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2022/12/13

Fusione nucleare, le minchiate incredibili scritte da Repubblica, Corriere, ANSA e La Stampa. Non c’è altro modo sincero di definirle

Pubblicazione iniziale: 2022/12/13 21:57. Ultimo aggiornamento: 2022/12/14 18:30.

A proposito dell’annuncio odierno del raggiungimento di una tappa importante verso uno sfruttamento pratico della fusione nucleare, Repubblica, il Corriere, ANSA e La Stampa hanno pensato bene di informare i loro lettori deliziandoli con quella che posso solo definire come una compilation di minchiate. Non è volgarità: è una descrizione meramente tecnica dei fatti. 

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Jaime D’Alessandro scrive su Repubblica (link intenzionalmente alterato; copia permanente) che

"192 laser hanno riscaldato a oltre cento milioni di gradi un nucleo, che ha richiesto mesi per essere costruito, ad una velocità superiore a quella della luce..."

Lo fa, oltretutto, in un virgolettato, che attribuisce a un fisico del Lawrence Livermore National Laboratory, Marvin Adams, che fra le altre cose è vicedirettore per i programmi della Difesa degli Stati Uniti. Qui non si può parlare di refuso, bufala, svista o baggianata. Detta come va detta: è una minchiata, e di dimensioni irresponsabilmente apocalittiche perché messa in bocca come virgolettato a un fisico autorevolissimo, che quindi il lettore ha il diritto di presumere che parli con competenza. È una minchiata che fa inorridire chiunque abbia una conoscenza scientifica di base.  

Screenshot per gli increduli:

Marvin Adams non ha detto nulla di nemmeno vagamente assimilabile a quella cretinata sulla “velocità superiore a quella della luce” durante la conferenza stampa di presentazione del risultato scientifico, che potete vedere qui sotto. Adams parla da 11:44 a 15:30.

Ho chiesto a D’Alessandro quale sia la sua fonte e quale sia il testo originale e sto aspettando una sua risposta. Ringrazio @andbrusa che mi ha segnalato l’articolo di Repubblica.

---

Ma questa non è l’unica minchiata incredibile scritta dai giornali su questa notizia scientifica. C’è anche quest’altra (link intenzionalmente alterato; copia permanente), segnalata da Beatrice Mautino (@divagatrice) e attribuita da Federico Rampini a Claudio Descalzi, “chief executive dell’Eni”. Tenetevi forte:

La fusione «è il contrario della fissione», sottolinea, ricordando che questa nuova tecnologia «non genera radioattività, non produce scorie». Ha costi bassi, usa come materia prima l’acqua «pesante», cioè non distillata: anche quella di mare. E la consuma in piccole quantità, «da una bottiglia può generare 250 megawatt in un anno». 

Il Corriere ci spiega che l’acqua pesante è acqua non distillata. Sapevatelo. Intere generazioni di studenti di fisica vengono travolte dal gastrospasmo. Probabilmente a loro non resterà la forza di notare l’ulteriore minchiata, che normalmente spiccherebbe ma di fronte a quella sull’acqua pesante sbiadisce totalmente come un peto in un uragano: i megawatt al posto dei megawattora.

Rituale screenshot per i minchiatascettici:

Fra l’altro, per il suo articolo Rampini ricicla pari pari un intero blocco di testo tratto dal suo libro Il lungo inverno. A sinistra il testo intero dell’articolo di Rampini per il Corriere; a destra quello del libro dello stesso Rampini:


In sostanza, Federico Rampini ha dato al Corriere una pagina del suo libro riconfezionandola come articolo. È la nuova frontiera dell’ottimizzazione del giornalismo: Ctrl-C, Ctrl-V, ecco fatto.

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Su La Stampa, invece, un articolo non firmato (link intenzionalmente modificato; copia permanente) ci spiega il vero risultato straordinario dei fisici statunitensi: secondo il giornale, sono riusciti a far stare una mezza palla da basket dentro una capsulina che sta in un cilindro grande come quello mostrato dal fisico Marvin Adams durante la conferenza stampa. Questa:

La Stampa scrive infatti: “192 laser giganti della National Ignition Facility del laboratorio californiano hanno bombardato un piccolo cilindro delle dimensioni di metà di una palla da basket, contenente un nocciolo di idrogeno congelato.” E ancora: “Marv Adams, vice amministratore per i programmi di difesa della 'National Nuclear Security Administration', ha fornito una descrizione dell'esperimento che ha segnato la svolta sulla fusione nucleare. Tenendo in mano un cilindro, il dirigente ha spiegato che dentro c'era una piccola capsula sferica con un diametro pari a metà di quello di una palla da basket.

Ennesimo screenshot per gli increduli:

La stessa assurdità è stata scritta da ANSA (link intenzionalmente alterato; copia permanente), che arriva a contraddirsi da sola:

[...] i laser sono stati puntati su un contenitore cilindrico forato e lungo alcuni millimetri, dice all'ANSA Fabrizio Consoli, responsabile del laser per la fusione Abc dell'Enea. Il minuscolo cilindro racchiude a sua volta una capsula sferica dal diametro di tre o quattro millimetro [sic] [...] Tenendo in mano un cilindro, il dirigente ha spiegato che dentro c'era una piccola capsula sferica con un diametro pari a meta' di quello di una palla da basket.

Screenshot per gli ormai rassegnati:

Come è possibile scrivere una minchiata del genere quando le dimensioni del cilindro sono lì da vedere e dimostrano che è palesemente impossibile che ci stia dentro mezza palla da basket? Semplice: basta non pensare. E basta non rendersi conto che Marv Adams ha detto “half the diameter of a BB”. Non ha detto “basketball”. “BB” è il pallino di una pistola a pallini (BB gun); l’acronimo deriva da una specifica taglia di pallini, chiamata appunto BB, che misura circa mezzo centimetro, ma in inglese il termine “BB” indica genericamente un pallino che abbia grosso modo queste dimensioni.

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Questi sono i giornali, e i giornalisti, che hanno la pretesa che noi li paghiamo affinché loro ci informino su cosa succede nel mondo. E la giostra delle minchiate si ripete, puntuale, a ogni notizia anche solo vagamente legata alla scienza. L’idea di far scrivere gli articoli a qualcuno che sappia cosa sta dicendo, a quanto pare, è troppo rivoluzionaria. Questo non è un errore momentaneo: è una prassi redazionale.

2022/07/29

La Stampa e la bufala della risonanza che “inquina come 500 mila km in auto”

Secondo questo titolo de La Stampa, “Una risonanza inquina come 500mila km in auto: così la salute contribuisce al riscaldamento globale”. È falso, e la smentita è fornita nell’articolo stesso.

L’articolo, infatti, riporta questa frase: “Una risonanza magnetica che lavori per un anno mediamente produce una quantità di CO2 corrispondente all'inquinamento prodotto da un'auto che viaggi per 500mila chilometri” (copia permanente).

In altre parole, il titolo confonde una singola risonanza (inteso come esame medico) con un anno di lavoro della macchina che fa le risonanze magnetiche.

L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno in questo momento è la disinformazione. Specialmente quella che genera sensi di colpa inutili e insensati.

2021/12/08

Il Sole 24 Ore e i trilioni; La Stampa fa gli articoli usando Deepl

Questo è un “articolo” de La Stampa. Uso le virgolette per via di quella frase finale, lasciata in bella mostra: “Tradotto con DeepL.com/Translator (versione gratuita)”.

Oggi il giornalismo si fa così: si piglia un articolo straniero altrui (avendone i diritti o no, non si sa), lo si ficca in un traduttore automatico, e si pubblica il risultato. Grazie a @fabiobortolotti e ai tanti che mi hanno segnalato questa perla.

Il Sole 24 Ore, intanto, scrive che “trilione” vuol dire 3000 miliardi (grazie a @MarcoBigi66 per la segnalazione), e poi attribuisce a Bloomberg la scemenza che scrive: 

Apple è un passo dal raggiungere una capitalizzazione da 3mila miliardi di dollari [...] Lo scrive l’agenzia Bloomberg [...] al colosso di Cupertino basta un rialzo del 6% del titolo, oggi a quota 174 dollari, per diventare la prima azienda al mondo a spingersi sopra alla soglia del “trilione” di dollari.


 

Mi piacerebbe sapere se i giornali fanno lavorare gli inetti perché costano poco o perché i loro capi sono inetti anche loro e non si rendono conto delle cretinate da analfabeti che pubblicano, ma ho paura della risposta in entrambi casi.

Non ho altro da aggiungere.

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2021/08/16

L’ennesima figuraccia del giornalismo: la foto falsa della bandiera su Kabul spacciata per vera

Ultimo aggiornamento: 2021/08/16 18:45.

Ho perso la pazienza. La gente disperata muore a Kabul, e coloro che dovrebbero informarci su questa tragedia fanno ancora una volta i cialtroni totali.

O un giornalista.

Gli anni passano e i giornalisti non imparano nulla. Nemmeno un concetto semplicissimo come controllare le fonti. E il suo corollario: non pubblicare la prima foto che trovi in giro. Le basi, insomma.

Dieci anni fa, i giornali italiani abboccarono in massa ai palesi fotomontaggi che ritraevano il cadavere di Osama bin Laden e li pubblicarono senza il benché minimo controllo. Poteva essere una buona occasione per imparare la lezione, scusarsi pubblicamente e fare in modo che non accadesse mai più, istituendo una semplice regolina: non si pubblicano foto di cui non è garantita la fonte. E magari aggiungendole un corollario: prima di pubblicare una foto, di qualunque fonte, chiediti se è almeno vagamente plausibile; nel dubbio, non pubblicarla.

E invece no. Tantissimi giornali e telegiornali italiani stanno pubblicando in queste ore un palese fotomontaggio che mostra una bandiera attribuita ai Talebani che hanno riconquistato Kabul.

A parte la natura dilettantesca del fotomontaggio, che dovrebbe rivelare immediatamente a chiunque che la foto è un falso, basterebbe considerare che quella bandiera dovrebbe avere dimensioni enormi e che per sventolare così dritta dovrebbe essere investita da un vento da uragano. Macché, al Vero Giornalista queste semplici osservazioni non interessano.

Questo è Gianni Riotta (copia permanente):

Screenshot e segnalazione di Paolo Mellere.
Screenshot del Corriere della Sera pubblicato da evaristegal0is.
Screenshot de Il Giornale pubblicato da evaristegal0is.
Screenshot de La Stampa pubblicato da evaristegal0is.

Arrivano segnalazioni di pubblicazione o messa in onda da parte di TGLa7, TG2, SkyTG24, ItaliaOggi, Il Giornale, La Stampa, Corriere della Sera, TG5. Altri casi vengono segnalati da Pagella Politica, che insieme a Open ricostruisce la fonte della foto originale e l’itinerario virale del fotomontaggio.

Questo non è giornalismo, questo è dilettantismo puro. O è la furberia di chi non gliene frega niente del proprio dovere di informare il lettore. Questi sono i giornalisti ai quali affidiamo il compito di raccontarci la tragedia afghana e che si dimostrano incapaci persino di riconoscere un fotomontaggio da due soldi.

E non mi si venga a dire “eh, ma l’abbiamo tolta”. No: una porcheria simile non andava pubblicata in partenza. Non avrebbe dovuto superare i controlli redazionali e quelli di chiunque avesse due neuroni da sfregare l’uno contro l’altro.

Matteo Salvini (tweet; copia permanente):


 

 

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2021/05/16

Video UFO definito “autentico”, dichiarazioni “ufologiche” di Obama: cerchiamo di capire le parole invece di fantasticare

Ultimo aggiornamento: 2021/05/19 23:30.

Mi stanno arrivando parecchie richieste di commento su articoli come quello del Corriere della Sera, che parlano di un video di UFO che è stato definito “autentico” dal Pentagono.

La faccio molto breve: quando qualcuno dice che un video è autentico, vuol dire soltanto che non è stato alterato e che la sua provenienza è verificata. Non vuol dire che conferma una data interpretazione di cosa mostra.

Tipo, che so, se chiedi a George Lucas se una foto scattata sul set di Star Wars è autentica, e lui ti risponde di sì, non è che puoi andare in giro a dire che i Jedi esistono, Darth Vader è reale e puoi manipolare le menti deboli usando la Forza.

Per tutto il resto, consiglio a chi volesse ancora pensare che questi video mostrino veicoli alieni e che questo sarebbe stato confermato dal Pentagono di leggersi attentamente le dichiarazioni originali e non i virgolettati e gli abbinamenti farlocchi che circolano sulla stampa.

Per esempio, vediamo quali sono realmente le dichiarazioni dell’ex presidente statunitense Obama, citate dai media con titoli come “gli Ufo esistono e vanno presi sul serio” (che La Stampa ha abbinato a un’illustrazione di un disco volante in stile George Adamski, giusto per levare ogni dubbio che “UFO” venga considerato giornalisticamente sinonimo di “veicolo extraterrestre”):


Vittorio Sabadin de La Stampa, dietro paywall, scrive che “Obama ha dichiarato in una trasmissione televisiva che gli Ufo esistono, si muovono in modalità che contrastano con le leggi della fisica a noi conosciute e rappresentano un fenomeno che ‘va preso sul serio’”. L’illustrazione è stata poi sostituita con un’altra non molto migliore.

Sapete qual è la “trasmissione televisiva”? Per scoprirlo bisogna leggere la versione a pagamento dell’articolo. L’ho fatto io per voi. È il Late Late Show con James Corden, spiega Sabadin. Un programma d’intrattenimento leggero. Ovviamente se un ex presidente deve rivelare al mondo qualcosa di così importante, andrà a un programma del genere. Mica farà un comunicato stampa o un annuncio formale.

Già questo dovrebbe far capire che la notizia è una bufala, ma vediamo che cosa ha detto di preciso Obama. Questo è quello che secondo Sabadin sarebbe “la cosa importante” delle sue dichiarazioni (fatte, ripeto, in un programma d’intrattenimento):

“Ma ciò che è vero - e in realtà dico sul serio - è che ci sono filmati e registrazioni di oggetti nei cieli che non sappiamo esattamente cosa siano. Non possiamo spiegare come si muovono, le loro traiettorie ... Non si muovono con uno schema facilmente spiegabile. Quindi penso che la gente prenda sul serio il tentativo di indagare e di capire di che cosa si tratta. Ma oggi non ho niente da riferirti.”

Avete letto le parole “veicoli extraterrestri”? Qualche riferimento agli alieni? No. Semplicemente Obama ha detto che ci sono riprese di cose che non si sa esattamente cosa siano. Possono essere droni di un paese rivale (nel qual caso l’interesse dei militari è assolutamente ovvio), errori di interpretazione di fenomeni normali in circostanze insolite (un classico) o mille altre cose assolutamente terrestri. 

Prima di mettere in testa all’articolo un’immagine di un disco volante, bisognerebbe essere onesti e considerare tutte queste spiegazioni molto più credibili. Ma così facendo, addio sensazionalismo, addio clic.

Se vi interessa, questo è il video originale della trasmissione: giudicate voi i toni della conversazione sulla quale Sabadin basa il suo articolo. La domanda non è nemmeno fatta dal conduttore, ma da uno dei musicisti, e pure ridendo.

L’articolo di Sabadin finisce con un delirio di fantarcheologia e fantareligione:

“Da alcuni anni, una più attenta rilettura della Bibbia, dei libri di Omero e di altri antichi testi, oltre a un’analisi priva di pregiudizi di numerosi manufatti antichi e di resti archeologici rimasti ancora privi di spiegazione, hanno riportato in auge l’ipotesi che esseri dotati di una tecnologia superiore possano avere influenzato il destino dell’umanità migliaia di anni fa, identificati come dei che andavano e venivano in continuazione dal cielo, come ci ha tramandato ogni cultura del mondo.”

Questi sono contenuti a pagamento di un giornale, non del blogghettino del complottista frustrato di turno. Purtroppo c’è chi campa sulla creduloneria invece di fare giornalismo.

Per tutti quelli che adesso mi diranno “sì, ma c'è questo video... sì, ma c'è quest'altra dichiarazione...”, scusatemi ma non vi risponderò. Vi chiedo solo una cosa: non siete stanchi di farvi prendere per il naso dall'ennesima cialtronata basata su video sfuocati e traballanti?

Sinceramente tutti questi “annunci” e “avvistamenti” e discorsi di rivelazioni imminenti mi hanno stufato. Sono anni che si va avanti con video sgranati e confusi, utili soltanto a fabbricare cretinate acchiappaclic.

Abbiamo tutti in tasca telecamere HD pronte a entrare in azione in un istante, abbiamo telecamere di sorveglianza ovunque, abbiamo astronomi che sorvegliano il cielo 24 ore su 24, e questi video sono il meglio che si riesce a presentare? Sul serio? Una macchiolina? Un triangolino che oltretutto lampeggia esattamente come un aereo? Ma secondo voi gli alieni vanno in giro con le luci di posizione a norma terrestre?



Persino un evento totalmente inatteso come il meteoroide di Celyabinsk è stato documentato magnificamente. Ma qui no, siamo ancora fermi alle macchioline indistinte. E allora viene da chiedersi se per caso il problema è che c’è qualcuno che a tutti costi vuole credere che tutte le macchioline indistinte siano veicoli misteriosi. Quando è invece infinitamente più probabile che siano errori di interpretazione di oggetti assolutamente banali. 

E se per caso siete fra quelli che dicono “eh, ma i militari e le autorità ci nascondono cose”, come mai ora improvvisamente credete ciecamente a quello che dicono militari e autorità? Non è che magari ci credete perché dicono quello che vorreste che fosse vero? 

La storia dei depistaggi passati usati dai militari e dalle autorità per nascondere le loro attività non l’avete mai letta? Vi consiglio di farlo. Scoprirete cose interessantissime. Scoprirete anche che i casi più clamorosi dell’ufologia sono stati costruiti dai militari come storie di copertura o dai venditori di fuffa per vendere, appunto, fuffa. Roswell? Copertura per nascondere i sistemi di monitoraggio dei test nucleari sovietici. Triangolo delle Bermude? Inventato di sana pianta da Charles Berlitz. Eccetera, eccetera, eccetera. 

Evidentemente ci sono tante persone che vogliono credere alle fatine e ci sono giornalisti che sono disposti a raccontare favole. Quando s'incontrano nasce l'affare. Ma non chiamatelo giornalismo, per favore.

---

Personalmente mi sono stancato di perdere ore a investigare ogni singolo “avvistamento”. Si finisce per essere vittime della Teoria della Montagna di M* (cit.): ore per indagare ogni “avvistamento”, scoprire che ha una spiegazione banalissima, per poi trovare subito dopo che ne è uscito un altro altrettanto vago, e si ricomincia da capo, con il solito commento strafottente “eh, però QUESTO non l’hai sbufalato!”

Per cui chi vuole continuare a pensare che ogni singolo tafano che passa davanti all'obiettivo e ogni luce all’orizzonte sia la scialuppa vagabonda di un alieno troppo stupido per non farsi vedere spegnendo le luci lampeggianti, faccia pure. Io non voglio perderci altro tempo. Chiamatemi quando avrete riprese decenti. E magari chiedetevi chi sono gli unici che guadagnano sempre quando c’è di mezzo l’ufologia.

2021/02/01

La Stampa, L’Espresso, il Corriere e il metodo redazionale: nessuno rilegge

Molta gente mi dice che esagero quando parlo di metodo redazionale scadente e disastroso ogni volta che un giornale pubblica una bufala.

"Dai, Paolo" mi dicono "è soltanto un errore, errare è umano, gli sbagli succedono a tutti". Certo, i refusi càpitano a tutti. Anche a me, e chi segue questo blog lo sa bene.

Ma io sto parlando di metodo di lavoro. Ossia di abitudini e di scelte precise quotidiane, che prima o poi portano inesorabilmente a disastri.

È un po’ come l’elettricista che tutti i giorni taglia e giunta fili senza staccare la corrente: è proprio un modo di lavorare, un’abitudine cementata. Per un po’ gli va liscia, ed è pure contento perché risparmia tempo e disagi al cliente. Poi rimane folgorato, e a quel punto tutti piangono.

Per esempio, pubblicare senza rileggere, o senza far rileggere, è ormai un metodo di lavoro consolidato in tutte le redazioni di cui vedo le pubblicazioni. E i risultati si vedono.

Un altro esempio è il titolo che dice una cosa mentre l’articolo ne dice un’altra, perché il titolista (ammesso che esista questa fantomatica figura) non parla col giornalista e non capisce una cippa di quello che sta titolando. Neanche lui rilegge. E i risultati si vedono.

Ma ci vuole un livello d’incoscienza speciale, un metodo di lavoro particolarmente scalcinato e incurante delle conseguenze, per fare quello che è successo oggi a Fabio Pozzo su La Stampa.

Cosa c'è che non va nel metodo di lavoro di Fabio Pozzo? Beh, oggi ha scritto (o perlomeno ha firmato) un pezzo sugli armatori e sull’aumento dei prezzi delle spedizioni via nave. Quello che vedete nell’immagine all’inizio dell’articolo e che trovate in copia permanente qui: archive.is/FWCKV.

In quell'articolo c’è un passaggio molto delicato, perché “entra in un campo, quello della concorrenza, che è un nervo scoperto x gli armatori, non vorrei si causasse qualche reazione”, dice Pozzo o chi per lui. Testuali parole.

Come faccio io a conoscere queste testuali parole? Perché sono state scritte nel testo dell’articolo.  

In altre parole, Fabio Pozzo (o chi per lui) ritiene che sia un metodo di lavoro accettabile scrivere i promemoria interni confidenziali nel testo dell’articolo. Agevolo screenshot. Notate niente?

La cosa tragicomica è che quel promemoria era chiaramente confidenziale: “L’argomento sotto è molto delicato, valuta tu se dare un’impronta un po’ più sfumata in quanto si entra in un campo, quello della concorrenza, che è un nervo scoperto x gli armatori, non vorrei si causasse qualche reazione”.

Beh, se si scrivono e si lasciano i commenti interni negli articoli pubblicati, sì, “qualche reazione” si causa eccome. Forse non quella degli armatori, ma quella dei lettori.

Insomma:

  1. il giornalista scrive gli appunti confidenziali nel testo dell’articolo (primo errore fondamentale)
  2. non rilegge quello che ha scritto prima di inviarlo per la pubblicazione (secondo errore fondamentale)
  3. e nessuno in redazione legge prima di pubblicare (terzo errore fondamentale)

Questo è un classico esempio di metodo di lavoro fallimentare e sbagliato: è l'elettricista che lavora sui cavi in tensione. Qui non è un refuso: è proprio un comportamento incosciente di una redazione. Di cui noi lettori paghiamo le conseguenze. Per un po’ va tutto bene, si risparmiano tempo e soldi, fino a quando va male. Come oggi.

Questo comportamento non è occasionale e non è limitato a La Stampa. Ecco un esempio fresco fresco da l’Espresso. Edizione cartacea, quella che non si può correggere facendo finta che non sia mai successo nulla:

Sì, qui è rimasta l’istruzione “mettere la dieresi sulla “u” per favore!”. Perché nessuno rilegge.

E questo è un titolo di oggi del Corriere, che parla della nota città di News York a caratteri cubitali: nessuno rilegge.


Fabio Pozzo de La Stampa, dopo la mia segnalazione su Twitter, ha corretto l’articolo. Anche il Corriere ha cambiato il titolo (solo nella versione per desktop; la versione per smartphone lo riporta ancora). Per L’Espresso, invece, niente da fare: verba volant, scripta manent. Se le scripta sono su carta, s’intende.

Questo, sottolineo, è soltanto il bollettino dei disastri di oggi.

Speriamo che la lezione sia stata imparata, non soltanto da Pozzo, ma da tutta la filiera di produzione. E magari anche da chi si avvicina al giornalismo e vuole evitare queste brutte figure.

 

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2020/12/19

La Stampa: un cerchio ha “migliaia di milioni di miliardi di trilioni di gradi” e i pianeti son comete

Ultimo aggiornamento: 2020/12/19 15:00.

Secondo questo articolo pubblicato da La Stampa (copia permanente), il cerchio della volta celeste sarebbe composto da “migliaia di milioni di miliardi di trilioni di gradi”.

No, i gradi sono solo 360. Come in tutti i cerchi. E anche ipotizzando misericordiosamente un'iperbole o un tentativo di poesia uscito male, subito dopo arriva la fesseria totale di chiamare “Cometa” (“per riuscire a vedere la Cometa nell'emisfero nord...”) quelli che sono in realtà due pianeti.

Come se non bastasse, La Stampa scrive poi che per vederli serve un telescopio (“...gli osservatori dovranno puntare i loro telescopi”), che è un’altra minchiata colossale. Giove e Saturno si vedono a occhio nudo. Sempre.

E poi c’è la foto, che raffigura una cometa e quindi inganna completamente i lettori sull’aspetto di quello che vedranno. 

A me dispiace che astronomi, astrofili, divulgatori si sbraccino per fare informazione su un evento celeste spettacolare, facilmente osservabile da chiunque senza attrezzature particolari, e poi arrivi un cialtrone incapace e ignorante su un giornale a demolire tutto con una raffica di scempiaggini come questa.

Ma le fake news son colpa di Telegram, eh.

Poi non lamentiamoci se la conoscenza scientifica in Italia latita e se quest'ignoranza porta a decisioni di salute antiscientifiche. Questo tipo di giornalismo di certo non aiuta.

 

2020/12/19 15:00

A quanto pare l’articolo è stato scritto da un’agenzia esterna, che La Stampa usa senza vagliarne i contenuti. Cosa che fanno anche molte altre testate: una ricerca in Google della scempiaggine sui “migliaia di milioni di miliardi di trilioni di gradi” trova Huffington Post Italia (copia permanente), Gazzetta del Sud (copia permanente) e tanti altri.

 

Ringrazio @fquenda per la segnalazione. Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

2020/11/07

La Stampa, Gigi Proietti e il “personaggio del cul”

Rileggere? Perché mai? Ed è così che sulle pagine online de La Stampa si arriva a scrivere “personaggio del cul”. Al posto, ovviamente di cult.


Copia permanente e, qui sotto, screenshot integrale fatto di persona da me per gli increduli. Perché c’è anche una perla nella didascalia della foto.

2020/11/11 9:00. Il personaggio del cul è ancora lì.

 

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2020/10/24

La Svizzera nega la rianimazione agli anziani malati di Covid? No. Per ora no, e cerca di evitarlo. Ma si prepara al peggio

Pubblicazione iniziale: 2020/10/24 17:57. Ultimo aggiornamento: 2020/11/01 23:30. 

La Stampa ha pubblicato un articolo di Fabio Poletti (copia permanente qui) che cita il protocollo di triage svizzero da adottare in caso di esaurimento delle risorse mediche. L’articolo in sé è corretto, ma il titolista lo ha massacrato con un sensazionalismo acchiappaclic che è decisamente fuori luogo, intitolandolo “La Svizzera sceglie: rianimazione negata agli anziani malati di coronavirus”. Come se già adesso i medici andassero in giro a lasciar morire gli anziani. È falso.

Repubblica, invece, ha scritto che il protocollo sarebbe stato già “attuato”, titolando Se la Svizzera non cura gli anziani (tempo presente, come se stesse già accadendo adesso) e ribadendo nel catenaccio “Attuato un protocollo per le terapie intensive che riguarda gli over 75 in caso di disponibilità limitate”. Nel testo, l’articolo senza firma dice che “anche nella civilissima Svizzera gli anziani vengono messi da parte”. Di nuovo il tempo presente.

L’articolo iniziale de La Stampa è stato ripreso da Il Fatto Quotidiano e ANSA e approfondito (con link alle fonti, come si deve) da Open. Il clamore italiano ha indotto la stampa svizzera ticinese a parlarne (per esempio Ticinonews).

Ne scrivo brevemente perché molti di voi mi hanno segnalato l’articolo sapendo che abito in Svizzera e quindi mi hanno chiesto lumi in proposito.

Il protocollo in questione è questo (a La Stampa o Repubblica non costerebbe nulla linkarlo, ma non lo fa, a differenza di Open) e non è affatto applicato in questo momento. Se Repubblica o La Stampa hanno prove del contrario, che le tirino fuori. 

Questo protocollo fa semplicemente parte di quei piani che ogni governo, ogni pubblica amministrazione, ogni Protezione Civile che abbia un minimo di buon senso prepara in anticipo per decidere come affrontare le situazioni più drammatiche qualora si presentassero.

Il documento, intitolato “Pandemia Covid-19: triage dei trattamenti di medicina intensiva in caso di scarsità di risorse” e redatto dall’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche e dalla Società Svizzera di Medicina Intensiva, lo mette subito in chiaro: “Se le risorse a disposizione non sono sufficienti, occorre prendere decisioni di razionamento”

Per ora le risorse sono sufficienti, ma l’aggravarsi della pandemia da Covid fa prospettare il rischio che le risorse non bastino per tutti. E se si arriverà a quel punto, allora bisognerà avere pronte delle regole precise su come assegnare quelle risorse. Il protocollo definisce queste regole: pragmatiche, severe, ma necessarie. Immagino che il governo italiano abbia un documento analogo, che so, in caso di eruzione del Vesuvio (questo) o di crollo di una diga.

Per esempio, il documento svizzero dice di non voler considerare criteri tipo “l’estrazione a sorte, il principio «first come, first served», la priorità a persone con un elevato valore sociale”. E descrive i principi etici fondamentali da usare: equità, salvare il maggior numero possibile di vite, proteggere gli specialisti coinvolti, eccetera.

Il triage è un concetto assolutamente normale per chiunque lavori nella gestione delle emergenze: in medicina, per esempio nelle liste d’attesa per donazioni di organi. C’è un solo organo donato e cinque pazienti compatibili in fin di vita che ne hanno bisogno. A chi lo dai? Tiri la monetina?

Lo stesso vale in tempo di guerra, o in caso di attentato o disastro che causa tanti morti. Medici e soccorritori arrivano e per prima cosa fanno triage: se si rendono conto di non avere risorse sufficienti a salvare tutti, devono fare delle scelte terribili, come lasciar perdere o dare palliativi a quelli che sanno di non poter salvare e concentrarsi su quelli salvabili. Ed è inutile fare i buonisti in poltrona: no, spesso non è possibile salvare tutti.

Fra l’altro, il documento svizzero risale al 20 marzo scorso, non è neanche una novità: ne parlava già il Corriere del Ticino in quella data. 

Insomma, non so quale sia il senso di questi articoli. Il fatto che le autorità si preparino a gestire una situazione drammatica che comporta sacrifici e scelte durissime e non la affrontino tirando a indovinare sul momento non dovrebbe essere una novità. L’esistenza di questo documento svizzero è una non notizia. A meno che l’obiettivo di questi giornali sia far pensare ai propri lettori “oddio guarda gli svizzeri, come sono freddi ’sti gnomi di Berna che già pianificano chi lasciar morire” per acchiappare qualche clic pubblicitario in più. Come se gli ospedali italiani non fossero già popolati di primari e infermieri esausti e in lacrime che fanno queste scelte tutti i santi giorni. E come se i medici italiani non avessero già pronti protocolli analoghi. Di cui Il Fatto Quotidiano parlava già a marzo scorso.


2020/11/01 18:00

La Radiotelevisione Svizzera di lingua italiana parla della vicenda in questo articolo del 26 ottobre, confermando le mie spiegazioni. Il dottor Paolo Merlani, direttore sanitario dell’Ospedale di Lugano, dice che la notizia «Presentata così come ha fatto la stampa italiana non è corretta».

Poco più di una settimana dopo la pubblicazione iniziale di questo mio articolo, la necessità di scegliere a chi assegnare i posti in terapia intensiva è diventata terribilmente concreta. Tio.ch segnala che nel canton “Soletta i posti in terapia intensiva si stanno esaurendo: già venerdì erano solo 15, a fronte di 17 pazienti che ne avrebbero avuto bisogno. Anche nel Giura le strutture sono sovraccariche, e alcuni pazienti sono stati trasferiti a Basilea.” Nel canton Vallese, “un ultraottantenne ricoverato all'ospedale di Sion con gravi sintomi di Covid ha dovuto interrompere il trattamento. «Normalmente avremmo trasferito questa persona in terapia intensiva, in modo che avesse una minima possibilità di sopravvivenza» ha dichiarato alla Nzz am Sonntag Bienvenido Sanchez, vice-capo del reparto terapia intensiva. «Nella situazione attuale, però, preferisco tenere liberi gli ultimi letti per i casi in cui c'è più speranza». In realtà il problema non sono tanto i "letti" in sé. All'ospedale di Sion ce ne sono ancora quattro liberi. Ma manca il personale”.

 

Ringrazio @damariani1 per la segnalazione del protocollo italiano e @davidegrandi per la segnalazione del piano per il Vesuvio. Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

2020/04/08

La Stampa pubblica i deliri di Benedetta Paravia sul 5G. Però le fake news son colpa di Internet, mi raccomando

Ultimo aggiornamento: 2022/05/13 13:30.

Sono arrivate moltissime segnalazioni di un articolo a firma di Benedetta Paravia su La Stampa che pubblica falsità, deliri e assurdità a proposito della telefonia 5G. Ne cito una fra le tante:

In molti si sono chiesti: perché proprio in questo periodo nel quale tutti siamo a casa ci si affretta a tagliare alberi in tutta Italia? Ebbene le foglie degli alberi rappresentano un ostacolo per le onde millimetriche del 5G, come riconoscono anche i gestori telefonici.

Certo. Non esiste nessun altro motivo plausibile per potare le piante. Prima del 5G non si potavano mai. Screenshot per gli increduli:

Pubblicare queste scemenze inqualificabili proprio in un momento in cui nel Regno Unito gli idioti anti-5G hanno iniziato a dar fuoco ad almeno venti installazioni di telefonia mobile (perché dicono che il 5G facilita il coronavirus) rasenta l’istigazione a delinquere.

Non ho tempo di sbufalare una per una tutte le infinite stupidaggini scritte da Benedetta Paravia (per i curiosi che l’hanno chiesto: sì, è questa Benedetta Paravia, ma questo non cambia le cose). Né, francamente, ho voglia di sostenere un ennesimo dibattito sul 5G. Se per colpa degli imbecilli non verrà installato, pazienza, non me ne può fregar di meno.

Mi limito a notare che La Stampa adesso spaccia l’articolo della Paravia per una “opinione controcorrente”, con tanto di titolo modificato, ma in realtà lo aveva pubblicato inizialmente nella sezione Cronaca, come evidenzia l’URL originale (www.lastampa.it/cronaca/2020/04/06/news/il-valore-della-salute-e-quello-del-profitto-il-5g-1.38686965), diverso da quello successivo (www.lastampa.it/opinioni/2020/04/06/news/il-valore-della-salute-e-quello-del-profitto-il-5g-1.38686965).

Anni di debunking, di articoli tecnici dettagliatissimi, di spiegazioni di fisica di base che dimostrano che le paranoie anti-5G sono infondate quanto quelle dei terrapiattisti, e poi arriva Benedetta Paravia che dall’alto della sua laurea “con lustro in Giurisprudenza” [sic] e della sua totale incompetenza in radiotecnica e fisica di base prende i fatti e li usa come carta igienica. E un giornale la pubblica. Anzi due giornali, o perlomeno due testate, visto che l’articolo è uscito anche su Il Secolo XIX, che appartiene allo stesso gruppo. Ho salvato su Archive.org l’originale dell’articolo su La Stampa e sul Secolo XIX.

Posso solo dire che se il direttore di un giornale ritiene che sia giusto e sensato rifilare ai propri lettori quella diarrea mentale fottendosene dei fatti e della deontologia, se ha il coraggio di spacciare per “opinione” ciò che di fatto è una compilation di balle, e se l’Ordine dei Giornalisti non interviene, allora il giornalismo è morto e ancora non se ne è reso conto. Ed è stato assassinato dall’interno, da direttori incoscienti per il quale il termine responsabili è una foglia di fico che da tempo non copre più le vergogne.

Mi sono limitato a segnalare pubblicamente la cosa a Vodafone, Huawei, Ericsson e WindTre, che oltretutto sono spesso inserzionisti pubblicitari del giornale che li sta infangando. Chissà che magari il rischio di perdere gli introiti pubblicitari possa arrivare dove la dignità giornalistica fallisce. Ma qui mi fermo, perché se i giornali sono contenti di lavorare così, e se i lettori sono contenti di continuare a leggerli, impegnarsi a fare debunking non serve a nulla.

Però la prossima volta che sento qualcuno dire che le fake news sono colpa di Internet e i media tradizionali sono il baluardo contro la disinformazione, lo prendo a schiaffi con l’articolo di Benedetta Paravia e lo mando affanculo. Scusate il turpiloquio, ma stavolta mi sono proprio rotto.

---

Avvertenza: Qualunque commento che sostenga dubbi o tesi anti-5G o dica “ma c’è un articolo che...” verrà cestinato. La fisica di base e l’epidemiologia hanno già chiarito come stanno le cose ed è inutile riaprire un dibattito che non c’è. Quindi non provateci nemmeno. Grazie.

2020/04/08 16:00

La Stampa ha rimosso l’articolo. È un buon risultato. Meglio ancora sarebbe non pubblicarne più in futuro. Vedremo: nel frattempo, la stessa testata ha pubblicato questa lettera di debunking di Marco Bella, deputato del Movimento 5 Stelle, che risponde specificamente all’articolo di Benedetta Paravia.

2020/04/11 10:10

Benedetta Paravia, su Facebook, l’ha presa molto sportivamente e con garbo “Hanno censurato anche il Messaggero Veneto ed un nuovo eunuco, questa volta un blogger che afferma non avere interessi in materia, parla di me:”.

2022/05/13 13:30

Nei commenti mi segnalano che l’articolo è tornato online (copia permanente). Non so da quanto tempo è stato ripubblicato.

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2020/02/20

Per La Stampa, sono cartelli che invitano i cinesi a stare in casa. Ma sono annunci di compagnia femminile

Su La Stampa di oggi, edizione cartacea, è stata pubblicata questa foto, che mostrerebbe “I cartelli in cinese che invitano a stare a casa chi torna dalla Cina”.




In realtà, nota Peizhen Lin su Facebook, si tratta di “una serie di annunci di ragazze/donne che si offrono per massaggi e compagnia”. Il cartello si trova a Prato, in Italia, qui su Google Maps.


La versione online mostra la foto più nitidamente:




Strano che un blogger qualsiasi, in pochi minuti e con una semplice richiesta su Twitter, riesca a fare quello che evidentemente una redazione di un quotidiano nazionale non fa o non vuole fare.

Però mi raccomando, le fake news sono colpa di Internet.

---

16:00. La Stampa ha corretto.


Ringrazio @AlexRedolfi, @Gwilbor e gli altri lettori che hanno collaborato all’indagine. Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

2020/01/27

Alberto Bagnai, Ionity, La Stampa e le domande sulle auto elettriche

Ultimo aggiornamento: 2020/01/29 21.00.

Da qualche giorno mi state segnalando un articolo de La Stampa che parla dei nuovi prezzi della rete di ricarica per auto elettriche Ionity e annuncia che usarle per fare 100 chilometri costa 20 euro. Non è vero: o meglio, è vero solo in condizioni molto, molto particolari. Però se non si scelgono quelle condizioni, addio titolo sensazionale.

Mi avete anche segnalato le domande fatte in questo senso da Alberto Bagnai, e così ho provato a rispondere a tutt’e due in un thread su Twitter, che riporto qui con qualche rifinitura per chiarezza.

Scrive Bagnai: “Quando si parla di auto elettriche mi faccio due domande: (1) quanto costerà il pieno? (2) come saranno i camion elettrici? La risposta alla prima domanda è qui. Qualcuno ha quella alla seconda? Quanto litio va in un TIR elettrico?”

Da utente di auto elettrica, provo a rispondere.


"(1) quanto costerà il pieno?"


Quanto costa un bicchiere di vino? Dipende dove lo compri. Se vai al supermercato e ti va bene un Tavernello, spendi poco. Se vuoi un bicchiere di Brunello nella sala esclusiva di un castello, spendi di più.

I prezzi citati da La Stampa si riferiscono all'offerta di un solo gestore (Ionity), solo per le cariche rapide, e valgono solo per i non abbonati o convenzionati, come indicato sul sito di Ionity“Customers without contracts pay kWh-based ad-hoc price of 0.79 EUR”.

Sei abbonato a Ionity? Hai un'auto elettrica di una marca convenzionata con Ionity? Paghi molto, molto meno di quanto indicato nel titolo dell’articolo, che solo nell’ultimo paragrafo spiega che “L'unico modo per spendere meno è quello di usare Ionity all'interno di in uno dei pacchetti che ogni singolo brand offre ai propri clienti”. Magari dirlo prima avrebbe evitato la disinformazione causata dal titolo.

Non hai bisogno della carica rapida? Ancora una volta, paghi molto, molto meno di quanto indicato nell'articolo. Le colonnine di ricarica lenta sono spesso gratuite o hanno tariffe molto basse.

Vuoi la ricarica rapida, ma senza pagare così tanto? Puoi sempre andare da un altro fornitore (Enel X, A2A, Duferco, eccetera). Ce ne sono molti altri che offrono cariche rapide a prezzi molto, molto inferiori.

In altre parole, chiedersi quanto costerà una carica come ha fatto Bagnai, evocando lo spettro di costi altissimi, è come gridare che moriremo tutti di fame perché il Danieli è un ristorante troppo caro per la maggior parte della gente. Senza pensare che magari puoi anche farti da mangiare a casa e spendi poco e niente.

Infatti moltissimi utenti di auto elettrica la caricano collegandola alla propria normale presa domestica e quindi hanno la normale tariffa elettrica del proprio contatore. Partono sempre col “pieno” e usano le colonnine solo durante le tappe di viaggi molto lunghi. E quindi fanno allegramente marameo alle tariffe di Ionity.

Io, per esempio, per fare 100 km con la mia auto elettrica spendo 2,19 euro. Non 20 come dice La Stampa e come paventa Bagnai.


"(2) come saranno i camion elettrici?"


Non "saranno": sono. Esistono già, quindi basta guardarli per sapere come sono fatti. Volvo, per esempio, oppure MAN.


“Quanto litio va in un TIR elettrico?"


Dipende da quanto sono capienti le batterie del TIR e dalla loro composizione. Facciamo due conti. Una batteria moderna di una Tesla Model S (70 kWh) contiene circa 63 kg di litio. Diciamo un chilo per kWh, grosso modo.

Un camion elettrico, per esempio questo E-Force One, ha batterie da 120 kWh. Quindi, in proporzione, contiene circa 110 kg di litio. Costa più di un camion normale, ma costa cinque volte meno al km. E non fa baccano e puzze.


Non è un TIR in senso stretto, e dai commenti mi segnalano che esiste in varie versioni con batterie e autonomie differenti (da 105 a 630 kWh, fino a 500 km di autonomia).

Morale della storia: invece di farsi le domande e lanciarle al pubblico, si possono cercare le risposte. Abbiamo inventato questa cosa chiamata Internet, pare che si possa usare per trovare informazioni.

Per tutte le domande che vi verranno in mente dopo aver letto questo articoletto, ho scritto le risposte documentate su Fuoriditesla.ch.

E per chi non mi conosce e pensa che io sia un riccone che si può permettere un'auto elettrica... beh, questa è la mia.


È una Peugeot iOn, di seconda mano. Batteria che va da 9 anni. Silenziosa, economicissima, pulita, ma soprattutto dannatamente divertente da guidare.


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2019/01/13

Stavolta è bastata una richiesta gentile: La Stampa ha corretto “lato oscuro” della Luna in “lato nascosto”

Stamattina un lettore, Dario, mi ha segnalato l’ennesimo uso sbagliato di “oscuro” per definire il lato nascosto della Luna: un errore particolarmente grave, visto che si tratta di un articolo della sezione Tuttoscienze de La Stampa.

Inizialmente l’articolo era così:



Poi ho contattato privatamente Anna Masera, public editor de La Stampa, e le ho chiesto di correggere se possibile, spiegando le ragioni della richiesta. Poco dopo l’articolo è stato corretto.



Sarebbe bello se anche le altre testate si comportassero così: mettendo a disposizione un interlocutore serio per le rettifiche e le correzioni.


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2018/11/07

Pernigotti, La Stampa copia da Wikipedia senza dirlo. Beccata, corregge

Il 7 novembre 2018 La Stampa ha pubblicato un articolo, a firma di Massimo Putzu, dedicato alla chiusura dell’industria dolciaria Pernigotti.

Un intero blocco dell’articolo è preso sostanzialmente di peso da Wikipedia in italiano, aggiungendo successivamente in un solo paragrafo la foglia di fico “come scrive anche Wikipedia” che non c’era nella prima versione, salvata da Archive.org:

A sinistra, la voce di Wikipedia; a destra, l’articolo de La Stampa.

La copia è evidente: vengono conservati persino gli errori di battitura (per esempio lo spazio mancante dopo la virgola). Ecco un confronto testuale:

WikipediaLa Stampa (versione originale su Archive.org)
La storia dell'azienda parte dal 1860, quando Stefano Pernigotti apre nella piazza del Mercato a Novi Ligure (AL), una drogheria specializzata in "droghe e coloniali" e già rinomata fin dagli inizi per la produzione di un pregiato torrone. Nel 1868, a seguito di una crescente notorietà dei prodotti del negozio, Stefano decide di fondare assieme al figlio (Francesco, 1843-1936) venticinquenne una società: il 1º giugno del 1868 nasce ufficialmente,con un capitale di seimila lire, la "Stefano Pernigotti & Figlio", azienda alimentare specializzata in produzione dolciaria.[2]La storia dell’azienda parte dal 1860, quando Stefano Pernigotti apre nella piazza del Mercato a Novi Ligure, una drogheria specializzata in «droghe e coloniali» e già rinomata fin dagli inizi per la produzione di un pregiato torrone (come scrive anche Wikipedia). Nel 1868, a seguito di una crescente notorietà dei prodotti del negozio, Stefano decide di fondare assieme al figlio Francesco venticinquenne una società: il 1º giugno del 1868 nasce ufficialmente,con un capitale di seimila lire, la «Stefano Pernigotti & Figlio» azienda alimentare specializzata in produzione dolciaria.
In questa fase iniziale, l'azienda produce e commercia soprattutto mostarda e torrone, dolce classico natalizio, una specialità di presunta origine araba, diffusasi inizialmente nel nord Italia e gradualmente in tutte le zone della penisola.
Il primo riconoscimento ufficiale arriva il 25 aprile 1882 quando Re Umberto I in persona concede alla società la facoltà di innalzare lo stemma reale sull'insegna della sua fabbrica, che accompagnerà il logo dell'azienda fino al 2004. In questa maniera, l'azienda diventa fornitore ufficiale della famiglia Reale italiana.
Nel 1914 con la Prima guerra mondiale alle porte, il Governo Italiano proibisce l'impiego dello zucchero per la preparazione dei generi dolciari, fra i quali il torrone: ciò che poteva rappresentare un grave ostacolo per la produzione, si trasforma, grazie alla geniale intuizione di Francesco, in un'innovazione che arricchisce la qualità dell'azienda. L'assenza di zucchero, infatti, è sapientemente colmata da una maggiore concentrazione di miele, dando vita ad un nuovo torrone dalla consistenza unica.
Nel 1919 Paolo Pernigotti sostituisce il padre Francesco alla guida dell'azienda. Ma la data che forse segna la storia dolciaria dell'azienda è il 1927, anno in cui avvia per la prima volta la produzione industriale del gianduiotto,[2] il più nobile e rinomato cioccolatino italiano nato ufficialmente a Torino nel 1865 e che prende il nome da Gianduia, la famosa maschera di carnevale piemontese. È questo un periodo molto fiorente per l'azienda, che a partire dal 1928 inizia una scalata cesellata da esaltanti risultati, ricca di riconoscimenti e premi, tra cui il “Diploma di Gran Premio” conseguito all'Esposizione nazionale ed internazionale di Torino.Nel 1919 Paolo Pernigotti sostituisce il padre Francesco alla guida dell’azienda. Ma la data che forse segna la storia dolciaria dell’azienda è il 1927, anno in cui avvia per la prima volta la produzione industriale del gianduiotto, il più nobile e rinomato cioccolatino italiano nato ufficialmente a Torino nel 1865 e che prende il nome da Gianduia, la famosa maschera di carnevale piemontese.
Nel 1935 Paolo Pernigotti acquista la ditta Enea Sperlari, azienda cremonese specializzata nella produzione del torrone.[2] Nel 1936 Paolo avvia una nuova produzione, quella dei preparati per gelateria, che ancora oggi è uno dei punti di forza dell'azienda. Nel 1935 Paolo Pernigotti acquista la ditta Enea Sperlari, Nel 1936 Paolo avvia una nuova produzione, quella dei preparati per gelateria, che ancora oggi è uno dei punti di forza dell’azienda. 
Nel 1944 un bombardamento distrugge l'opificio che viene ricostruito e trasferito negli ex magazzini militari di viale della Rimembranza, dove ancor oggi la Pernigotti ha sede.[2] A Paolo subentra, negli anni sessanta, il figlio Stefano Pernigotti, che nel 1971 acquisisce la Streglio, specializzata nei prodotti a base di cacao.[2]Nel 1944 un bombardamento distrugge l’opificio che viene ricostruito e trasferito negli ex magazzini militari di viale della Rimembranza che adesso chiudono. A Paolo subentra, negli anni sessanta, il figlio Stefano Pernigotti, che nel 1971 acquisisce la Streglio, specializzata nei prodotti a base di cacao. Con gli anni Ottanta sopraggiunge un periodo di crisi che porterà alla cessione della Sperlari nel 1981 agli americani della H.J.Heinz Company.
Nel 1995 Stefano Pernigotti, rimasto senza eredi dopo la scomparsa dei due figli ancora giovanissimi in un incidente stradale in Uruguay nel luglio 1980,[2] decide di cedere lo storico marchio novese alla famiglia Averna, nota per i successi legati al settore delle bevande alcoliche. Nel 2000 cede anche la Streglio ad una nipote.Nel 1995 Stefano Pernigotti, rimasto senza eredi dopo la scomparsa dei due figli ancora giovanissimi in un incidente stradale in Uruguay nel luglio 1980, decide di cedere lo storico marchio novese alla famiglia Averna, nota per i successi legati al settore delle bevande alcoliche. Nel 2000 cede anche la Streglio a una nipote.
L'11 luglio 2013 l'azienda viene ceduta dalla famiglia Averna al gruppo turco appartenente alla famiglia Toksöz,[4] attivo nel dolciario, nel farmaceutico e nel settore energetico. Il 6 novembre 2018 la Toksöz, che detiene l'azienda, ha annunciato la chiusura dello stabilimento di Novi Ligure, ma non la dismissione il marchio.[5]L’11 luglio 2013 l’azienda viene ceduta dalla famiglia Averna al gruppo turco appartenente alla famiglia Toksöz, attivo nel dolciario, nel farmaceutico e nel settore energetico.

Ringrazio @dissezione per la segnalazione iniziale. Dopo la mia segnalazione su Twitter e l’intervento di Anna Masera, public editor del giornale, l’articolo è stato corretto. È un peccato che le correzioni e il rispetto del diritto d’autore avvengano soltanto se qualcuno contesta, ma è già un cauto passo nella direzione giusta.


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