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Il Disinformatico: censura

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Visualizzazione post con etichetta censura. Mostra tutti i post
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2022/03/10

Come vedere Twitter, Facebook, BBC e altri siti dalla Russia: Tor

Twitter è ufficialmente bloccato in Russia dal 4 marzo scorso, secondo l’agenzia d’informazione russa Interfax, e lo stesso vale anche per Facebook. Questo rende difficile per chi si trova nel paese mantenere i contatti e ricevere informazioni attraverso queste piattaforme.

Ma Twitter ha attivato un accesso tramite Tor che permette di eludere questo blocco restando ragionevolmente anonimi. Questo accesso funziona anche per altri paesi che bloccano Twitter, come la Cina, l’Iran o la Corea del Nord. 

L’annuncio di quest’attivazione è stato fatto piuttosto in sordina, tramite un tweet di Alec Muffett, uno degli informatici che ha collaborato con Twitter per creare l’accesso protetto e anonimo. Twitter ha semplicemente aggiunto la rete Tor alla versione inglese dell’elenco dei browser supportati, con molta discrezione.

Per accedere a Twitter in questo modo è necessario procurarsi per prima cosa l’applicazione Tor Browser, che è un programma di navigazione Web ad alta sicurezza e privacy: quello che molti conoscono perché si usa per accedere al cosiddetto dark web. Tor Browser si trova presso Torproject.org ed è disponibile gratuitamente per Windows, macOS, Linux e Android in numerose lingue (per iOS c’è Onion Browser). Chi non ha accesso a Internet può ricevere Tor su qualunque supporto digitale. 

Esiste anche una versione completamente autonoma di Tor, denominata Tails, che si tiene su una chiavetta USB e non richiede di installare nulla. Se si avvia il computer con la chiavetta inserita, si attiva Tails, che contiene Tor; se si avvia il computer senza chiavetta, parte il sistema operativo normale, ossia Windows, macOS o Linux che sia. Questo consente di evitare di lasciare sul proprio computer tracce visibili della presenza di questi software, che potrebbero essere considerati sospetti. Tails si trova gratuitamente presso tails.boum.org.

Una volta installato Tor o avviato Tails (che a sua volta avvia Tor), per accedere a Twitter scavalcando filtri e blocchi si immette questo link, che come tutti i link di questo genere è chilometrico:

https://twitter3e4tixl4xyajtrzo62zg5vztmjuricljdp2c5kshju4avyoid.onion/

Usare Tor o Tails permette di accedere anche a Facebook a questo link:

https://www.facebookwkhpilnemxj7asaniu7vnjjbiltxjqhye3mhbshg7kx5tfyd.onion/

oppure questo per dispositivi mobili:

https://m.facebookwkhpilnemxj7asaniu7vnjjbiltxjqhye3mhbshg7kx5tfyd.onion/

come annunciato a maggio 2021 da Facebook.

Alec Muffett ha pubblicato inoltre su Github un vasto elenco di stazioni radio accessibili tramite Tor, come la BBC, Deutsche Welle, Radio Free Europe/Radio Liberty in numerose lingue. L’elenco include anche link Tor ai motori di ricerca, a Protonmail e al cosiddetto secure drop di Bloomberg, Al Jazeera, Financial Times e di molte altre testate internazionali. Il secure drop è un sito al quale è possibile inviare documenti, video o immagini in maniera sicura e protetta.

La BBC offre inoltre trasmissioni in onde corte su 15.735 kHz e 5875 kHz, ricevibili in Ucraina e in buona parte della Russia anche senza connessione a Internet dalle 22 a mezzanotte (ora dell’Ucraina).

La BBC ha inoltre attivato una pagina apposita di informazioni su come accedere alle sue trasmissioni via Internet e su come ricevere in modo sicuro Tor e Onion Browser se non è possibile raggiungere l’App Store di Apple o al Play Store di Google per scaricare queste applicazioni. Sempre la BBC segnala e mette a disposizione anche un’altra app, Psiphon, che consente di eludere filtri e blocchi. E molti utenti russi stanno installando software di tipo VPN nel tentativo di restare connessi al resto del mondo e sapere cosa sta accadendo realmente.

Nessuno di questi sistemi per aggirare le censure è perfettamente sicuro e infallibile, e quindi vanno tutti adoperati con molta prudenza, però intercettarli o bloccarli richiede un impegno di risorse tecniche e umane che potrebbe rivelarsi insostenibile, soprattutto se vengono usati da tantissime persone.

Una volta tanto, insomma, il dark web si dimostra utile per scopi positivi, ben diversi da quelli per i quali è conosciuto normalmente.

Fonti aggiuntive: Engadget, The Guardian, Il Post.


 

2021/02/25

A proposito di Byoblu demonetizzato

Vedo che Giorgia Meloni protesta per la demonetizzazione di Byoblu: “YouTube ha revocato al canale di @byoblu le pubblicità e ha sospeso tutti gli abbonamenti. Un inaccettabile atto discriminatorio contro una testata giornalistica libera e indipendente. FDI esprime solidarietà alla redazione e presenterà un'interrogazione parlamentare sul caso”.

Faccio fatica a capire perché si debba esprimere solidarietà con un sito che fa soldi su bugie e notizie false e pericolose. Tipo questa (copia permanente):


Per chi volesse sapere la storia di quell’articolo, i dettagli sono qui.

Non è neanche la prima volta che Byoblu viene demonetizzato. Ricordo che avvenne nel 2017.

Giusto per chiarezza: Byoblu è ancora perfettamente in grado di pubblicare le proprie opinioni. Semplicemente non può monetizzarle. L'articolo 21 della Costituzione italiana parla di libertà d'espressione, non di diritto di farci soldi. Tutto qui.

 

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2021/01/09

Donald Trump bandito permanentemente da Twitter, Facebook, Twitch e altre piattaforme social. Due parole per chi sta pensando “censura”

Gli account social personali di Donald Trump sono stati bloccati in seguito alle sue azioni e parole prima e dopo il saccheggio del Campidoglio che ha istigato.

Ma parlare di censura è fuori luogo. Ricordo che resta comunque uno degli uomini più potenti del mondo e che se vuole comunicare qualcosa le TV di tutto il mondo gliela diffonderanno. Ha tuttora a disposizione un ufficio stampa e un sito Web dal quale può comunicare direttamente.

Non è censura: Trump non è un dissidente che scompare nell’oblio di un gulag. Non è un Julian Assange in carcere al gelo, isolato da tutto e tutti. Semplicemente il social network dice "Hai violato le regole concordate: resti libero di parlare, ma non tramite me". O per dirla con le parole chiare di Xkcd, che avevo già citato qualche tempo fa:


Annuncio di pubblico servizio: il diritto alla libertà di parola significa che il governo non ti può arrestare per quello che dici. Non significa che chiunque altro debba ascoltare le tue stronzate o ospitarti mentre le condividi.

Il primo emendamento [della Costituzione USA, che sancisce la libertà di parola] non ti protegge dalle critiche o dalle conseguenze.

Se ti urlano contro, se ti boicottano, se cancellano il tuo programma, o se vieni bandito da una comunità su Internet, i tuoi diritti di libertà di parola non stanno subendo una violazione.

Semplicemente, la gente che ti ascolta pensa che tu sia uno stronzo, e ti sta mettendo alla porta.


Lasciando il cursore sopra la vignetta originale compare un commento dell’autore:

"I can't remember where I heard this, but someone once said that defending a position by citing free speech is sort of the ultimate concession; you're saying that the most compelling thing you can say for your position is that it's not literally illegal to express."

che si può tradurre così:

"Non ricordo dove l'ho sentito, ma qualcuno una volta ha detto che difendere un punto di vista citando la libertà di parola è una sorta di sconfitta finale; stai dicendo che la motivazione più convincente che puoi addurre per il tuo punto di vista è che non è letteralmente illegale esprimerla."

Un lettore, Stefano De Santis, citato con il suo permesso, ne ha gentilmente realizzata una versione in italiano:


 

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2020/08/28

Antibufala: “Rambo III” e l’Effetto Mandela

Ecco una domanda che non avrei mai immaginato di trovarmi a fare nel 2020: avete per caso una videocassetta di Rambo III?

Lo chiedo perché mi sono imbattuto in uno strano caso di Effetto Mandela, ossia di falso ricordo collettivo. Questo effetto prende il nome dal ricordo, errato ma molto diffuso, che Nelson Mandela sia morto in carcere negli anni Ottanta del secolo scorso: in realtà fu liberato dopo una lunghissima prigionia nel 1990, divenne presidente del nuovo Sudafrica nel 1994 e morì nel 2013. La cosa particolarmente curiosa di questi falsi ricordi è che chi li ha è convintissimo di ricordare correttamente.

Il caso in questione riguarda appunto una presunta gaffe presente nel film Rambo III, che è diventata una vera e propria leggenda metropolitana ed è interessante perché non solo è un perfetto Effetto Mandela, ma dimostra anche quanto è culturalmente rischiosa l’attuale tendenza a usare lo streaming e i servizi centralizzati digitali invece di avere una propria copia personale delle opere: chiunque abbia il controllo di quei servizi può manipolare facilmente il passato e cancellarne ogni traccia.

La leggendaria gaffe di Rambo III, segnalata e illustrata nel tweet seguente, è che il film, uscito nel 1988, sarebbe stato dedicato inizialmente “ai coraggiosi combattenti mujaheddin” (“This film is dedicated to the brave Mujahideen fighters of Afghanistan”), ma che dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 questa dedica sarebbe stata cambiata di soppiatto perché era diventata assolutamente impresentabile.

Infatti nel film il protagonista del film (John Rambo, appunto, interpretato da Sylvester Stallone) combatte contro gli invasori sovietici che occupavano l’Afghanistan negli anni Ottanta, alleandosi con i mujaheddin afgani, presentati come partigiani che lottano per la libertà. Ma negli anni successivi alcune fazioni di quei mujaheddin diedero assistenza a Osama bin Laden, mandante degli attentati dell’11/9.

E così al posto della dedica imbarazzante sarebbe stato messo un più generico “al valoroso popolo afgano” (“This film is dedicated to the gallant people of Afghanistan”).




Quando ho segnalato questa storia su Twitter, molti commentatori si sono ricordati con certezza di questo cambiamento:












Ma quasi tutte le fonti storiche indicano che la scritta non è mai stata cambiata: la dedica è sempre stata al popolo, non ai mujaheddin.

La recensione del New York Times della prima del film, nel 1988, cita esplicitamente la dicitura:
"''Rambo III'' is dedicated ''to the gallant people of Afghanistan,'' and it clearly intends that its politics be taken seriously."

Lo stesso fa quella del Washington Post:
Because the movie's "dedicated to the gallant people of Afghanistan," his mission also includes getting to Love-Dee-Peeple.

Anche l’autorevole Mereghetti del 2000, consultato da un lettore, riporta la versione “valoroso popolo afghano”:



Anche fonti più recenti, come IMDB, citano solo la versione che parla di “popolo”:
At the end of the battle Rambo and Trautman say goodbye to their Mujahideen friends and leave Afghanistan to go home. The movie ends with two quotes: "This film is dedicated to the gallant people of Afghanistan." and "I am like a bullet, filled with lead and made to kill"

Wikipedia cita esplicitamente questa presunta modifica, smentendola:
Some have claimed that the dedication at the end of the film has been altered at various points in response to the September 11 attacks. Specifically it is claimed that the dedication was (at one point) "to the brave Mujahideen fighters" and then later changed to "to the gallant people of Afghanistan".[21][22] Reviews of the film upon its release and later publications show that the film was always dedicated "to the gallant people of Afghanistan".

Anche Screenrant cita e smentisce il cambio di dicitura:
Rambo III ends with a dedication, "to the gallant people of Afghanistan." An urban legend falsely stated that the dedication was originally to the mujahideen specifically, but this is untrue, and would have been antithetical to Rambo's character. He is someone who fights to protect people, not to win wars.

Eppure ci sono libri che la confermano, come Docu-Fictions of War: U. S. Interventionism in Film and Literature, di Tatiana Prorokova (2019; U of Nebraska Press. p. 227. ISBN 978-1-4962-1444-7):
[T]he ending quote of Rambo III glorifies the Afghan nation: "This film is dedicated to the gallant people of Afghanistan." This dedication appeared in the film only after 9/11. Prior to that, the film concluded with the phrase "This film is dedicated to the brave Mujahideen fighters of Afghanistan," which proves that the U.S. was on the side of the mujahideen, supporting them in the war against the Soviet Army.

Lo stesso fa Shadow Wars: The Secret Struggle for the Middle East, di Christopher Davidson (2016, Simon and Schuster, ISBN 978-1-78607-002-9):
The credits of the original release included the line 'Dedicated to the brave mujahideen fighters', but after 9/11 this was quietly changed to 'Dedicated to the gallant people of Afghanistan'.

Fandom.com conferma la modifica:
The original VHS release had in the end credits: "Dedicated to the brave Mujahideen fighters", although this was later changed to "Dedicated to the gallant people of Afghanistan."

Il dubbio, comprensibile, è che potrebbe trattarsi di un fotomontaggio creato da qualcuno. Ma in questo caso, che senso avrebbe crearlo? Quale sarebbe il tornaconto? E quanto sarebbe difficile alterare l’immagine cancellando la scritta originale per rimpiazzarla con quella modificata?

Skeptics Stack Exchange ha una risposta parziale: esaminando bene le due versioni si nota che non si tratta dello stesso fotogramma. Quello con la dicitura che parla di mujaheddin è tratto da un momento appena precedente la comparsa della dicitura che parla di popolo. Il falsificatore, insomma, avrebbe usato un fotogramma che era già privo di scritta nell’originale, e questo gli avrebbe facilitato il lavoro.

Se qualcuno ha una videocassetta originale uscita prima del 2001, possiamo risolvere questo strano caso una volta per tutte.


2020/08/28 10:20


Da Andrea G. mi arriva la segnalazione di un riversamento della versione italiana di Rambo III presente su YouTube e identificato come “doppiaggio del 1992”: a 8:22 compare la dicitura “Questo film è dedicato al valoroso popolo afgano”. L’edizione italiana, insomma, sembra proprio aver avuto questa dedica sin da prima del 2001.

2019/07/29

Davvero Facebook ha rimosso un post del ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini? Spoiler: no

Questo articolo è stato riscritto per tenere conto delle nuove informazioni. Ultimo aggiornamento: 2019/07/30 22:10.

Secondo un articolo dell’agenzia Dire (copia su Archive.org) del 27 luglio a firma di Alessandra Fabbretti, Facebook avrebbe eliminato dei post di Matteo Salvini, attuale ministro dell’Interno italiano, per incitazione all’odio.

Se l’episodio venisse confermato, sarebbe un intervento senza precedenti da parte di un social network: sarebbe la “prima volta che la comunicazione social del ministro dell’Interno – o meglio, di quella del partito del ministro dell’Interno – finisce nel mirino della moderazione del social network di Mark Zuckerberg,” scrive Giornalettismo. Inoltre si aprirebbe una questione etica non trascurabile: un popolarissimo social network, che per molti è l’unica fonte di notizie, avrebbe deciso di censurare una dichiarazione di un ministro di un governo. Ma ci sono molti punti poco chiari nella vicenda.

Nel titolo e nel testo dell’articolo dell’agenzia Dire si parla testualmente di “post di Salvini” e di “pagine del ministro dell’Interno”, ma poi il testo prosegue dichiarando che un attivista del movimento antirazzista e multiculturale “Cara Italia” avrebbe in realtà “segnalato la pagina Facebook ‘Lega – Salvini premier’”. Cosa ben diversa da un post del ministro.

A supporto di questa versione dei fatti sta circolando uno screenshot (mostrato qui sotto) nel quale viene presentata quella che sembra essere una risposta di Facebook alla segnalazione: “Lega - Salvini Premier è stata esaminata e abbiamo riscontrato che alcuni contenuti sulla Pagina non rispettano i nostri Standard della community. Abbiamo rimosso quei contenuti specifici (ad esempio foto e post) anziché l’intera pagina [...]”.



Un tweet molto popolare di @Ederoclite (533 retweet, 2860 “mi piace” al momento attuale) ha contribuito alla confusione parlando erroneamente di “pagina di #Salvini” e dicendo altrettanto erroneamente che l’autore della segnalazione era Stephen Ogongo di “Cara Italia”.

Infatti l’autore è una terza persona, sempre di “Cara Italia”, ma non è Ogongo. Lo si nota esaminando con attenzione lo screenshot mostrato nel video che accompagna l’articolo dell’agenzia Dire, a 0:27. Si nota che Ogongo cita il post di qualcun altro.



La collega Rosita Rijtano ha contattato Ogongo, che però non ha informazioni su cosa, di preciso, sarebbe stato rimosso. Facebook tace ufficialmente: ufficiosamente, invece, nega qualsiasi rimozione. Da parte mia ho scritto ad Alessandra Fabbretti per sapere se ha qualche dettaglio in più: vi aggiornerò sulla sua risposta.

Se qualcuno ha notizie più dettagliate, me le segnali nei commenti oppure in privato tramite i contatti indicati nella colonna di destra di questo blog.

Di questa vicenda scrive anche Repubblica.

È interessante confrontare questa situazione (ripeto, non ancora confermata formalmente) con la scelta di Twitter di non bloccare i tweet razzisti o istigatori di odio di Donald Trump perché comunque si tratta di un capo di stato (“Blocking a world leader from Twitter or removing their controversial Tweets would hide important information people should be able to see and debate. It would also not silence that leader, but it would certainly hamper necessary discussion around their words and actions.”).

Vorrei chiarire inoltre che non ne faccio una questione di simpatie o antipatie politiche per la Lega o per Salvini. Vivo in Svizzera e la politica italiana è per me un tafano che sta al di là di una finestra chiusa e che ogni tanto attira la mia attenzione con il suo ottuso sbattere sul vetro. C’è in gioco ben di più: uno scenario nel quale un social network influentissimo direbbe in sostanza a una forza politica di un paese “tu parli quando voglio io”. L’ingerenza di Facebook nel governo di un paese è un problema che tocca tutti.

Quindi, cari odiatori e polemisti che non aspettate altro che un’occasione per odiare e polemizzare, non ci provate. Il mio Blocca è più veloce ed efficiente dei vostri pollici forse opponibili.

---

Segnalo infine una di quelle curiose coincidenze della vita: vi ricordate la Clausola del Gatto Sitwoy che inventai tanti anni fa?

Se usi come supporto vitale della tua attività un servizio:
– che non hai la più pallida idea di come funziona,
– che non sai dov'è localizzato geograficamente,
– di cui non sai come contattare i responsabili, perché parlano una lingua a te sconosciuta,
– che non hai pagato perché gratuito e supportato dalla pubblicità,
– che non fornisce alcuna garanzia formale di qualità del servizio;

il giorno che non funziona, non rompere l'anima a chi non c'entra nulla e ha di meglio da fare: sono ... Cat Sitwoy.

Indovinate chi era il deputato italiano che la ispirò nell’ormai lontano 2008.


2019/07/30 16:15


Rosita Rijtano ha ricevuto questa risposta da Facebook:



Quando le persone ci segnalano una Pagina per intero per violazione dei nostri Standard della Comunità, di norma notifichiamo loro qualunque provvedimento preso nei riguardi dei contenuti presenti sulla Pagina. Lo facciamo anche se la violazione riguarda contenuti che nello specifico non sono stati segnalati. Lo scorso 25 luglio abbiamo inviato ad un utente che aveva segnalato la Pagina “Lega-Salvini Premier” una notifica che confermava la violazione dei nostri Standard della Comunità. Questa violazione era relativa ad un post effettuato da un altro utente sulla Pagina e non dall’amministratore stesso della Pagina. Ci rendiamo conto che il nostro messaggio ha creato della confusione e ci scusiamo per qualunque disagio questo possa aver causato


Facebook, insomma, conferma di aver rimosso qualcosa dalla Pagina “Lega-Salvini Premier”, ma non si tratta di un post dell’amministratore della Pagina in questione: si tratta di un contenuto prodotto da terzi.


2019/07/30 22:10


Open ha pubblicato una precisazione dell’ufficio stampa della Lega, che dice di non aver “rilevato la rimozione di alcun post da noi prodotto, né abbiamo ricevuto da Facebook comunicazioni riguardo la rimozione di contenuti prodotti dalla pagina, come di norma avviene in questi casi” (evidenziazioni mie). Notare che la Lega parla di post prodotti da loro e di contenuti prodotti dalla pagina. Non dice nulla a proposito di eventuali commenti o post di altri utenti sulla pagina: questo aspetto resta quindi senza chiarimento da parte della Lega.


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2019/04/11

Arrestato Assange

Un editore e giornalista pluripremiato, artefice di alcuni dei più grandi scoop giornalistici della storia recente, che hanno rivelato crimini di guerra (Collateral Murder), oggi è stato trascinato fuori da un'ambasciata e arrestato.

Se succedesse in Cina, ci sarebbe indignazione generale.

Invece è successo a Londra oggi.

Giornalisti: pensatela come volete su di lui, ma è un collega. Uno di quelli dei quali avete usato tante volte i documenti che aveva svelato. Meditateci.




L’accusa per la quale gli Stati Uniti hanno formalmente chiesto l’estradizione per Assange è un reato informatico: aver aiutato Chelsea Manning a craccare una password di un computer governativo statunitense.


NOTA: Non ho né tempo né voglia di moderare i commenti dei soliti inetti che pensano di sapere tutto su Assange e di dover dispensare al mondo i propri giudizi sommari. Per cui respingerò qualunque commento, positivo o negativo, a questo post. Non è giornata, mi spiace.


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2019/03/26

Passa la direttiva UE sul copyright. E adesso?

Ultimo aggiornamento: 2019/03/26 20:25.

Il Parlamento dell’Unione Europea ha approvato oggi il testo finale del progetto di direttiva sul diritto d’autore. Entrerà in vigore nell’UE dal 2021, se approvata dagli stati membri, e ha vari problemi.

  • La direttiva rischia di creare leggi differenti per ciascun paese UE.
  • È un salto nel buio, perché (come nota l’avvocato Guido Scorza su AgendaDigitale e sul Fatto Quotidiano) non è supportata da nessuno studio economico sul suo impatto, per cui non si sa quanto (e nemmeno se) i titolari dei diritti guadagneranno più soldi come promesso dai sostenitori della direttiva. Esperimenti analoghi in Germania non hanno ottenuto un soldo.
  • Il suo articolo 15 (ex articolo 11) crea in sostanza una sorta di tassa sulle citazioni: gli editori dovranno autorizzare espressamente ogni ripubblicazione delle loro notizie, salvo che si tratti di singole parole o “estratti molto brevi”. Quanto brevi? Non è specificato. Questo dovrà essere chiarito dalle norme più dettagliate basate sulla direttiva. Ma una norma dello stesso genere esiste già in Spagna e ha prodotto la concentrazione del traffico sui grandi editori, svantaggiando quelli piccoli. Piccoli come il blog che state leggendo, per esempio.
  • Il suo articolo 17 (ex articolo 13) impone che tutti i grandi siti che permettono agli utenti di caricare contenuti debbano ottenere una licenza su quei contenuti e debbano filtrare quelli che violano il diritto d’autore; inoltre saranno responsabili per i contenuti immessi dagli utenti. In pratica si tratta di un filtro preventivo sugli upload, ossia una soluzione tecnica irrealizzabile (come si filtra un modello per stampante 3D sotto copyright?), oltre che uno strumento di censura formidabile (se ne volete un assaggio, guardate come si comporta il ContentID di Youtube). Per non parlare dell’assurdità di procurarsi una licenza preventiva per ogni possibile contenuto coperto da copyright: non solo musica e film, ma libri, foto, video, software, disegni, testi. Chi potrà negoziare una licenza a tappeto del genere? Solo chi ha tanti soldi.
  • L’articolo 17 prevede alcune esenzioni per l’esercizio del diritto di critica, recensione, parodia e collage, per cui i memi dovrebbero essere salvi. Sono esentati anche i siti come Wikipedia (le enciclopedie online non a scopo di lucro), le piattaforme di sviluppo di software open source, i servizi cloud, i negozi online e i servizi di comunicazione.
In sintesi, la direttiva crea un pantano legale che solo chi ha stuoli di avvocati potrà permettersi di gestire e comporta il rischio serio di zittire le voci dei piccoli o dei singoli.

Per esempio, si chiede la BBC, cosa succederà a chi condivide le proprie sessioni di videogioco su Youtube o Twitch? Il video di una sessione è una nuova opera, i cui diritti spettano al giocatore, ma include opere di proprietà dell’azienda creatrice del gioco. Opere al plurale, perché un videogioco contiene grafica, musica, dialoghi e software, ciascuno vincolato da un diritto d’autore separato. Verrà filtrato automaticamente? Un video di una festa di compleanno che contiene una canzone in sottofondo verrà bloccato?

E cosa cambierà in questo blog, per esempio? Per ora nulla: io vivo e lavoro in Svizzera, per cui quello che scrivo non è toccato dalla direttiva, salvo che la Svizzera decida di adottare norme analoghe. Lo stesso vale anche per tutti i contenuti prodotti fuori dall’UE. Il risultato, insomma, è che chi sta nell’UE verrà penalizzato e chi ne sta fuori (Google o Facebook, per esempio) continuerà come prima e anzi starà meglio di prima, perché nessun europeo se la sentirà di costituire un’azienda concorrente.

Ma soprattutto mi sembra che i creatori di questa direttiva, e i politici che l’hanno approvata, non abbiano tenuto conto di una cosa fondamentale: non è che siccome adesso c'è la direttiva, allora i siti dei pirati audiovisivi che distribuiscono film, telefilm, musica e libri violando il diritto d’autore smetteranno improvvisamente di farlo.

Come andrà a finire non lo sa nessuno. Staremo a vedere. Ma se padri di Internet come Tim Berners-Lee e tanti altri sono contrari, forse dovremmo ascoltarli. Anche perché ci hanno detto più volte che quando la Rete trova un ostacolo, trova anche la maniera di aggirarlo.

Ma se volete una sintesi perfetta di cosa non va in questa direttiva, leggete cosa ha tweetato Luca Sofri in proposito:





Fonti aggiuntive: Cory Doctorow, Gizmodo, EFF, Torrentfreak. Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi è piaciuto, potete incoraggiarmi a scrivere ancora facendo una donazione anche voi, tramite Paypal (paypal.me/disinformatico), Bitcoin (3AN7DscEZN1x6CLR57e1fSA1LC3yQ387Pv) o altri metodi.

2018/07/27

Intelligenza artificiale per disegnare bikini sulle foto di donne nude

Prima riga: immagini originali;
seconda e terza: tentativi dell’IA.
Ultimo aggiornamento: 2018/07/27 11:45.

Secondo quanto racconta The Register, un gruppo di ricercatori brasiliani ha condotto uno studio sull’uso dei sistemi di intelligenza artificiale per riconoscere automaticamente le immagini di nudo e censurarle applicandovi dei bikini.

I risultati dello studio sono stati pubblicati nei lavori della IEEE International Joint Conference on Neural Networks (IJCNN), nell’ambito della IEEE World Congress on Computational Intelligence, tenutasi a Rio de Janeiro.

The Register descrive la tecnica usata: i ricercatori hanno dovuto scaricare oltre duemila immagini di donne nude e in bikini e le hanno usate per addestrare l’intelligenza artificiale.

I risultati non sono stati entusiasmanti, come potrete notare dai campioni mostrati qui sopra. Cosa peggiore, questa tecnologia potrebbe essere usata in senso inverso per creare immagini di nudo sintetiche togliendo i bikini alle foto scattate in spiaggia, per esempio.

Non capita spesso di dover scaricare per lavoro migliaia di immagini di donne poco o per nulla vestite, di doverle selezionare e poi guardare di nuovo per vedere se il software le ha elaborate correttamente. Ma per la scienza questo e altro.

L’articolo completo che descrive la ricerca, scovato da @bvzm dopo la pubblicazione iniziale di questo articolo, si intitola Seamless Nudity Censorship: an Image-to-Image Translation Approach based on Adversarial Training.

Chicca finale: i ricercatori lavorano per l’Università Cattolica Pontificia di Rio Grande do Sul.

2017/06/30

Le regole segrete di Facebook sui messaggi d’odio

Ultimo aggiornamento: 2017/07/2 11:47.

I criteri usati da Facebook per decidere se un post è accettabile o meno sono segreti. O meglio, lo erano fino a pochi giorni fa, quando ProPublica ha pubblicato una serie di documenti interni riservati di Facebook che spiegano come funziona e come decide l’esercito di 4500 moderatori di questo social network.

Questa rivelazione getta finalmente un po’ di luce sulle motivazioni che spingono questi moderatori a vietare alcuni post e lasciarne passare altri apparentemente simili. Molti utenti di Facebook, infatti, si sono visti cancellare post o sospendere temporaneamente l’account senza capire perché. Questo rende difficile regolarsi meglio.

Il principio generale, scrive ProPublica, è che è vietato dir male di quelle che Facebook chiama “categorie protette” (razza, sesso, identità di genere, affiliazione religiosa, origine nazionale, etnia, orientamento sessuale e handicap/malattia grave). Però è permesso dir male di sottoinsiemi di queste categorie.

Per esempio, un post che nega l’Olocausto è accettabile ma uno che fa antisemitismo no. Gli utenti di Facebook sono liberi di attaccare le donne che guidano o i bambini di colore, ma non gli uomini bianchi. Come mai? Perché, dicono le regole di Facebook, i bambini non sono una categoria protetta e sono un sottoinsieme delle persone di colore. A quanto pare gli uomini non vengono considerati un sottoinsieme degli esseri umani.

Un altro esempio, tratto dalla realtà, è un invito a massacrare tutti i musulmani radicalizzati, fatto da un membro del Congresso statunitense: è accettabile, secondo Facebook, perché è rivolto a uno specifico sottoinsieme di musulmani. Dire “Tutti i bianchi sono razzisti”, invece, è inaccettabile per Facebook, perché prende di mira un’intera categoria protetta. Eppure la prima frase incita alla violenza (specificamente all’omicidio), mentre la seconda è una semplice osservazione generale, giusta o sbagliata che sia.

L’articolo di ProPublica (in inglese) esplora in grande dettaglio le ragioni e le bizzarrie di queste regole, spesso contrarie alle leggi nazionali e al buon senso: consiglio di leggerlo per rendersi conto che contrariamente a quanto pensano in molti, Facebook non è affatto uno spazio libero di discussione.


Nota tecnica: le immagini pubblicate da ProPublica e da Ars Technica sono ricostruzioni dei documenti trafugati; BoingBoing sembra invece mostrarne una versione originale.

2016/08/13

Mi hanno chiesto di rimuovere un articolo per diritto all’oblio. A malincuore l’ho fatto

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Ho un caso personale da raccontare a proposito del diritto all’oblio, la controversa norma europea del 2014 (in vigore in Italia da maggio 2016) che in sintesi consente a una persona di richiedere la deindicizzazione dai motori di ricerca (in particolare Google, che ha una FAQ) di un’informazione che la riguarda se è lesiva e se il danno che quest’informazione le causa è prevalente rispetto al diritto dei cittadini di esserne informati.

Ovviamente sono subito nati metodi per abusare di questo diritto e per eluderlo, creando intorno a chi ricorreva alla norma un effetto Streisand che paradossalmente riportava alla notorietà chi invece voleva svanire nell’oblio. Ne avevo dato alcuni esempi qui nel 2014.

In linea di principio sono contrario a questa norma proprio perché è inefficace (troppo facile da eludere per un utente competente) e rischia di essere un comodo paravento per le malefatte di personaggi che invece non dovremmo mai dimenticare. Ma soprattutto mi puzza di censura orwelliana.

Provate infatti a immaginare se il diritto all’oblio si applicasse alla carta stampata. Andreste in un archivio di un giornale a cercare gli articoli che parlano di una persona e trovereste, al loro posto, un grosso buco ritagliato con le forbici. Come vi sentireste? Deindicizzare un articolo da Google è come sforbiciare un articolo da un giornale: non esiste più, non è più leggibile, e non potete neanche sapere che cosa diceva. Anzi, non sapete neanche che è mai esistito. Con il calo dei lettori dei giornali e il boom delle notizie lette in Rete, la presenza o l’assenza online di una notizia conta più di quella cartacea.

Tutto questo è teoria: ma la pratica è sempre un po’ diversa. Qualche mese fa un avvocato mi ha contattato telefonicamente e via mail, chiedendomi di eliminare un mio articolo nel quale descrivevo una vicenda accaduta ad una persona. Quello che avevo scritto, ha spiegato, era datato (l’articolo riguardava fatti di più di dieci anni fa) e a suo avviso causava gravissimi danni all’immagine e alla reputazione della persona assistita, dato che l’articolo era fra i primi risultati che comparivano in Google digitando il nome della persona. La richiesta dell’avvocato si basava appunto sul diritto all’oblio (scusatemi se sono molto vago e non fornisco dettagli, ma vorrei evitare appunto l’effetto Streisand che citavo prima).

Più precisamente, mi si chiedeva di eliminare uno specifico link (quello che portava all’articolo) o di deindicizzarlo oppure di rimuovere il nome della persona dall’articolo. Tre richieste assurde dal punto di vista tecnico:

– eliminare il link non ha molto senso: l’articolo è linkato non solo nei miei blog e siti, ma anche in molti altri di terzi, sui quali non ho alcun controllo, e comunque anche se quei link venissero eliminati Google indicizzerebbe comunque il mio articolo.

– deindicizzare un link da Google non dipende da me: è ovviamente compito di Google.

– togliere il nome della persona dall’articolo non otterrebbe comunque il risultato desiderato, perché il testo dell’articolo e soprattutto il suo URL, che contiene il nome della persona, permetterebbero comunque di identificarla facilmente.

Oltre alle questioni tecniche, però, c’era la questione di principio. In sostanza, un avvocato stava chiedendo a un giornalista di censurare un articolo. E il giornalista in questione ero io: un conto è sentenziare in astratto, un altro è trovarsi di fronte alla realtà concreta. Ci ho pensato su un paio di settimane.

Poi, a malincuore, ho risposto offrendomi di cancellare l’articolo indicato dal link e spiegando che le richieste originali erano tecnicamente impraticabili o inefficaci. Ho chiesto però di ricevere una lettera formale di richiesta (firmata e su carta intestata). Contemporaneamente ho messo in guardia contro l’inevitabile effetto Streisand: togliendo il mio articolo, che faceva il più obiettivamente possibile il punto della situazione e ridimensionava accuse pesanti fatte alla persona in questione, Google avrebbe probabilmente fatto emergere in cima ai propri risultati altre copie del mio articolo oppure altre citazioni degli articoli di giornale sui quali mi ero basato: citazioni magari ostili, parziali e fuorvianti. Insomma, la richiesta rischiava di essere un autogol.

L’avvocato ha riferito le mie osservazioni alla persona assistita, che ha confermato di voler chiedere comunque la cancellazione della pagina. Così ho rimosso l’articolo, chiedendo colpevolmente scusa al fantasma di George Orwell e alla mia sgualcitissima copia di 1984.

Sapete bene che in altri casi non sono stato conciliante (ricorderete le diffide e le denunce mandatemi da Giulietto Chiesa e da vari direttori dei giornali che coglievo a pubblicare bufale, cordialmente cestinate), ma stavolta ho valutato che non valeva la pena di sostenere il rischio e il costo di un’eventuale azione legale per difendere un articolo di più di dieci anni fa, che non era ormai di interesse per nessuno se non per la persona direttamente coinvolta. Per le balle di Giulietto o di Repubblica o del Corriere sì, eccome, perché sono bufale socialmente pericolose, ma non per una storia diventata ormai irrilevante.

Vi racconto tutto questo perché secondo me è un buon esempio di come funziona o non funziona, in concreto, il diritto all’oblio, e perché volevo mostrarvi i dilemmi concreti che comporta. E poi qualcuno mi verrà a chiedere come mai quell’articolo è sparito e vorrei avere già pronta una spiegazione esauriente da dargli. Eccola.

Fra l’altro, ho per le mani un’altra richiesta di applicazione del diritto all’oblio, assai diversa da questa, che riguarda un altro mio articolo. Ma questa è un’altra storia, che vi racconterò non appena l’avrò dipanata e risolta.

2016/07/22

Mascherare volti, targhe e altri dettagli nelle foto senza installare nulla: FacePixelizer

Capita spesso di voler pubblicare delle immagini mascherandone alcuni dettagli, come per esempio i volti delle persone, le diciture identificative, i dati personali di un documento oppure i numeri di targa. In casi come questi lanciare Photoshop o un altro programma di fotoritocco è eccessivo e lento, sia nell’avvio sia nella manipolazione. Ma lo stesso risultato si può ottenere con pochi clic senza installare nulla con FacePixelizer.

FacePixelizer è un sito: lo si visita con un browser recente (Windows / Mac / Linux), si trascina sulla sua zona etichettata Drop Image Files Here la foto da mascherare e si sceglie l’effetto desiderato. Se si tratta di volti, il sito tenta il riconoscimento facciale e seleziona automaticamente i volti da censurare, lasciando intatto il resto dell’immagine; in alternativa si può selezionare manualmente l’area (o le aree) da sfuocare, coprire o quadrettare.

L’elaborazione dell’immagine avviene localmente: la foto originale non viene mai inviata al sito.

Come bonus, l’elaborazione rimuove anche i dati EXIF (data e ora, tipo di fotocamera, geolocalizzazione e altro ancora) che sono incorporati nell’immagine e che possono aiutare a risalire alla sua origine.

Purtroppo non è ancora disponibile una versione per iOS o Android o Chromebook, ma c’è un’estensione per Google Chrome.

2015/08/21

Ashley Madison: nuova serie di dati trafugati, analisi degli account ticinesi

Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alla gentile donazione di “m.sabbat*”. Se vi piace, potete incoraggiarmi a scrivere ancora (anche con un microabbonamento). Ultimo aggiornamento: 2015/08/23 17:30.

2015/08/21 10:30. Poche ore fa è stato rilasciato un altro Torrent di dati che a quanto pare provengono dal sito Ashley Madison. L'annuncio è stato pubblicato sulla rete Tor. Nel nuovo lotto di dati ci sono le mail di Noel Biderman, CEO di Avid Life Media, che è proprietaria di AM; il codice sorgente del sito e delle app per smartphone; e molti dati interni dell'azienda. La disponibilità di questi dati faciliterà il lavoro di devastazione di qualunque aspirante aggressore (ammesso che a questo punto resti qualcosa da devastare, anche se l'azienda sembra voler continuare a operare). Non sembra esserci nulla di interessante dal punto di vista tecnico in questa nuova serie di dati.

Intanto in Canada è partita la prima class action contro l'azienda per non aver tutelato i dati personali degli utenti. I gestori di Ashley Madison sono in piena modalità panico: stanno addirittura ricorrendo alla censura tramite le leggi sul copyright (DMCA) per rimuovere i tweet che la citano. Ma ormai il danno è fatto: le rivelazioni hanno dimostrato che c'è un enorme numero di account falsi e quindi la credibilità dell'azienda (anche in termini di custodia dei dati sensibili dei clienti) ne esce a pezzi.

Fra gli utenti di AM ci sono membri dello staff della Casa Bianca, secondo Time. Su Dadaviz.com c'è una notevole serie di grafici basati su analisi dei dati trafugati: ripartizioni per paese rispetto alla popolazione, proporzione uomini/donne, stato coniugale dichiarato, numero di utenti che hanno usato il proprio indirizzo di mail governativo (ci sono 11 italiani) o di lavoro.

Ieri ho partecipato al servizio della Radiotelevisione Svizzera sulla vicenda Ashley Madison: il video è qui in streaming. Dall'analisi del primo lotto di dati pubblicati, alla quale accenno nel servizio, emerge che ci sono in tutto circa 50 account che indicano una località del Canton Ticino come indirizzo fisico, insieme a un indirizzo di mail, al nome e cognome e alle ultime quattro cifre della carta di credito. In alcuni casi è stato usato l'indirizzo di mail del luogo di lavoro e/o ci sono altri dati personali reperibili facilmente sui social network. C'è un addebito di oltre 15.000 dollari sul quale sto indagando (ho contattato la persona per segnalare la possibile frode ai suoi danni). Le località ticinesi dichiarate dagli utenti, spesso indicando anche la via e il numero civico, sono una trentina (Arzo, Bellinzona, Cadempino, Camorino, Canobbio, Carabbia, Castel San Pietro, Chiasso, Cimo, Cugnasco, Figino, Lamone, Locarno, Losone, Lugano, Maggia, Manno, Massagno, Melano, Minusio, Monte Carasso, Morcote, Muralto, Pambio-Noranco, Paradiso, Quartino, Riva San Vitale, S. Pietro, Salorino, San Vittore, Sorengo, Vacallo).


2015/08/23 17:30


È partita una class action da oltre mezzo miliardo di dollari contro Ashley Madison. La riferisce la BBC, dicendo che due studi legali canadesi hanno avviato l'azione legale per conto di tutti i cittadini canadesi che sono stati colpiti dalla violazione della riservatezza dei propri dati. “In molti casi gli utenti avevano pagato un importo supplementare per far rimuovere dal sito tutti i propri dati e ora hanno scoperto che quelle informazioni sono invece rimaste intatte e ora sono state rese pubbliche”.


Fonti aggiuntive: Ars TechnicaThe Register.

2015/03/27

Nuove regole di Facebook: meno tabù sui topless, ma la Guerra al Capezzolo continua

L'articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale.

Facebook ha pubblicato una versione più dettagliata dei propri Standard della comunità: le norme che regolano cosa è lecito pubblicare sul social network più popolato del pianeta, che dichiara di avere oltre un miliardo e quattrocento milioni di utenti che lo adoperano almeno una volta al mese.

Secondo l'annuncio di Facebook, le norme non sono cambiate, ma semplicemente includono maggiori dettagli e chiarimenti su cosa è consentito e cosa invece verrà rimosso. Molti utenti, infatti, si sono trovati a segnalare contenuti che ritenevano chiaramente inaccettabili ma che Facebook ha deciso di mantenere (come è successo anche a me con un'immagine di violenza su un animale).

Ci sono molti dettagli in più su cosa viene considerato bullismo o terrorismo: in particolare non sono permessi post o commenti che sostengono o elogiano i leader delle organizzazioni terroristiche o criminali o ne giustifichino le attività violente. Resta il problema di chi decide che cosa sia terrorismo: per esempio, usare dei droni per far piovere dal cielo la morte sui civili è terrorismo?

La sezione degli Standard dedicata ai contenuti di nudo è particolarmente dettagliata, con specificazioni particolarmente pedanti per il seno femminile, forse in risposta a incidenti imbarazzanti come il blocco dell'intero profilo Facebook del museo francese Jeu de Paume per via di una singola foto in bianco e nero, raffigurante un nudo d'arte femminile nel quale si vedeva un'area anatomica che Facebook considera assolutamente tabù: il capezzolo.

Ecco le nuove regole sul nudo, riportate testualmente e per intero:

Rimuoviamo le foto dei genitali delle persone o che ritraggono fondoschiena completamente in vista. Rimuoviamo anche le immagini di seni femminili dove è visibile il capezzolo, ma permettiamo sempre la pubblicazione di foto di donne che allattano o che mostrano il seno con cicatrici causate da una mastectomia. È permessa anche la pubblicazione di fotografie di dipinti, sculture o altre forme d'arte che ritraggono figure nude. Le restrizioni relative alla visualizzazione di nudità e alle attività sessuali si applicano ai contenuti creati digitalmente a meno che non vengano pubblicati a fini educativi, umoristici o satirici. Sono vietate le immagini esplicite di rapporti sessuali. Anche le descrizioni di atti sessuali che entrano troppo nel dettaglio potrebbero essere rimosse.

Credit: Gelner Lorand
Quindi, interpretando rigorosamente queste nuove norme, l'immagine qui accanto è pubblicabile su Facebook (dove infatti risiede attualmente) per il solo fatto abbastanza ridicolo di avere una singola piuma piazzata molto strategicamente, anche se tutto il resto del corpo è nudo.

Se volete, potete mettere alla prova le nuove norme di Facebook segnalando come pornografia la foto in questione, come ho fatto io puramente a titolo sperimentale per vedere come reagiscono i sistemi e i criteri di verifica del social network. Va da sé che il link alla foto porta a pagine che contengono immagini che possono non essere adatte a tutti.

Facebook ha risposto come segue alla mia segnalazione: “...Abbiamo controllato la foto che hai segnalato perché contenente immagini di nudo e abbiamo riscontrato che rispetta i nostri Standard della comunità.” Quindi sembra proprio che la differenza fra accettabile e inaccettabile secondo Facebook stia proprio tutta nel capezzolo.

In questo aggiornamento delle regole di Facebook, fra l'altro, manca una funzione che sarebbe molto utile: la possibilità per gli utenti di anteporre ai video potenzialmente scioccanti o inadatti un avviso che non li faccia partire automaticamente. Questa protezione può essere attivata per ora soltanto dagli amministratori di Facebook, come è successo per esempio per i video cruenti dell'attentati a Charlie Hebdo.

2015/01/15

Questo blog verrà ora bloccato in Turchia? L’impossibilità di non offendere nessuno

Credit: Charlie Hebdo
L'articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale.

Pochi giorni fa i rappresentanti del governo turco hanno partecipato in forze alla grande manifestazione per la libertà d'espressione in risposta alla strage nella redazione di Charlie Hebdo, ma quello stesso governo ha bandito la pubblicazione in Turchia della copertina di Charlie che vedete qui accanto. Vengono banditi anche i siti web che la pubblicano.

Tutti i dettagli sono su il Post.

Anzi, non tutti i dettagli: ne manca uno, e non banale, che è quello indicato nelle etichette dell'articolo che state leggendo. Sono sicuro che ci arrivate da soli se guardate bene la copertina di Charlie Hebdo.

E a chi, anima pia, pensasse che si può ancora essere liberi senza offendere nessuno, suggerisco la lettura delle norme editoriali ritenute necessarie per una pubblicazione di portata globale da parte della Oxford University Press, la più grande casa editrice universitaria del mondo, che pubblica circa 6000 libri nuovi ogni anno in oltre 150 paesi. Pensavo fossero l'ennesima bufala del Daily Mail, ma sono confermate dal Guardian e dall'Independent.

È vietato mostrare maiali, carne di maiale, salsicce, pancetta o qualunque altra cosa che alluda al maiale, per non offendere le sensibilità dei musulmani. Peppa Pig è a rischio. Babe maialino coraggioso è tabù. Idem per Piglet (Pimpy in italiano) di Winnie the Pooh. Esiste addirittura un acronimo da usare come promemoria: PARSNIP (pastinaca in italiano), ossia niente riferimenti a “politica, alcool, religione, sesso, narcotici, ismi” (come per esempio il comunismo) e il maiale (pork).

Bisogna fare attenzione a non mostrare ragazzi e ragazze che abitano insieme come studenti, ragazze che vanno a comperare pantaloncini, amici che escono per andare a bere. Non bisogna mostrare relazioni omosessuali, cani (si potrebbero offendere i coreani e i musulmani), l'oroscopo e il gioco d'azzardo. Se si descrive una cosa innocente come una cena al ristorante, non si può menzionare il vino.

E così per non offendere i più permalosi (e fra questi includo i puritani ipocriti di Facebook, terrorizzati dai capezzoli femminili, e chi impazzisce se un ragazzo abbraccia una ragazza) ci troviamo ad essere censurati tutti. L'unico modo per non offendere nessuno è il silenzio totale, che è la morte delle idee.

Quando sento queste idiozie, mi viene voglia di fondare una religione che ha come tabù il color malva, i numeri dispari e le righe diritte. Non ho nessun desiderio di entrare nel postribolo della politica, ma se i politici pensano di mettere le mani su Internet, allora stanno entrando nel mio campo e mi sento in dovere di mettere in chiaro i fatti.

2015/01/03

Se la piazza libera viene sostituita dal giardino cintato: distopia dei social network

Questo articolo vi arriva grazie alla gentile donazione di “leandrodae*”.

La foto qui accanto non è tratta da qualche film di fantascienza distopica. È un'immagine scattata il 21 dicembre scorso in un centro commerciale, il Mall of America, nel Minnesota, dove alcune centinaia di persone si sono radunate pacificamente per dimostrare contro i recenti e ripetuti abusi di polizia che hanno portato alla morte di numerose persone innocenti. Tutte, guarda caso, di colore.

Come segnalano Wired e BoingBoing, l'immagine è il simbolo perfetto di dove stiamo andando senza rendercene conto granché. Stiamo sostituendo la libera piazza con il recinto controllato, nel mondo fisico e anche su Internet.

Nel mondo fisico, stiamo sostituendo un luogo d'incontro e di discussione su suolo pubblico, regolato soltanto dalle leggi dello stato e dalle norme di democrazia e nel quale vale il diritto di esprimere la propria opinione e di manifestare, con un ambiente privato, il cui proprietario può decidere a suo totale piacimento cosa consentire e cosa vietare: può vietare di fare fotografie, anche soltanto per prendere nota dell'aspetto o dei dati tecnici di un prodotto (è successo anche a me in Svizzera), e può proibire un incontro pacifico di persone, definendolo addirittura una “sommossa” (riot). Guardate questa foto e ditemi se corrisponde alla vostra definizione di sommossa:

Credit: John Autey/Pioneer Press

Tenete presente che è scattata in un paese nel quale, in molti stati, esiste il diritto automatico di girare armati anche in un centro commerciale (così un bambino di due anni può sparare alla madre e ucciderla). Cosa vi fa sentire più minacciati, un gruppo di manifestanti come questo o la consapevolezza che un tizio qualunque può avere addosso abbastanza munizioni da fare una strage?

Certo, il centro commerciale è proprietà privata e quindi il proprietario ha il diritto legale di imporre le regole che desidera. Ma è interessante notare quanti centri commerciali vietano di entrare armati e quanti invece vietano di fare fotografie.

Su Internet sta succedendo la stessa cosa. Stiamo rapidamente sostituendo mezzi di comunicazione liberi e regolati soltanto dalle norme di democrazia (mail, mailing list, IRC, newsgroup, forum distribuiti e decentrati), con ambienti chiusi commerciali, di proprietà privata (i social network), nei quali il proprietario decide arbitrariamente cosa abbiamo il diritto di dire o di fare.

Per esempio, su Facebook non potete pubblicare una foto di un seno di cui s'intraveda l'areola, neppure per mostrare un allattamento (norma revocata solo di recente), neppure per un body painting (anche qui), e fino a poco tempo fa neppure in un'opera d'arte presentata da un museo, ma una testa spiaccicata (“crushed heads are OK”), un cane trascinato a sangue dietro un'auto o la decapitazione di una donna vanno benissimo.

Leggete le norme interne di Facebook e guardate gli esempi qui sotto: è chiaro che qualcuno, da qualche parte, s'è messo in testa che mostrare specificamente i capezzoli femminili (e solo quelli; il resto del seno non causa turbe), anche soltanto disegnati, diffonde Ebola, causa pazzia, porta alla perdizione o istiga ad atti di terrorismo. Qualcuno deve pensare ai bambini che verranno scioccati da cotanta visione. Siamo in piena Guerra al Capezzolo.

Immagine non accettabile secondo Facebook.
Credit: Laure Albin Guillot, 1940 circa, Museo Jeu de Paume

Vignetta bandita da Facebook.
Credit: New Yorker/Robert Mankoff.

Immagine bandita da Facebook.
Credit: Gregory Colbert.
Immagine accettabile per Facebook.
Comunicare attraverso i social network significa dare a un ente privato commerciale il potere assoluto di controllare e regolamentare quello che possiamo dire, discutere e mostrare in base a regole che non sono quelle del nostro paese o delle nostre leggi, ma sono quelle arbitrarie del proprietario, che le può alterare in ogni momento a proprio piacimento e bandirci quando gli pare.

Nei social network non abbiamo diritti. Pensiamoci, prima di dimenticarci come si manda una mail.

2014/10/03

Firechat, l’app anticensura che funziona anche quando non c’è rete

I manifestanti pro-democrazia che stanno occupando molte strade principali di Hong Kong stanno usando estesamente la tecnologia per eludere la censura delle autorità. In particolare, ha suscitato parecchio interesse l'adozione massiccia di un'app, Firechat (per Android e iOS, gratuita), che ha la particolarità di funzionare anche dove la connessione alla rete cellulare o Wi-Fi è inaccessibile perché bloccata da tentativi di censura o saturata dal numero enorme di dispositivi che tentano di usarla contemporaneamente in un'area ristretta.

Firechat permette infatti di scambiare messaggi di testo e immagini creando una rete locale di tipo mesh, a maglia molto fitta e priva di un centro, che interconnette direttamente i vari dispositivi via Wi-Fi e/o Bluetooth presenti in un luogo, senza aver bisogno di un access point o di un'antenna della rete cellulare. Questo significa che le comunicazioni funzionano anche in assenza di rete convenzionale e sono difficili da monitorare.

La caratteristica di funzionare senza appoggiarsi a una rete altrui è preziosa non solo in situazioni di sorveglianza politica (non è la prima volta che Firechat viene usata in queste circostanze), ma anche in generale in luoghi affollati, come concerti, conferenze o altri raduni dove moltissimi utenti cercano di collegarsi simultaneamente, oppure in luoghi privi di copertura cellulare: in pratica i telefonini diventano dei walkie-talkie.

L'installazione è piuttosto semplice: vengono chiesti alcuni dati personali (un indirizzo di mail e l'accesso ai dati contenuti nel dispositivo e alla geolocalizzazione) e non viene chiesta una password. Una volta scelto un nome utente, si può cominciare a usare l'app per comunicare con utenti generici (Everyone) o soltanto con quelli che si trovano nel raggio di qualche decina di metri (Nearby). Le comunicazioni vengono suddivise in forum (chiamati firechat, ossia “chiacchierate intorno al focolare”) e tutti i messaggi sono pubblici e senza crittografia, per cui è opportuno fare attenzione a non trasmettere informazioni compromettenti. Per evitare abusi è inoltre possibile bloccare o segnalare gli utenti molesti.

Come funziona? Ho fatto qualche prova con i miei dispositivi (un mix di Android e iOS) e i risultati non sono stati molto brillanti: passando tramite la normale rete Wi-Fi o cellulare i messaggi vengono scambiati istantaneamente senza problemi, ma l'interconnessione diretta fra dispositivi, che dovrebbe essere il punto di forza di Firechat, non ha voluto saperne di funzionare, né fra dispositivi Android (4.2 e 4.3), né fra dispositivi iOS 8; l'app Android è andata ripetutamente in crash sul mio Samsung Galaxy S3. Manca inoltre un'indicazione chiara dell'uso della funzione mesh. Provatela anche voi e ditemi se siete più fortunati o se è il caso di provare app alternative come per esempio Serval (per Android).


2014/07/18

La farsa del “diritto all’oblio” online: nasce il servizio che rivela cosa è stato rimosso

L'articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale. Ultimo aggiornamento: 2016/08/13 17:00.

Di recente l'Unione Europea ha imposto a Google di rimuovere certi link dai propri risultati, in nome del “diritto all'oblio”. Ma la norma vale soltanto per le ricerche effettuati da utenti i cui computer risultano essere nell'Unione Europea.

Per cui basta usare Google.com invece di Google.it o Google.fr e simili (meglio se da un indirizzo IP non-UE reale o simulato con un tunnel/proxy, ma non sempre è necessario) per vedere anche i risultati rimossi.

Ovviamente è nato Hidden from Google, un servizio che cataloga i risultati censurati e permette di sapere che cosa non si vuole che gli utenti UE possano leggere, attirando quindi maggiore attenzione proprio su quello che si voleva nascondere.

Certo, la norma UE serve per proteggere gli innocenti. Ma guardate chi sta usando la norma per nascondersi a Google e al mondo: Scientology su Der Spiegel, banche sulla BBC, pedofili confessi e condannati, e molto altro. Non vengono rimossi blog offensivi di dilettanti rabbiosi, ma pagine di giornalismo autorevole.

Per esempio, ho cercato in Google.ch “Fred Anton” (tra virgolette) insieme a scientology da un mio IP in UE (o Svizzera): l'articolo di Der Spiegel che lo cita in relazione a Scientology, datato 1995, non compare. Compare invece questo (notate l'ultima riga e il fatto che ora viene elencato il risultato citato da Hidden from Google):


Se immetto la stessa ricerca in Google.com riappare il risultato oscurato. Se vi sembra molto simile a una censura, e se vi sembra assolutamente inutile, non siete i soli. Di certo è un Effetto Streisand perfetto: non appena vedi l'avviso di Google che mi dice che è stato rimosso qualcosa, ti viene la curiosità di sapere cos'è. E lo puoi sapere.

2014/06/06

Antibufala: musica di Julio Iglesias bandita in Russia per “neofascismo”

Sta spopolando in Rete una serie di immagini, come quella presentata qui accanto, che mostrerebbero un elenco di cantanti e gruppi musicali banditi o “sconsigliati” in questo momento dalle radio in Russia.

Fra i nomi elencati ce ne sono alcuni abbastanza ovvi, come Alice Cooper (per “violenza, vandalismo” o i Sex Pistols (“punk, violenza”). Ma che i Village People siano vietati per “violenza” pare un po' strano. La chicca assoluta, però, è Julio Iglesias, che è bandito addirittura per “neofascismo”.

L'attuale situazione censoria in Russia alimenta la circolazione di questa lista, ma un suo esame razionale rivela qualcosa di sospetto: i Pink Floyd sono banditi per “interferenza nella politica estera dell'Unione Sovietica”. Ma l'Unione Sovietica non esiste più da un pezzo.

Si tratta infatti di una trascrizione di un documento sovietico risalente al 1985 e diffuso dal Komsomol, organizzazione giovanile del partito comunista dell'URSS, come elenco di “gruppi musicali o artisti stranieri i cui repertori contengono composizioni ideologicamente dannose”, pubblicato per “intensificare il controllo sulle attività delle discoteche”.

Era una lista seria di musica ritenuta pericolosa (analoga a quelle circolanti anche in Occidente sulla pericolosità per i giovani della musica rock) oppure una forma sottile di ironia che permetteva sfruttare un organo di propaganda ufficiale per far sapere a tutti quali erano i gruppi da ascoltare grazie ai ribs o ryobra, le copie abusive dei dischi fatte riutilizzando le lastre radiografiche? Non è chiaro, ma una cosa è certa: l'elenco non si riferisce alla Russia odierna.

Fonti: Sean's Russia Blog, Uproxx, BoingBoing.

2013/12/28

Disinformatico radio del 2013/12/27 [UPD 2014/01/30]

L'articolo è stato aggiornato dopo la pubblicazione iniziale.

È disponibile il podcast della puntata di ieri del Disinformatico radiofonico che ho condotto per la Rete Tre della Radiotelevisione Svizzera. Questi sono i temi che ho trattato, con i link ai relativi articoli di supporto: nel podcast trovate anche una chiacchierata sui successi e i flop della tecnologia informatica del 2013 e su quello che ci aspetta, informaticamente parlando, nel 2014.

NOTA: I link originali al momento non funzionano a causa dei lavori in corso sul sito della RSI. Usate il link nuovo, se disponibile.

Iron Maiden battono la pirateria suonando dove vengono maggiormente piratati. Ho dovuto riscrivere massicciamente l'articolo perché la fonte che avevo usato, Citeworld, è stata poi smentita sul dettaglio che i Maiden avevano pianificato i tour in base ai dati di pirateria. Grazie a tutti i lettori che mi hanno segnalato al volo la smentita. Mi sono fidato di una fonte solitamente attendibile (come hanno fatto anche Billboard e Rolling Stone) e in questo ho sbagliato. Scusate.

Filtri antiporno, autogol spettacolare. Il governo britannico ha varato dei filtri sui contenuti di Internet, convinto di poter bloccare la pornografia. Ma siccome i filtri sono stupidi e definire la pornografia non è banale, sono stati aggirati subito e nelle maglie del filtro sono finiti anche siti assolutamente legittimi, come quello della parlamentare promotrice dell'iniziativa: nei suoi post antiporno usava troppo spesso parole attinenti alla sessualità. Geniale.

Datagate: il messaggio di fine anno di Edward Snowden. Breve e intenso, l'ho tradotto in italiano. Da leggere per meditare su come la sorveglianza pervasiva e preventiva sia un pericolo assoluto. Per tutti, non solo per i politici.

Pulizie di fine anno: impostazioni di Facebook (nuovo link). Ho compilato una rapida lista di impostazioni prudenti di questo social network, come complemento al mio libro sull'argomento (che spiega il perché delle impostazioni che consiglio). Date un'occhiata e controllate che il vostro account Facebook sia in ordine.


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