno della peggiore emergenza mondiale, quando servirebbe informazione chiara e sincera, abbiamo questo. Al posto della penna, lo spandiletame.

Godetevi il risultato. Io vado ad abbonarmi a Il Post.


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2020/03/15

Repubblica, il copiaincolla e il “virs altamente coraggioso”

Repubblica e molte altre testate hanno pubblicato una chiarissima dimostrazione di come il giornalismo lavori oggi: è un orgiastico copiaincolla di articoli scritti di fretta e senza nemmeno rileggerli, massacrati dall’abuso del correttore automatico.

Repubblica scrive infatti "Se qualcosa ucciderà 10 milioni di persone nelle prossime decadi, è più probabile che sia un virs altamente coraggioso invece di una guerra. Non missili ma microbi" (copia permanente su Archive.org).

Il “virs altamente coraggioso” viene citato da moltissime altre testate, come mostra una semplice ricerca in Google: Meteoweek, Teleclubitalia, Mattino di Padova, Corriere delle Alpi e altri ancora.


E nessuno corregge. Beh, quasi nessuno: perché alcuni hanno corretto “virs” in “virus”, ma se ne sono strafregati di chiedersi che cosa potesse mai significare “virus altamente coraggioso”: Gazzetta di Reggio, Informazione.it, Notizie.it, Yahoo.




Uno scrive, tutti gli altri copiano e incollano, senza alcun controllo. Questa non è informazione: è una presa in giro.


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2019/06/05

Repubblica e la balla del divieto USA di tagliare le unghie ai gatti

“No al taglio delle unghie: il disegno di legge che protegge i gatti di New York”, titola oggi Repubblica (copia permanente su Archive.org). Ma è una balla, perché il disegno di legge parla di declawing, ossia di asportazione permanente degli artigli.

Basterebbe leggerlo, il testo del disegno di legge:

BILL NUMBER: A1303B

SPONSOR: Rosenthal L (MS)

TITLE OF BILL: An act to amend the agriculture and markets law, in
relation to prohibiting the declawing of cats

PURPOSE: This bill prohibits the performance of declawing procedures on cats.

Basterebbe sapere l’inglese o aprire un dizionario gratuito:

declaw

transitive verb
: to remove the claws of (an animal, such as a cat) surgically

Basterebbe, insomma, non lavorare coi piedi.

Fra l’altro, non è una semplificazione del titolista incompetente: il testo dell’articolo di Repubblica (non firmato) ribadisce la balla.

New York si prepara a diventare il primo Stato a vietare il taglio delle unghie dei gatti

Rosenthal ha definito la recisione delle unghie, un atto "barbaro e disumano

La veterinaria Michelle Brownstein ha smesso di recidere le unghie 15 anni fa, quando ha constatato che la procedura ha conseguenze sui gatti per tutta la vita

Complimenti a Repubblica; grazie, ma ci bastavano già le notizie false che girano sui social network. Confidavamo nel giornalismo per difendercene, non per fabbricarle.


18:30


Repubblica ha provato a correggere, ma la pezza è peggiore del buco: adesso scrive che si tratta addirittura di “taglio delle falangi” nel titolo e precisa nell’articolo che “la deungulazione” è “la rimozione delle falangi dei gatti” (copia permanente su Archive.org). È vero che il declawing solitamente viene eseguito troncando l’ultima falange (la punta) delle zampe, ma quanti capiranno che ”rimozione delle falangi” non significa asportazione del dito intero? Non si poteva dire semplicemente “No alla rimozione delle unghie”? Mah.




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2019/05/20

Per Repubblica, Ansa e altre testate, “algoritmo” e “logaritmo” sono la stessa cosa

Ultimo aggiornamento: 2019/05/20 14:30.

“Tac con radiazioni dimezzate grazie a un nuovo logaritmo: premiate due ingegnere italiane“, titola Repubblica (copia permanente su Archive.org). E nel testo ribadisce che di logaritmo si tratta, a suo dire: “Si tratta di un logaritmo che permetterà il collaudo di macchine di varie aziende e in diversi modelli in modo da poter effettuare le Tac a dosi ridotte”.

Ansa, da parte sua, non è da meno: “Si tratta di un logaritmo che permettera' il collaudo di macchine di varie aziende e in diversi modelli in modo da poter effettuare le Tac a dosi ridotte” (copia permanente su Archive.org).

Logaritmo, algoritmo, che differenza ci sarà mai? In fin dei conti, è la redazione Scienze di Repubblica. Volete davvero che sappiano qualcosa di scienza? Pretendete davvero che si degnino almeno di consultare Wikipedia?

È sicuramente una coincidenza (si fa per dire), ma Repubblica ha corretto poco dopo il mio tweet.



Ansa, invece, procede tuttora imperterrita: logaritmo era e logaritmo rimane.

Dopo la pubblicazione iniziale di questo mio articolo mi è arrivata la segnalazione che anche lo svizzero Corriere del Ticino ha preso lo stesso granchio:




Complimenti, comunque, alle due ingegnere: per loro la vera sfida sarà non arrabbiarsi di fronte all’inettitudine dei giornalisti che dovrebbero fare informazione.


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