Un blog di Paolo Attivissimo, giornalista informatico e cacciatore di bufale
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2017/07/07
Podcast del Disinformatico del 2017/06/23
È finalmente disponibile per lo scaricamento il podcast della puntata di venerdì 23 giugno del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera. Buon ascolto!
Antibufala: il video delle “scie chimiche” giganti
Molti giornali, anche italiani, hanno pubblicato un video che mostra un aereo dietro il quale si formano delle scie colossali. Il Corriere, per esempio, ha titolato Ecco come si formano le “scie chimiche”: riprese che spiegano tutto, come si vede nel tweet qui accanto (poi ha corretto in Ecco come si formano le scie nel cielo: le immagini girate da vicino).
Ma le “scie chimiche” non c‘entrano nulla: come spiega Metabunk, si tratta di normali scie di condensazione, generate dai motori dell’aereo e rese apparentemente più grandi dalla prospettiva forzata.
Andando alla fonte originale del video, come bisogna sempre fare in questi casi per evitare tagli e manipolazioni e per mantenere intatto il contesto, risulta che non si tratta affatto di una ripresa clandestina o trafugata, ma di una normale osservazione di un Boeing 787 sulla costa orientale della Russia, fatta da un passeggero di un altro aereo di linea, un Boeing 747, che si trovava leggermente più in alto. L’analisi tecnica pubblicata su Metabunk è dettagliatissima e impietosa. E i giornalisti che associano questo bel video alla panzana delle “scie chimiche” fanno solo confusione inutile.
Ma le “scie chimiche” non c‘entrano nulla: come spiega Metabunk, si tratta di normali scie di condensazione, generate dai motori dell’aereo e rese apparentemente più grandi dalla prospettiva forzata.
Andando alla fonte originale del video, come bisogna sempre fare in questi casi per evitare tagli e manipolazioni e per mantenere intatto il contesto, risulta che non si tratta affatto di una ripresa clandestina o trafugata, ma di una normale osservazione di un Boeing 787 sulla costa orientale della Russia, fatta da un passeggero di un altro aereo di linea, un Boeing 747, che si trovava leggermente più in alto. L’analisi tecnica pubblicata su Metabunk è dettagliatissima e impietosa. E i giornalisti che associano questo bel video alla panzana delle “scie chimiche” fanno solo confusione inutile.
Facebook e Amici nelle vicinanze: non è un po’ troppo invadente?
Dopo un lungo periodo di collaudo negli Stati Uniti, arriva anche in Europa la funzione Amici nelle vicinanze di Facebook, che come dice il nome consente di sapere se ci sono dei nostri amici di Facebook nelle nostre vicinanze.
Conviene conoscerla bene per decidere come impostarla, visto che è piuttosto pettegola: noi possiamo sorvegliare dove si trovano i nostri amici, ma allo stesso tempo loro posso fare la stessa cosa con noi. E chi ha l’abitudine di concedere l’amicizia social a sconosciuti rischia di farsi pedinare da questi sconosciuti.
Per prima cosa, guardate se avete attivato Amici nelle vicinanze: sullo smartphone, andate nelle impostazioni dell’app, toccate Amici nelle vicinanze e toccate l’ingranaggio in alto a destra. Qui potete vedere lo stato attuale di questa funzione e decidere se attivarla o disattivarla. Potete anche scegliere a quali gruppi di persone consentire di tracciare la vostra posizione (per esempio agli amici ma non ai conoscenti).
La localizzazione dei nostri amici che hanno attivato Amici nelle vicinanze è accessibile sempre nelle impostazioni dell’app, che elenca questi amici e ne descrive la posizione corrente. Qui si scopre che in realtà la funzione non si limita ad elencare gli amici che sono vicini, ma elenca tutti quelli che hanno attivato la funzione, anche se sono a centinaia di chilometri di distanza, e include una funzione Invita.
C’è anche una cronologia delle posizioni passate: potete raggiungerla andando nelle Impostazioni e scegliendo Impostazioni - Registro attività - Filtra - Cronologia delle posizioni. Qui trovate anche una pratica opzione Cancella la cronologia delle posizioni.
Conviene conoscerla bene per decidere come impostarla, visto che è piuttosto pettegola: noi possiamo sorvegliare dove si trovano i nostri amici, ma allo stesso tempo loro posso fare la stessa cosa con noi. E chi ha l’abitudine di concedere l’amicizia social a sconosciuti rischia di farsi pedinare da questi sconosciuti.
Per prima cosa, guardate se avete attivato Amici nelle vicinanze: sullo smartphone, andate nelle impostazioni dell’app, toccate Amici nelle vicinanze e toccate l’ingranaggio in alto a destra. Qui potete vedere lo stato attuale di questa funzione e decidere se attivarla o disattivarla. Potete anche scegliere a quali gruppi di persone consentire di tracciare la vostra posizione (per esempio agli amici ma non ai conoscenti).
La localizzazione dei nostri amici che hanno attivato Amici nelle vicinanze è accessibile sempre nelle impostazioni dell’app, che elenca questi amici e ne descrive la posizione corrente. Qui si scopre che in realtà la funzione non si limita ad elencare gli amici che sono vicini, ma elenca tutti quelli che hanno attivato la funzione, anche se sono a centinaia di chilometri di distanza, e include una funzione Invita.
C’è anche una cronologia delle posizioni passate: potete raggiungerla andando nelle Impostazioni e scegliendo Impostazioni - Registro attività - Filtra - Cronologia delle posizioni. Qui trovate anche una pratica opzione Cancella la cronologia delle posizioni.
Come catturare le foto di Twitter alla massima risoluzione
Ultimo aggiornamento: 2020/04/17 23:15.
Capita spesso di trovare su Twitter delle magnifiche foto che sarebbe bello poter salvare, ma di solito la risoluzione visualizzata dall’app è molto bassa e quindi il risultato non è molto soddisfacente.
C’è però un trucchetto che si può usare su qualunque computer (non è detto che sia disponibile su tablet e smartphone): visualizzare il tweet nel browser, fare clic destro (o Ctrl-Clic per gli utenti Mac) sull'immagine in modo da far comparire un menu che include la voce Visualizza immagine (o qualcosa del genere) e cliccare su questa voce.
Già così l’immagine è più grande di prima, ma si può fare di più: nella casella dell'indirizzo si aggiunge :orig (senza spazi e con il due punti) subito dopo l'indirizzo. Per esempio,
https://twitter.com/Astro2fish/status/881854457419407360
è una splendida foto scattata dall’astronauta Jack Fischer pochi giorni fa dalla Stazione Spaziale Internazionale.
Se visualizzate la foto con il clic destro, ottenete questa versione:
https://pbs.twimg.com/media/DDz5s2bU0AEhwKo.jpg
Ma se aggiungete :orig così:
https://pbs.twimg.com/media/DDz5s2bU0AEhwKo.jpg:orig
ottenete la foto scaricabile alla sua risoluzione originale (in questo caso, ben 4096 x 2726).
Da quando ho scritto questo articolo, nel 2017, il formato dei link di Twitter è cambiato leggermente, per cui oggi visualizzando la foto con un clic destro si ottiene questo link:
https://pbs.twimg.com/media/DDz5s2bU0AEhwKo?format=jpg&name=small
nel quale basta sostituire small con orig per ottenere l’immagine a risoluzione originale:
https://pbs.twimg.com/media/DDz5s2bU0AEhwKo?format=jpg&name=orig
Capita spesso di trovare su Twitter delle magnifiche foto che sarebbe bello poter salvare, ma di solito la risoluzione visualizzata dall’app è molto bassa e quindi il risultato non è molto soddisfacente.
C’è però un trucchetto che si può usare su qualunque computer (non è detto che sia disponibile su tablet e smartphone): visualizzare il tweet nel browser, fare clic destro (o Ctrl-Clic per gli utenti Mac) sull'immagine in modo da far comparire un menu che include la voce Visualizza immagine (o qualcosa del genere) e cliccare su questa voce.
Già così l’immagine è più grande di prima, ma si può fare di più: nella casella dell'indirizzo si aggiunge :orig (senza spazi e con il due punti) subito dopo l'indirizzo. Per esempio,
https://twitter.com/Astro2fish/status/881854457419407360
è una splendida foto scattata dall’astronauta Jack Fischer pochi giorni fa dalla Stazione Spaziale Internazionale.
Se visualizzate la foto con il clic destro, ottenete questa versione:
https://pbs.twimg.com/media/DDz5s2bU0AEhwKo.jpg
Ma se aggiungete :orig così:
https://pbs.twimg.com/media/DDz5s2bU0AEhwKo.jpg:orig
ottenete la foto scaricabile alla sua risoluzione originale (in questo caso, ben 4096 x 2726).
Aggiornamento (2020/04/17)
Da quando ho scritto questo articolo, nel 2017, il formato dei link di Twitter è cambiato leggermente, per cui oggi visualizzando la foto con un clic destro si ottiene questo link:
https://pbs.twimg.com/media/DDz5s2bU0AEhwKo?format=jpg&name=small
nel quale basta sostituire small con orig per ottenere l’immagine a risoluzione originale:
https://pbs.twimg.com/media/DDz5s2bU0AEhwKo?format=jpg&name=orig
Come riconoscere una foto falsa
Internet trabocca di foto manipolate o falsificate: con l’avvento delle tecnologie digitali, creare una foto falsa è diventato facile e la maggior parte degli utenti fatica a riconoscere le manipolazioni delle immagini: potete mettere alla prova il vostro talento con questo test proposto da Adobe e seguendo account Twitter come Hoaxeye.
Ma in realtà è facile smascherarle se si conoscono i trucchi del mestiere, come spiega l’analista d’immagini Hany Farid, docente d’informatica al Dartmouth College, intervistato dalla BBC.
Farid suggerisce, per esempio, di controllare i riflessi della luce negli occhi delle persone fotografate. Questi riflessi dipendono dalle fonti di luce che illuminano i soggetti (il sole, le finestre o le lampade) e hanno quindi forme ben precise: se non sono uguali per tutti i soggetti, vuol dire che le persone ritratte insieme non erano materialmente nello stesso luogo e che quindi la foto è probabilmente un falso.
Un altro trucco è guardare la coerenza del colore delle orecchie: se la luce proviene da dietro il soggetto, le orecchie saranno rossicce a causa della loro parziale trasparenza. Quindi se il colore delle orecchie non è uniforme per tutte le persone fotografate o è incoerente rispetto all’illuminazione, la foto è manipolata.
Le ombre sono un altro elemento rivelatore: se si collegano con linee diritte vari punti delle ombre e le parti corrispondenti degli oggetti che le creano, tutte le linee devono convergere in un unico punto, che è la fonte della luce che le forma. Se ci sono linee che non convergono, è un sintomo di ritocco. Lo stesso controllo è fattibile anche per i riflessi: le linee che collegano il soggetto al suo riflesso devono convergere in un punto che si trova al di là della superficie riflettente, altrimenti è il caso di sospettare una falsificazione.
Oltre all’ispezione visiva ci sono anche tecniche strettamente informatiche: una foto scattata da una fotocamera o da un telefonino è spesso nel formato JPEG, che riduce le dimensioni del file effettuando una compressione digitale lossy, e ogni dispositivo digitale usa un metodo leggermente differente di comprimere le immagini, per cui guardando la struttura del file è possibile identificare il dispositivo che ha scattato una foto e notare se è stata manipolata da un programma di fotoritocco; inoltre le foto digitali contengono dei metadati (informazioni tecniche come data, ora e modalità di scatto) e una thumbnail (anteprima) che può essere rivelatrice.
Ma in realtà è facile smascherarle se si conoscono i trucchi del mestiere, come spiega l’analista d’immagini Hany Farid, docente d’informatica al Dartmouth College, intervistato dalla BBC.
Farid suggerisce, per esempio, di controllare i riflessi della luce negli occhi delle persone fotografate. Questi riflessi dipendono dalle fonti di luce che illuminano i soggetti (il sole, le finestre o le lampade) e hanno quindi forme ben precise: se non sono uguali per tutti i soggetti, vuol dire che le persone ritratte insieme non erano materialmente nello stesso luogo e che quindi la foto è probabilmente un falso.
Un altro trucco è guardare la coerenza del colore delle orecchie: se la luce proviene da dietro il soggetto, le orecchie saranno rossicce a causa della loro parziale trasparenza. Quindi se il colore delle orecchie non è uniforme per tutte le persone fotografate o è incoerente rispetto all’illuminazione, la foto è manipolata.
Le ombre sono un altro elemento rivelatore: se si collegano con linee diritte vari punti delle ombre e le parti corrispondenti degli oggetti che le creano, tutte le linee devono convergere in un unico punto, che è la fonte della luce che le forma. Se ci sono linee che non convergono, è un sintomo di ritocco. Lo stesso controllo è fattibile anche per i riflessi: le linee che collegano il soggetto al suo riflesso devono convergere in un punto che si trova al di là della superficie riflettente, altrimenti è il caso di sospettare una falsificazione.
Oltre all’ispezione visiva ci sono anche tecniche strettamente informatiche: una foto scattata da una fotocamera o da un telefonino è spesso nel formato JPEG, che riduce le dimensioni del file effettuando una compressione digitale lossy, e ogni dispositivo digitale usa un metodo leggermente differente di comprimere le immagini, per cui guardando la struttura del file è possibile identificare il dispositivo che ha scattato una foto e notare se è stata manipolata da un programma di fotoritocco; inoltre le foto digitali contengono dei metadati (informazioni tecniche come data, ora e modalità di scatto) e una thumbnail (anteprima) che può essere rivelatrice.
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Foto 3D con un normale smartphone (grazie a Brian May dei Queen)
Ultimo aggiornamento: 2017/07/07 16:00.
La fotografia stereoscopica è un’arte antica: ci sono foto di questo genere che risalgono alla metà dell’Ottocento. Oggi questa tecnica sta avendo un ritorno di popolarità grazie alle app che consentono di usare anche un normale telefonino per creare immagini stereoscopiche come queste mie, scattate in Norvegia e durante il volo di ritorno dallo Starmus Festival:
Il metodo è semplice: si sceglie un soggetto immobile, si scatta una prima foto, poi si sposta il telefonino verso destra di circa sette centimetri (di più se si vuole esagerare l’effetto 3D su oggetti lontani, come per esempio le nuvole nella seconda foto), e si allineano e compongono le due immagini. Tutto questo è fattibile con app come 3DSteroid (per Android, gratuita) o applicazioni per Windows come StereoPhoto Maker.
Il limite delle foto stereoscopiche è che per vederne il potente effetto di profondità occorre munirsi di un visore apposito (oppure imparare a tenere gli occhi paralleli pur mettendo a fuoco a distanza ravvicinata, cosa che io non riesco a fare). Mentre ero allo Starmus Festival mi sono procurato il visore ripiegabile OWL, che si usa sia con le stampe stereoscopiche sia con il telefonino e permette inoltre di vedere anche i video di Youtube girati in 3D. È progettato con la consulenza di Brian May (sì, quello dei Queen, che è un grande appassionato di stereofotografia, tanto da aver fatto un libro 3D dedicato ai concerti della band).
Visori portatili come questo sono pratici e facili da portare con sé (l’OWL diventa piatto): ce ne sono anche molti altri presso siti come LondonStereo.com, che fra l’altro spiegano anche i trucchi del mestiere, che a volte sono sorprendenti.
Per esempio, avreste mai detto che è possibile fare foto 3D della Luna, e che lo si faceva già nel 1857? Non occorre andare nello spazio o spostarsi da un continente a un altro: basta aspettare che la Luna effettui le sue lievi oscillazioni periodiche (le librazioni), che fanno sì che non rivolga sempre esattamente la stessa faccia agli osservatori terrestri. E ci sono tecniche di conversione da foto 2D davvero notevoli, come quelle proposte da Google con Camera Depth.
La fotografia stereoscopica è un’arte antica: ci sono foto di questo genere che risalgono alla metà dell’Ottocento. Oggi questa tecnica sta avendo un ritorno di popolarità grazie alle app che consentono di usare anche un normale telefonino per creare immagini stereoscopiche come queste mie, scattate in Norvegia e durante il volo di ritorno dallo Starmus Festival:
Il metodo è semplice: si sceglie un soggetto immobile, si scatta una prima foto, poi si sposta il telefonino verso destra di circa sette centimetri (di più se si vuole esagerare l’effetto 3D su oggetti lontani, come per esempio le nuvole nella seconda foto), e si allineano e compongono le due immagini. Tutto questo è fattibile con app come 3DSteroid (per Android, gratuita) o applicazioni per Windows come StereoPhoto Maker.
Il limite delle foto stereoscopiche è che per vederne il potente effetto di profondità occorre munirsi di un visore apposito (oppure imparare a tenere gli occhi paralleli pur mettendo a fuoco a distanza ravvicinata, cosa che io non riesco a fare). Mentre ero allo Starmus Festival mi sono procurato il visore ripiegabile OWL, che si usa sia con le stampe stereoscopiche sia con il telefonino e permette inoltre di vedere anche i video di Youtube girati in 3D. È progettato con la consulenza di Brian May (sì, quello dei Queen, che è un grande appassionato di stereofotografia, tanto da aver fatto un libro 3D dedicato ai concerti della band).
Visori portatili come questo sono pratici e facili da portare con sé (l’OWL diventa piatto): ce ne sono anche molti altri presso siti come LondonStereo.com, che fra l’altro spiegano anche i trucchi del mestiere, che a volte sono sorprendenti.
Per esempio, avreste mai detto che è possibile fare foto 3D della Luna, e che lo si faceva già nel 1857? Non occorre andare nello spazio o spostarsi da un continente a un altro: basta aspettare che la Luna effettui le sue lievi oscillazioni periodiche (le librazioni), che fanno sì che non rivolga sempre esattamente la stessa faccia agli osservatori terrestri. E ci sono tecniche di conversione da foto 2D davvero notevoli, come quelle proposte da Google con Camera Depth.
2017/07/05
Stamattina sono stato a Radio3Scienza: Roswell, segnale “wow” e ufologia
Questa mattina sono stato ospite di Radio3Scienza per parlare del celebre incidente ufologico di Roswell, di cui ricorre il settantesimo anniversario e che nasconde una storia assolutamente affascinante (i militari mentirono davvero, ma per una ragione molto speciale), e per fare il punto sull’altrettanto celebre “segnale WOW” captato nel 1977 e mai più ricevuto (la “spiegazione” cometaria proposta di recente, fra l’altro, non regge).
Ho raccontato anche la vicenda della presunta “autopsia dell’alieno”, che è stata un disastro per la credibilità dell’ufologia negli anni Novanta, e ho cercato di distinguere fra visita extraterrestre (tutta da dimostrare e affollata di ciarlatani) e vita extraterrestre (un campo di ricerca scientifica assolutamente rispettabile).
Nella stessa puntata c’è anche Raffaele Saladino, presidente della Società Italiana di Astrobiologia, e in chiusura Silvia Bencivelli racconta Alan Turing.
Se la cosa vi può interessare, trovate qui il podcast.
Ho raccontato anche la vicenda della presunta “autopsia dell’alieno”, che è stata un disastro per la credibilità dell’ufologia negli anni Novanta, e ho cercato di distinguere fra visita extraterrestre (tutta da dimostrare e affollata di ciarlatani) e vita extraterrestre (un campo di ricerca scientifica assolutamente rispettabile).
Nella stessa puntata c’è anche Raffaele Saladino, presidente della Società Italiana di Astrobiologia, e in chiusura Silvia Bencivelli racconta Alan Turing.
Se la cosa vi può interessare, trovate qui il podcast.
Ci vediamo domani sera a Gubbio per parlare di alieni?
Domani sera sarò ospite di Gubbio Scienza 2017 per un caffè scientifico intitolato “C’è vita nell’universo? Mah, un po’ il sabato sera...”, per parlare di ricerca scientifica della vita extraterrestre insieme alla professoressa Nadia Balucani.
L’appuntamento è per giovedi 6 luglio alle 21 in piazza Giordano Bruno, ma date un’occhiata anche al resto del programma della manifestazione, ricco di interventi ed eventi interessanti. Fra l’altro, Gubbio è legata a doppio filo alla vita extraterrestre e alla necessità di un programma spaziale, visto che è lì che è stata trovata la conferma geologica di un grande impatto asteroidale che ha probabilmente portato all’estinzione i dinosauri.
Come consueto, porterò con me qualche copia cartacea del mio libro sui complottismi lunari.
Visto che a fine mese iniziano le consegne delle auto elettriche Tesla Model 3 come quella che ho prenotato un anno fa e che mi dovrebbe arrivare entro fine 2018, ho provato a pianificare il viaggio dal Maniero Digitale (Lugano) a Gubbio come se lo dovessi fare con quest’auto, che ha 350 km di autonomia stimata nel modello base:
– partenza da casa con il “pieno”;
– tappa per ricarica a Modena dopo 255 km al Supercharger dell'Hotel Baia del Re (con relativo pranzo mentre l’auto ricarica e fa il “pieno” per una quarantina di minuti),
– tappa per ricarica al Supercharger di Fano dopo 206 km (mezz’ora per un buon caffè, rispondere a qualche mail e sgranchirsi le gambe)
– arrivo a Gubbio dopo 77 km, con autonomia sufficiente a tornare a Fano per il viaggio di ritorno.
Rispetto al viaggio che ho fatto realmente (in auto a benzina) ci sarebbe stata soltanto una sosta leggermente più lunga a Fano e la strada percorsa sarebbe stata la stessa: anche se l’auto a benzina sarebbe stata in grado di fare il viaggio senza soste in termini di autonomia, abbiamo comunque dovuto fare due soste per mangiare e sgranchirci.
L’importanza di una rete di ricarica veloce e capillare e di una buona autonomia è insomma fondamentale per il successo delle auto elettriche, che in queste condizioni possono sostituire quelle tradizionali con un minimo adattamento delle abitudini di viaggio anche su percorsi lunghi.
L’appuntamento è per giovedi 6 luglio alle 21 in piazza Giordano Bruno, ma date un’occhiata anche al resto del programma della manifestazione, ricco di interventi ed eventi interessanti. Fra l’altro, Gubbio è legata a doppio filo alla vita extraterrestre e alla necessità di un programma spaziale, visto che è lì che è stata trovata la conferma geologica di un grande impatto asteroidale che ha probabilmente portato all’estinzione i dinosauri.
Come consueto, porterò con me qualche copia cartacea del mio libro sui complottismi lunari.
Visto che a fine mese iniziano le consegne delle auto elettriche Tesla Model 3 come quella che ho prenotato un anno fa e che mi dovrebbe arrivare entro fine 2018, ho provato a pianificare il viaggio dal Maniero Digitale (Lugano) a Gubbio come se lo dovessi fare con quest’auto, che ha 350 km di autonomia stimata nel modello base:
– partenza da casa con il “pieno”;
– tappa per ricarica a Modena dopo 255 km al Supercharger dell'Hotel Baia del Re (con relativo pranzo mentre l’auto ricarica e fa il “pieno” per una quarantina di minuti),
– tappa per ricarica al Supercharger di Fano dopo 206 km (mezz’ora per un buon caffè, rispondere a qualche mail e sgranchirsi le gambe)
– arrivo a Gubbio dopo 77 km, con autonomia sufficiente a tornare a Fano per il viaggio di ritorno.
Rispetto al viaggio che ho fatto realmente (in auto a benzina) ci sarebbe stata soltanto una sosta leggermente più lunga a Fano e la strada percorsa sarebbe stata la stessa: anche se l’auto a benzina sarebbe stata in grado di fare il viaggio senza soste in termini di autonomia, abbiamo comunque dovuto fare due soste per mangiare e sgranchirci.
L’importanza di una rete di ricarica veloce e capillare e di una buona autonomia è insomma fondamentale per il successo delle auto elettriche, che in queste condizioni possono sostituire quelle tradizionali con un minimo adattamento delle abitudini di viaggio anche su percorsi lunghi.
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ufologia,
vita extraterrestre
2017/07/04
Starmus, primi appunti stamattina alla Radio Svizzera
Stamattina sono stato invitato a raccontare alla Radio Svizzera la mia esperienza allo Starmus, il festival di scienza e musica al quale ho partecipato pochi giorni fa in Norvegia. La trasmissione, condotta da Nicola Colotti, ha ospitato anche il divulgatore scientifico Adrian Fartade ed è ascoltabile qui in streaming.
Labels:
astronautica,
astronomia,
radio,
spazio,
Starmus
2017/07/01
Il Messaggero, la scienza e l’“unsteroide”: il lento suicidio del giornalismo
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora.
Sì, avete letto bene. Sul Messaggero C’è proprio scritto così:
«La Terra riischia di essere distrutta da unsteroide», la rivelazione choc
Questo è il modo in cui il Messaggero scrive un articolo per la sua sezione Scienze. Citando, oltretutto, come fonte il Daily Mail. E parlando di “asteroidi dal diametri” e di “impati rilevante”.
Lasciando stare il suo contenuto allarmistico-catastrofico, che è completamente falso, vorrei far notare che questo capolavoro non è frutto di una scrittura frettolosa: è stato pure aggiornato, come indicano la data di pubblicazione (30 giugno) e quella di aggiornamento (1 luglio alle 8:09).
Non è finita: quel titolo è stato anche pubblicato su Twitter pari pari, senza che nessuno si accorgesse degli errori.
Se una testata giornalistica registrata crede di poter spacciare questo sconcio per giornalismo, se assume o incarica gente che scrive in questo modo e accetta di pubblicare questa diarrea verbale, allora quella testata non può lamentarsi per il crollo dei ricavi dando la colpa a Internet o alle fake news. Il giornalismo che si comporta così non sta morendo per cause esterne. Si sta suicidando.
Copia dell’articolo originale è archiviata qui presso Archive.is.
Sì, avete letto bene. Sul Messaggero C’è proprio scritto così:
«La Terra riischia di essere distrutta da unsteroide», la rivelazione choc
Questo è il modo in cui il Messaggero scrive un articolo per la sua sezione Scienze. Citando, oltretutto, come fonte il Daily Mail. E parlando di “asteroidi dal diametri” e di “impati rilevante”.
Lasciando stare il suo contenuto allarmistico-catastrofico, che è completamente falso, vorrei far notare che questo capolavoro non è frutto di una scrittura frettolosa: è stato pure aggiornato, come indicano la data di pubblicazione (30 giugno) e quella di aggiornamento (1 luglio alle 8:09).
Non è finita: quel titolo è stato anche pubblicato su Twitter pari pari, senza che nessuno si accorgesse degli errori.
Se una testata giornalistica registrata crede di poter spacciare questo sconcio per giornalismo, se assume o incarica gente che scrive in questo modo e accetta di pubblicare questa diarrea verbale, allora quella testata non può lamentarsi per il crollo dei ricavi dando la colpa a Internet o alle fake news. Il giornalismo che si comporta così non sta morendo per cause esterne. Si sta suicidando.
Copia dell’articolo originale è archiviata qui presso Archive.is.
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