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Il Disinformatico

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2020/09/13

Storie di Scienza 12: No, gli scienziati non sanno tenere i segreti. Trapela la possibilità di vita extraterrestre su Venere

Ultimo aggiornamento: 2020/09/14 22:20.

Uno dei capisaldi del pensiero cospirazionista è “gli scienziati sanno, ma tacciono”. Gli scienziati hanno inventato l’automobile che va ad acqua, ma la tengono segreta. Hanno scoperto la cura per il cancro, ma non la rivelano. Hanno trovato gli alieni, ma fanno parte di una colossale congiura del silenzio.

In realtà questa visione iper-omertosa della comunità scientifica ce l’ha solo chi non ha mai conosciuto nessuno che si occupi di scienza per lavoro. Chi ha a che fare con gli scienziati, invece, sa benissimo che in realtà di fronte a una scoperta davvero sensazionale ci sarebbe sicuramente qualcuno di loro che, intenzionalmente o meno, la farebbe trapelare.

Un esempio di questa realtà verrà reso pubblico ufficialmente domani, ma è già stato diffuso in lungo e in largo dal passaparola. Anche in Rete se ne trovano ampie tracce nella cache di Google, grazie agli scienziati e giornalisti pasticcioni che hanno già preparato i comunicati stampa e gli articoli e li hanno messi online pensando che nessuno li avrebbe trovati.

Per rispetto formale all’embargo che è stato chiesto allo scopo di sincronizzare l’uscita della notizia in tutto il mondo, per ora non fornisco dettagli, ma la scoperta è davvero grossa, anche se si riassume in due lettere e una cifra.

Troverete tutti i dettagli qui sotto il 14 settembre dalle 17 ora italiana, quando cesserà formalmente l’embargo e la Royal Astronomical Society presenterà un video (incorporato qui sotto).

In ogni caso, visto che ormai l’embargo è stato violato da parecchie fonti, come Earthsky.org (addirittura due giorni fa), Astrobiology.com e Medium.com, e che io non l’ho mai sottoscritto, è inutile aspettare ancora: in sintesi, è stata rilevata una traccia chimica quasi certa di vita microbica su Venere, specificamente nella fascia alta della sua atmosfera. Ne scriverò in dettaglio stasera; nel frattempo ci sono appunto le suddette fonti in inglese che hanno già pubblicato i particolari della scoperta.

Anche il video di annuncio è trapelato; è stato rimosso ma non prima che qualcuno lo salvasse. Al momento è ripubblicato qui.


2020/09/14 19:00 - Scoperto un indicatore quasi certo di vita su Venere

Nell’atmosfera di Venere è stata trovata della fosfina (o fosfano, PH3), una molecola molto rara che, se presente in grandi quantità, è quasi sicuramente un indicatore di vita, perché non conosciamo processi non biologici che la possano generare in abbondanza. Con molta cautela, quindi, gli astronomi parlano di una possibile scoperta di vita microbica su Venere. Il comunicato stampa dell’ESO in italiano è qui.

La scoperta della fosfina nell’atmosfera di Venere è il frutto della collaborazione internazionale di ricercatori del Regno Unito, degli Stati Uniti e del Giappone, coordinati da Jane Greaves dell’Università di Cardiff, e si basa su osservazioni fatte con il James Clerk Maxwell Telescope (JCMT) alle Hawaii e confermate usando 45 antenne di ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) in Cile. La loro ricerca è pubblicata oggi nell’articolo Phosphine Gas in the Cloud Decks of Venus su Nature Astronomy. Il comunicato della Royal Astronomical Society è qui, e la conferenza stampa è qui sotto.

La fosfina è considerata da tempi non sospetti un biomarcatore o firma biologica (biosignature), ossia un indicatore della presenza di vita, perché esistono solo due modi conosciuti per produrla in quantità su un pianeta roccioso: industrialmente oppure tramite microbi che vivono in ambienti privi di ossigeno.

In entrambi i casi, insomma, se c’è fosfina c’è vita; ma dato che la presenza di industrie nell’atmosfera venusiana è piuttosto improbabile, resta solo l’ipotesi della presenza di microbi extraterrestri. Infatti i processi geologici (fulmini, vulcani, minerali scagliati dalla superficie, interazioni con la luce solare) non generano quantità paragonabili a quelle trovate nell’atmosfera di Venere, che sono diecimila volte maggiori di quelle generabili tramite questi processi, sempre ammesso che nell’inferno venusiano non ci sia qualche altro processo che non conosciamo ancora e che genera fosfina in quantità. Oltretutto la fosfina si degrada nel corso del tempo e quindi c’è bisogno di qualche fenomeno che la generi costantemente.

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È presto per dire che abbiamo scoperto con certezza la vita fuori dalla Terra, e che per di più l’abbiamo scoperta praticamente sull’uscio di casa invece che su qualche mondo lontanissimo, ma le premesse sono molto buone, anche perché tutto indica che Venere fosse un pianeta ospitale per la vita prima dell’innesco di un effetto serra catastrofico. La vita avrebbe avuto tempo di formarsi per poi adattarsi e rifugiarsi negli strati alti dell’atmosfera, fluttuandovi in eterno; è già stato immaginato un possibile ciclo vitale. E c’è sempre quella faccenda delle striature scure anomale dell’atmosfera di Venere, che assorbono la luce ultravioletta e sono composte da particelle di natura ignota ma grandi all’incirca quanto batteri terrestri. Se ne sta già occupando la sonda giapponese Akatsuki.

Serviranno però ulteriori osservazioni, e magari qualche sonda, per sciogliere i dubbi. Già ora, per esempio, potremmo verificare con i nostri telescopi e radiotelescopi se questa presenza inattesa di fosfina ha un andamento stagionale o altre variazioni compatibili con una fonte biologica, e se è accompagnata dalla presenza di altri gas associati alla vita come la conosciamo.


A proposito di sonde, Venere è bellissima da vedere, con la sua coltre perenne di nubi che la rende il pianeta più luminoso, ma in realtà è un postaccio: al suolo, le temperature sono sufficienti a fondere il piombo (circa 460 °C) e la pressione è letale (circa 90 volte quella terrestre). Un astronauta finirebbe schiacciato e cotto in men che non si dica. L’atmosfera, oltretutto, è quasi interamente composta da anidride carbonica, con una spruzzatina di azoto, e le nuvole sono fatte di acido solforico. Pochissime sonde si sono avventurate in questo inferno e pur essendo state costruite come carri armati refrigerati sono durate soltanto poche ore.

Però queste sono le condizioni sulla superficie. Nell’atmosfera venusiana, fra 48 e 60 chilometri dalla crosta cotta del pianeta, c’è una cosiddetta “zona temperata”, ossia una zona nella quale la temperatura è simile a quelle terrestri (ossia varia fra 0 e 100 °C) e la pressione è quella che si incontra sulla Terra. Ed è proprio lì che è stata rilevata la presenza di fosfina.

Come si può verificare se quella fosfina è davvero prodotta da forme di vita? C‘è un modo, e anche molto avventuroso. Si chiama HAVOC (che significa “caos” in inglese): un nome piuttosto adatto per una missione che consiste fondamentalmente nel far precipitare verso Venere un veicolo spaziale che si porta appresso l’involucro sgonfio di un dirigibile, e lo gonfia mentre sta precipitando.

Un viaggio verso Venere dura, con le attuali tecnologie, quattro o cinque mesi (le sonde Mariner 2 e Venus Express hanno impiegato rispettivamente 110 e 153 giorni). Arrivarci non è un problema, anche usando un vettore medio-pesante come un Falcon Heavy o un Delta IV Heavy, senza dover scomodare giganti come l’SLS. La parte difficile è tornare a casa con i campioni d’atmosfera raccolti (e con gli eventuali microorganismi alieni in sospensione in quell’atmosfera). Infatti Venere ha una gravità di poco inferiore a quella terrestre e quindi serve un vettore di ritorno molto più potente di quello necessario per tornare da Marte.

Il progetto HAVOC (High Altitude Venus Operational Concept), fattibile appunto con vettori medio-pesanti già esistenti, prevede un inserimento in orbita intorno a Venere a circa 300 chilometri di quota, dopo una frenata aerodinamica negli strati più tenui dell’atmosfera. Poi il veicolo (con o senza equipaggio) frena ancora usando i propri propulsori per uscire dall'orbita e precipita nell’atmosfera, proteggendosi con il proprio scudo termico, fino a circa 80 km di quota. A quel punto apre un paracadute supersonico (visto che sta cadendo a circa 1600 km/h), che lo rallenta, e comincia a gonfiare l’involucro mentre sta scendendo. 

Se tutto va bene, il veicolo-dirigibile sgancia il paracadute e inizia a fluttuare nell’atmosfera venusiana a circa 60 km di quota, restando lì per il tempo necessario per raccogliere i campioni e fare tutte le osservazioni scientifiche del caso. Gli eventuali astronauti-aeronauti potrebbero uscire all’aperto indossando una semplice tuta resistente agli agenti chimici, non pressurizzata, e un respiratore, passeggiando magari su una balconata fra le nuvole di Venere, cercando di non pensare che per il 90% sono fatte di acido solforico e che se l’involucro si sgonfia scenderanno inesorabilmente verso un forno grande come l’intero pianeta.

Se l’equipaggio non c’è e l’analisi viene fatta in loco con strumenti robotici, la missione non ha bisogno di prevedere un ritorno. Se invece si tratta di tornare sulla Terra, allora il veicolo si sgancia dall’involucro e inizia a precipitare verso l’inferno sottostante, sperando che i motori di risalita si accendano correttamente e lo riportino nello spazio e da lì verso casa.

Non è facile, insomma, ma non è impossibile. Sarebbe davvero ironico se si scoprisse che ci siamo dedicati per decenni a Marte mentre la vita ci aspettava svolazzante nelle nubi di Venere. “È ora di dare priorità a Venere”, ha tweetato poco fa Jim Bridenstine, Administrator della NASA. Speriamo in bene.

 

Fonti aggiuntive: Earthsky.org; Space.com; Astrobiology.com. Questo articolo fa parte delle Storie di Scienza: una serie libera e gratuita, resa possibile dalle donazioni dei lettori. Se volete saperne di più, leggete qui. Se volete fare una donazione, potete cliccare sul pulsante qui sotto. Grazie!

2020/09/11

Il complottismo sull’11 settembre, 19 anni dopo

Il 10 settembre scorso sono stato ospite della Rete Uno della radio svizzera nel programma Millevoci, condotto da Nicola Colotti, per un'oretta di discussione sui cospirazionismi e in particolare sugli attentati dell’11 settembre 2001. Al telefono è stata ospite Marina Montesano, professoressa ordinaria* di Storia Medievale al Dipartimento di Civiltà antiche e moderne dell’Università di Messina e autrice del libro Mistero americano dedicato alle tesi di complotto intorno a questi attentati che hanno cambiato la storia.

A distanza di tanti anni, si comincia a perdere il ricordo di come erano realmente le cose negli Stati Uniti prima di quell’11 settembre, e quindi prosperano dubbi e teorie basate su come stanno le cose oggi. Soprattutto, il tempo consente di fare pacatamente il punto: ci sono novità delle tesi alternative? Spoiler: no. E ce ne sono nella ricostruzione tecnica dei fatti? Spoiler: sì, e anche in quella politica (esempio). Ci sono tre terabyte di dati che pochissimi conoscono.

Se vi interessa, c’è lo streaming video della trasmissione qui (inframmezzata da radiogiornale e allerte traffico):

Se vi interessa saperne di più, il blog Undicisettembre.info è a vostra disposizione. Vi consiglio di leggerne almeno le risposte alle domande più frequenti prima di chiedere qualcosa nei commenti.

Per i complottisti assatanati che si scateneranno come sempre nei commenti: lasciate perdere, verrete cestinati. Non ho tempo per i vostri deliri. I fatti tecnici sono ormai accertati. Se preferite credere a un video visto su YouTube, è vostro diritto. Come è mio diritto non perdere tempo con voi. Fatevi una vita.

*Per chi è perplesso sul mio uso di “professoressa ordinaria”: mi attengo alle linee guida per il linguaggio di genere pubblicate presso Unive.it. 


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2020/09/08

Huffington Post e il “disastro annunciato” di Immuni

Rispondo brevemente ai tanti che mi stanno segnalando un articolo dell’Huffington Post in italiano (copia permanente) che nel titolo definisce l’app Immuni un “disastro annunciato”.

La giustificazione per questo titolo catastrofista sarebbe un difetto che l’articolo stesso ammette essere puramente teorico e il cui sfruttamento richiederebbe un impegno enorme e impraticabile.

L’articolo dice infatti che sarebbe sfruttabile “più che da un singolo individuo, da uno Stato “canaglia” o da una grossa organizzazione internazionale, considerata la complessità necessaria per mettere in atto l’operazione dal punto di vista tecnico”.

A parte la complessità tecnica della sfruttabilità della falla, trovo decisamente assurdo il tono dell’articolo, visto che su quegli stessi telefoni sui quali Immuni sarebbe un “disastro annunciato” la gente installa app ipertraccianti come se non ci fosse un domani.

In queste condizioni, preoccuparsi per un bug di Immuni è come stare in un letamaio e preoccuparsi che magari ti puzza l'alito.

L’unico “disastro annunciato” è che per colpa di questo panico artificiale si rischia che la gente non installi app utili come Immuni e che quindi ci saranno più contagi. Tutto questo per qualche clic in più.

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Come non fare un sito Web “protetto da password”: i candidati comunali di Trento

Ultimo aggiornamento: 2020/09/08 12:10. Nota: Il sito citato è stato modificato.

“Questa pagina è protetta da password. È possibile visualizzare la pagina dopo aver inserito la password”. Quando ho scritto inizialmente questo articolo mi si presentava così, lapidario e categorico, il sito Movimentolacatena.it:


Un sito dal quale si può imparare moltissimo. Perché è un perfetto esempio di come non si devono fare le cose. 

Infatti c’è un piccolo problema, segnalatomi da un lettore: era sufficiente leggere l’HTML della pagina, che ovviamente è pubblicamente accessibile per necessità tecnica, per scoprire come è stata gestita la password. Leggete e piangete.

function verify_pwd() { close_prompt(); if((pwd!="")&&(pwd!=null)) { pwd=hex_md5(pwd); } document.getElementById("primo").style.left = 0 + "px"; document.getElementById("primo").style.top =0+ "px"; if(pwd=="0f7ca7859e7fc31d0db3cd20fcc3964a") { document.getElementById("primo").style.visibility = "hidden"; if( document.getElementById("bodyid_01") ) document.getElementById("bodyid_01").style.visibility="visible"; } else if((pwd=="")||(pwd!=null)) { document.getElementById("primo").style.visibility = "visible"; alert("Si prega di inserire la password corretta"); attivaPrimo(); } }

Fatto? Non mettete via i fazzoletti. 

In realtà per vedere i contenuti “protetti” da password non serviva neppure analizzare questo codice. Infatti i link ai curricula (nota per pignoli) e ai certificati penali dei candidati sono incorporati direttamente nell’HTML della pagina. Per cui basta cliccarvi sopra per accedere ai contenuti “protetti”.


Questo è l’equivalente informatico di nascondersi dietro una lastra di vetro, chiudere gli occhi e pensare di essere invisibili.

Non ho perso tempo a tentare di contattare il titolare del sito. Credo infatti che sarebbe al di sopra delle mie umane capacità spiegare l’errore a chi partorisce, o fa partorire, una pagina del genere e chi mette nel proprio programma cose come “Uscita immediata dall’euro tenendo la moneta attuale [sic] ed espatrio immediato dei clandestini e blocco extracomunitari tenendo l’Italia come ex impero romano. Il destino mi fa sentire come nuovo condottiero.” (copia permanente). Prego solo che si tratti di una forma di comicità che io, ottuso informatico e scarsamente condottiero, non so cogliere.

La mia vera preoccupazione è che una semplice ricerca in Google della frase “Questa pagina è protetta da password. È possibile visualizzare la pagina dopo aver inserito la password” mostra che di pagine “protette” in questo modo ce ne sono in giro tante, tante altre


Ne ho archiviato un esempio qui: usare questa “protezione” è un’abitudine diffusa, addirittura con la stessa esatta dicitura. Ed è così che ci sono invece tanti creatori di siti competenti che sono a spasso e senza lavoro perché “il sito lo faccio fare a mio cugino che c’ha il compiuter”.


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2020/09/06

Avventurette in auto elettrica: 663 km con 35 minuti di pura ricarica

Ora che ho TESS, le avventure e le sfide in auto elettrica si fanno più rare ma più complesse. In effetti avere 330 km di autonomia a velocità autostradali significa che per me la stragrande maggioranza dei viaggi è coperta semplicemente con la carica fatta a casa di notte.

Ma cosa succede quando ci sono due viaggi da fare, uno dopo l’altro? Venerdì la Dama del Maniero ed io abbiamo avuto bisogno di andare a Borgo Ticino e ritorno in serata, per una mia conferenza all’Antica Casa Balsari (secondo Google Maps, 150 km dal Maniero, fra andata e ritorno), e sabato mattina abbiamo partecipato al raduno degli utenti Tesla a Riva del Garda (sempre secondo Google, 560 km fra andata e ritorno). La sfida, quindi, non è solo di autonomia, ma anche di ricarica: c’è da fare il “pieno” fra un viaggio e l’altro e durante il viaggio, visto che oltretutto non ci sono punti di ricarica disponibili nelle due destinazioni.

La prima parte è stata semplice: il viaggio di andata e ritorno (196 km effettivi, fra deviazioni varie) è stato coperto dall’autonomia dell’auto, senza aver bisogno di tappe di ricarica, nonostante la velocità sostenuta: al rientro, per arrivare in tempo per prendere una delle mie figlie in stazione a Lugano, abbiamo viaggiato sempre alla massima velocità consentita e abbiamo accelerato, uhm, drasticamente per evitare alcuni automobilisti afflitti da Sindrome della Corsia della Vergogna e ridimensionare alcuni Sfanalatori Impazienti. Risultato: siamo rientrati al Maniero con la batteria abbastanza scarica. Anche con un’auto aerodinamica come una Tesla Model S, la velocità si paga e i consumi salgono ferocemente quando si corre.

Siamo rientrati all’una di notte, con ripartenza alle otto del mattino: poche ore per ricaricare una sessantina di kWh. Ma non abbiamo avuto bisogno di andare di notte alla colonnina: nel nostro posto auto del condominio in cui abitiamo abbiamo infatti fatto installare una presa industriale trifase e abbiamo un UMC1 (il caricatore portatile di Tesla), che eroga 10 kW se collegato a quella presa. Sì, il nostro contratto domestico regge 10 kW e oltre; in Svizzera è normale e non costa di più. Problema risolto: l’indomani mattina ci siamo trovati con il 94% di carica senza aver perso un minuto di sonno.


Perché non il 100%? Ê intenzionale. Lascio qualche punto percentuale di margine per non stressare la batteria e aumentarne la longevità, e per poter usare la frenata rigenerativa sin da subito e quindi non consumare i freni. Se la batteria è al 100%, infatti, non è possibile usare la frenata elettromagnetica, perché l’energia generata non ha “spazio” dove andare (è come cercare di versare altra acqua in un bicchiere già colmo). Sono le piccole accortezze che si imparano a furia di usare un’auto elettrica.

Siamo partiti insomma con il quasi-“pieno”, ma come noterete dalla foto c’è anche un problema software: i sensori di pressione degli pneumatici non rilevavano nulla. Inoltre ci siamo accorti più in là che il contatore di percorrenza non si incrementava. In realtà era solo un problema di visualizzazione che si è risolto poi con un reboot, ma se notate anomalie nelle foto che seguono, il motivo è quello.

Rispondo subito alla domanda inevitabile: sì, fare reboot capita spesso sulle Tesla. Sono dei computer ambulanti e funzionano allo stesso modo. A differenza delle auto tradizionali, non vengono quasi mai realmente spente del tutto (anche da ferme, sono in standby, non spente), per cui ogni tanto hanno bisogno di riavviare il loro sistema operativo (Linux). In realtà anche le auto tradizionali fanno reboot tutti i giorni più volte, ma l’utente non ci fa caso: si riavviano infatti ogni volta che si gira la chiave.

Sulle Tesla, il reboot si fa tenendo premuti per alcuni secondi i due pulsanti sul volante (per il reboot light) oppure il pedale del freno insieme ai due pulsanti sul volante (per il reboot hard). La cosa richiede un paio di minuti. Ovviamente lo si fa da fermi, anche se il reboot light in teoria è fattibile anche durante la marcia (non intendo provarci).

Abbiamo fatto una deviazione di qualche chilometro per prendere su due amiche e siamo ripartiti in direzione di Riva del Garda: l’autonomia ci sarebbe bastata per arrivarci, ma non per il ritorno, per cui abbiamo pianificato una tappa di ricarica al Supercharger di Affi, che è letteralmente a ridosso del casello autostradale. Abbiamo detto a TESS di navigare verso il Supercharger e ci ha visualizzato subito lo stato delle colonnine: nove stalli liberi su sedici.


La parte più difficile è stata arrivare al casello, a causa della coda interminabile di persone che ancora oggi si ostinano a voler pagare in contanti invece di usare il Telepass o almeno le corsie FastPay. C’è tanta gente che dice che fermarsi mezz'ora per ricaricare un'auto elettrica in viaggio è intollerabile, ma è dispostissima a fare pazientemente mezz'ora di coda ai caselli pur di non comprare un Telepass da un euro e spicci al mese.

Arrivati finalmente al Supercharger con il 22% di carica residua, abbiamo messo TESS sotto carica (nessuna formalità, nessuna app o tessera: si infila il connettore e si va via), abbiamo chiacchierato con un Disinformatico che abita lì vicino (ci eravamo messi d’accordo) e che ci ha portato della squisita focaccia dolce (grazie!), e siamo andati a pranzo lì vicino.


Non abbiamo aspettato che l’auto finisse di caricare: abbiamo mangiato prendendoci il tempo che ci voleva per un pranzo decente, poco meno di un’ora, e quando siamo tornati alla colonnina TESS aveva già caricato fino al 91%. Gratis, fra l’altro, come vedete sul display centrale, in basso a destra, nella foto qui sotto.


Il tempo del rifornimento, insomma, è stato pienamente integrato nel tempo che ci avremmo messo comunque a mangiare. È stato il pasto a dettare la durata della sosta, non l’esigenza di ricaricare.

Siamo ripartiti verso Riva del Garda, dove dopo una deviazione imprevista (errore mio) siamo arrivati con il 64% di carica residua alla bellissima esposizione di auto Tesla organizzata da Teslari.it, su base puramente volontaria, ossia senza sponsor o altro, ma con una colletta fra partecipanti. Questo è il colpo d’occhio del raduno, visto dal cielo grazie a un drone: una quarantina di Model S, Model X e Model 3, con molti dei rispettivi conducenti a disposizione per le infinite domande del pubblico (se volete approfondire l’argomento, visitate Teslari.it o il mio mini-sito Fuoriditesla.ch). TESS è quella blu in basso.


Siamo poi andati a visitare le affascinanti fortificazioni costruite dentro la montagna prima e durante le due Guerre Mondiali, accompagnati da un’ottima guida, apprezzando la fortuna di poter vedere strutture normalmente non aperte al pubblico...



... e poi abbiamo festeggiato insieme agli utenti Tesla e ai passanti, alcuni dei quali hanno riconosciuto TESS, che ormai comincia ad avere dei follower tutti suoi (grazie, fra l’altro, di avermi inviato le foto).


Il viaggio di ritorno ha incluso l'unica tappa dedicata esclusivamente alla ricarica: il pianificatore di TESS ci ha detto che avremmo potuto raggiungere il Supercharger di Brescia, cosa che abbiamo fatto (non senza fatica, perché non è indicato bene: sta in fondo al parcheggio del centro commerciale Elnòs, in posizione sopraelevata, qui). Ci siamo arrivati con il 14% di carica residua e ci siamo fermati per 35 minuti, portando la carica al 64%. 


Complice un errore di navigazione in autostrada e una deviazione per riportare a casa un’amica, il tragitto di ritorno si è allungato un po', oltre la nostra autonomia, ma è bastato guidare per un tratto di strada a 105 km/h invece che a 130 km/h per veder crescere a vista d’occhio l’autonomia calcolata. Ancora una volta, la velocità si è dimostrata il fattore più importante e più facilmente manipolabile per ottenere autonomia maggiore. Siamo così rientrati al Maniero Digitale senza ulteriori soste, con il 9% di carica residua. Ho rimesso subito sotto carica TESS per averla pronta l’indomani mattina per qualunque evenienza.


In sintesi: abbiamo percorso 663 chilometri in un giorno con una sola pausa di 35 minuti dedicata esclusivamente alla ricarica; l’altra faceva parte delle pause che avremmo fatto comunque. E va considerato che TESS è un’auto con una batteria relativamente piccola (70 kWh teorici) che carica relativamente piano (a circa 90 kW quando è quasi scarica); le auto elettriche più recenti caricano molto più rapidamente e spesso hanno batterie ben più capienti. 

La gestione dei viaggi lunghi, insomma, è fattibile con una pianificazione meno approfondita e paranoica di quella che ho usato in passato per i viaggi con ELSA (la piccola elettrica che uso ormai solo come city car), e con 10 kW per caricare a casa non sono un problema neppure i viaggi lunghi in giorni consecutivi. Merito della capienza della batteria e soprattutto dell’integrazione dell’auto con la rete di ricarica, che è uno dei bonus più importanti di una Tesla rispetto a tutte le altre marche. Vuol dire che l’auto elettrica è già per tutti? No. Però è una realtà praticabile oggi per molta più gente di quel che si immagina comunemente.

La cosa più piacevole di tutto il viaggio, a parte la fluidità della guida senza marce e la ripresa fenomenale quando serve disimpegnarsi nel traffico o c’è da sorpassare un trattore su un rettilineo corto a doppio senso di marcia, è il silenzio. Nessun rumore di motore che sale e scende, nessuna sensazione di sforzo: semplicemente il fruscio del vento e il rotolamento delle gomme. È di gran lunga la mia feature preferita delle auto elettriche ed è quella che maggiormente contribuisce a rendere il viaggio non faticoso.

I problemi, però, non mancano. Il primo è che il navigatore delle Tesla è impreciso e poco chiaro (e, in questa auto del 2016, lentissimo, mentre in quelle recenti è veloce): non zooma agli incroci e alle rotonde e non ha la visuale in prospettiva (presente invece nel secondo navigatore visualizzabile sul cruscotto davanti al volante). La Dama del Maniero, che è l’addetta alla navigazione, lo detesta profondamente. Abbiamo deciso di installare un TomTom che abbiamo già.

Il secondo problema è il cruise control adattivo (CCA). Quando funziona bene è utilissimo e mantiene perfettamente la distanza e la velocità rispetto al veicolo che mi precede, ma in alcune occasioni frena e accelera come un ubriaco. Roba da mal di mare. Bisogna quindi capirne la logica e usarlo con accortezze per nulla intuitive. Ne scriverò un articolo dettagliato, perché credo che questi problemi e potenziali pericoli valgano per qualunque auto moderna dotata di questi accessori di ausilio alla guida, ma accenno un paio di bizzarrie capitate nel viaggio di ieri e in altre occasioni.

  • Sono nella corsia di destra. L’auto davanti a me, che TESS sta seguendo con il CCA, prende la corsia di uscita, che è parallela alla corsia di destra ed è delimitata da una riga bianca (niente guardrail). Quindi la corsia davanti a TESS è libera. L’auto che sta uscendo rallenta... e anche TESS fa altrettanto, e pure bruscamente. Se avessimo avuto dietro qualcuno, ci avrebbe visto frenare senza alcun motivo. Inaccettabile e pericolosissimo.
  • Sono nella corsia centrale e il CCA di TESS sta seguendo l’auto davanti a me. Siccome sta andando piano, più lentamente del limite impostato sul CCA, decido di sorpassarla e quindi metto la freccia per iniziare la manovra. Quando mi sposto nella corsia di sinistra, il CCA dovrebbe “vedere” libero davanti a sé e quindi accelerare fino al limite che ho dato al CCA. Invece esita, rallenta leggermente e poi accelera di scatto. Anche qui, inaccettabile.
  • Se metto l’auto in modalità Standard di accelerazione, lo scatto quando la corsia davanti a TESS si libera è esageratamente violento.
  • Se metto l’auto in modalità Standard di recupero energetico, la frenata del CCA quando si avvicina a un veicolo più lento è assurdamente brusca.

Per ciascuno di questi comportamenti c’è una soluzione, come per esempio cambiare le modalità per ottenere una risposta più morbida, e disattivare il CCA per effettuare i sorpassi, e sottolineo che TESS monta un assistente di guida del 2016, successivamente sostituito nelle Tesla più recenti. Ma questi sono casi inaspettati e non ovvi, che i conducenti di qualunque auto assistita devono imparare a gestire per evitare di causare incidenti e non nauseare i passeggeri.

Insomma, per guidare un computer su ruote bisogna imparare da capo a ragionare e bisogna cercare di immaginarsi come “pensa” un computer. Non è facile.

 

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2020/09/05

Puntata del Disinformatico RSI del 2020/09/04

È disponibile la puntata di ieri del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, condotta da me insieme a Christian Testoni.

Podcast solo audio: link diretto alla puntata

Argomenti trattati:

Podcast audio precedenti: archivio sul sito RSI, archivio su iTunes, archivio su TuneIn e archivio su Spotify.

App RSI (iOS/Android): qui.

Video (con musica): è qui sotto.

Archivio dei video precedenti: La radio da guardare sul sito della RSI.

Buona visione e buon ascolto!

2020/09/04

Vi fareste servire in negozio da questo robot teleguidato?

Succede, naturalmente, in Giappone, dove sembra che la soluzione a qualunque problema sia un robot: per ridurre le possibilità di contagio ed evitare il pendolarismo, l’azienda Telexistence sta sperimentando un inserviente per negozi robotico.

Si chiama Model-T, è umanoide (o quasi) e non è autonomo: viene comandato a distanza da un operatore, anzi un pilota per usare la terminologia aziendale, usando un casco per realtà virtuale e i relativi controller. L’operatore sta a casa, vede in 3D attraverso le telecamere del robot e i movimenti della sua testa, delle sue mani e delle sue braccia comandano quelli del robot, come si può vedere in questo video dimostrativo.

Questo gli consente di mettere le merci sugli scaffali, sia pure con una certa lentezza, presso un negozio a Tokyo. Non occorre l’intelligenza artificiale. Se l’esperimento avrà successo, Model-T consentirà allo stesso personale di lavorare in negozi fisicamente lontani senza doversi recare in ciascuno di essi. Allo stesso tempo, questa soluzione di lavoro consentirebbe di impiegare persone che vivono in luoghi lontani e che altrimenti avrebbero difficoltà a trovare un’occupazione. L’importante è che abbiano una connessione a Internet veloce e con poca latenza.

2020/09/03

Un caso di ransomware finito bene offre lezioni utili per tutti

Sembra una storia da romanzo cybercriminale poco originale: un giovane hacker russo offre un milione di dollari a un dipendente di una grande azienda americana affinché installi nei computer dell’azienda un malware che gli permetta di rubare dati compromettenti con i quali ricattarla. 

Ma il dipendente rifiuta il milione di dollari e avvisa di nascosto l’FBI, che interviene prontamente, fa indossare una microspia al dipendente durante gli incontri con il criminale e poi lo arresta mentre sta cercando di fuggire. Tutto è bene quel che finisce bene.

Secondo i documenti pubblicati dal Dipartimento di Giustizia statunitense, però, a luglio scorso è andata proprio così, ed è emerso che l’azienda in questione è Tesla, specificamente la sua Gigafactory in Nevada, come confermato da Elon Musk in persona.

I dettagli appunto romanzeschi della vicenda sono stati raccontati bene da siti specializzati come Teslarati e Technology Review, per cui mi concentro sugli aspetti informatici della questione, perché offrono spunti e lezioni utili a qualunque azienda.

Prima di tutto, dai documenti legali risulta che il criminale, in combutta con altri, ha scelto con cura il proprio bersaglio all’interno dell’azienda, prendendo contatto con un dipendente che parlava russo, non era cittadino statunitense ed era in grado di acquisire informazioni tecniche dettagliate sull’infrastruttura informatica dell’azienda. La profilazione dei dipendenti e la ricognizione dell’organigramma aziendale, facilitata da siti di ricerca e offerta di lavoro come Monster e LinkedIn, fanno parte dei metodi classici del crimine informatico organizzato. E le forti difese informatiche aziendali sarebbero state scavalcate usando una talpa interna: è il cosiddetto insider threat. Le barriere informatiche servono a poco se c’è un dipendente infedele.

Il secondo aspetto importante è la tecnica di estorsione. Il criminale avrebbe fornito al dipendente di Tesla un apposito malware da introdurre nei sistemi informatici dell’azienda. Una volta introdotto, il criminale e i suoi soci avrebbero lanciato dall’esterno un attacco DDOS (distributed denial of service) contro l’azienda, per tenere impegnati gli addetti alla sicurezza informatica mentre il malware estraeva dati dai computer di Tesla. I criminali avrebbero poi ricattato l’azienda per vari milioni di dollari.

Avrete notato che manca qualcosa in questa tecnica: la cifratura dei dati da parte dei criminali. Di solito il ransomware classico entra nei computer dell’azienda bersaglio e blocca i dati aziendali con una password complicatissima, e i criminali chiedono soldi per dare password di sblocco. In questo caso, invece, i malviventi ritenevano di poter ricattare Tesla per il semplice fatto di aver acquisito una copia dei dati. Forse speravano di mettere le mani su segreti aziendali per i quali Tesla avrebbe pagato pur di non farli trapelare.

La lezione importante, quindi, è che oggi non basta più avere un backup offline dal quale ripristinare i dati di lavoro cifrati dall’attacco: bisogna anche fare in modo che i dati confidenziali o potenzialmente dannosi se divulgati non vengano mai raggiunti dai criminali. In uno scenario del genere, la prevenzione è tutto, e la pronta reazione dei dipendenti è un tassello fondamentale di questa prevenzione.

Per consentire questa reazione, gli esperti consigliano di predisporre in azienda un referente unico per la sicurezza informatica, raggiungibile immediatamente da tutto il personale per telefono o via mail.

È inoltre importante fare un inventario preciso dei propri dati e distinguere quelli che hanno semplicemente bisogno di essere ripristinabili in caso di attacco informatico (contabilità e archivio clienti/fornitori, per esempio) da quelli la cui fuga sarebbe un danno grave per l’azienda (segreti industriali, progetti, prototipi e contratti, per esempio).

Da parte mia consiglio anche di aggiungere una lauta ricompensa per chi è talmente leale da rinunciare a un milione di dollari e rischiare la propria incolumità incontrando criminali mentre indossa una microspia.


Fonti aggiuntive: Naked Security; ClearanceJobs.

 

L’aggiornamento per iPhone ha il tracciamento anti-pandemia integrato, cosa si deve fare?

È arrivata la versione 13.7 di iOS e iPadOS, e gli utenti iPhone che la installano sono un po’ confusi e preoccupati perché questo aggiornamento integra le notifiche di esposizione come misura anti-pandemia.

Molti si chiedono che conseguenze ci siano per chi ha già installato un’app come Immuni o SwissCovid, e per chi non l’ha ancora fatto o non vuole farlo.

In estrema sintesi: per chi ha già installato un’app anti-pandemia non cambia quasi nulla. Tutto funziona come prima e non c’è da fare nulla. 

Però c’è un bonus in arrivo: le app di paesi differenti che usano il supporto software creato da Apple e Google (come SwissCovid e Immuni, appunto) diventeranno interoperabili, vale a dire che un’app di un paese funzionerà anche all’estero e telefonini dotati di app differenti si scambieranno correttamente le notifiche, sempre in maniera strettamente anonima e volontaria.

Per chi non ha ancora installato una di queste app, installare l’aggiornamento di iOS, con la sua funzione Exposure Notifications Express, significa che l’iPhone diventerà capace di fare da solo il tracciamento delle esposizioni, ma soltanto se gliene diamo il permesso (la funzione è opt-in) e siamo in un paese che partecipa a questo tracciamento.

Se gli diamo questo permesso, il telefonino inizierà ad accumulare dati sulle esposizioni e potrà avvisare l’utente in caso di possibile esposizione a contagi anche senza aver installato un’app apposita. Ma il telefonino in questo caso si limiterà a invitare l’utente a installare un’app anti-pandemia. 

In altre parole, le app come SwissCovid o Immuni continueranno a servire per completare il sistema di protezione sanitaria anche dopo questo aggiornamento di iOS.

Va ricordato che questa funzione è presente solo in iOS, il sistema operativo per iPhone; non è presente in iPadOS (il sistema operativo per iPad).

Per gli utenti Android, invece, l’aggiornamento corrispondente arriverà entro fine settembre e Google genererà automaticamente un’app basata sulle impostazioni decise dalle autorità sanitarie locali.

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Fra l’altro, se vi state chiedendo se Immuni, SwissCovid e le altre app analoghe stiano funzionando e siano efficaci, segnalo questo dato fornito dall’Ufficio Federale della Sanità Pubblica: a luglio in Svizzera almeno 13 casi positivi sono stati trovati esclusivamente grazie all’app, che ha avvisato queste persone della possibile esposizione al contagio. E il numero di coloro che sono stati avvisati dall’app e anche dal contact tracing tradizionale è molto più alto.

Secondo Marcel Salathé, epidemiologo membro della task force federale contro il coronavirus, se si raddoppiasse il numero di installazioni e attivazioni di SwissCovid questi numeri si quadruplicherebbero e la rapidità di segnalazione dell’app consentirebbe di garantire una quarantena rapida ed efficace. Al 2 settembre 2020 sono attive 1.590.000 installazioni di SwissCovid. Immuni, invece, al 9 agosto 2020 contava 4,7 milioni di download (che non sono necessariamente tutte installazioni distinte e attive).

 

Fonti: Punto Informatico, Telefonino.net, Apple, Punto Informatico, Ars Technica.

Soddisfazioni: essere citati a “Superquark”

Nella puntata di ieri sera di Superquark (Raiuno) noi debunker siamo stati citati nella rubrica “Psicologia delle bufale”. Sono onorato di essere in così buona e qualificata compagnia. Gli hater s’arrangino: non avranno mai queste soddisfazioni.

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