La risposta, paradossalmente, si trova in qualche ovile del Kazakistan, le cui tettoie e pareti, se esaminate con occhio attento, sono grandi grid fin (alette stabilizzatrici) e pezzi di giganteschi serbatoi in metalli altamente sofisticati.
La copertura di questo gazebo è il fondo di un razzo gigante N-1. Credit: Mark Wade. |
Provengono dai resti saccheggiati di uno dei progetti più segreti e ambiziosi dell’epopea spaziale sovietica: l’N-1, il colossale razzo che secondo i piani sovietici avrebbe portato un cosmonauta sulla Luna prima dei rivali americani e, in versione nucleare, avrebbe consentito all’Unione Sovietica di dominare la Terra tramite stazioni spaziali militari, costruire basi permanenti sulla Luna ed esplorare con equipaggi i pianeti interni del Sistema Solare. Ma i suoi pezzi finirono per spargersi nelle immense distese del Kazakistan, all’epoca parte dell’Unione Sovietica, e sono ancora lì oggi, arrugginiti testimoni di un fallimento messo a tacere che cambiò comunque il corso della storia dell’astronautica.
Mentre gli Stati Uniti presentavano al pubblico ogni dettaglio dei propri tentativi spaziali civili, la Russia si isolava in un ossessivo silenzio. Le missioni venivano annunciate solo dopo il loro completamento. Le dirette TV dei lanci dal centro spaziale di Baikonur, che oggi sono normalissime, allora erano impensabili. Persino il nome del capo progettista del programma spaziale, Sergei Korolev, era un segreto di stato. Questo consentiva di nascondere i fallimenti, e nel caso dell’N-1 ci fu molto da nascondere. La sua storia è il vero complotto intorno agli sbarchi sulla Luna.
Trenta motori
Non disponendo di motori ultrapotenti come i cinque F-1 del primo stadio del Saturn V statunitense, i progettisti sovietici, guidati da Vasili Mishin (succeduto a Korolev, morto prematuramente nel 1966) ripiegarono sull’uso di ben trenta motori per il primo stadio dell’N-1: un incubo da coordinare, specialmente con i sistemi di controllo degli anni Sessanta. Solo il Falcon Heavy di SpaceX, nel 2018, si avvicinerà a un numero così elevato di propulsori, accendendone ben 27 al decollo. Questa scelta progettuale, combinata con la decisione di non effettuare collaudi statici a terra per ridurre i costi e accelerare i tempi, fu il tallone d’Achille del progetto N-1.
Confronto dimensionale fra Saturn V-Apollo (a sinistra) e vettore N1-L3 (a destra). La persona in basso è in scala. Credit: Ebs08, Wikimedia. |
Un N-1 in allestimento. Alla base si notano, oltre alle persone, le grid fin simili a quelle usate oggi da SpaceX. |
Il primo lancio di prova, senza equipaggio, avvenne il 21 febbraio 1969, dopo dieci anni di sviluppo azzoppato da rivalità fra progettisti e tagli ai finanziamenti, imposti dai militari: l’N-1, pesante circa 2760 tonnellate, alto 105 metri e largo 17 alla base, si staccò dalla rampa di lancio, ma i sistemi automatici di controllo rilevarono quasi subito l’incendio di un motore e diedero erroneamente il comando di spegnere tutti e trenta i motori 68.7 secondi dopo il decollo. I controllori del volo furono quindi costretti ad azionare il sistema di autodistruzione 1,3 secondi più tardi. Il grande vettore raggiunse la quota di circa 30.000 metri e poi i suoi frammenti ricaddero al suolo a una quarantina di chilometri di distanza dal punto di lancio.
I servizi di spionaggio britannici rilevarono il tentativo di lancio, mentre quelli statunitensi, i cui satelliti avevano avvistato l’N-1 in allestimento sulla rampa, non se ne accorsero e anzi per anni negarono che il lancio fosse avvenuto.
Un vettore N-1 sulla rampa di lancio, fotografato da un satellite spia statunitense KH-8 il 19 settembre 1968. Credit: USAF. |
L’N-1 fu modificato estesamente per evitare il malfunzionamento che aveva portato al disastro, ma fu chiaro sin da subito che le speranze sovietiche di arrivare sulla Luna prima degli americani erano minime: solo un fallimento analogo di una delle rapide tappe del programma Apollo, che a dicembre 1968 aveva già portato un equipaggio intorno alla Luna (Apollo 8) e si apprestava a collaudare il modulo lunare in orbita terrestre (Apollo 9, 3-13 marzo 1969), avrebbe rimesso in gioco il programma spaziale russo.
In una classica manovra di disinformazione, a maggio del 1969 il fisico russo Mstislav Keldysh approfittò di una conferenza stampa dedicata all’atterraggio su Venere della sonda Venera 5 per annunciare la nuova versione ufficiale sovietica, ossia che la Russia aveva scelto di usare soltanto veicoli robotici per l’esplorazione della Luna perché preferiva non rischiare vite umane in quest’impresa. Ma in realtà il lavoro per portare un cosmonauta intorno alla Luna (con una capsula Soyuz lanciata da un vettore Proton-K) e poi sul suolo selenico (con l’N-1) proseguiva alacremente.
Il 3 luglio 1969 fu effettuato un nuovo tentativo di lancio di un N-1 aggiornato, sempre senza cosmonauti a bordo, che si sollevò dalla rampa regolarmente. Ma un quarto di secondo più tardi esplose una pompa in uno dei trenta motori, innescando un incendio. In rapida successione, i motori restanti si spensero automaticamente e il razzo, stracarico di propellente, iniziò a ricadere, inclinato a 45 gradi, ed esplose all’impatto con la rampa di lancio, distruggendola completamente nella più grande esplosione della storia dell’astronautica e ponendo fine a ogni residua speranza sovietica di primato lunare.
La rampa di lancio distrutta. |
Questa volta i satelliti spia americani fotografarono la devastazione causata dall’esplosione. Ma l’opinione pubblica mondiale rimase all’oscuro di tutto: il governo statunitense non rivelò le proprie scoperte, sia per non far sapere all’avversario sovietico quanto fossero dettagliate le immagini dei suoi satelliti spia, sia per mantenere una motivazione politica per la corsa alla Luna (che con il ritiro del rivale sarebbe venuta a mancare).
Il Cremlino, da parte sua, mantenne segreto tutto quello che riguardava l’N-1. Il progetto continuò in segreto anche dopo il primo allunaggio di un equipaggio americano, che avvenne a luglio del 1969 con Neil Armstrong e Buzz Aldrin: vi furono altri due lanci del vettore sovietico, ancora una volta senza equipaggio ed entrambi fallimentari.
Il 26 giugno 1971 un rollio incontrollabile portò alla distruzione del vettore dopo circa 50 secondi di volo; il 23 novembre 1972, il razzo funzionò regolarmente fino a 40 chilometri di quota, ma quando mancavano sette secondi allo spegnimento del primo stadio iniziò a subire delle sollecitazioni che portarono alla rottura di alcune linee di alimentazione del propellente e all’esplosione di un motore, che sfociò nella disintegrazione del vettore gigante.
Il modulo lunare russo, il Lunniy Korabl, volò segretamente nello spazio, in orbita intorno alla Terra, quattro volte fra novembre del 1970 e agosto del 1971, con i nomi di copertura Kosmos 379, Kosmos 382, Kosmos 398 e Kosmos 434, lanciato da un vettore Soyuz, e fu considerato pronto per l’uso. L’N-1 fu dotato di motori NK-33 più potenti ed efficienti. I cosmonauti russi continuarono ad addestrarsi per le missioni lunari fino a ottobre del 1973 e il candidato più probabile per l’onore di diventare il primo russo sulla Luna fu il veterano Alexei Leonov, anche se il gruppo di cosmonauti selezionati per la Luna includeva anche Bykovsky, Voronov, Khrunov, Yeliseyev, Makarov, Rukavishnikov e Patsayev. Ma alla fine il programma N-1 fu chiuso formalmente il 2 maggio 1974, senza mai essere stato reso pubblico, e i due vettori già costruiti e non ancora lanciati, insieme a quattro altri esemplari incompleti, furono demoliti.
Rivelazioni
I servizi segreti e i livelli più alti del governo statunitense erano al corrente del progetto N-1 e dei suoi fallimenti, ma decisero di non renderli pubblici. Alcune indiscrezioni trapelarono sui giornali occidentali nel 1969, quando un esperto scientifico britannico, Peter Fairley, diede la notizia di un’esplosione di un vettore gigante sovietico sulla rampa di lancio, notando che un satellite spia americano aveva fotografato i segni della distruzione che ne era conseguita, ma la storia fu considerata come una delle tante dicerie non confermate che circondavano il programma spaziale sovietico e la vita in Unione Sovietica in generale.
Un articolo del quotidiano Il Giorno del 21 novembre 1969 parla di vettori giganti sovietici esplosi. Credit: Gianluca Atti, sua collezione personale. |
La rivelazione formale del progetto lunare russo arrivò solo nel 1989, quando i censori sovietici diedero per la prima volta il permesso di parlare pubblicamente del progetto N-1 in una serie di articoli su Izvestiya, Pravda e altre testate.
Oggi l’impresa lunare sovietica è estesamente raccontata da numerosi documentari e da libri riccamente documentati e illustrati, come Pourquoi nous ne sommes pas allés sur la lune, di Vasily Mishin, il quarto volume della monumentale monografia di Boris Chertok Rockets and People e N-1: For the Moon and Mars di Matthew Johnson e Nick Stevens. Dagli archivi, inoltre, sono emersi filmati e fotografie un tempo top secret.
Oltre ai resti degli N-1 disseminati per il Kazakistan e ridotti a un’ingloriosa fine come parti di ovili, di questo coraggioso tentativo di raggiungere la Luna restano ben conservati alcuni esemplari dei moduli lunari sovietici, visitabili nei musei russi e occasionalmente presentati in mostre itineranti in tutto il mondo.
Un modulo di allunaggio sovietico al Science Museum di Londra (2016). Credit: Andrew Gray/Wikipedia |
E c’è un’altra, sorprendente reliquia dell’N-1 che ne testimonia la sorprendente modernità.
L’eredità dell’N-1
Il governo sovietico diede l’ordine di distruggere tutti i materiali del progetto N-1, ma dopo il crollo dell’URSS si venne a sapere che una partita di sessanta motori NK-33, che avrebbero dovuto equipaggiare i futuri esemplari dell’N-1, era stata conservata di nascosto.
Questi motori, esaminati dagli esperti statunitensi, risultarono essere straordinari nelle loro soluzioni tecniche (ciclo chiuso) e nelle prestazioni (il più alto rapporto spinta/peso in assoluto per la loro epoca), tanto che furono utilizzati nel 2013, 40 anni dopo la fabbricazione, nei vettori statunitensi Antares della Orbital Sciences, destinati al rifornimento della Stazione Spaziale Internazionale, e poi sviluppati in versioni ancora più efficienti.
E così, alla fine, una parte del sogno infranto russo di arrivare sulla Luna riuscì a contribuire alla storia dell’esplorazione spaziale.
Fonti: Astronautix (1, 2, 3); CIA.gov; Wikipedia.
Questo mio articolo è stato pubblicato per la prima volta su carta nel numero 1/2018 della rivista Spazio Magazine dell'Associazione ADAA e vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori di questo blog. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.