Ultimo aggiornamento: 2020/09/14 22:20.
Uno dei capisaldi del pensiero cospirazionista è “gli scienziati sanno, ma tacciono”. Gli scienziati hanno inventato l’automobile che va ad acqua, ma la tengono segreta. Hanno scoperto la cura per il cancro, ma non la rivelano. Hanno trovato gli alieni, ma fanno parte di una colossale congiura del silenzio.
In realtà questa visione iper-omertosa della comunità scientifica ce l’ha solo chi non ha mai conosciuto nessuno che si occupi di scienza per lavoro. Chi ha a che fare con gli scienziati, invece, sa benissimo che in realtà di fronte a una scoperta davvero sensazionale ci sarebbe sicuramente qualcuno di loro che, intenzionalmente o meno, la farebbe trapelare.
Un esempio di questa realtà verrà reso pubblico ufficialmente domani, ma è già stato diffuso in lungo e in largo dal passaparola. Anche in Rete se ne trovano ampie tracce nella cache di Google, grazie agli scienziati e giornalisti pasticcioni che hanno già preparato i comunicati stampa e gli articoli e li hanno messi online pensando che nessuno li avrebbe trovati.
Per rispetto formale all’embargo che è stato chiesto allo scopo di sincronizzare l’uscita della notizia in tutto il mondo, per ora non fornisco dettagli, ma la scoperta è davvero grossa, anche se si riassume in due lettere e una cifra.
Troverete tutti i dettagli qui sotto il 14 settembre dalle 17 ora italiana, quando cesserà formalmente l’embargo e la Royal Astronomical Society presenterà un video (incorporato qui sotto).
In ogni caso, visto che ormai l’embargo è stato violato da parecchie fonti, come Earthsky.org (addirittura due giorni fa), Astrobiology.com e Medium.com, e che io non l’ho mai sottoscritto, è inutile aspettare ancora: in sintesi, è stata rilevata una traccia chimica quasi certa di vita microbica su Venere, specificamente nella fascia alta della sua atmosfera. Ne scriverò in dettaglio stasera; nel frattempo ci sono appunto le suddette fonti in inglese che hanno già pubblicato i particolari della scoperta.
Anche il video di annuncio è trapelato; è stato rimosso ma non prima che qualcuno lo salvasse. Al momento è ripubblicato qui.
2020/09/14 19:00 - Scoperto un indicatore quasi certo di vita su Venere
Nell’atmosfera di Venere è stata trovata della fosfina (o fosfano, PH3), una molecola molto rara che, se presente in grandi quantità, è quasi sicuramente un indicatore di vita, perché non conosciamo processi non biologici che la possano generare in abbondanza. Con molta cautela, quindi, gli astronomi parlano di una possibile scoperta di vita microbica su Venere. Il comunicato stampa dell’ESO in italiano è qui.
La scoperta della fosfina nell’atmosfera di Venere è il frutto della collaborazione internazionale di ricercatori del Regno Unito, degli Stati Uniti e del Giappone, coordinati da Jane Greaves dell’Università di Cardiff, e si basa su osservazioni fatte con il James Clerk Maxwell Telescope (JCMT) alle Hawaii e confermate usando 45 antenne di ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) in Cile. La loro ricerca è pubblicata oggi nell’articolo Phosphine Gas in the Cloud Decks of Venus su Nature Astronomy. Il comunicato della Royal Astronomical Society è qui, e la conferenza stampa è qui sotto.
La fosfina è considerata da tempi non sospetti un biomarcatore o firma biologica (biosignature), ossia un indicatore della presenza di vita, perché esistono solo due modi conosciuti per produrla in quantità su un pianeta roccioso: industrialmente oppure tramite microbi che vivono in ambienti privi di ossigeno.
In entrambi i casi, insomma, se c’è fosfina c’è vita; ma dato che la presenza di industrie nell’atmosfera venusiana è piuttosto improbabile, resta solo l’ipotesi della presenza di microbi extraterrestri. Infatti i processi geologici (fulmini, vulcani, minerali scagliati dalla superficie, interazioni con la luce solare) non generano quantità paragonabili a quelle trovate nell’atmosfera di Venere, che sono diecimila volte maggiori di quelle generabili tramite questi processi, sempre ammesso che nell’inferno venusiano non ci sia qualche altro processo che non conosciamo ancora e che genera fosfina in quantità. Oltretutto la fosfina si degrada nel corso del tempo e quindi c’è bisogno di qualche fenomeno che la generi costantemente.
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È presto per dire che abbiamo scoperto con certezza la vita fuori dalla Terra, e che per di più l’abbiamo scoperta praticamente sull’uscio di casa invece che su qualche mondo lontanissimo, ma le premesse sono molto buone, anche perché tutto indica che Venere fosse un pianeta ospitale per la vita prima dell’innesco di un effetto serra catastrofico. La vita avrebbe avuto tempo di formarsi per poi adattarsi e rifugiarsi negli strati alti dell’atmosfera, fluttuandovi in eterno; è già stato immaginato un possibile ciclo vitale. E c’è sempre quella faccenda delle striature scure anomale dell’atmosfera di Venere, che assorbono la luce ultravioletta e sono composte da particelle di natura ignota ma grandi all’incirca quanto batteri terrestri. Se ne sta già occupando la sonda giapponese Akatsuki.
Serviranno però ulteriori osservazioni, e magari qualche sonda, per sciogliere i dubbi. Già ora, per esempio, potremmo verificare con i nostri telescopi e radiotelescopi se questa presenza inattesa di fosfina ha un andamento stagionale o altre variazioni compatibili con una fonte biologica, e se è accompagnata dalla presenza di altri gas associati alla vita come la conosciamo.
A proposito di sonde, Venere è bellissima da vedere, con la sua coltre perenne di nubi che la rende il pianeta più luminoso, ma in realtà è un postaccio: al suolo, le temperature sono sufficienti a fondere il piombo (circa 460 °C) e la pressione è letale (circa 90 volte quella terrestre). Un astronauta finirebbe schiacciato e cotto in men che non si dica. L’atmosfera, oltretutto, è quasi interamente composta da anidride carbonica, con una spruzzatina di azoto, e le nuvole sono fatte di acido solforico. Pochissime sonde si sono avventurate in questo inferno e pur essendo state costruite come carri armati refrigerati sono durate soltanto poche ore.
Però queste sono le condizioni sulla superficie. Nell’atmosfera venusiana, fra 48 e 60 chilometri dalla crosta cotta del pianeta, c’è una cosiddetta “zona temperata”, ossia una zona nella quale la temperatura è simile a quelle terrestri (ossia varia fra 0 e 100 °C) e la pressione è quella che si incontra sulla Terra. Ed è proprio lì che è stata rilevata la presenza di fosfina.
Come si può verificare se quella fosfina è davvero prodotta da forme di vita? C‘è un modo, e anche molto avventuroso. Si chiama HAVOC (che significa “caos” in inglese): un nome piuttosto adatto per una missione che consiste fondamentalmente nel far precipitare verso Venere un veicolo spaziale che si porta appresso l’involucro sgonfio di un dirigibile, e lo gonfia mentre sta precipitando.
Un viaggio verso Venere dura, con le attuali tecnologie, quattro o cinque mesi (le sonde Mariner 2 e Venus Express hanno impiegato rispettivamente 110 e 153 giorni). Arrivarci non è un problema, anche usando un vettore medio-pesante come un Falcon Heavy o un Delta IV Heavy, senza dover scomodare giganti come l’SLS. La parte difficile è tornare a casa con i campioni d’atmosfera raccolti (e con gli eventuali microorganismi alieni in sospensione in quell’atmosfera). Infatti Venere ha una gravità di poco inferiore a quella terrestre e quindi serve un vettore di ritorno molto più potente di quello necessario per tornare da Marte.
Il progetto HAVOC (High Altitude Venus Operational Concept), fattibile appunto con vettori medio-pesanti già esistenti, prevede un inserimento in orbita intorno a Venere a circa 300 chilometri di quota, dopo una frenata aerodinamica negli strati più tenui dell’atmosfera. Poi il veicolo (con o senza equipaggio) frena ancora usando i propri propulsori per uscire dall'orbita e precipita nell’atmosfera, proteggendosi con il proprio scudo termico, fino a circa 80 km di quota. A quel punto apre un paracadute supersonico (visto che sta cadendo a circa 1600 km/h), che lo rallenta, e comincia a gonfiare l’involucro mentre sta scendendo.
Se tutto va bene, il veicolo-dirigibile sgancia il paracadute e inizia a fluttuare nell’atmosfera venusiana a circa 60 km di quota, restando lì per il tempo necessario per raccogliere i campioni e fare tutte le osservazioni scientifiche del caso. Gli eventuali astronauti-aeronauti potrebbero uscire all’aperto indossando una semplice tuta resistente agli agenti chimici, non pressurizzata, e un respiratore, passeggiando magari su una balconata fra le nuvole di Venere, cercando di non pensare che per il 90% sono fatte di acido solforico e che se l’involucro si sgonfia scenderanno inesorabilmente verso un forno grande come l’intero pianeta.
Se l’equipaggio non c’è e l’analisi viene fatta in loco con strumenti robotici, la missione non ha bisogno di prevedere un ritorno. Se invece si tratta di tornare sulla Terra, allora il veicolo si sgancia dall’involucro e inizia a precipitare verso l’inferno sottostante, sperando che i motori di risalita si accendano correttamente e lo riportino nello spazio e da lì verso casa.
The crazy keeps coming.
— AeroDork (@AeroDork) September 24, 2017
When you're done, live your nightmare of falling from the airship before you launch yourself home atop a missile. pic.twitter.com/LZAX01iQnF
Non è facile, insomma, ma non è impossibile. Sarebbe davvero ironico se si scoprisse che ci siamo dedicati per decenni a Marte mentre la vita ci aspettava svolazzante nelle nubi di Venere. “È ora di dare priorità a Venere”, ha tweetato poco fa Jim Bridenstine, Administrator della NASA. Speriamo in bene.
Fonti aggiuntive: Earthsky.org; Space.com; Astrobiology.com. Questo articolo fa parte delle Storie di Scienza: una serie libera e gratuita, resa possibile dalle donazioni dei lettori. Se volete saperne di più, leggete qui. Se volete fare una donazione, potete cliccare sul pulsante qui sotto. Grazie!