Di solito, quando qualcuno mi chiede quale antivirus usare, rispondo che
grosso modo uno vale l’altro: l’importante è usarne uno, tenerlo aggiornato e
stare alla larga dagli antivirus fasulli che appaiono spesso nelle pubblicità
di Internet. È già tanto rispetto a quello che fanno molti utenti, ossia
assolutamente niente oppure, peggio ancora, installare qualche antivirus
farlocco che dà un falso senso di protezione. Ma forse sarò costretto a
cambiare consiglio.
Due noti antivirus, Norton360 e Avira, hanno infatti iniziato qualche mese fa
a integrare nelle proprie installazioni un cryptominer, ossia un
programma che genera criptovalute. Nel caso specifico, genera la criptovaluta
Ethereum.
I soldi digitali così prodotti vengono suddivisi fra l’utente e l’azienda
produttrice dell’antivirus. Norton e Avira si prendono il 15%, più una
commissione su ogni transazione, e il resto va all’utente. Tutto il meccanismo
è descritto in una
sezione apposita del sito di Norton
e in
una analoga del sito di Avira.
Il problema è che generare criptovalute richiede un uso molto intensivo del
computer dell’utente, per cui questo guadagno in realtà si paga sotto forma di
consumo di energia elettrica e di surriscaldamento e rallentamento del
computer. Per chi non usa le criptovalute, poi, non c’è proprio nessun
guadagno ma solo una perdita.
Va chiarito che l’installazione del cryptominer non è automatica: avviene solo
su computer dotati di scheda grafica piuttosto potente (per esempio una NVIDIA
o AMD con almeno 6 GB di memoria) e viene proposta all’utente durante la prima
installazione dell’antivirus, secondo la formula chiamata
opt-in, ma molti utenti sono abituati a cliccare distrattamente sulle
varie richieste che compaiono durante le installazioni e quindi è facile che
si ritrovino con un cryptominer installato senza volerlo.
La decisione di Norton e Avira
non è stata gradita
da molti
addetti ai lavori
e da
parecchi utenti. È vero che Avira è un prodotto gratuito, per cui lasciare che questo
antivirus guadagni qualcosina è una sorta di forma di pagamento, ma è spesso
un pagamento inconsapevole. Norton360, invece, è un prodotto a
pagamento, per cui l’utente
finisce in un certo senso per pagarlo due volte.
Se avete installato di recente uno di questi prodotti e notate che il vostro
computer è più lento del solito o fa girare più spesso la ventola di
raffreddamento, può darsi che abbiate installato il cryptominer senza
accorgervene. E qui arriva l’altro problema che sta facendo arrabbiare gli
utenti: disinstallare il cryptominer non è affatto facile.
Bisogna infatti trovare un file specifico, di nome Ncrypt.exe, e
rimuoverlo. Ma per rimuoverlo bisogna andare nelle impostazioni e disattivare
la protezione contro le alterazioni, come descritto in una
pagina del sito di Norton
che non è certo facile da trovare per un utente medio. Una volta rimosso il
file, bisogna poi riattivare la protezione contro le alterazioni
dell’antivirus. Tutte cose che portano via tempo. E il tempo è denaro,
specialmente se richiede l’intervento di uno specialista: forse è meglio
scegliere direttamente un antivirus a pagamento che non comporta tutte queste
complicazioni.
Di recente l’esercito svizzero ha bandito l’uso di WhatsApp, Signal, Telegram e
di qualunque altra applicazione di messaggistica diversa da
Threema per le comunicazioni legate al
servizio.
Il portavoce dell’esercito, Daniel Reist, ha spiegato che la decisione
è stata presa per questioni di sicurezza e di protezione dei dati. I militari
potranno continuare a utilizzare WhatsApp e altre applicazioni per le
comunicazioni private.
La decisione dell’esercito ha comprensibilmente spinto molte persone a farsi
tre domande:
cosa c’è di così pericoloso in WhatsApp, Signal, Telegram eccetera da
indurre l’esercito svizzero a compiere questo passo?
perché Threema invece non è pericolosa?
se lo fa l’esercito, dovremmo farlo anche noi?
Alcuni si saranno anche fatti una quarta domanda: Threema chi? In
effetti Threema non è molto popolare: i suoi circa
dieci milioni di utenti
sono trascurabili rispetto ai due miliardi di utenti di WhatsApp. Molte
persone non l’hanno mai sentita nominare e vengono a sapere della sua
esistenza soltanto a causa della risonanza della notizia di questa decisione
militare svizzera.
---
Cominciamo dalla prima domanda: le app di messaggistica non svizzere, come
appunto WhatsApp, Signal e Telegram, non rispettano le norme svizzere sulla
riservatezza. WhatsApp, in particolare, è soggetta alle leggi statunitensi e
in particolare al cosiddetto CLOUD Act (acronimo di
Clarifying Lawful Overseas Use of Data Act), una legge del 2018 che consente alle autorità statunitensi di acquisire
informazioni sul traffico di dati da tutti i gestori di servizi di
telecomunicazioni sottoposti alla giurisdizione degli Stati Uniti e lo
consente anche se questi dati si trovano fuori dal territorio americano e
anche se sono gestiti per esempio da società europee che hanno una filiale
negli Stati Uniti, come spiega in dettaglio la legal specialist e
data protection officer Barbara Calderini su
Agenda Digitale.
In parole povere, gli Stati Uniti possono ottenere, aggregare e analizzare
tutti i dati trasmessi su WhatsApp da qualunque militare svizzero o di
qualunque altro paese. Il rischio non è ipotetico: è già
capitato
che messaggi o post di militari russi abbiano rivelato la loro presenza in
Ucraìna
e in Siria, a volte smentendo le dichiarazioni ufficiali. La Russia ha
vietato
completamente l’uso degli smartphone durante il servizio militare nel 2019.
È vero che WhatsApp ha la cosiddetta crittografia end-to-end, per cui
Meta (la società che possiede WhatsApp insieme a Facebook e Instagram) non può
cedere a nessuno il contenuto delle conversazioni fatte tramite
WhatsApp semplicemente perché non le ha a disposizione.
Ma la crittografia non copre i dati di contorno di queste conversazioni, ossia
i cosiddetti metadati: con chi avete parlato, a che ora di quale giorno
l’avete fatto, per quanto tempo avete conversato e quante volte avete
scambiato messaggi con ciascuna delle persone con le quali avete comunicato
tramite WhatsApp. Usare WhatsApp significa quindi dare a Meta, e quindi alle
autorità statunitensi, l’elenco completo dei propri amici, contatti di lavoro
e commilitoni. Messi insieme, tutti questi metadati hanno un valore strategico
enorme.
Faccio un esempio concreto: qualche anno fa, nel 2017, sono stato invitato a
parlare a Locarno a una conferenza organizzata dall’esercito svizzero e
dedicata alla digitalizzazione legata alla sicurezza nazionale. Il pubblico
era composto quasi esclusivamente da militari. Ho chiesto quanti di loro
avessero uno smartphone acceso in tasca con la geolocalizzazione attiva e
WhatsApp installato: hanno risposto affermativamente quasi tutti. Ma allora,
ho proseguito, Google o Apple, e sicuramente Facebook, sanno che buona parte
degli ufficiali dell’esercito svizzero, provenienti da tutti i cantoni, si
trovano radunati in questo preciso luogo in questo preciso momento. E lo
possono sapere in tante altre circostanze e passare questi dati al proprio
governo. In sostanza, un paese straniero può monitorare i movimenti dei nostri
militari, e può farlo oltretutto in modo perfettamente legale. La mia
osservazione è stata accolta, come dire, con consapevole disagio.
Per chi è nelle forze armate elvetiche, insomma, usare WhatsApp (e, in misura minore, Signal o Telegram) o in
generale applicazioni di messaggistica gestite da operatori situati al di
fuori della Svizzera ha delle implicazioni reali di sicurezza militare.
---
Tutto questo spiega perché Threema, invece, non è considerata a rischio: si
tratta di un’app creata da una società che ha sede in Svizzera, a Pfäffikon,
nel canton Svitto, e che custodisce i dati in modo conforme alle leggi
nazionali e lo fa su server situati in Svizzera. Quindi non è soggetta al
CLOUD Act statunitense. Allo stesso tempo offre, come le app rivali, le stesse
protezioni di crittografia end-to-end ed è open source, quindi
liberamente ispezionabile. E a differenza delle altre app (in particolare di WhatsApp), non richiede di
dare al gestore un numero di telefono o altre informazioni personali e non si
mantiene offrendo queste informazioni ai pubblicitari (in questo senso Signal è più virtuosa rispetto a Telegram e WhatsApp). Threema è infatti
un’app a pagamento: costa quattro franchi, che si pagano una volta sola.
L’esercito svizzero pagherà questo abbonamento agli utenti militari.
La scelta dell’esercito di bandire le altre app dalle comunicazioni di
servizio ma consentire l’uso di WhatsApp e simili per comunicazioni private
non offre sicurezza assoluta: è un compromesso pragmatico, perché il semplice
fatto di usare queste app invia comunque dati preziosi e sensibili alle
società estere che le gestiscono. Ma è un passo nella direzione giusta.
---
Alla luce di tutto questo, noi utenti comuni cosa dobbiamo fare? Dipende tutto
dalla situazione personale, ma l’esempio dato dall’esercito svizzero è valido,
anche per chi vive al di fuori dei confini elvetici, ed è un buon promemoria
del fatto che per molte categorie professionali, come per esempio medici,
consulenti legali, giornalisti o fornitori di servizi bancari, usare WhatsApp
e simili per comunicazioni legate alla propria attività è già ora una
violazione delle norme nazionali sulla riservatezza dei propri pazienti,
clienti o interlocutori. Usarle per la sfera personale, invece, è meno
problematico, ma va comunque valutato con attenzione.
Allo stesso tempo, è inutile avere un’app ipersicura che però non viene usata
dalle persone con le quali si vuole comunicare, per cui è necessario valutare
la situazione caso per caso. Possiamo provare a chiedere ai nostri
interlocutori se accettano di installare e usare app come Threema accanto a
WhatsApp: anche questo è un passo nella direzione giusta.
Da alcuni giorni mi arrivano segnalazioni di messaggi vocali, diffusi su WhatsApp e altri sistemi di messaggistica, che descrivono con indignazione una situazione di negligenza
sanitaria diffusa e inquietante.
“Sai cosa mi ha raccontato mia mamma? Una che conosce è andata all’IKEA di
Grancia e ha visto un suo collega che doveva essere a casa in isolamento
perché positivo al Covid... le sono girati i c***ioni ed è andata in cassa
ad avvisare che nel centro commerciale c’era in giro un positivo che lei
conosceva. Alla cassa hanno fatto l’annuncio, dicendo che sapevano che c’era
un positivo e che questa persona doveva presentarsi subito al centro
informazioni, altrimenti ne avrebbero annunciato nome e cognome con gli
altoparlanti e avrebbero avvisato le autorità. E così al centro informazioni
si sono presentati in sette!”
Ho alterato varie parole rispetto all’originale, mantenendo però intatto il
senso, e nel podcast (che verrà pubblicato questo venerdì) ho fatto rileggere il messaggio vocale a una
voce sintetica per
proteggere l’identità della persona che l’ha diffuso. E soprattutto vi ho
risparmiato la pioggia di parole colorite rivolte alle sette persone che,
secondo questo messaggio, si sono presentate al centro informazioni ammettendo
la propria colpa.
La cosa strana è che circolano varie versioni di questo allarme, nelle quali
cambia il luogo del misfatto (non solo Svizzera, dove Tio.ch ha ripreso questa mia segnalazione citando una variante nella quale la scena sarebbe avvenuta alla Manor di Vezia, ma anche Italia, Olanda,
Austria) e cambia l’identità della persona che riconosce il positivo: a volte,
per esempio, è un medico che riconosce un paziente, ma non può segnalarlo
direttamente agli addetti del centro commerciale perché violerebbe la
riservatezza del rapporto medico-paziente.
Anche il numero dei positivi che
confessano la propria violazione delle regole è variabile: a volte sono cinque
o otto o addirittura tredici. In alcuni casi si racconta che l’annuncio fatto tramite gli altoparlanti ha causato un vero
e proprio fuggi fuggi generale. E spesso l’allarme è stato pubblicato dai
giornali, dandogli credibilità e ulteriore diffusione.
Ma la falsariga è sempre la stessa: qualcuno dice di aver saputo che qualcun
altro ha riconosciuto una persona positiva al Covid in un centro commerciale e
l’ha segnalata ai gestori del centro, che hanno fatto un annuncio pubblico che ha fatto emergere anche altre persone positive che si aggiravano nel centro
commerciale, con conseguente scandalo e indignazione di chi racconta la
notizia e con altrettanto conseguente inoltro del messaggio vocale a tutti i
propri conoscenti.
Niente panico: questi messaggi non sono la dimostrazione di un
comportamento diffuso e preoccupante. Sono invece un esempio classico di
leggenda metropolitana: una storia non vera che nasce chissà dove e viene
diffusa dal passaparola, facilitato dai social network, perché fa leva su una paura condivisa e sul gusto del
racconto con finale grottesco.
Infatti in tutti i casi nei quali le autorità hanno effettuato controlli, il racconto che circolava è risultato infondato e i direttori dei supermercati coinvolti lo hanno smentito espressamente, come spiegato con ampia documentazione dall’esperta di leggende metropolitane Sofia Lincos sul sito del Centro per la raccolta delle voci e leggende contemporanee,Leggendemetropolitane.eu (anche qui), e dai siti Bufale.net, Bufale un tanto al chilo (Butac.it) e Il Post.
È vero che ci sono stati alcuni episodi di persone positive realmente sorprese in giro (per esempio ad Assisi), ma come dice Sofia Lincos,
...negli episodi reali manca [...] la conclusione grottesca della scena, ossia il tratto tipico della nostra leggenda metropolitana. Una leggenda che [...] gioca sull’indignazione per il cattivo comportamento, ma anche sul senso di giustizia (i “colpevoli” vengono scoperti e puniti) e, forse ancor di più, sul finale paradossale, da commedia.
Per maggiore chiarezza: sì, è possibile che una persona che sa di essere positiva al Covid si comporti in modo irresponsabile e vada in giro in un centro commerciale. Quello che non è plausibile è il gran finale del racconto, ossia la minaccia di annunciarne pubblicamente nome e cognome (che sarebbe illegale) e la presentazione in massa dei colpevoli alla cassa o al centro informazioni.
Un altro elemento che distingue la leggenda metropolitana dalla notizia reale è che la fonte della vicenda è un amico di un conoscente che ha sentito raccontare la vicenda da un parente, insomma mai una fonte diretta e autorevole.
Se ricevete messaggi vocali di questo genere, non mandateli in giro: creano inutilmente indignazione, apprensione e allarme senza motivo. E le conseguenze di una condivisione possono essere pesanti: Leggendemetropolitane.eusegnala che chi ha diffuso questi allarmi è stato travolto da “decine di telefonate da parte di amici e conoscenti che gli chiedevano se fosse vero e se andare a fare la spesa fosse sicuro” con il risultato che “la sua vita era diventata un inferno”.
Ieri ANSA ha
pubblicato
su Twitter questa notizia:
Secondo i dati della Società italiana di pediatria, al 5 gennaio, sono 268 gli
under 19 in terapia intensiva per Covid, rispetto ai 263 della settimana
precedente. I numeri più alti sono nella fascia d'età 16-19 ed in quella
inferiore ai 3 anni.
Scritta così, fa sembrare che in questo momento ci siano ricoverati 268
minori. L’ho retwittata, fidandomi stupidamente che ANSA fosse in grado almeno
di riportare correttamente dei numeri, ma ho dovuto cancellare il mio tweet e
pubblicare un
avviso
e una
rettifica
perché la notizia ANSA non è vera.
Il numero citato, infatti, non è quello dei minori
attualmente ricoverati, ma quello dei ricoverati
da inizio pandemia, due anni fa.
E la fonte non è la Società Italiana di Pediatria, perché ho contattato
l’ufficio stampa della SIP e ho ricevuto una rapida risposta che dice in
sintesi che la notizia scritta in questo modo si presta a equivoci e che i
dati non sono stati forniti dalla SIP ma dall’Istituto Superiore di
Sanità.
L’ISS, nel suo
bollettino
del 5 gennaio 2022, a pagina 13, riporta che
dall’inizio dell’epidemia i ricoveri in terapia intensiva di persone
fra 0 e 19 anni ammontano a 268. Trentasei di queste persone sono morte.
Sempre ieri (11/1/22), Bruno Vespa a Porta a porta su Raiuno ha riportato la stessa notizia falsa intorno al minuto 46: “268... tra i.... in terapia intensiva... 268 persone hanno meno di 19 anni e 68 meno di tre anni.” Ha usato il tempo presente, dando a intendere che ci siano ora 268 persone sotto i 19 anni in terapia intensiva.
Ringrazio @antican e twittatore per l’aiuto nel reperimento delle fonti.
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altri metodi.
Il sito di Nicola Porro,
vicedirettore de Il Giornale, ultimamente se l’è presa con i debunker, scrivendo che è un’“arte che indegnamente guardiamo da lontano con qualche dose di
disprezzo”
e tirandomi in ballo esplicitamente insieme ai colleghi e amici:
“Dove sono i Paolo Attivissimo, i Butac de noantri, i David Puente di
turno?”
(copia permanente) perché a quanto pare
non indaghiamo gratis sulle cose che interessano alla redazione. Redazione
che, ricordo, è composta da giornalisti che ricevono uno stipendio per fare
indagini giornalistiche.
Ma a quanto pare alla redazione di Nicolaporro.it non sembra avere problemi di
“disprezzo” quando si tratta di rubare intere frasi da un articolo di
un debunker.
E questo è un brano dell’articolo uscito ieri, 9 gennaio 2022, su
Nicolaporro.it e firmato da “Redazione” e da Paolo Becchi e Giovanni Zibordi
(copia permanente):
Versione in formato testuale per agevolare il confronto:
(il mio articolo) Dagli Stati Uniti arriva un esempio tragico di questa
regola: secondo quanto riferito da The Center Square, il direttore della
compagnia assicurativa OneAmerica, Scott Davidson, ha detto che i tassi di
mortalità attuali sono “i più alti mai visti nella storia di questo settore, e
non solo alla OneAmerica” e sono saliti del 40% rispetto ai livelli
pre-pandemia fra le persone in età lavorativa. Visto che OneAmerica gestisce
polizze vita, questo dato è cruciale per la sua attività. Davidson ha aggiunto
che non sono gli anziani a morire ma “principalmente le persone in età
lavorativa, fra i 18 e i 64 anni.” “Tanto per darvi un’idea di quanto questo
sia grave” ha dichiarato “una catastrofe da tre sigma, ossia una di quelle che
avvengono una volta ogni 200 anni, comporterebbe un aumento del 10% rispetto
al valore pre-pandemia, per cui il 40% è inaudito.” In altre parole, negli
Stati Uniti in questo periodo c’è una sovramortalità eccezionale: qualcosa la
sta causando.
(quello di Nicolaporro.it) Dagli Stati Uniti arriva infatti la notizia che il
Ceo compagnia assicurativa OneAmerica, Scott Davidson, ha detto che i tassi di
mortalità attuali sono “i più alti mai visti nella storia di questo settore, e
non solo alla OneAmerica”: sono saliti ora del 40% rispetto ai livelli
pre-pandemia fra le persone in età lavorativa. Visto che OneAmerica gestisce
polizze vita, questo dato è cruciale per la sua attività e gli attuari e gli
statistici impiegati dalle assicurazioni sono molto motivati a stimare in modo
corretto la mortalità perché è il loro business. Davidson ha aggiunto che non
sono gli anziani a morire ma “principalmente le persone in età lavorativa, fra
i 18 e i 64 anni.” “Tanto per darvi un’idea di quanto questo sia grave – ha
dichiarato – una catastrofe da tre sigma, ossia una di quelle che avvengono
una volta ogni 200 anni, comporterebbe un aumento del 10% rispetto al valore
pre-pandemia, per cui il 40% è un valore inaudito.” In altre parole, negli
Stati Uniti in questo periodo c’è una mortalità eccezionale: qualcosa la sta
causando e il Ceo Davidson non avanza ipotesi.
Persino il link della definizione di “tre sigma” è identico. Ma guarda
che strana coincidenza.
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Se avete avuto la fortuna di vedere Dune in IMAX invece che nel formato panoramico mostrato nei cinema normali, vi invidio. Non avevo idea di quanto le immagini fossero troncate sopra e sotto nella versione panoramica rispetto a quella IMAX.
Non è solo una questione di formato più o meno squadrato: IMAX è un formato (anzi, una serie di formati e di tecnologie) che in passato, nell‘era della pellicola, ha offerto una nitidezza e una stabilità d’immagine ineguagliabili con le pellicole normali, i cui fotogrammi erano fisicamente molto più piccoli (e quindi meno nitidi e oltretutto “stirati” per ottenere un effetto panoramico), e il cui meccanismo di trascinamento causava sfarfallii ed errori di allineamento da un fotogramma all’altro.
Ricordo ancora il brivido e i lacrimoni di commozione al mio primo impatto con l’IMAX, tanti anni fa: il logo spettacolarmente nitido della NASA, sospeso nel nero perfetto dello schermo, che cede il posto allo Shuttle librato in orbita, con la Terra maestosa sullo sfondo che lentamente gli scorre dietro. L’immagine era talmente definita, stabile e priva di qualsiasi granulosità che lo schermo semplicemente era sparito e davanti a noi c’era semplicemente un’immensa finestra panoramica, talmente ampia che per vederla tutta dovevi ruotare la testa a destra, a sinistra, in alto e in basso.
Una rara visita alla sala di proiezione mi fece conoscere i trucchi geniali usati per ottenere quel risultato magico: pellicola di formato larghissimo, proiettata orizzontalmente e trascinata con un sistema ultrastabile, e tanto altro. Poi sono arrivati i proiettori digitali laser ad altissima risoluzione, ma quella tecnologia analogica di precisione aveva un fascino speciale.
Oggi molti dei risultati qualitativi dell’IMAX originale sono ottenuti anche dai proiettori digitali dei normali cinema, soprattutto in termini di stabilità dell’immagine (nelle proiezioni su pellicola tradizionali ogni fotogramma non viene proiettato esattamente a registro con quello precedente, a causa dei limiti tecnici del sistema di trascinamento usato dal proiettore; il cervello compensa, ma si accorge che qualcosa non va). Ma per molti anni l’IMAX è stato il riferimento qualitativo incontrastato e irraggiungibile. E tuttora una sala IMAX ben fatta, con le sue gradinate molto ripide, i suoi schermi immensi (18 metri per 24) e oltretutto piazzati in modo che lo spettatore non guardi in su, come in un cinema normale, ma si trovi davanti una parete luminosa che si estende fortemente verso l’alto e verso il basso fino a coprire quasi tutto il campo visivo, offre un’esperienza immersiva straordinaria.
Le limitazioni tecniche della versione originale dell’IMAX su pellicola (soprattutto nelle cineprese usate per le riprese) obbligarono a un’immagine molto squadrata, ma in tempi recenti hanno fatto riscoprire la maestosità e l’imponenza delle inquadrature realizzate e proiettate su schermo gigante in questo formato, che era passato in secondo piano con l’avvento di quelli panoramici proposti dal cinema convenzionale non solo per dare spettacolarità ma anche perché consentono di avere più spettatori in sala rispetto agli IMAX.
Questo video di confronto mostra molto chiaramente quanto si perde e come cambia la composizione dell’inquadratura quando si gira un film in formato 1.43:1 e poi lo si deve per forza di cose tagliare sopra e sotto per adattarlo al 16:9 (o simile) dei cinema normali.
È difficile dire quale formato sia “migliore”, perché non è soltanto una questione di rapporto fra altezza e larghezza: è anche una questione di dimensione dello schermo (un IMAX non va pensato come un 16:9 tagliato, ma come un 16:9 allargato sopra e sotto). Anche se il formato IMAX è simile a quello dei vecchi televisori catodici, l’esperienza visiva è totalmente differente perché l’immagine è spaventosamente nitida e lo schermo occupa gran parte del campo visivo in tutte le direzioni, ma è sufficientemente lontano da evitare le distorsioni e le variazioni di messa a fuoco che si avrebbero guardando da vicini uno schermo di un televisore HD (o 4/8K) in modo da fargli riempire il campo visivo quanto uno schermo IMAX.
Il modo migliore per approssimare uno schermo IMAX è probabilmente la realtà virtuale con un visore ad altissima risoluzione: le lenti ingannano il cervello, facendogli credere che lo schermo virtuale sia fisicamente lontano e quindi enorme, e il display copre il campo visivo in maniera paragonabile a quella di un IMAX (e nel caso dei video in VR 3D, anche superiore, ma non ancora con altrettanta nitidezza).
Le sale IMAX sono pochissime rispetto ai cinema normali, e le vere sale IMAX (quelle con pellicola in formato 15/70 o con proiettori IMAX With Laser) sono ancora più rare (in tempi recenti, infatti, il marchio IMAX è stato annacquato usandolo anche per impianti di proiezione molto più modesti, come il 2K del Digital IMAX). IMAX stessa propone di vedere Dune soltanto in queste poche sale. Tutto questo vuol dire che un film girato in IMAX verrà visto nel suo formato originale da pochi spettatori, ed è un peccato, specialmente quando il direttore della fotografia, e spesso anche il regista (Christopher Nolan è un esempio tipico), compone le inquadrature proprio per questo formato. Per cui se sapete che un film è girato in IMAX, cercate di andarlo a vedere in una vera sala IMAX. Ne vale assolutamente la pena.
Se si compone *3001#12345#* sulla tastiera di un iPhone e si preme
l’icona di chiamata non parte una telefonata ma si ottiene il
Field Test Mode: una modalità nascosta che permette di avere informazioni
tecniche sulla propria connessione cellulare. Per uscire da questa modalità è
sufficiente premere il tasto Home.
Normalmente questa modalità serve soltanto ai tecnici per fare analisi e
diagnosi delle connessioni, ma può essere interessante da conoscere per
curiosità e da far vedere per mostrare quante cose avvengono dietro le quinte
in uno smartphone. Magari è anche un “trucchetto” carino per stupire gli
amici.
I dati che compaiono sono molto criptici e, appunto, utili soltanto agli
addetti ai lavori. Però ci sono sezioni abbastanza comprensibili anche per i non
iniziati, come per esempio quella denominata Serving Cell Measurements,
che fornisce informazioni sulla qualità del segnale cellulare, per esempio
nelle voci Measured RSSI,Average RSRP e Average RSRQ,
spiegati
qui su Digi.com: RSRP (Reference Signal Receive Power) indica la potenza media
ricevuta da un singolo segnale di riferimento; RSRQ indica la qualità
del segnale ricevuto e e RSSI (Received Signal Strength Indicator) è
legato ai primi due valori e rappresenta in sostanza il totale della potenza
ricevuta.
Sul mio iPhone 8 di test, aggiornato con iOS 15.2, non mi compaiono le voci e
le informazioni dettagliate che invece vedo descritte altrove (per esempio
qui,
qui
e
qui). Negli screenshot non ho oscurato i dati perché la SIM è una prepagata che uso solo per i test. Riuscite a trovare qualche altra info interessante?
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Una delle tecniche giornalistiche d’indagine più preziose è quella che io chiamo Regola dell’Informazione Laterale: le informazioni più attendibili su un dato argomento non provengono da chi è favorevole o contrario ad esso, ma da chi non è parte direttamente in causa.
Per esempio, se uno storico vuole sapere come è andata una battaglia, quanti sono stati i morti e i feriti da una parte e dall’altra, non si fida dei resoconti dei vinti o dei vincitori, ciascuno dei quali ha interessi pesanti nel presentare gli eventi a proprio favore, ma guarda gli aridi registri dei contabili.
Il nome di questa regola è ispirato dal concetto di pensiero laterale: risolvere un problema guardando da angolazioni differenti da quelle solite.
Nel caso delle malattie e delle pandemie, per esempio, la Regola dell’Informazione Laterale suggerisce di guardare i dati delle compagnie assicurative, che sono esperte nel valutare i rischi e le evoluzioni delle situazioni più disparate. Gli attuari non fanno altro che questo. Non importa quale sia l’opinione di una compagnia assicurativa a proposito di una pandemia: i dati sono quelli che sono e determineranno l’andamento dei premi assicurativi negli anni a venire. Alle compagnie conviene rappresentare la realtà per quella che è, senza sovrastimarla e senza sottostimarla, per non perdere in competitività rispetto alle concorrenti e per non incorrere in errori previsionali catastrofici che le porterebbero sul lastrico.
Dagli Stati Uniti arriva un esempio tragico di questa regola: secondo quanto riferito da The Center Square, il direttore della compagnia assicurativa OneAmerica, Scott Davidson, ha detto che i tassi di mortalità attuali sono “i più alti mai visti nella storia di questo settore, e non solo alla OneAmerica” e sono saliti del 40% rispetto ai livelli pre-pandemia fra le persone in età lavorativa.
Visto che OneAmerica gestisce polizze vita, questo dato è cruciale per la sua attività. Davidson ha aggiunto che non sono gli anziani a morire ma “principalmente le persone in età lavorativa, fra i 18 e i 64 anni.”
“Tanto per darvi un’idea di quanto questo sia grave” ha dichiarato “una catastrofe da tre sigma, ossia una di quelle che avvengono una volta ogni 200 anni, comporterebbe un aumento del 10% rispetto al valore pre-pandemia, per cui il 40% è inaudito.”
In altre parole, negli Stati Uniti in questo periodo c’è una sovramortalità eccezionale: qualcosa la sta causando. Va notato che alle compagnie assicurative del ramo vita la causa della morte interessa relativamente: quello che conta è che l’assicurato è deceduto. Davidson ha dichiarato che nella maggior parte delle richieste di riscossione di premi per il caso morte, il decesso non viene classificato come causato da Covid. “Quello che ci dicono i dati è che le morti che vengono segnalate come morti da Covid sottostimano di gran lunga le perdite effettive per morte tra le persone in età lavorativa a causa della pandemia. Sul loro certificato di morte non è detto che ci sia scritto Covid, ma i morti sono aumentati in numero enorme.”
Il CEO ha aggiunto che questo aumento causerà un aumento dei premi.
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Siamo abituati alle illustrazioni artistiche che mostrano le sonde spaziali
mentre si avvicinano al pianeta o altro corpo celeste che devono visitare. Ma
queste non sono illustrazioni: sono foto della parte orbitale della
sonda cinese Tianwen-1, nelle vicinanze di Marte. La sonda è partita dalla Terra il 23 luglio 2020 ed è arrivata in orbita marziana a febbraio del 2021.
Queste fotografie sono state ottenute sganciando dalla sonda un piccolo
subsatellite contenente una fotocamera, che ha scattato le immagini e le ha
trasmesse alla sonda via WiFi. Un sistema semplice e geniale.
Anche il rover Zhurong, una volta sganciatosi dalla sonda Tianwen-1 e atterrato su Marte in 14 maggio 2021, ha rilasciato una piccola fotocamera sul suolo marziano e poi si è allontanato per farsi fotografare accanto al lander che l’ha trasportato dall’orbita fino alla superficie del pianeta rosso.
Un sistema decisamente più semplice e versatile di quello usato dai rover marziani statunitensi, i cui autoritratti sono ottenuti attraverso un collage di fotografie nelle quali il braccio robotico del rover
regge la fotocamera e viene poi cancellato digitalmente. Questo metodo produce foto leggermente artificiose e non consente inquadrature da
lontano dei nostri emissari robotici, che permetterebbero di apprezzare
meglio le dimensioni e il contesto del paesaggio marziano.
Perché non si fanno più spesso scatti come questo? Le immagini sono
importanti per la comunicazione della scienza. Senza comunicazione, il
contribuente non capisce dove vanno i suoi soldi, e non tutti i contribuenti
hanno interesse per le indagini sui campi magnetici o sulla geologia dei
pianeti. Una foto parla un linguaggio universale, e la Cina l’ha capito
benissimo.
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Ad Arbedo-Castione, a una
quarantina di chilometri dal Maniero Digitale, c’è l’impianto pilota di
Energy Vault. L’idea è semplice e
intrigante: un sistema di accumulo di energia basato sul principio di usare la
corrente elettrica in eccesso (per esempio quella generata di giorno da
pannelli fotovoltaici o di notte dalle centrali termiche) per sollevare e
accatastare delle masse e poi calare lentamente queste masse, generando così
energia elettrica.
Nella transizione alle energie rinnovabili e pulite, i sistemi di accumulo giocano un ruolo indispensabile: fotovoltaico ed eolico, infatti, sono incostanti e hanno quindi bisogno del supporto di un apparato che accumuli energia e la rilasci quando serve.
Il sistema dimostrativo di Energy Vault, che
è stato completato a luglio 2020 ed è connesso alla rete elettrica svizzera, è
descritto in dettaglio dall’azienda
qui: una gru a tre bracci doppi
e simmetrici, alta circa 60 metri, solleva e impila grandi masse inerti (da 35 tonnellate ciascuna e 35.000 tonnellate in totale, secondo questo video di Energy Vault, a 00:46 e 1:34) per
accumulare energia potenziale e poi cala queste masse per sfruttarne l’energia
per produrre elettricità con un’efficienza dichiarata del 90%.
Rispetto a un bacino idroelettrico di pompaggio, che si basa sullo stesso
principio di portare a monte una massa per poi farla scendere a valle, questa
tecnica ha una compattezza estrema che consente di piazzarla praticamente
ovunque e senza richiedere trasformazioni radicali dell’ambiente, come per
esempio dighe o altre opere ingegneristiche massicce, che possono rendere
impraticabile o socialmente inaccettabile un sistema di accumulo di energia
idroelettrico perché modificano il paesaggio, distruggono habitat o obbligano
allo spostamento di popolazioni.
Rispetto alle batterie chimiche ad altissima capacità che si stanno
sviluppando in vari paesi, come la
Hornsdale Power Reserve da
100 MW/129 MWh di Tesla in Australia, già attiva dal 2017, la soluzione di
Energy Vault ha il vantaggio di usare masse inerti, quindi prive di qualunque
rischio significativo di incendi o inquinamento, di basso costo (addirittura è
possibile usare materiali di scarto) e longeve (prive di deterioramento).
Ma ci sono alcune obiezioni interessanti:
La massa necessaria va fabbricata, ed è tanta (almeno un migliaio di blocchi
per ogni impianto, a giudicare dalle animazioni presentate finora da Energy
Vault), e questo ha un impatto ambientale: i blocchi che vengono spostati
devono infatti essere durevoli e robusti. Quanto inquinamento si genera nel
fabbricarli?
I blocchi vengono semplicemente accatastati, senza alcun legame strutturale
a parte due
perni di incastro
alla base di ciascun blocco: quanto è stabile una torre del genere? In caso
di eventi sismici, possono esserci delle conseguenze?
I blocchi vengono sollevati, accatastati e calati usando lunghe funi: il
vento che effetto ha su quello che è in sostanza un enorme pendolo? Sarà
possibile accatastare con precisione i blocchi durante le giornate di forte
vento? Che succede se un blocco va a sbattere contro la catasta?
Quanto pesa la massa complessiva della catasta? 35.000 tonnellate, come dichiarato nel video dell’azienda? Ha bisogno di terreni o
fondamenta particolari?
Non ho trovato finora molti dati tecnici precisi sulle caratteristiche di
questo impianto. Ogni blocco,
secondo Energy Vault,
rappresenta “circa 1 MW di energia potenziale” (“each of the bricks representing ~1MW
[sic; forse intendevano MWh?] of potential energy”). Secondo quanto
riportato da
Swissinfo, la torre attuale è alta appunto 60 metri e una torre da 120 metri può
accumulare 35 MWh di energia elettrica, sufficienti ad alimentare per otto ore
da due a tremila abitazioni.
C’è anche un video di Energy Vault
che propone una struttura alternativa: non più a catasta libera ma a griglia. L’Energy Vault Resiliency Center è un edificio relativamente basso e molto ampio contiene i blocchi (da 30
tonnellate ciascuno) e li solleva lungo binari. Questo risolverebbe il
problema del vento e della stabilità, ma farebbe aumentare sia i costi della struttura,
che dovrebbe sopportare il peso di tutti i blocchi sollevati, sia lo spazio
occupato al suolo. Questo video di Energy Vault ne annuncia il deployment iniziale nella seconda metà del 2021 (a 1:53).
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Quanta energia si produce con questa tecnica? Provo a partire dai princìpi di base. Una tonnellata di
massa (acqua, ferro, cemento o qualunque altro materiale) alzata di un metro
acquisisce un’energia potenziale di 9810 joule, ossia 2,72 Wh. Sì, avete letto
bene: meno di tre Wh. Vuol dire che usare un asciugacapelli da 1 kW per un’ora
(1 kWh) equivale a sollevare un’utilitaria (diciamo da 1000 kg) per circa 370
metri (se non ho sbagliato i conticini; controllatemeli, per favore).
La formula alla base di questo calcolo è quella classica dell’energia potenziale:
massa (in kg) x 9,81 m/s2 di accelerazione x altezza (in metri)
= energia potenziale (in joule).
Semplificando e se non ho perso qualche zero per strada, i 35 MWh dichiarati da Energy Vault per la torre alta 120 metri
equivarrebbero a calare da 120 metri d’altezza fino al suolo ben 110.000
tonnellate.
Se ogni blocco pesa 35 tonnellate, come dichiarato dall’azienda, significa dover
movimentare circa 3100 di questi blocchi (110.000/35=3142), su distanze fino a 120 metri ciascuno, accelerandoli e frenandoli, nel giro di otto ore: circa 390 blocchi l’ora, ossia circa 7 blocchi al minuto. Con una gru a sei bracci che lavorano contemporaneamente, significa avere meno di un minuto per calare e incastrare con precisione ogni blocco, evitando collisioni all’arrivo. E questo al netto di attriti e inefficienze varie, inevitabili in qualunque meccanismo.
Dico circa 3100 blocchi perché soltanto i blocchi in cima
alla catasta avranno il valore massimo di energia potenziale; quelli
sottostanti ne avranno progressivamente di meno, man mano che diminuisce la
loro altezza dal suolo. Sto sbagliando qualcosa?
A questo punto, però, non capisco come un blocco possa
“rappresentare circa 1 MW [sic]”. Se si tratta di un refuso al posto di MWh, allora per avere un’energia potenziale di 1 MWh scendendo di 120 metri
quel blocco dovrebbe avere una massa di 3100 tonnellate. Chiaramente c’è qualcosa che non
torna.
Su suggerimento di un commentatore (grazie pgc) aggiungo un’altra perplessità: ogni blocco da 35 tonnellate che viene calato ha una velocità iniziale zero, poi accelera e infine frena fino ad azzerare la propria velocità. Questo vuol dire che l’erogazione di energia del singolo blocco non è costante ma è fortemente variabile: come farà il sistema a equilibrare tutti questi alti e bassi? Servirà un sistema di recupero dell’energia estremamente flessibile. Che succede se il complesso balletto di blocchi pesanti come un TIR si inceppa per qualunque motivo, tipo un cavo da sostituire o un blocco che dondola nel vento e va stabilizzato?
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In attesa che qualcuno più bravo di me verifichi questi conticini, va
considerato un altro aspetto. Esiste già un materiale a bassissimo impatto
ambientale, disponibile in abbondanza, che si può usare (e si usa) per
accumulare energia: è l’acqua. Se si scava un bacino sotterraneo (invece di
sbarrare una valle con una diga) e lo si riempie d’acqua dotandolo di una
condotta forzata in fondo, si crea un accumulo di energia potenziale
sfruttabile. Invece di accatastare blocchi di cemento o altri materiali
inerti, si solleva l’acqua e la si rimette nel bacino. Questo è il principio
delle
centrali idroelettriche a ciclo chiuso.
Si potrebbe obiettare che l’acqua ha una densità minore di un blocco di
materiale solido, per cui viene istintivo pensare che i blocchi di Energy
Vault dovrebbero essere molto più compatti di un sistema idroelettrico
equivalente: ma un metro cubo d’acqua ha una massa di circa 1000 kg, mentre un
metro cubo di cemento ha una massa di circa
2500 kg, per cui in realtà una massa d’acqua equivalente a quella di una torre di
Energy Vault ha un volume due volte e mezza maggiore: non dieci o venti volte,
ma due e mezza.
Il guadagno in compattezza, insomma, non è sensazionale come si potrebbe
invece pensare. Blocchi di materiale più denso migliorerebbero questo
rapporto (in ferro sarebbero otto volte più compatti; in piombo oltre undici), ma sarebbero enormemente più costosi.
L’acqua non è soggetta a scheggiature da impatto; non è afflitta da
corrosione; non si deteriora per invecchiamento; non ha bisogno di essere
accatastata con precisione. Per contro, richiede un recipiente che la contenga
e impedisca perdite e infiltrazioni. Quel “recipiente” potrebbe danneggiarsi
in caso di eventi sismici, con costi di riparazione potenzialmente
altissimi.
A parte tutto questo, dai dati emerge un fatto spesso trascurato: le masse da spostare per generare tramite gravità l’energia di cui abbiamo bisogno sono
enormi. Real Engineering ha pubblicato un bel video (in inglese) dedicato alla
centrale a ciclo chiuso di Turlough Hill, in Irlanda, in funzione da oltre 40 anni, che ha un dislivello di 286 metri e un bacino superiore di 2,3 milioni di metri cubi. Quando i suoi quattro generatori da 73 MW sono in funzione al massimo, attraverso le sue condotte scorrono oltre cento tonnellate d’acqua al secondo, e bastano cinque ore e mezza di funzionamento per prosciugare completamente il bacino.
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C’è anche la questione dei costi. Secondo i
dati di Energy Vault, ci vuole appunto una torre da 120 metri per avere un accumulo di 35 MWh al
costo di circa 9,3 milioni di dollari. La batteria australiana di Hornsdale, da
129 MWh (3,7 volte maggiore), è costata 65 milioni di dollari; un impianto
equivalente di Energy Vault ne costerebbe (secondo l’azienda) circa 35 milioni.
Sarebbe decisamente conveniente rispetto alle batterie.
Ma se si fa il confronto con il costo di un
impianto idroelettrico a ciclo chiuso
le cose cambiano parecchio: un grande impianto da 24.000 MWh di accumulo come
quello di
Bath County, in Virginia, è costato 3,8 miliardi di dollari. Per farne uno analogo con
il sistema di Energy Vault servirebbero (stando ai dati dichiarati dall’azienda) 685 torri da 120 metri l’una,
al costo complessivo di 6,3 miliardi di dollari: quasi il doppio. C’è dunque
un motivo per cui il
95%
dell’accumulo energetico mondiale è basato sull’idroelettrico: costa meno.
Sempre stando ai dati di Energy Vault, per alimentare Lugano (67.000 abitanti,
40.700 abitazioni) per otto ore servirebbero
grosso modo da tredici a venti torri da 120 metri l’una.
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Dove sta quindi il vantaggio della soluzione di Energy Vault? Sembra costare
meno di un impianto a batterie, ma non sembra scalabile. È più modulare e adatto ai piccoli impianti?
Rende più facile ottenere approvazioni e permessi rispetto a un bacino
idroelettrico sotterraneo? Come si risolvono le obiezioni tecniche?
Ne avevamo discusso informalmente nei commenti a
questo articolo
a ottobre scorso: proviamo a parlarne in dettaglio nei commenti qui sotto,
sulla scorta dei dati tecnici che ho raccolto. Ho contattato l’azienda per
chiedere un commento pubblicabile.
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