SpaceX ha pubblicato un video spettacolare della partenza della missione
COSMO-Skymed, che mostra, in una ripresa fatta da terra al rallentatore (circa
2x), delle fasi del lancio che è rarissimo vedere.
Grazie alla nitidezza dell’atmosfera, all’illuminazione perfetta (sole appena tramontato al suolo ma ancora in grado di illuminare gli oggetti in quota) e alla
stabilizzazione eccezionale delle riprese, possiamo vedere lo spegnimento del
primo stadio (0:18) a 67 km di quota, la separazione del primo stadio e la manovra di
“inversione a U” per tornare al punto di lancio (0:34) a 70 km, l’accensione del
motore del secondo stadio (0:45) a80 km e l’arrampicata verso lo spazio fino alla
rarissima visione da terra della separazione delle carenature (a 4:05) a 158 km. Le carenature
planano per poi aprire un paracadute ed essere recuperate e riutilizzate.
Le quote alle quali avvengono i vari eventi si possono dedurre confrontando questo video con quello della diretta del lancio (il decollo è a 15.20):
Vedere così nitidamente da terra un veicolo che si trova nello spazio, a oltre 150 km di quota (e a distanza ancora maggiore per via della traiettoria inclinata), è già un risultato eccezionale e di rara bellezza. E questo è quello che si può fare con i sistemi di ripresa e inseguimento stabilizzato civili. Chissà cosa si vede con quelli militari.
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In questa storia c’è davvero un po’ di tutto: dalla musica rock
all’informatica ai viaggi nel tempo, e anche un pizzico di pseudoscienza.
Sulla
pagina Web ufficiale di Stonehenge
è comparsa di recente la richiesta al pubblico di cercare foto di famiglia
scattate presso il celebre monumento megalitico, allo scopo di trovare la più
antica e di creare una cronologia del monumento e delle vite dei suoi
visitatori.
Il Daily Grail racconta che a questo appello ha risposto nientemeno che Brian May, noto ai più come
chitarrista leggendario dei Queen, che è anche astrofisico ma soprattutto è
collezionista, sin da bambino, di fotografie stereoscopiche (quelle che oggi
chiamiamo 3D), tanto da essere diventato il proprietario di una delle più
vaste collezioni al mondo di questo genere di foto (ne ha oltre centomila).
Frugando nella sua collezione, appunto, May ha trovato questa foto:
Risale al 1860 circa, ed è appunto tridimensionale. Pochi, oggi, sanno che le
foto 3D furono inventate agli albori della fotografia chimica e divennero
popolarissime: si guardavano con appositi visori simili a quelli che i più
attempati ricorderanno come View-Master.
La foto in questione fu scattata dal fotografo Henry Brooks, di Salisbury.
Ritrae sua moglie, Caroline, che sorride, accanto alla figlia Caroline Jane,
che guarda il fotografo, e il figlio Frank, di spalle, troppo preso a guardare
il monumento per mettersi in posa per la foto.
Fra l’altro, la foto documenta un altro fenomeno poco conosciuto: oggi le
pietre gigantesche di Stonehenge non sono affatto nelle loro posizioni
originali. La foto d’epoca ritrovata da Brian May mostra infatti la posizione
in cui si trovava, intorno al 1860, la Pietra 56, nota come la
Leaning Stone perché era appunto inclinata. Fu raddrizzata nel 1901,
come spiega il sito dell’English Heritage, e non è l’unica pietra grossolanamente riposizionata,
come documenta questa foto 3D piuttosto recente scattata proprio da Brian May dallo stesso punto di vista della foto ottocentesca.
Per cui qualunque considerazione su presunti allineamenti cosmici
incredibilmente precisi di Stonehenge realizzati dai suoi costruttori originali
andrebbe presa con abbondanti manciate di cautela.
Quarant’anni fa, nel 1980, usciva al cinema L'Impero Colpisce Ancora. Per celebrare la ricorrenza, sono stati pubblicati sei minuti e spiccioli di riprese inedite, ciak sbagliati e altre chicche dietro le quinte. Adesso è Natale.
Non so se vi ho mai raccontato di quanto ero ossessivamente travolto da Guerre Stellari e in particolare da questo secondo film della saga quando ero ragazzo. Non c’erano videocassette o altro e certi film in televisione proprio non passavano, per cui o andavi al cinema o ti attaccavi al tram. Quando uscì L'Impero Colpisce Ancora, fui così stregato da tutto il film che lo vidi quattro volte in due giorni (all’epoca lasciavano stare in sala fra una proiezione e la successiva).
Portai di nascosto al cinema la fotocamera (naturalmente a pellicola) per fotografare le immagini più belle, perché non c’era altro. Comprai il doppio album su vinile della colonna sonora, e cercai di memorizzare le scene e le battute il più possibile.
Una sera d’estate del 1981 o ‘82, a Pavia, il Comune organizzava il cinema all’aperto, alla Cupola Arnaboldi, e scoprii che avrebbero proiettato proprio L'Impero Colpisce Ancora. Sospetto che queste proiezioni fossero in realtà organizzate dai rivenditori di spray antizanzare, perché le proiezioni all’aperto a Pavia in prima serata erano un’orgia sanguinaria di nugoli di zanzare inferocite. Nel caldissimo pomeriggio di quel giorno il proiezionista, tutto solo, stava installando il massiccio proiettore per pellicola per la proiezione serale e aveva ancora da disporre tutte le seggioline di legno per il pubblico. Era chiaramente un po' stufo.
Io notai che il proiettore aveva un’uscita audio DIN (ovviamente analogica, a quei tempi), elaborai un piano e mi armai di quel coraggio che soltanto la passione poteva risvegliare in un nerd: andai dal proiezionista e gli proposi un baratto. Gli avrei portato e piazzato io tutte le seggioline di tutta la sala se quella sera mi avesse lasciato registrare l’audio del film.
Il proiezionista accettò, dicendo pigramente “Sì, ma non tutto quanto, solo dei pezzi” e confidando nel fatto che non c’era modo di registrare su cassetta due ore e dieci filate di sonoro, e io mi piegai al compromesso.
Andai di corsa a casa, presi il mio radioregistratore a batterie, una cassetta C120 e... feci hacking: modificai la velocità di scorrimento del nastro in modo da farci stare 127 minuti di audio su una singola cassetta. Non potevo usarne due per non perdere pezzi e per non far capire al proiezionista che stavo registrando tutto, e decisamente non avevo un registratore a bobine, men che meno uno trasportabile.
Tornai dal proiezionista e con l’aiuto degli amici appassionati di Star Wars ai quali avevo sparso la voce disponemmo le seggioline.
Quella sera il proiezionista, commosso da così tanta devozione, mi lasciò attaccare il cavetto DIN del radioregistratore al proiettore, facendo finta di non vedere. Mi disse di nascondere il radioregistratore: per fortuna il cavo di collegamento al proiettore era lungo e sottile. Il film partì e io registrai tutta la traccia audio, dall’inizio alla fine, nel magnifico doppiaggio italiano. Finsi di spegnere qualche volta quando il proiezionista mi guardava storto. Ora posso raccontarlo, il reato è prescritto e il proiezionista è probabilmente buonanima.
Anni più tardi ho riversato in digitale quella registrazione, rigorosamente mono, che avevo quasi consumato a furia di riascoltarla a occhi chiusi. Poi, naturalmente, ho comprato la videocassetta, e poi il DVD, e poi il Blu-Ray e il file digitale. Ma quella pastosa, compressa, distorta registrazione monofonica ha ancora un valore speciale per me.
Non solo per il film, e per la nostalgia di un’impresa di “pirateria” oggi impensabile. Ma perché fra gli appassionati che mi aiutarono a disporre quelle sedie c’era Elena: colei che poi, anni dopo, sarebbe diventata la Dama del Maniero.
Mai avrei immaginato che sarebbe diventata la mia Principessa Leia (va bene, va bene, Leila per i nostalgici). E mai avrei immaginato che un giorno avrei incontrato i protagonisti di quel film e avrei tradotto per loro, sempre con la Dama al mio fianco.
Mai avrei immaginato che un giorno quel doppio album di Guerre Stellari avrebbe ricevuto le loro firme con dedica. Anthony Daniels (C3PO), David Prowse (Darth Vader), Kenny Baker (R2D2). Ce l'ho qui ora, eccovelo: è enorme come solo un doppio LP poteva esserlo.
Bonus: il mio doppio LP de L'Impero Colpisce Ancora. Con le foto giganti e le note di copertina che oggi non si fanno più. Un po‘ consunto dal tempo, ma sempre memorabile. Grazie di aver letto fin qui, e che la Forza sia con voi.
Sta circolando moltissimo nei social network questa foto, descritta come “La Luna fotografata nel corso di 28 giorni nello stesso luogo alla stessa ora”. NO. È un fotomontaggio, opera di Giorgia Hofer. La Luna non segue questa traiettoria. E no, gli analemmi sono un’altra cosa e hanno un’altra forma. Se volete saperne di più, c’è un debunking approfondito qui in inglese.
2020/12/09 16:10. Sulla questione è intervenuto anche il debunker PicPedant: “semmai è la Luna fotografata nel corso di un anno con le fasi incollate secondo una curva arbitrariamente artisticheggiante senza alcun nesso con la sua effettiva posizione astronomica nel corso del tempo.” Fine.
Credit: Giorgia Hofer (fotomontaggio).
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Abbiamo tutti da qualche parte delle vecchie fotografie stampate, sgualcite, graffiate e strappate, danneggiate così gravemente da rendere impossibile il restauro con Photoshop o prodotti analoghi. Gli strappi, in particolare, sono uno dei limiti maggiori del recupero tradizionale. Ma l’intelligenza artificiale sta cominciando a dare una mano anche in questo senso.
Microsoft ha pubblicato un articolo tecnico, Bringing Old Photos Back To Life, che presenta le nuove funzioni di restauro e riparazione dei graffi e degli strappi. Non funziona sempre, ma quando funziona è davvero notevole: ricostruisce l’immagine persino quando lo strappo interessa una parte molto significativa dell’immagine, come per esempio un volto.
C’è un “trucco”: il software attinge a un enorme repertorio di immagini e “deduce” cosa è probabile che ci sia nella parte mancante. Questo vuol dire che se per esempio lo strappo copre l’occhio di una persona, il software lo ricostruisce mettendoci un occhio che più o meno gli somiglia. Ma non è detto che corrisponda all’originale. In altre parole, si crea una sorta di falso, con l’aggravante che la falsificazione non è facile da notare per l’osservatore inesperto; ma allo stesso tempo si ottiene un recupero altrimenti impossibile, magari di una fotografia che ha un grande valore sentimentale.
Fra l’altro, il software può essere provato senza installarlo, andando presso Colab.research.google.com e seguendo le istruzioni fornite nel tutorial qui sotto.
Andy Saunders, un esperto di elaborazione digitale di immagini, è riuscito a elaborare le fotografie e le pellicole cinematografiche in formato 16 mm usate a bordo del veicolo spaziale Apollo 13 esattamente cinquant’anni fa, estraendone nuove immagini composite di una nitidezza straordinaria.
A sinistra, il comandante Jim Lovell; al centro, Jack Swigert. Credit: Andy Saunders.
Una delle tecniche usate da Saunders è il cosiddetto stacking, usatissimo in astronomia: si prende una serie di immagini dello stesso soggetto e le si elabora in modo da filtrare la grana e le imperfezioni dei singoli fotogrammi. Il principio di base dello stacking è che se lo stesso punto di due o più immagini contiene le stesse informazioni, allora quelle informazioni sono da conservare, mentre le informazioni presenti in una sola immagine vengono scartate perché sono considerare “rumore” (polvere, graffi, grana della pellicola o disturbi elettronici del sensore nel caso delle fotocamere digitali).
Dato che si tratta di riprese fatte con una cinepresa che si spostava cambiando inquadratura, è stato necessario comporre vari fotogrammi per ottenere una ripresa panoramica completa.
Saunders ha inoltre corretto digitalmente la distorsione prodotta dall’obiettivo ultragrandangolare usato dalla cinepresa di bordo.
Il risultato è meraviglioso e offre una nuova visione dei giorni drammatici trascorsi dagli astronauti Jim Lovell, Jack Swigert e Fred Haise nello stretto abitacolo del loro veicolo spaziale fortemente danneggiato.
Il comandante Lovell sceglie della musica su un mangiacassette; sulla destra si scorge Swigert che cerca di riposare. Credit: Andy Saunders.
Lovell (a sinistra), Swigert (al centro) e Haise (a destra) nel Modulo Lunare durante i preparativi per il rientro nell’atmosfera terrestre. Credit: Andy Saunders.
Esempio di restauro: Fred Haise cerca di dormire nel Modulo Lunare. A sinistra la ripresa originale; a destra la versione restaurata. Credit: Andy Saunders.
Panoramica composta da 1000 campioni tratti da fotogrammi 16mm. La mano all’estrema sinistra è di Lovell; a sinistra si scorge Swigert; al centro c’è Haise. Credit: Andy Saunders.
Il Modulo di Comando, completamente spento per conservare la poca energia delle batterie. Credit: Andy Saunders.
Swigert (a sinistra) e Lovell (a destra) nel Modulo Lunare. Credit: Andy Saunders.
Lovell (a sinistra) e Swigert (a destra) lavorano ai tubi per il convogliamento dell’acqua. Il contenitore cubico grigio è il filtro per la CO2 improvvisato grazie alle istruzioni ricevute dal Controllo Missione. Questa immagine è una composizione di due foto Hasselblad. Credit: Andy Saunders.
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Questo è uno screenshot a bassa risoluzione.
La scansione effettiva è molto più nitida.
Ultimo aggiornamento: 2019/09/07 18:10.
Mi sono finalmente deciso a digitalizzare per bene tutto l’archivio fotografico di famiglia prima che il naturale deterioramento delle pellicole (negativi e diapositive) sbiadisca per sempre i ricordi, e così ho comprato uno scanner Plustek 8200 SE (320 CHF qui in Svizzera), dotato di sensore a infrarossi per il rilevamento della polvere e dello sporco e fornito con SilverFast 8.8 (MacOS/Windows), software in grado di usare questo sensore per riconoscere questi difetti e correggerli insieme ai graffi e incluso nel prezzo dello scanner.
L’ho collegato a un Mac che lavora intanto che io faccio altro: ci mette una decina di minuti a foto (sto facendo passate multiple alla massima risoluzione, più post-elaborazione in automatico), ma il risultato è notevole: non va sempre così bene automaticamente come vedete qui sotto e a volte serve una correzione manuale, ma quando va bene al primo colpo è una gioia.
Questa, per esempio, è una ripulitura della polvere ormai incrostata e non rimovibile senza un lavoro paziente che è impossibile fare per migliaia di diapositive come queste.
Ripesco questa che testimonia, per gli increduli, che una volta ero bello e biondo:
Lo scanner invece fa fatica con le diapositive sottoesposte o scure: non è possibile regolare l’esposizione per schiarirle. In questi casi serve una soluzione alternativa: per esempio una fotocamera digitale macro che fotografi la pellicola.
Se non avete ancora pensato di digitalizzare i ricordi, fatelo. Il tempo passa inesorabile per tutti i supporti analogici.
2019/09/06
Per chi mi ha chiesto le impostazioni che uso per la scansione delle diapositive (l'unica che ho fatto finora con questo scanner), eccole:
Non uso Workflow Pilot (l’automatismo totale).
Mi assicuro che tutti i tool siano disabilitati, così abilito solo quelli che mi servono.
Scelgo Transparency, Positive, 48--24 bit.
Faccio la pre-scansione con Prescan.
Scelgo le dimensioni e il formato: TIFF, A5, Typesetter 600 ppi. Questo porta la risoluzione a 7200 ppi e produce immagini da circa 5000x3400 pixel a 600x600 di risoluzione). Sono file da circa 100 megabyte; per me non è un problema, ho dischi rigidi in abbondanza.
Clicco su Frame - Find frames - Slide 35 mm, per fargli identificare automaticamente i bordi della diapositiva.
Stringo leggermente il frame per non includere gli angoli stondati, che falsano la riparazione dei graffi e produrrebbero artefatti (vengono “corretti” mettendoci dei pixel, come dire, ispirati da quelli adiacenti, ma il risultato è pessimo).
Attivo AutoCCR (correzione automatica delle dominanti cromatiche; di solito funziona bene e non serve farla a mano).
Provo Picture settings - Midtone per vedere se cambiando il valore ottengo qualche miglioramento.
Se le dominanti cromatiche non sono sparite del tutto, attivo Global CC e provo a cambiarne il valore.
Per le dia a colori non Kodachrome, attivo iSRD (la rimozione di graffi, polvere e peluzzi tramite scansione a infrarossi; non funziona sulle Kodachrome e sulle pellicole in bianco e nero a causa del supporto non permeabile agli infrarossi), impostandolo su Correct con Detection medio-alta (10 di solito è sufficiente, ma salgo a 17-20 nei casi gravi, facendo attenzione agli artefatti). In alternativa, uso SRD (rimozione senza scansione a infrarossi), con Detection a 20 e Tile Size 4.
Non uso AACO (correzione contrasto): mi dà risultati scadenti.
Attivo GANE (riduzione grana e rumore) in modalità Light.
Attivo Multiple Exposure (passate multiple con “diaframma” differente per scansionare bene sia le zone più chiare, sia quelle più scure).
Pulisco bene la pellicola con un soffietto. Solo nei casi disperati uso un pennellino o, in quelli ancora più disperati, un panno da occhiali leggermente inumidito.
Faccio la scansione e controllo il risultato; se accettabile, passo alla scansione successiva tornando al punto 6.
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La foto, scattata da Ted Hesser in Cile, non è un trucco digitale: è stata realizzata calcolando in anticipo la posizione precisa e perfetta dalla quale riprendere l’eclissi in modo che il Sole facesse da sfondo agli attori di un film di fantascienza, Nomad. I dettagli, insieme a un video che mostra la realizzazione delle riprese, sono su Gizmodo.
Questo è un video ripreso dallo spazio: mostra il decollo di un razzo suborbitale cinese OS-X1, ripreso dal satellite Jilin-1, anch’esso cinese. La qualità delle immagini è spettacolare. Siamo abituati a vedere immagini satellitari statiche, ma non in movimento come queste.
Può sorprendere il fatto che non si percepisca il movimento del satellite rispetto alla superficie terrestre, visto che Jilin-1 sta a circa 600 km di quota e quindi non è in orbita geostazionaria, ma ci sono video come questo che documentano il comportamento di questo satellite, che a quanto pare ha un’ottica in grado di compensare lo spostamento. Spettacolare.
Fonte: GBTimes.com. Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.
Anche se i sensori delle fotocamere diventano sempre più sensibili e capaci di produrre foto anche in condizioni di luce scarsa, capita lo stesso di trovarsi in situazioni nelle quali le foto vengono scurissime. In questi casi la reazione tipica è cancellarle, magari con rammarico perché si tratta di scatti irripetibili. Ma forse è il caso di non buttarle via, perché presto potrebbero essere recuperabili.
Alcuni ricercatori presso la Intel e la University of Illinois Urbana–Champaign hanno usato il machine learning per “insegnare” al software come correggere le immagini digitali troppo scure, e persino quelle a prima vista completamente nere, con risultati impressionanti, mostrati nel video qui sotto e descritti con dovizia di esempi e in dettaglio nell’articolo tecnico intitolato Learning to See in the Dark.
Questo è un esempio di una foto in origine quasi completamente nera, recuperata con mezzi digitali tradizionali (a sinistra) e con il nuovo software (a destra):
In pratica il software viene addestrato mostrandogli tante coppie di foto della stessa scena, una sottoesposta e una esposta correttamente, e lasciando che “deduca” come elaborare quella scura per ottenere quella corretta.
Chissà se è possibile applicare questa tecnologia anche alle foto analogiche. Infatti c’è una foto particolarmente irripetibile ma sottoesposta che sarebbe bello recuperare: l’unica che mostra da vicino Neil Armstrong sulla Luna. Lo intravedete in basso a sinistra qui sotto.
Questo è il meglio che sono riuscito a fare con i miei modestissimi mezzi:
Sarebbe un bel modo di festeggiare il cinquantenario dello sbarco sulla Luna, che cade a luglio 2019. Ho scritto a uno degli autori della ricerca chiedendogli lumi (scusate l’involontario gioco di parole).
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La foto qui sotto viene presentata spesso come un esempio emblematico di come la NASA lavorava nel 1971, prima dell’avvento del computer e in particolare di PowerPoint.
— History in Moments (@historyinmoment) 9 luglio 2017
Per fortuna ci sono siti di esperti cacciatori di foto come Hoaxeye.com, che scovano gli originali e ne forniscono la corretta attribuzione: la foto risale all’ottobre del 1957, mentre la NASA fu fondata il 29 luglio 1958.
La foto mostra in realtà dei ricercatori presso la Systems Labs, in California, mentre sviluppano equazioni per le orbite dei satelliti artificiali. L’autore della foto è J. R. Eyerman, secondo i dati di Getty Images.
Internet trabocca di foto manipolate o falsificate: con l’avvento delle tecnologie digitali, creare una foto falsa è diventato facile e la maggior parte degli utenti fatica a riconoscere le manipolazioni delle immagini: potete mettere alla prova il vostro talento con questo test proposto da Adobe e seguendo account Twitter come Hoaxeye.
Ma in realtà è facile smascherarle se si conoscono i trucchi del mestiere, come spiega l’analista d’immagini Hany Farid, docente d’informatica al Dartmouth College, intervistato dalla BBC.
Farid suggerisce, per esempio, di controllare i riflessi della luce negli occhi delle persone fotografate. Questi riflessi dipendono dalle fonti di luce che illuminano i soggetti (il sole, le finestre o le lampade) e hanno quindi forme ben precise: se non sono uguali per tutti i soggetti, vuol dire che le persone ritratte insieme non erano materialmente nello stesso luogo e che quindi la foto è probabilmente un falso.
Un altro trucco è guardare la coerenza del colore delle orecchie: se la luce proviene da dietro il soggetto, le orecchie saranno rossicce a causa della loro parziale trasparenza. Quindi se il colore delle orecchie non è uniforme per tutte le persone fotografate o è incoerente rispetto all’illuminazione, la foto è manipolata.
Le ombre sono un altro elemento rivelatore: se si collegano con linee diritte vari punti delle ombre e le parti corrispondenti degli oggetti che le creano, tutte le linee devono convergere in un unico punto, che è la fonte della luce che le forma. Se ci sono linee che non convergono, è un sintomo di ritocco. Lo stesso controllo è fattibile anche per i riflessi: le linee che collegano il soggetto al suo riflesso devono convergere in un punto che si trova al di là della superficie riflettente, altrimenti è il caso di sospettare una falsificazione.
Oltre all’ispezione visiva ci sono anche tecniche strettamente informatiche: una foto scattata da una fotocamera o da un telefonino è spesso nel formato JPEG, che riduce le dimensioni del file effettuando una compressione digitale lossy, e ogni dispositivo digitale usa un metodo leggermente differente di comprimere le immagini, per cui guardando la struttura del file è possibile identificare il dispositivo che ha scattato una foto e notare se è stata manipolata da un programma di fotoritocco; inoltre le foto digitali contengono dei metadati (informazioni tecniche come data, ora e modalità di scatto) e una thumbnail (anteprima) che può essere rivelatrice.
Google PhotoScan (FotoScan di Google nella versione italiana) è una nuova app per Android e iOS che permette di usare lo smartphone come se fosse uno scanner e digitalizzare per esempio le fotografie cartacee o le pagine delle riviste. Funziona in modo estremamente semplice: inquadrate l’intera foto con il telefonino e poi lo muovete seguendo le istruzioni sullo schermo (in pratica si tratta di posizionare un cerchio intorno a ciascuno di quattro puntini in sequenza).
Questo movimento permette all’app di vedere la fotografia da varie angolazioni: in questo modo può correggere le distorsioni dovute alla posizione non perfettamente centrata del telefonino, scontornare la foto e anche eliminare eventuali riflessi dalle superfici lucide.
Nella maggior parte dei casi i risultati sono paragonabili a quelli di una scansione con uno scanner tradizionale di media qualità. Cosa più importante, il procedimento è rapido e non richiede di avere con sé uno scanner, col risultato che diventa molto più usabile. Avete un archivio di vecchie foto cartacee che vi ripromettete prima o poi di digitalizzare ma non trovate mai il momento giusto? Ora è più facile.
Se volete un campione del lavoro di PhotoScan, guardate la foto che accompagna questo articolo: è la copertina di una rivista appoggiata alla buona su un tavolo, scontornata automaticamente molto bene e raddrizzata digitalmente in modo accettabile anche se non perfetto (nell’originale il titolo “Extra” non è ondulato).
La foto viene archiviata automaticamente nel vostro account Foto di Google, dove è possibile elaborarla a piacimento. E dove ovviamente Google può esaminarla automaticamente per aggiungerla ai propri immensi archivi di riconoscimento facciale.
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Il cratere più grande, a sinistra, ha un diametro di 50 chilometri.
Questa è la Luna e probabilmente è anche il vostro prossimo sfondo per il computer. Cliccate pure sulla foto per ingrandirla un po’ e ammiratene i dettagli. Io sono affascinato in particolare dalle montagne che si stagliano contro il cielo nerissimo e che spiccano sulla curvatura così marcata dell’orizzonte: un fenomeno impossibile sulla Terra, dove l’atmosfera che ci consente di vivere offusca questo stacco. I due grandi crateri sono Aristillus (in alto) e Autolycus (in basso) e misurano rispettivamente 50 e 40 chilometri di diametro; le montagne sulla destra sono il complesso del Monti Caucasici lunari.
Potete usare questa foto come sfondo anche se avete un megamonitor 4K, perché è solo un dettaglio di un’immagine ben più ampia che è disponibile presso il sito della Arizona State University a ben 16.193x16.193 pixel: arrotondando, sono 262 megapixel.
Mica male, come risoluzione, direte voi: ora considerate che questa foto risale a 45 anni fa. Fu scattata durante la missione Apollo 15 usando una speciale fotocamera da ricognizione, la Metric Camera, montata a bordo del veicolo spaziale. I nativi digitali magari non se ne rendono conto, ma prima del digitale, quando si usava la pellicola fotografica a grana fine e di grande formato, si potevano già scattare immagini eccezionali come questa. La fotografia chimica era un’arte sofisticata e matura.
Chicca nella chicca, in questa foto della Luna ci sono due persone: l’immagine fu infatti scattata mentre Dave Scott e Jim Irwin, due dei tre astronauti della missione, erano sulla superficie lunare, proprio nella zona inquadrata nella foto, vicino alla Rima Hadley, che è quel canale tortuoso in basso sulla sinistra, prodotto (si ipotizza) da antichissimi flussi di lava (Britannica; Spudis e Swann, USGS; NASA). Per la precisione, Scott e Irwin erano nella zona cerchiata qui sotto, ma loro e il loro veicolo erano troppo piccoli per essere visibili in questa immagine, presa da circa cento chilometri di distanza (per darvi un’idea della scala, il canale tortuoso è largo circa 1300 metri):
Se volete saperne di più sulla storia di queste foto, c’è il blog Apollo 15 Timeline, che racconta l’intera missione e include un articolo dedicato specificamente a queste immagini. E se volete conoscere l’astronauta Al Worden, che scattò queste fotografie 45 anni fa, venite a incontrarlo il 14 e 15 ottobre allo Sheraton Malpensa per la cena di gala e la conferenza che terrà.
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Avevo osato sperare che non servisse uno sbufalamento per la foto qui sopra, ma sono stato troppo ottimista: a quanto pare c’è al mondo parecchia gente che non sa cosa sia la prospettiva e crede che le compagnie aeree siano così cretine da lasciare che i loro costosissimi aerei di linea finiscano sepolti dalla neve.
La foto sta girando con riferimento alla grande tempesta di neve che sta affliggendo in questi giorni gli Stati Uniti e non è fotoritoccata: è semplicemente una foto scattata vicino a un cumulo di neve, in primo piano; sullo sfondo, molto lontano, c'è un aereo di linea della JetBlue.
Moltissimi lettori mi hanno segnalato la pubblicazione di un enorme archivio di fotografie delle missioni lunari Apollo su Flickr (circa 8400, destinate ad aumentare), scattate negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, e se ne sta parlando un po' dappertutto. Mi manca il tempo di raccontarvi in dettaglio la storia che c'è dietro questa pubblicazione, ma vorrei chiarire un paio di punti che sembrano aver tratto in inganno molti lettori.
Primo, le foto non sono inedite. Sono tutte disponibili da anni su vari siti (e prima ancora erano disponibili su pellicola facendone richiesta alla NASA): la novità è che ora sono disponibili in un modo molto più accessibile e spettacolare. C'è veramente da perdersi nello sfogliare immagini che restituiscono una visione a volte intima del viaggio nello spazio, come i selfie fatti a bordo dagli astronauti mentre si fanno la barba o guardano fuori dai finestrini verso l'Universo.
Secondo, non è la NASA a pubblicarle, ma un privato cittadino, Kipp Teague, collaboratore della NASA. Kipp è conosciutissimo fra gli addetti ai lavori e gli appassionati per il suo contributo all'Apollo Lunar Surface Journal di Eric Jones. Ma non si tratta di iniziative coordinate o finanziate dalla NASA, i cui continui tagli di bilancio e la cui dipendenza burocratica dal governo federale statunitense paralizzano moltissime iniziative di condivisione e comunicazione: sono sforzi privati di singoli cittadini che decidono di offrire il proprio tempo e denaro per mettere a disposizione di tutto il mondo gli immensi e labirintici archivi della NASA.
La vera novità è che mai prima d'ora queste foto erano state messe online tutte in un unico luogo, con questa risoluzione altissima e in forma grezza, non elaborata, mostrando le scansioni originali delle pellicole usate nello spazio. Noterete i colori sbiaditi rispetto a molte versioni disponibili altrove: ora potete cimentarvi anche voi nel restauro partendo dalle scansioni master, come in questi esempi.
Capita spesso di incontrare in Rete, specialmente nei siti dedicati ai misteri e all'ufologia, foto impressionanti che mostrano colonne di luce verticali nel cielo di varie località. Gli autori delle fotografie giurano di non aver manipolato in alcun modo le immagini e aggiungono un altro particolare sorprendente: a occhio nudo non avevano visto nulla.
Quale misterioso fenomeno viene visto dalle fotocamere ma non dai testimoni oculari? L'apertura di un portale interdimensionale? Un raggio di energia? No, semplicemente una caratteristica poco nota del funzionamento delle fotocamere che si chiama rolling shutter.
Quando facciamo una foto abbiamo l'impressione di scattare un'immagine di un istante ben preciso, ma in realtà non è così. Il sensore digitale di una fotocamera non raccoglie la luce contemporaneamente su tutta la propria superficie ma lo fa progressivamente ad altissima velocità. Questo vuol dire che ogni colonna di pixel che compone un'immagine digitale rappresenta un istante leggermente diverso. È come se la fotocamera lavorasse come uno scanner, scandendo l'immagine da sinistra a destra o dall'alto in basso. Questa scansione esiste anche nelle fotocamere a pellicola per via dell'otturatore a tendina.
Normalmente la scansione è talmente rapida che risulta impercettibile. Ma quando la foto mostra fenomeni molto brevi l'effetto diventa evidente, con effetti spesso bizzarri. Per esempio, il battito delle palpebre è talmente veloce da essere alterato dalla scansione, come in questa foto non ritoccata del volto di un bambino riflesso in un vetro, nella quale il bimbo ha gli occhi semichiusi ma il suo riflesso li ha aperti:
La scansione orizzontale effettuata dal sensore ha catturato l'immagine del volto del bambino in un istante leggermente diverso da quello in cui ha catturato l'immagine riflessa. Anzi, dato che la scansione è progressiva, anche gli occhi del bambino sono fotografati in istanti differenti l'uno dall'altro: ecco perché uno occhio è semiaperto e l'altro è quasi completamente chiuso.
Nel caso delle colonne di luce, l'effetto è prodotto dal fatto che la scansione inizia in un istante normale, per esempio dal bordo sinistro dell'immagine, e mentre è in corso si manifesta un fulmine. La luce intensa del fulmine rischiara tutta la scena, ma viene catturata soltanto dalla porzione del sensore che sta raccogliendo luce durante il bagliore. Il risultato è una colonna di luce impressionante.
L'effetto è facilmente riconoscibile dal fatto che la colonna luminosa è perfettamente verticale (è allineata con le colonne di pixel fotosensibili che formano il sensore della fotocamera). Mistero risolto.
Foto scattata su Marte dalla sonda Curiosity il 10 e 11 aprile. 22.666 x 5838 pixel. Smettete di leggere, cliccate sul link all'originale a piena risoluzione e raccattate la mascella mandibola dal pavimento. Siete su Marte.
Nel 1972 c'erano gli uomini di Apollo 17 a scattare una fotografia incredibilmente bella dell'intera Terra vista da 45.000 chilometri, che fu descritta come una blue marble, una fragile biglia blu sospesa nel nulla nero dello spazio. Oggi al posto degli astronauti c'è un nostro emissario robotico: la sonda automatica DSCOVR della NASA, che si trova a circa 1,6 milioni di chilometri dalla Terra. L'immagine che vedete qui sopra ritrae la Terra in colori naturali il 6 luglio scorso. Il link diretto all'immagine ad alta risoluzione (2048x2048) è questo.
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Poche ore fa il veicolo cargo europeo ATV è rientrato nell'atmosfera terrestre, dopo aver lasciato la Stazione Spaziale Internazionale. Come previsto, dopo due lunghe accensioni dei motori per rallentare e quindi perdere quota si è disintegrato in modo innocuo sopra un'area disabitata dell'Oceano Pacifico. I dettagli dell'ATV sono descritti in questo mio articolo.
Questa è una foto di Samantha Cristoforetti all'interno dell'ATV, caricato di tutto il materiale non più necessario a bordo della Stazione. Come potete vedere, l'ATV è decisamente grande e capiente.
Ovviamente Samantha non è rimasta a bordo.
Di veicoli cargo come questi, destinati a distruggersi insieme alla spazzatura che portano via dalla Stazione, ce ne sono molti (Progress, Cygnus, HTV). Ma in quest'occasione sono state riprese delle immagini davvero notevoli e suggestive che cominciano a essere rese pubbliche.
Questo è un video dello sgancio dell'ATV dalla Stazione, creato componendo fotografie scattate in rapida sequenza. Il video è accelerato notevolmente rispetto alla realtà. I getti bianchi intermittenti sono quelli dei piccoli motori di manovra dell'ATV. I bagliori che si vedono intorno a 0:45 sono invece i getti dei motori di manovra della Stazione. Ditemi se l'ATV non vi fa venire un mente un caccia Ala-X di Guerre Stellari, come scrive l'astronauta Terry Virts.
Samantha Cristoforetti e Terry Virts hanno già inviato alcune immagini della scia di disintegrazione dell'ATV, vista dalla Stazione Spaziale: le vedete qui sotto.
A breve dovrebbe essere disponibile anche un video, secondo un annuncio fatto dall'equipaggio della Stazione. Inoltre ci dovrebbe essere un video ripreso dall'interno dell'ATV durante la sua disintegrazione con una speciale videocamera ultraresistente, che acquisisce anche dati telemetrici allo scopo di studiare le dinamiche di rientro dei veicoli spaziali.