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Il Disinformatico

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2018/08/18

Lettera aperta di un complottista convertito dal debunking

Ultimo aggiornamento: 2018/08/20 13.55.

Nel numero di settembre della rivista bimestrale Spazio Magazine c’è una bella lettera aperta che il direttore della rivista, l’amico Luigi Pizzimenti, ha ricevuto da un ex complottista. È anche una bella risposta a quelli che dicono che il debunking non serve a niente, “fa più danni che altro” e non fa cambiare idea a nessuno. La pubblico qui sotto integralmente.

Sono passati 49 anni da quando l'uomo ha messo piede per la prima volta sulla Luna, da quel piccolo passo del lontano 20 luglio 1969, fino all'ultima missione Apolo 17 del 1972, solo 12 uomini hanno avuto l'opportunità di camminare sul nostro satellite, e ancora oggi c'è chi stenta a credere che ciò sia successo davvero.

Per lo più si tratta di ragazzi, troppo giovani per aver vissuto in prima persona gli anni d'oro dell'esplorazione spaziale e poco esperti dunque sull'argomento; persone che acquisiscono le loro conoscenze tramite video su YouTube, realizzati talvolta da altre persone prive di qualunque titolo ed esperienza in materia di ingegneria aerospaziale.

Fino a qualche anno fa, anche io ero uno di questi; non solo negavo a prescindere gli sbarchi lunari, ma mi battevo in prima persona per dimostrare la messa in scena.

Nel 2012 pubblicai un video su YouTube dal titolo “L'uomo che non andò mai sulla Luna”, e fu subito un successo, che neanche io mi aspettavo, migliaia di visualizzazioni e centinaia di commenti per la maggior parte a favore del complotto.

In questo video proponevo un esperimento: dopo essermi costruito a mano un modello di un astronauta, cercavo di riprodurre in un piccolo set le foto più famose delle missioni Apollo, ottenendo risultati anche abbastanza soddisfacenti, portando quindi le “prove” del fatto che se potevo replicare quelle fotografie io, con quel poco che avevo a disposizione, chissà che cosa avrebbe potuto fare la NASA con tutti quei miliardi di dollari di budget che possiede.

Ancora oggi per me riguardare quel video (non più disponibile su YouTube) fa un certo effetto, ma c'era solo una cosa che non mi convinceva del tutto.

Col passare del tempo, crescendo, la mia passione per lo spazio e in particolare per le missioni lunari si era fatta sempre più forte, e non riuscivo a capire come mai fra tutti gli scienziati che ammiravo non ce ne fosse nemmeno uno che sospettasse neanche un pochino che lo sbarco sulla Luna non fosse mai avvenuto. Tutti pagati? E da chi? E che dire dunque di tutti quegli astronauti non soltanto della NASA, ma di tutte le agenzie spaziali del mondo così sicuri del fatto che siamo realmente stati sulla Luna? Dopotutto, chi ero io per sostenere che si sbagliassero?

Decisi che era arrivato il momento di approfondire seriamente la questione.

Iniziai ad informarmi solo tramite fonti autorevoli, cercando di mettere da parte per un attimo le idee complottiste che giravano per la mia mente e mi si aprì letteralmente un mondo.

Purtroppo la maggior parte delle persone, non soltanto complottisti, è abituata a vedere gli sbarchi sulla Luna come un insieme di quattro o cinque fotografie famose e qualche spezzone di video, niente più.

E' normale dunque, se ci si limita a questo, porsi qualche dubbio.

Io sono sempre stato abbastanza dubbioso ad esempio, ma ero così dubbioso da arrivare a mettere in dubbio anche i miei stessi dubbi, e se non fosse per il mio innato scetticismo, oggi probabilmente non sarei qui a raccontarvi la mia storia.

Oggi ho 23 anni e di cose ne sono cambiate parecchie da quando ne avevo 15 o 16; nel frattempo sono diventato socio del CICAP, associazione che mi ha dato la possibilità di conoscere scienziati e di parlare con chi le missioni Apollo le ha vissute direttamente, come Piero Angela, fondatore del CICAP, che all'epoca si trovava proprio negli Stati Uniti per seguire in prima persona le missioni Apollo 7, 8, 9, 10, 11 e 12 o Paolo Attivissimo, che sui complotti lunari ha scritto un libro dal titolo “Luna? Sì, ci siamo andati” che vi consiglio vivamente di leggere, dato che è probabilmente il libro che più di qualunque altro, mi ha aperto la mente sugli sbarchi lunari, mostrando prove tecniche, scientifiche, fotografiche e smontando una ad una le tesi di complotto, che è quello che cerco di fare anche io oggi, ogni volta che mi capita di parlare con qualche “lunacomplottista” per citare Attivissimo.

Non siamo andati sulla Luna per scattare qualche foto o per girare qualche breve filmato, basta pensare che solo le foto scattate dalla missione Apollo 11 sono più di 1400, semplicemente le poche fotografie che tutti conoscono sono quelle venute meglio e per questo pubblicate, ma comunque l'archivio con tutte le foto e i video originali della missione è sempre stato disponibile a chiunque ne facesse richiesta.

Le missioni lunari hanno rappresentato con molta probabilità, l'unica cosa buona che l'umanità abbia fatto nel secolo scorso, e forse l'unico motivo per cui valga davvero la pena di ricordare il '900, secolo che ha visto due guerre mondiali nel giro di pochissimi anni di distanza l'una dall'altra.

Direi che per i complottisti è ora di smetterla di vivere sulle spalle di chi ha fatto la storia rischiando la vita, e di chi la vita l'ha persa nel tentativo di raggiungere quell'obbiettivo così lontano che ancora oggi ci sembra irraggiungibile, quella Luna che tutti possiamo ammirare e contemplare ogni sera, con la consapevolezza che là da qualche parte le impronte degli astronauti che vi hanno camminato sono rimaste come bloccate nel tempo, in attesa del nostro ritorno.

Sam Louis


Per chi osserva che una rondine non fa primavera e che si possono trovare episodi aneddotici di guarigione anche per l’omeopatia, ricordo che questa non è l’unica rondine e che è sbagliato confrontare un “metodo” che non ha nessuna spiegazione logica di funzionamento con uno che ce l’ha. Resta il fatto che questa persona, come tante altre, sarebbe rimasta convinta delle proprie idee complottiste se non fosse stata esposta al debunking.

Ricordo inoltre, ancora una volta, che il debunking non si fa per i convinti; si fa per i dubbiosi. Non si fa debunking per gli estremizzati delle echo chamber. Si fa per tutto il resto del pianeta, che non è Facebook. Non si fa per quelli che si prendono la briga di fare video e blog di diffusione delle tesi complottiste; si fa per quelli che non hanno ancora deciso da che parte stare e che, se vengono esposti solo alle tesi di complotto, finiranno per abbracciarle.

A questo proposito, a me restano delle domande di fondo: se davvero “il debunking fa più danni che altro”, che facciamo? Ci arrendiamo al rincoglionimento generale? Dobbiamo lasciare il campo ai deliri complottisti di ogni sorta? Se qualcuno dice che il ponte Morandi è stato minato, non dobbiamo dire “No, ecco i fatti”, perché tanto il debunking non funziona? Devo smettere? Qualcuno ha delle proposte alternative?

Ne ho discusso brevemente su Twitter con Walter Quattrociocchi, uno degli autori dello studio citato da Repubblica, ma sembra che di alternative non ne siano ancora state trovate. Riassumo qui la nostra conversazione: se mi sono perso qualche pezzo importante, ditemelo.

QC: Bizzarro come questo tema ritorni di moda ;) bit.ly/2vQshzW [nota: è “tornato di moda ” probabilmente per via di questo mio sfogo] Al di là del bel pezzo di @SimoneCosimi credo che @disinformatico conosca molto bene le mie ricerche e come la penso sui "Tuttologi". Possono non piacere i risultati, ma ognuno ha il suo confirmation bias.

PA: Conosco il tuo lavoro, Walter, e sai come la penso: attivissimo.blogspot.com/2017/07/debunk… Non è questione di risultati che non piacciono: è che se davvero il debunking non serve, allora che facciamo? Ci arrendiamo al rincoglionimento generale? C'è qualche proposta alternativa?

QC: E' materia complicata. Ignoriamo risultati scientifici? O portiamo da quelli per capire come essere efficaci? Polarizzare non aiuta, la figura del tuttologo è estremamente pericolosa. Stiamo studiando.

PA: Questa è appunto la mia domanda: i vostri studi hanno trovato un approccio migliore? Perché se c'è, ditecelo, che lo adottiamo senza problemi. Ma ditecelo presto, che qui c'è bisogno urgente :-)

QC: "Ditecelo" a chi? A chi ti riferisci? Se ci sono risultati sono fruibili da tutti.

PA: Mi riferisco agli autori del paper. Sto appunto chiedendo: se "il debunking fa più danni che altro", adesso che facciamo? Devo smettere? Avete delle proposte alternative? Per dire, Fabiana Zollo, prima autrice della ricerca, diceva: “... l’uso di un approccio più aperto e morbido, che promuova una cultura dell’umiltà con l’obiettivo di abbattere i muri e le barriere tra le tribù della rete, rappresenterebbe un primo passo" [fonte]. OK. Come si fa?

QC: E' materia complicata. Ci stiamo lavorando. Ammettere che è cambiato il paradigma è già un passo importante. Rivendicare autorità (?) dove non sono riconosciute è solo altra benzina sul fuoco ed una pericolosa fallacia logica.

PA: Puoi tradurre l'ultima frase? Confesso che non l'ho capita.

QC: Traduzione: Chi decide quale è il blog che dice la "verità"? Chi è in grado di verificare ogni cosa? Ogni fonte (anche tu dici che non riesci a stare dietro a repubblica)? Come fai ad essere sicuro che le tue risposte sono sempre quelle giuste? Risposta: Ognuno ha il suo blog.

PA: 1. "Chi decide quale è il blog che dice la "verità"?" Se Repubblica scrive di un aereo che va dieci volte più veloce della luce (caso reale) [fonte], la verità è molto chiara. Non c'è da decidere. Di casi chiari come questi ce ne sono tanti. 2. "Chi è in grado di verificare ogni cosa?" Nessuno singolarmente. Ma nessuno ha questa pretesa. Però collettivamente, perché no? Si può perlomeno ridurre il numero di cose non verificate. 3. "Come fai ad essere sicuro che le tue risposte sono sempre quelle giuste?" Potrei fare la stessa domanda a te. Come fai a essere sicuro che il tuo paper ha ragione? :-) Non ho la pretesa che le mie risposte siano sempre giuste. 4. "Ognuno ha il suo blog." Detto così, sembra che tutti i blog abbiano pari dignità e che ognuno abbia la propria verità. Le scie chimiche di [nome rimosso per non regalare visibilità] e il blog di Katharine Hayhoe non sono pari. Ma forse ho capito male.

QC: Stiamo mescolando i piani. Per pubblicare un lavoro su una rivista scientifica occorre passare per il peer-review (che ha le sue falle). Perchè alcuni risultati scientifici li accetti e altri no? Che verifiche si fanno rispetto ai contenuti dei blog?

PA: Scusami, forse c'è un equivoco: non sto mettendo in discussione le conclusioni del paper. Sto chiedendo "E adesso che facciamo?". Non è una domanda retorica: è una richiesta concreta.

QC: E' un work in progress, la risposta concreta che abbiamo per ora, che però mi sembra non piacerti troppo, è di evitare la polarizzazione. Lo dico da un po', perchè questa non si può prendere in considerazione? Invece di rivendicare maggioranze silenti che non ci sono?

PA: In cosa consiste "evitare la polarizzazione"? La prendo in considerazione volentieri. Potresti fare qualche esempio concreto?

QC: Vuol dire evitare di darci giù con le etichette, con gli slogan "il debunking è LA soluzione" "Repubblica BUUUH", "chi non fa debunking è complottaro/tonto". Esempio concreto è qui ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/30033116

PA: Mi hai mai visto fare deliri del genere? :-) L'esempio concreto che citi fa una proposta interessante. Però non fa il passo successivo: dimostrare che funziona.

[non c’è stata risposta da Quattrociocchi a questo filone di conversazione]

Un altro caso di conversione è qui.


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2018/08/15

Ponte Morandi crollato, cautela nel far circolare foto: sciacalli già all’opera

Ultimo aggiornamento: 2018/08/31 9:00.

Ieri a Genova è crollato il ponte Morandi. Ci sono decine di vittime. Questo non ha impedito agli sciacalli e agli inetti di far circolare foto che non c’entrano nulla o che travisano completamente il contesto.


La falsa foto dei danni da corrosione


Come segnalato dal collega David Puente, questa foto dei danni pre-crollo non proviene dal ponte Morandi, ma dal ponte di Ripafratta, e risale a vari anni fa:





La foto del cane da soccorso: non è uno dei cani di Genova


Un altro esempio, trovato da @Al3xI98O:



Screenshot:



In realtà la foto risale al 15 settembre 2001 e mostra uno dei cani da soccorso al World Trade Center; si trova su Wikimedia Commons ed è opera del giornalista Preston Keres.


Le foto della parte “erosa” del ponte: non è erosa


C’è anche questa foto che molti stanno facendo circolare credendo che mostri un assottigliamento anomalo del ponte, ma in realtà il Morandi era fatto così: il tratto centrale delle campate era strutturalmente differente e più sottile per progetto, come spiega Il Post.




La foto del pilone senza sostegno: non è del ponte Morandi


Sempre David Puente segnala che questa foto di un pilone che in parte appoggia sul vuoto non riguarda il ponte Morandi, ma un altro ponte:




La foto del pilone che “si sta appoggiando alle case”: no, è sempre stato così


Questa foto circola sui social network come “prova” che uno dei piloni restanti starebbe cedendo e si starebbe appoggiando a un edificio sottostante, ma in realtà l’edificio è sempre stato così, con una rientranza per ospitare la struttura del ponte, come segnala l’indagine di Noallebufale.it.



Il “video” del crollo del ponte: è un’animazione fatta da una TV russa


Siamo nell’era digitale, siamo tutti online, abbiamo tutti uno smartphone, ma a quanto pare ci sono persone che non riescono a rendersi conto che un video che mostrerebbe il crollo è in realtà un evidentissimo cartone animato digitale.


Non è difficile rendersi conto che è un falso, nonostante la qualità pessima della ripresa, grazie a un fatto molto semplice che non richiede nessuna competenza digitale: a Genova quel giorno pioveva a dirotto, mentre il video mostra una giornata di sole. 

Come se non bastasse, questi inetti digitali pensano che il video sia segreto e che venga cancellato per nascondere chissà quali prove di chissà cosa. No, è pubblicissimo ed è un’animazione fatta da Channel One Russia. Grazie al lavoro dei colleghi di Bufale un tanto al chilo, potete vedere una copia molto meno sgranata e distorta, dalla quale si capisce chiaramente (o perlomeno si dovrebbe capire) che è un’animazione.



La foto di oggetti pendenti prima del crollo: non è la parte crollata e non sono elementi strutturali


NOTA: Questa sezione è stata riscritta estesamente dopo l’arrivo di nuove informazioni.

Una fotografia, pubblicata anche da Repubblica, sembra mostrare lesioni drammatiche al ponte, con qualcosa di filiforme che pende sotto una campata. È una delle immagini più diffuse, anche a livello internazionale, per mostrare lo stato di degrado del ponte (esempio: Daily Mail), ed è anche, almeno a prima vista, una delle più incriminanti.



Secondo Repubblica su Facebook, la foto “è stata scattata una settimana fa” ed “è verificata”.



Sempre Repubblica, in un altro articolo, ha scritto invece che la foto mostra lo stato del ponte Morandi “a qualche settimana dal crollo” e l’ha descritta parlando di “evidenti segni di cedimento dell’armatura metallica sotto la campata”.



Ho chiesto conferme a Repubblica via Twitter. Matteo Pucciarelli, di Repubblica, mi ha risposto pubblicamente che la foto gli “è stata girata dalla persona che l’ha scattata una settimana fa” e successivamente (il 16/8) ha spiegato che ha ricevuto personalmente la foto da un “tizio di fronte all'obitorio che trasportava cadaveri - col quale attaccai bottone per aver notizie in un giorno infernale - e che m'ha girato la foto da lui scattata”, aggiungendo che non ha “chiesto esattamente data e ora dello scatto limitandomi al suo "una settimanina fa"“. In quel momento c’erano ben altre priorità e quindi non ha approfondito ulteriormente, né desidera farlo. Rispetto la sua scelta, sia pure a malincuore. Però questo è quello che Repubblica chiama verifica.

L‘articolo di Repubblica è stato poi aggiornato un paio di giorni dopo il disastro, rimuovendo foto e didascalia senza alcuna rettifica pubblica.

Il confronto con altre immagini pubblicate chiarisce due cose:

  • la foto rappresenta una parte del ponte che non è crollata.
  • gli oggetti non sono elementi strutturali del ponte e non rappresentano affatto “evidenti segni di cedimento dell’armatura metallica sotto la campata” come aveva scritto Repubblica.

Questa è una versione non cerchiata della foto in questione, che ho trovato su Twitter:



Durante la diretta di Rainews è stata mostrata una ripresa nella quale si vedono gli stessi oggetti, che quindi sono tuttora presenti (grazie a giobatta80 per aver notato e salvato questo fermo immagine):



Inoltre giobatta80 mi ha inviato questa foto, mandatagli da un suo contatto e scattata la mattina del 16 agosto:



Un altro lettore, Maurizio Monti, citato con il suo permesso, mi ha inviato questa foto scattata da lui il 16 agosto 2018 alle 19:18, secondo i dati EXIF.



Il 17 agosto, mi ha segnalato questa foto:



Si vede chiaramente che gli oggetti filiformi penzolanti non hanno nessuna funzione strutturale, ma sembrano semplicemente dei resti di cablaggi e di una rete anticaduta collocata sotto l’impalcatura:




Qualunque cosa siano, quegli oggetti sono tuttora lì e non hanno affatto l’aria di essere elementi strutturali come suggeriva invece Repubblica.

Dalle ricerche dei lettori (grazie Decio) è poi emersa un’altra foto, per certi versi analoga, che mostra altri oggetti filiformi pendenti dal ponte Morandi nei mesi precedenti, in una zona adiacente a quella mostrata nella foto in discussione:



Sul margine sinistro della foto si nota un’altra impalcatura, che è quella accanto all’oggetto filiforme nella foto in discussione.

L’immagine qui sopra risale almeno a febbraio scorso: è mostrata, ridotta, in questo articolo del Secolo XIX del 7/2/2018. L’articolo dice che si tratta di un ponteggio per la manutenzione, staccatosi per il forte vento.

Un lettore (grazie Michele_Danielli) ha trovato una foto di Google Street View, datata luglio 2018, che mostra gli stessi oggetti filiformi:



Sembra insomma che quei frammenti d’impalcatura siano rimasti penzolanti molto a lungo (da febbraio a luglio).


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2018/08/14

Il dilemma dei cambiamenti climatici, risolto

La discussione sui cambiamenti climatici è da tempo politicizzata, teologizzata e lobbyizzata, tanto che si è persa di vista l’essenza della questione. Ogni tanto arriva qualcuno che riesce a riportarci al sodo. È il caso di questa vignetta di Joel Pett, vincitore del premio Pulitzer.

Ci si perde in dibattiti infiniti che presentano sempre le stesse domande: i cambiamenti climatici esistono? Se esistono, sono causati dall’umanità? Se lo sono, cosa dobbiamo fare?

Di solito non si supera neanche la prima domanda, perché arrivano i negazionisti, i dubbiosi, i giornalisti che dicono “gli scienziati sono unanimi, ma dobbiamo far sentire anche l’altra campana”, quelli che rifiutano di accettare i dati perché temono che guasteranno il loro stile di vita e dovranno spendere soldi e mortificarsi, e non si conclude nulla. Ancora una volta tutto viene rinviato.

La vignetta di Pett mostra una conferenza sul clima. Sul podio c’è un relatore che illustra i punti della politica di gestione dei cambiamenti climatici che propone: indipendenza energetica, conservazione delle foreste pluviali, sostenibilità, posti di lavoro nelle attività “verdi”, città vivibili, fonti rinnovabili, acqua e aria pulite, bambini sani, eccetera.

Dal pubblico si alza uno scettico e domanda: “Che facciamo se è tutta una grande truffa e creiamo un mondo migliore per niente?”


Il dilemma è tutto qui: se i negazionisti dei cambiamenti climatici hanno torto ma si impongono, siamo fregati e ci siamo giocati l’unico pianeta che abbiamo. Se invece hanno torto i sostenitori dell’esistenza dei cambiamenti climatici, il peggio che ci può capitare è che abbiamo ripulito il mondo. Che scelta difficile.


Per dirla con altre parole: se saltasse fuori che non c’è nessun pericolo derivante dal riscaldamento globale e che l’umanità non è responsabile, allora avremmo semplicemente fatto uno sbaglio di eccessiva prudenza. Ma se risultasse che il pericolo c’era e non abbiamo fatto nulla per rimediarlo, a quel punto sarebbe troppo tardi per fare qualunque cosa, e saremmo condannati al disastro. Messa in questi termini, non sembra una decisione difficile da prendere.


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2018/08/12

Avventurette in auto elettrica: trucchi per un viaggio “lungo”, seconda parte. Come partire con 6 km di autonomia ma farne 39

Ultimo aggiornamento: 2018/08/18 8:50.

Come preannunciato nella prima parte, ecco il resoconto del mio tentativo di aumentare l’autonomia di una “vecchia” auto elettrica e compiere un viaggio decisamente al di fuori del suo normale ambito d’uso: 75 km con un’auto che normalmente ha 80 km. E c’è una salita di 1000 metri all’arrivo, abbiamo una cinquantina di chili di legna a bordo e nessuna possibilità di ricaricare una volta arrivati a destinazione.


Preparativi


Gli aspetti economici non sono primari in questo esperimento, ma non sono neanche trascurabili. Per ridurre ancora di più i costi energetici del viaggetto, il giorno precedente (11 agosto) ho caricato in parte ELSA (la mia piccola auto elettrica, una Peugeot iOn di seconda mano) presso la colonnina che si trova al centro commerciale vicino al Maniero Digitale e che per ora è gratuita.

Infatti dalle mie parti è in corso una transizione dalle colonnine vecchie (foto qui sotto), comandate con una chiave, alle nuove colonnine “smart”, e in questa fase i gestori hanno gradevolmente deciso di lasciare libera a tutti la carica presso le colonnine non ancora aggiornate. Probabilmente hanno calcolato che i costi delle cariche regalate sono inferiori al costo di mantenere il vecchio sistema a chiave accanto a quello nuovo basato su tessere RFID e app.



Un ”pieno” di ELSA fatto al Maniero mi costa 2,3 franchi a tariffa notturna o 3 franchi a tariffa diurna, per cui il risparmio concesso dalla colonnina gratuita è nel mio caso molto modesto, ma tutto fa brodo.

A proposito di brodo: ho raggiunto la tappa simbolica di 3000 km percorsi in elettrico nei sei mesi da quando ho ELSA. Se li avessi fatti con la mia auto a benzina, avrei speso 242 franchi in più. In pratica, risparmio in media una quarantina di franchi al mese, nonostante io usi ELSA solo per il 18% circa dei miei percorsi in auto (sì, tengo statistiche dettagliate dei consumi e delle percorrenze). A questo ritmo mi ci vorrebbero circa ventisei anni per ripagare il costo dell’auto (ma cinque se facessi in elettrico tutti i miei spostamenti). Ma non ho comprato un’auto elettrica per l’unico scopo di risparmiare denaro.

Ho completato il “pieno” a casa intanto che caricavo la legna da portare alla destinazione che la Dama del Maniero e io volevamo raggiungere (degli amici presso un rustico sui Monti di Tizzerascia). Una zavorra che aumenterà i consumi e che contribuirà a rendere più ridotti i margini di autonomia per quest’avventuretta.



Ho anche fatto un’altra cosa per aumentare l’autonomia: ho “hackerato” ELSA per sbloccare le modalità di recupero di energia nascoste, come raccontato nella prima parte. Non c’è nessun intervento software, ma solo un lavoro di Dremel: basta rimuovere il tratto tappato della fessura sagomata presente nella mascherina del “cambio”. Nella prima foto la vedete capovolta, per mostrare il tratto tappato; nella seconda la vedete a faccia in su, dopo il mio piccolo intervento.




Ora ho, oltre al normale recupero energetico medio (modalità D, di serie), anche le modalità B (recupero massimo) e C (recupero minimo). La modalità B è ottima per la guida in città e offre la massima frenata elettromagnetica (che non è comunque più drastica di un freno motore di un’auto a pistoni); la modalità C serve per i viaggi in autostrada, per evitare che un lieve rilascio dell’acceleratore attivi la rigenerazione e causi rallentamenti e consumi inutili.

Infatti quando si procede a velocità costante è più efficiente evitare che l’auto “freni” a ogni minimo rilascio dell’acceleratore: quello che si guadagna in ricarica della batteria è sempre meno di quanto si spende per riprendere la velocità persa. Si impara molto, quando si ha un’auto elettrica, specialmente se è limitata come ELSA e la si vuole portare al limite delle sue prestazioni.

Ho controllato la pressione delle gomme, per evitare che gli pneumatici sgonfi aumentino la resistenza al rotolamento e quindi facciano aumentare i consumi, riducendo l’autonomia.

Ho anche verificato di avere saldo sufficiente sui conti prepagati delle app Emotì e Swisscharge. È importante, perché a differenza dei distributori di benzina, che accettano contanti e carte di credito, le colonnine accettano solo pagamenti tramite le rispettive app o carte RFID.

Un altro preparativo importante è il monitoraggio preciso dello stato della batteria e dei consumi. Ho acquistato tempo fa un OBD Link LX Bluetooth: un oggettino che si inserisce nel connettore OBD dell’auto e ne trasmette via Bluetooth i dati diagnostici a un’app presente su uno smartphone o su un tablet. Nel mio caso ho scelto CanIon, app realizzata appositamente per gli utenti Peugeot iOn dagli sviluppatori Martin e Xavier (non è un’app ufficiale Peugeot).



Andata


Fonte: Ecalc.ch.
10.15. La Dama e io partiamo dal Maniero. È un giorno di traffico vacanziero intenso, qui in Canton Ticino, per cui in autostrada (sulla A2) si viaggia a circa 90 km/h su entrambe le corsie. Tenere una velocità bassa per ridurre i consumi, quindi, non ci pesa: tanto non abbiamo scelta.


10.40. La prima tappa è Bellinzona, dove c’è una colonnina di ricarica veloce GOFAST lungo l’autostrada. Qui ci capita la prima sorpresa: dopo 32 km abbiamo consumato pochissimo (un quarto della batteria invece di un terzo come al solito), nonostante l’arrampicata per superare il Monte Ceneri. Merito della velocità ridotta e della modalità C di risparmio energetico che ho appena sbloccato. Di conseguenza facciamo solo un rabbocco di qualche kWh, fermandoci 15 minuti e scambiando due parole con un altro automobilista elettrico, un belga che ha una Mini ibrida e sta cercando di caricare ma non ci riesce perché non ha l’app adatta: un problema classico e decisamente assurdo del mondo elettrico. Gli spiego come fare, e il tempo vola. Ripartiamo con l’88% di carica.


10.55. Inizia ora la tappa più impegnativa: dobbiamo consumare il meno possibile nonostante i 50 kg di zavorra e soprattutto i circa 1000 metri di dislivello (la nostra destinazione è a 1240 metri e partiamo da quota 200) e percorrere 43 km, conservando abbastanza energia per tornare a un punto di ricarica (il più vicino è a circa 15 km).

Nel tratto autostradale, fino a Biasca, andiamo a circa 90 km/h, usiamo la modalità C, acceleriamo lentamente, ci mettiamo nella scia delle roulotte (a distanza di sicurezza), e in effetti arriviamo a Biasca con il 50% di carica residua. Meglio delle previsioni: siamo a posto per il ritorno. Almeno così crediamo.

11.45. La salita finale, 9 km di stradine da affrontare a 40 km/h con una serie infinita di tornanti, si rivela un incredibile vampiro di energia. Arriviamo a destinazione, ma con un margine decisamente minore di quello che avevo stimato io e di quello che era emerso dai calcoli teorici dei lettori: sei km di autonomia residua, con l’indicatore di carica che lampeggia nell’equivalente elettrico della “riserva”. Questo è male. Nel rustico dove ci fermiamo non c’è una presa di corrente utilizzabile (c’è solo un po’ di energia elettrica fornita da un pannellino solare, sufficiente per le luci interne e per una piccola TV LCD).



Siamo comunque arrivati a destinazione, per cui ci godiamo la compagnia degli amici per la giornata, al fresco e con cibarie memorabili. Riusciremo a tornare a casa? Ci penseremo dopo, a pancia piena.


Ritorno


18.00. Non ci era mai capitato di partire per un viaggio con sei chilometri residui di autonomia; secondo le previsioni, avremmo dovuto averne quasi trenta. Possiamo solo sperare che i mille metri di dislivello, stavolta in discesa, ricarichino ELSA abbastanza da permetterci almeno di raggiungere la colonnina lenta di Malvaglia, che sta a 15 km.

Metto la modalità B (ufficialmente inesistente sulla iOn, ma sbloccata dal mio piccolo “hackeraggio”) che massimizza il recupero e ci permette di scendere lungo i tornanti praticamente senza toccare mai i freni e caricando invece la batteria.

Ma il recupero è decisamente modesto: dopo 1000 metri di dislivello abbiamo riacquisito circa 20 km di autonomia, grosso modo la metà di quello che abbiamo speso per salire. Non bastano per raggiungere il punto di ricarica veloce previsto, che sta a 39 km dal punto di partenza, ma sono sufficienti a raggiungere non solo quello lento di Malvaglia, ma anche il successivo, che sta a Biasca. Insomma, non resteremo a piedi.

Arriviamo così a Biasca, dove ci stiamo per rassegnare ad almeno un’ora di sosta per caricare lentamente alla colonnina Emotì locale, ma poi guardiamo il contachilometri di ELSA e ci rendiamo conto che scendendo non abbiamo soltanto caricato un po’ la batteria: abbiamo anche percorso 19 km senza consumare energia. Morale della storia: siamo a 20 km dalla colonnina veloce e abbiamo circa 20 km di autonomia. Che fare?

La cosa prudente sarebbe caricare una mezz’ora a Biasca, per avere un po’ di margine. Ma ci piace rischiare e possiamo confidare in qualche chilometro extra di “modalità tartaruga”, per cui decidiamo di tentare di raggiungere la colonnina GOFAST sulla A2 in direzione sud. Andiamo a 90 km/h, in modalità C, quella ottimale per i percorsi rettilinei a velocità costante.


18.57. Raggiungiamo la colonnina di ricarica rapida con qualche km di autonomia di margine e facciamo una carica di 25 minuti, che porta la batteria all’80% di carica. Il Piano A è riuscito, nonostante tutto: una carica veloce all’andata e una al ritorno.





Approfitto della pausa per raccogliere qualche dato dalla “telemetria” dell’OBD Link LX:





A questo punto possiamo rilassarci e correre fino al Maniero (sono solo 35 km) alla massima velocità consentita dai limiti locali. Anzi, cogliamo l’occasione per una piccola tappa a Lugano.


20:10. Arriviamo al Maniero dopo aver percorso 152 km con due tappe di ricarica veloce. Metto sotto carica ELSA, così domattina avrò di nuovo il “pieno”, e tiro le somme di quest’avventuretta.

Le due cariche veloci (10 kWh complessivi) mi sono costate in tutto 14.52 CHF (4.35 all’andata e 10.17 al ritorno), per cui il viaggio elettrico mi è costato leggermente meno dei 16,5 CHF che avrei speso se avessi usato la mia auto a benzina. Ma caricare rapidamente alle colonnine costa molto più che farlo lentamente a casa: quei 10 kWh che ho caricato in tutto sarebbero costati, a casa mia, circa un franco e mezzo. La comodità di poter caricare in giro e di poterlo fare rapidamente si paga.

Un’auto elettrica con un pochino di autonomia in più della piccola ELSA (16 kWh) avrebbe potuto fare tutto il viaggio senza tappe di ricarica e quindi avrebbe speso circa 4,4 CHF contro i 16,5 dell’auto a benzina (valori stimati sul percorso in piano e da maggiorare per via della variazione altimetrica, soprattutto nell’auto a benzina, che in discesa non recupera nulla ma anzi consuma i freni).

L’altra lezione di questo viaggio è che le salite consumano tantissimo e il recupero energetico in discesa è piuttosto modesto, perlomeno su quest’auto di sette anni fa. Se vivete in aree montuose o dovete affrontare dislivelli notevoli, tenetene conto nella pianificazione dei vostri viaggi elettrici.

I dati della “telemetria” sono utili per capire quali dispositivi e quali comportamenti di guida consumano di più e per monitorare il reale andamento della carica dell’auto, che è variabile in base a vari parametri (primo fra tutti il livello di carica di partenza). Servono anche per rendersi meglio conto dei dislivelli e delle lievi pendenze del terreno, che con un’auto a pistoni sono quasi irrilevanti (aumentano i consumi, ma tanto l’autonomia è enorme e ci sono distributori ovunque) ma che con un’auto elettrica diventano importanti.

Un altro aspetto messo in luce da questo viaggio è l’effetto vistoso della velocità sull’autonomia. Partire un pochino prima e viaggiare a 100 km/h fa davvero molta differenza, in termini di consumi, rispetto a viaggiare a 120 km/h e risparmiare qualche minuto.

A proposito di consumi, la media approssimativa del viaggio è 138 Wh/km, nonostante la salita. Avevo infatti 16 kWh alla partenza, ne ho aggiunti 10 in viaggio e sono tornato a casa con 5 kWh residui, per cui ne ho consumati circa 21.

Infine, una piccola scoperta inattesa: usare un’auto elettrica in montagna può ridurre la nausea da movimento sui tornanti, sia in salita, sia in discesa. Io normalmente ne soffro molto, ma oggi non ho avuto il minimo problema. Sospetto che sia merito del fatto che con un’elettrica non ci sono mai i rallentamenti e gli strappi prodotti dal cambio delle marce.

Cosa più importante, la Dama e io ci siamo divertiti insieme, viaggiando nel silenzio, inquinando meno e trasformando un aspetto banale di una giornata (il viaggio) in un momento di piccola avventura e di apprendimento.


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2018/08/11

Su Le Scienze racconto un mistero: perché non vediamo “mosso” quando spostiamo lo sguardo?

Nel numero de Le Scienze di questo mese racconto la storia sorprendente della risposta a una domanda apparentemente stupida: perché non vediamo tutto mosso quando spostiamo lo sguardo da un punto a un altro? Se lo facciamo con una telecamera, l’effetto è ben visibile e anzi fastidioso. Ma i nostri occhi non manifestano questo fenomeno.

Potete anche fare questo semplice esperimento: guardatevi allo specchio, spostate lo sguardo altrove e poi guardatevi di nuovo. Non solo non vedrete mosso, ma non vedrete neanche i vostri occhi muoversi. Perché? È almeno dal 1898 che ce lo chiediamo.

La spiegazione completa è nell’articolo che ho scritto per la rivista, ma posso dirvi che non solo ha conseguenze importanti nella vita di tutti i giorni (se un automobilista si giustifica dicendo che non ha visto un pedone che gli passava davanti, potrebbe essere sorprendentemente vero), ma rivela anche quanto è sofisticato il cervello nell‘inventarsi correzioni della percezione, al punto di ricostruire la realtà e ingannarci.

Se vi serve un video di un orologio a lancette per un altro degli esperimenti che consiglio nell’articolo, eccovelo:



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2018/08/10

Come aprire una porta chiusa usando un foglio di carta

No, non mi sto Aranzullando: voglio solo segnalare questa splendida, concisa lezione di sicurezza segnalata da Dan Tentler. Riuscite a capire come mai la porta si apre usando semplicemente un foglio di carta?



La lezione è questa:

  1. Una porta “chiusa” è chiusa soltanto per oggetti o esseri viventi al di sopra di certe dimensioni. Tipicamente quelle del progettista.
  2. In ogni automatismo, bisogna chiedersi sempre quale oggetto o condizione imprevista può farlo attivare.

La soluzione, se volete, è nei commenti al tweet di Tentler.


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2018/08/09

La strana storia di #PerFontanaSonoTroppi

Sono passati un paio di giorni, mi sono passati i crampi del troppo ridere e così posso riassumere qui per i posteri la curiosa vicenda di un hashtag, #PerFontanaSonoTroppi, che del tutto involontariamente e in parte per colpa mia è arrivato in cima ai trending italiani su Twitter.

Nello screenshot qui accanto lo vedete al secondo posto, e forse è arrivato anche al primo, ma non ha importanza: ci siamo comunque tutti divertiti tanto e forse abbiamo fatto qualcosa di buono.

Tutto inizia con una dichiarazione del Ministro della Famiglia, Lorenzo Fontana, riportata dall’ANSA così: “Fontana: troppi 10 vaccini ma non sono medico”. La frase esatta, presente nel video pubblicato dall’ANSA, è “ritengo che forse l’obbligo di così tanti vaccini sia un po’ esagerato, bisognerebbe andare ad analizzar bene, però non sono un medico, non sono uno scienziato, quindi sono da questo punto di vista... riconosco la mia ignoranza.”

La concisione estrema della versione ANSA rende evidente l’assurdità della presa di posizione personale di Fontana: non essendo un esperto di immunologia, la sua opinione personale su quanti vaccini siano “troppi” non vale nulla. Nel suo ruolo di ministro la cosa giusta da fare sarebbe non pronunciarsi su argomenti di cui egli stesso ammette di essere ignorante. Soprattutto se l’argomento è quello, delicatissimo, della salute e delle vaccinazioni. Il calo della copertura vaccinale sta facendo vittime, e non solo in Italia.

Leggo la notizia ANSA e faccio un commento al volo su Twitter:



Noterete che l’hashtag #PerFontanaSonoTroppi nel mio tweet non c’è. Infatti lo inventa Fabio Galletti in risposta al mio tweet:



Poi arrivano altri utenti con variazioni sul tema:

-- #troppi 10 comandamenti, ma non sono un teologo
-- Troppe 5 zampe nel Modulo Lunare, ma non sono un ingegnere della Grumman. 😉
-- Troppi 451 gradi Fahrenheit, ma non sono Ray Bradbury
-- Troppi 40 ladroni, ma non sono Alì Babà
-- Troppi 35 centimetri, ma non sono Rocco Siffredi e ce l'ho piccolo
-- Troppi 24 mila baci, ma non sono Celentano
-- Sono troppe tre civette sul comò, ma non sono la figlia del dottore
-- Troppe note caro Mozart, ma non sono Giuseppe II
-- Troppe tre leggi per descrivere il moto dei pianeti, ma non sono Keplero
-- Troppe 200 miliardi di stelle nella Via Lattea, ma non sono un astronomo
-- Troppi 640k, ma non sono Bill Gates
-- Troppi 33 trentini, ma non sono un antropologo
-- #troppi due testicoli, ma non sono un andrologo
-- Troppi 50 anni e troppi 5 figli, ma non sono De Gregori

-- troppi 2 piccioni. Ma io non sono una fava
"Troppi 3,141592653589793238462643383279502884197169399375105820974944 5923078164062862089986280348253421170679 per il Pi Greco, ma non sono un matematico"
-- Troppi quattro salti in padella, ma non sono il Capitano Findus
-- Troppi 365°, ma non sono un goniometro
-- Troppi 7 nani, ma io non sono Biancaneve
-- Troppe 88 miglia all'ora, ma non sono Doc

e così via. Ne cito un paio delle più argute e sottili (tipo Troppi 6,022*10^23 atomi in una mole, ma non sono Avogadro), e poi mi assento da Twitter per un po’. Quando torno scopro che è scoppiato davvero il meme, o meglio l’hashtag, come presentivo:



All‘hashtag #PerFontanaSonoTroppi e alla presa in giro della dichiarazione del ministro Fontana vengono addirittura dedicati articoli di Giornalettismo e Repubblica, nei quali trovate altri esempi della creatività umoristica degli utenti di Twitter. Se proprio volete strafare e leggerli (quasi) tutti, potete cercare l’hashtag su Twitter.

E questo è tutto. Non c’è stata nessuna azione coordinata e non ci sono stati di mezzo i troll di Bruxelles, come ha insinuato qualche utente Twitter: è stata una cosa spontanea e nata per caso mentre facevo tutt’altro (se volete saperlo, stavo ricablando il Maniero Digitale). Spero che vi abbia divertito, e che magari qualcuno abbia imparato qualcosa.


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2018/08/07

Lo spam arriva anche su Google Calendar

Stamattina ho trovato nella mia posta una mail di notifica di Google Calendar che mi avvisava di un appuntamento per oggi alle 4.30 del mattino e conteneva questa frase: “I am Ms.Eunice please i have an important issue to discuss with you regarding my inheritance.Please Email Me Here Ms_Eunice...”.

Incuriosito, sono andato a vedere nel mio Google Calendar ed effettivamente c’era l’appuntamento notificato:


Il testo completo dell’appuntamento-spam, contenuto nel titolo, è questo:

I am Ms.Eunice please i have an important issue to discuss with you regarding my inheritance.Please Email Me Here Ms_Eunice.Akach2018@hotmail.com



Noterete che l’indirizzo citato nel testo (Ms_Eunice.Akach2018@hotmail.com) è diverso da quello del creatore dell’appuntamento (kooho002@gmail.com).

Ho segnalato l’evento come spam (Altre azioni - Segnala come spam) e l’evento è stato rimosso automaticamente.

È piuttosto assurdo che per default chiunque possa inserire appuntamenti in Google Calendar. Il problema si risolve, a quanto pare, andando nelle Impostazioni di Google Calendar (l’ingranaggino grigio), scegliendo Impostazioni evento e poi attivando, in Aggiungi automaticamente gli inviti, la voce No, mostra solo gli inviti a cui ho risposto. Staremo a vedere.



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A proposito di odio online: c’è chi mi augura “un bel proiettile”

Un tweet pubblico arrivatomi ieri:

Un bel proiettile per il l'attivissimo coglione e puff sparito.
Deve avere dei brutti ricordi della scuola.
Legnato dai bianchi.
Deriso dai bianchi.
Due di picche dalle bianche.
E' la vita degli inferiori.
E' il destino di voi con la pelle sporca.
Coraggio,puoi sempre suicidarti.

L’originale:



Lo screenshot:


Io tutto sommato mi occupo di temi relativamente poco controversi, con giusto qualche puntatina nel complottismo; non faccio politica né ne scrivo; sono maschio, bianco ed europeo; per cui sono sostanzialmente al riparo dai battibecchi, dal sessismo e dal razzismo. Roba come questa mi arriva di rado. Non oso immaginare come sia la vita online per chi tocca argomenti difficili e si trova in una situazione più vulnerabile. Spero che troviate sempre la forza di resistere.


2018/08/07 10:40


Per chi mi chiede se intendo segnalare alle autorità queste minacce: restate sintonizzati. Potrebbero esserci sviluppi interessanti.


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2018/08/05

Patrick Stewart torna a Star Trek!

Ultimo aggiornamento: 2018/08/11 9:30.

Ho pensato a un pesce d’aprile quando l’ho letto inizialmente, ma l’annuncio è ufficiale: Patrick Stewart, memorabile interprete del Capitano Jean-Luc Picard in Star Trek: The Next Generation e in vari film di Star Trek, riprenderà lo stesso ruolo in una nuova serie che verrà trasmessa negli Stati Uniti da CBS All Access.

Questo è uno spezzone dell’annuncio, totalmente a sorpresa, fatto da Stewart stesso poche ore fa a una convention di Star Trek a Las Vegas.




Il video ufficiale (parziale):




Questo è l’annuncio di Variety:




Un altro annuncio, con foto della gran forma di Stewart, che pare aver fatto un patto col diavolo, o perlomeno con Q:




Ed ecco la dichiarazione formale di Patrick Stewart:



Traduco:

“Sarò sempre molto orgoglioso di aver fatto parte di Star Trek: The Next Generation, ma quando terminammo le riprese di quel film finale a primavera del 2002, pensai sinceramente che il mio periodo con Star Trek fosse giunto alla sua conclusione naturale. Ê quindi una sorpresa inattesa ma incantevole scoprirmi emozionato e rinvigorito all’idea di tornare a Jean-Luc Picard e ad esplorare nuove dimensioni dentro di lui. Alla ricerca di nuova vita per lui quando pensavo che quella vita fosse finita.

In questi anni trascorsi, ho provato grande soggezione nel sentire i racconti di come The Next Generation ha dato conforto alle persone, le ha aiutate in momenti difficili delle proprie vite o di come l’esempio di Jean-Luc ha ispirato così tanti a seguire le sue orme e intraprendere la scienza, l’esplorazione e ruoli di guida. Sento di essere pronto a tornare da lui per lo stesso motivo: per cercare e vivere qualunque luce confortante e riformatrice possa proiettare su questi tempi spesso molto cupi. Non vedo l’ora di lavorare con la nostra squadra creativa geniale mentre ci sforziamo di portare di nuovo alla vita una storia originale, inattesa e pertinente.

Patrick”


Mi sono reso conto solo ora di aver previsto il futuro con questo tweet del 16 luglio scorso. Mi candiderò al Premio Randi.




2018/08/11 9:30


La CBS ha pubblicato il video integrale dell’annuncio.



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