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2017/11/10
Facebook prova a combattere le fake news promuovendo qualunque commento contenente la parola “fake”
Facebook sta facendo vari esperimenti per contrastare il fenomeno delle fake news. Recentemente ne ha svolto uno che probabilmente si poteva evitare semplicemente accendendo un neurone prima di mettersi a picchiettare codice sulla tastiera: ha iniziato a promuovere e mettere in evidenza qualunque commento che contenesse la parola fake.
Avete già indovinato cos’è successo: anche notizie perfettamente attendibili di testate come la BBC, l’Economist, il New York Times, l’Independent e il Guardian si sono trovate inondate di commenti in primo piano che le definivano fake.
Le proteste degli utenti non si sono fatte attendere: invece di aiutare a distinguere le notizie vere da quelle chiaramente false, l’esperimento stava producendo l’effetto contrario, creando solo confusione.
Facebook si è giustificata dichiarando alla BBC che si è trattato di “un piccolo test che ora si è concluso. Volevamo vedere se dare la priorità ai commenti che indicano scetticismo poteva essere utile.” Arrivarci ragionandoci un attimo, invece di fare esperimenti sulla pelle degli utenti, a quanto pare non si usa più.
Avete già indovinato cos’è successo: anche notizie perfettamente attendibili di testate come la BBC, l’Economist, il New York Times, l’Independent e il Guardian si sono trovate inondate di commenti in primo piano che le definivano fake.
Le proteste degli utenti non si sono fatte attendere: invece di aiutare a distinguere le notizie vere da quelle chiaramente false, l’esperimento stava producendo l’effetto contrario, creando solo confusione.
Facebook si è giustificata dichiarando alla BBC che si è trattato di “un piccolo test che ora si è concluso. Volevamo vedere se dare la priorità ai commenti che indicano scetticismo poteva essere utile.” Arrivarci ragionandoci un attimo, invece di fare esperimenti sulla pelle degli utenti, a quanto pare non si usa più.
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Gli allucinanti “cartoni animati” di Youtube
Ultimo aggiornamento: 2017/11/10 16:30.
Molti genitori usano Youtube, e in particolare Youtube Kids, come surrogato della televisione per i propri figli: cercano il nome di qualche personaggio dei cartoni animati e poi lasciano che i figli tocchino le icone sullo schermo per passare al cartone animato successivo, proposto in base alla popolarità raggiunta e alle correlazioni. Spesso il cartone successivo si carica automaticamente, per cui è facile che il bambino si trovi esposto a video che i suoi genitori non hanno scelto.
Un articolo di Medium.com segnala un fenomeno che probabilmente i genitori non immaginano neanche: molti dei cartoni animati presenti su Youtube non sono autentici, ma sono pessime scopiazzature, generate automaticamente da programmi per computer, usando fondali standard e modelli digitali preconfezionati dei personaggi più noti, animati in modo scadentissimo. Non raccontano una storia vera e propria, ma i loro colori vivaci e le loro colonne sonore ripetitive hanno un effetto ipnotico sui loro giovanissimi spettatori.
Lo scopo di questi cartoni animati sintetici è sfruttare l’attenzione dei bambini per generare visualizzazioni, che a loro volta portano soldi ai loro creatori. Si tratta di una vera e propria industria di massa, dove la qualità e l’originalità non contano: alcuni temi, come le filastrocche o le Finger Families (guardatele per capire cosa sono), hanno decine di milioni di varianti e sono incredibilmente popolari (questo, per esempio, conta oltre mezzo miliardo di visualizzazioni).
Alcuni di questi pseudocartoni animati hanno contenuti probabilmente inadatti e potenzialmente traumatici o diseducativi, come i falsi cartoni di Peppa Pig dove Peppa subisce torture dal dentista o mangia il proprio padre o beve candeggina. Non li linko per non regalare loro visibilità (se volete esaminarli, i link sono nell’articolo di Medium.com), ma il concetto è chiaro: usare Youtube come sostituto della TV significa affidare i propri figli a un sistema automatico che fa soldi sfruttando le loro vulnerabilità per bombardarli di pubblicità e di contenuti scadenti, demenziali o violenti e probabilmente non è nelle intenzioni della maggior parte dei genitori.
Youtube ha risposto alle critiche riguardanti questi video dicendo che non consentirà ai creatori di video di monetizzare i video che “fanno uso inadatto di personaggi per tutta la famiglia” e che introdurrà dei limiti di età sui video segnalati dagli utenti e dai recensori volontari, soprattutto in Youtube Kids. Nel frattempo conviene comunque procurarsi fonti più affidabili di cartoni animati oppure, se mi passate l’eresia, condividere un libro illustrato.
Molti genitori usano Youtube, e in particolare Youtube Kids, come surrogato della televisione per i propri figli: cercano il nome di qualche personaggio dei cartoni animati e poi lasciano che i figli tocchino le icone sullo schermo per passare al cartone animato successivo, proposto in base alla popolarità raggiunta e alle correlazioni. Spesso il cartone successivo si carica automaticamente, per cui è facile che il bambino si trovi esposto a video che i suoi genitori non hanno scelto.
Un articolo di Medium.com segnala un fenomeno che probabilmente i genitori non immaginano neanche: molti dei cartoni animati presenti su Youtube non sono autentici, ma sono pessime scopiazzature, generate automaticamente da programmi per computer, usando fondali standard e modelli digitali preconfezionati dei personaggi più noti, animati in modo scadentissimo. Non raccontano una storia vera e propria, ma i loro colori vivaci e le loro colonne sonore ripetitive hanno un effetto ipnotico sui loro giovanissimi spettatori.
Lo scopo di questi cartoni animati sintetici è sfruttare l’attenzione dei bambini per generare visualizzazioni, che a loro volta portano soldi ai loro creatori. Si tratta di una vera e propria industria di massa, dove la qualità e l’originalità non contano: alcuni temi, come le filastrocche o le Finger Families (guardatele per capire cosa sono), hanno decine di milioni di varianti e sono incredibilmente popolari (questo, per esempio, conta oltre mezzo miliardo di visualizzazioni).
Alcuni di questi pseudocartoni animati hanno contenuti probabilmente inadatti e potenzialmente traumatici o diseducativi, come i falsi cartoni di Peppa Pig dove Peppa subisce torture dal dentista o mangia il proprio padre o beve candeggina. Non li linko per non regalare loro visibilità (se volete esaminarli, i link sono nell’articolo di Medium.com), ma il concetto è chiaro: usare Youtube come sostituto della TV significa affidare i propri figli a un sistema automatico che fa soldi sfruttando le loro vulnerabilità per bombardarli di pubblicità e di contenuti scadenti, demenziali o violenti e probabilmente non è nelle intenzioni della maggior parte dei genitori.
Youtube ha risposto alle critiche riguardanti questi video dicendo che non consentirà ai creatori di video di monetizzare i video che “fanno uso inadatto di personaggi per tutta la famiglia” e che introdurrà dei limiti di età sui video segnalati dagli utenti e dai recensori volontari, soprattutto in Youtube Kids. Nel frattempo conviene comunque procurarsi fonti più affidabili di cartoni animati oppure, se mi passate l’eresia, condividere un libro illustrato.
Facebook vi classifica in 52.000 categorie: come scoprire quali
Ultimo aggiornamento: 2017/11/10 13:00.
La settimana scorsa ho raccontato la diffusa preoccupazione che Facebook ascolti gli utenti a loro insaputa attraverso gli smartphone per captare parole chiave delle loro conversazioni a scopo pubblicitario. Molti utenti, infatti, hanno notato su Facebook le pubblicità di prodotti che non avevano mai cercato o discusso online ma che avevano menzionato a voce nelle vicinanze del telefonino.
I conduttori del podcast Reply All hanno contattato in proposito Antonio Garcia Martinez, ex dipendente di Facebook responsabile per la pubblicità mirata, e gli hanno chiesto di spiegare una storia inquietante raccontata da un loro ascoltatore di San Francisco, in California.
L’ascoltatore dice che la madre del suo partner è venuta in visita dall’Oklahoma. Per viaggiare ha preso l’aereo, e i controlli di sicurezza le hanno sequestrato la bottiglietta di profumo, così al suo arrivo ha detto all’ascoltatore e al suo partner “Ehi, vorrei andare a una profumeria e comprare una nuova confezione di profumo”. Nel giro di mezz’ora Facebook ha mostrato al partner una pubblicità di una profumeria a San Francisco, perfetta per risolvere l’esigenza della madre. Come è possibile?
Martinez spiega che per queste magie non occorre ascoltare le conversazioni: Facebook sa che la madre sta facendo un viaggio, perché la segue grazie alla geolocalizzazione. Sa che è andata a trovare il figlio, sempre grazie alla geolocalizzazione (stavolta quella del figlio) e grazie al fatto che il figlio è indicato fra gli amici e membri di famiglia su Facebook. Sa anche che la donna acquista profumo, quale marca usa e da quanto tempo non ne compra, perché il social network acquista dati sui consumi degli utenti, schedati attraverso le tessere fedeltà; e quindi decide di mostrare al figlio la pubblicità di una profumeria.
Facebook, inoltre, segue gli utenti anche quando non sono nel social network, grazie a dei codici di tracciamento invisibili (i Facebook Pixel) presenti in molte pagine del Web, e quindi sa quali siti hanno visitato e per esempio quali articoli hanno letto e quali prodotti hanno anche soltanto valutato e non acquistato nei negozi online. Sulla base di tutti questi dati crea un dossier su ciascuna persona, classificandola secondo circa 52.000 categorie, stando ai dati di Julia Angwin di ProPublica citati nel podcast.
Potete vedere una parte di queste categorie entrando nel sito di Facebook con il vostro account e scegliendo Impostazioni - Inserzioni - Le tue informazioni - Le tue categorie. Se preferite usare l’app, scegliete Impostazioni - Impostazioni dell’account - Inserzioni - Le tue informazioni - Le tue categorie - Esamina e gestisci le tue categorie.
Alcune di queste categorie sono incredibilmente precise: per esempio, Amici intimi di uomini che festeggiano il compleanno entro 7-30 giorni, Persona lontana da casa, Viaggiatore frequente oppure Persona a cui piace fingere di mandare messaggini nelle situazioni imbarazzanti.
Nel mio profilo Facebook segnaposto, nel quale volutamente non riverso alcuna informazione personale (non ho amici e rifiuto le amicizie) ho trovato queste categorie, quasi tutte strettamente tecniche:
L’ultima è decisamente bizzarra: non ho coinquilini, ma ho alcuni amici che vengono spesso a trovarmi e si collegano a Facebook usando il mio Wi-Fi. Nonostante la mia frequentazione minima del social network, Facebook comunque ha dedotto questo aspetto personale della mia vita di famiglia.
Con capacità di analisi come queste, ascoltare attraverso il microfono non serve. E voi, nelle vostre categorie, cosa avete trovato?
Ecco alcune segnalazioni dei lettori, arrivate via Twitter dopo la pubblicazione iniziale di questo articolo:
La settimana scorsa ho raccontato la diffusa preoccupazione che Facebook ascolti gli utenti a loro insaputa attraverso gli smartphone per captare parole chiave delle loro conversazioni a scopo pubblicitario. Molti utenti, infatti, hanno notato su Facebook le pubblicità di prodotti che non avevano mai cercato o discusso online ma che avevano menzionato a voce nelle vicinanze del telefonino.
I conduttori del podcast Reply All hanno contattato in proposito Antonio Garcia Martinez, ex dipendente di Facebook responsabile per la pubblicità mirata, e gli hanno chiesto di spiegare una storia inquietante raccontata da un loro ascoltatore di San Francisco, in California.
L’ascoltatore dice che la madre del suo partner è venuta in visita dall’Oklahoma. Per viaggiare ha preso l’aereo, e i controlli di sicurezza le hanno sequestrato la bottiglietta di profumo, così al suo arrivo ha detto all’ascoltatore e al suo partner “Ehi, vorrei andare a una profumeria e comprare una nuova confezione di profumo”. Nel giro di mezz’ora Facebook ha mostrato al partner una pubblicità di una profumeria a San Francisco, perfetta per risolvere l’esigenza della madre. Come è possibile?
Martinez spiega che per queste magie non occorre ascoltare le conversazioni: Facebook sa che la madre sta facendo un viaggio, perché la segue grazie alla geolocalizzazione. Sa che è andata a trovare il figlio, sempre grazie alla geolocalizzazione (stavolta quella del figlio) e grazie al fatto che il figlio è indicato fra gli amici e membri di famiglia su Facebook. Sa anche che la donna acquista profumo, quale marca usa e da quanto tempo non ne compra, perché il social network acquista dati sui consumi degli utenti, schedati attraverso le tessere fedeltà; e quindi decide di mostrare al figlio la pubblicità di una profumeria.
Facebook, inoltre, segue gli utenti anche quando non sono nel social network, grazie a dei codici di tracciamento invisibili (i Facebook Pixel) presenti in molte pagine del Web, e quindi sa quali siti hanno visitato e per esempio quali articoli hanno letto e quali prodotti hanno anche soltanto valutato e non acquistato nei negozi online. Sulla base di tutti questi dati crea un dossier su ciascuna persona, classificandola secondo circa 52.000 categorie, stando ai dati di Julia Angwin di ProPublica citati nel podcast.
Potete vedere una parte di queste categorie entrando nel sito di Facebook con il vostro account e scegliendo Impostazioni - Inserzioni - Le tue informazioni - Le tue categorie. Se preferite usare l’app, scegliete Impostazioni - Impostazioni dell’account - Inserzioni - Le tue informazioni - Le tue categorie - Esamina e gestisci le tue categorie.
Alcune di queste categorie sono incredibilmente precise: per esempio, Amici intimi di uomini che festeggiano il compleanno entro 7-30 giorni, Persona lontana da casa, Viaggiatore frequente oppure Persona a cui piace fingere di mandare messaggini nelle situazioni imbarazzanti.
Nel mio profilo Facebook segnaposto, nel quale volutamente non riverso alcuna informazione personale (non ho amici e rifiuto le amicizie) ho trovato queste categorie, quasi tutte strettamente tecniche:
- Persone che festeggiano il compleanno a settembre (giusto)
- Persone che accedono a Facebook principalmente da dispositivi più vecchi o sistemi operativi precedenti a Windows 7, Mac OS X o Windows NT 6.2 (sbagliato)
- Persone che usano Gmail per le e-mail (giusto)
- Persone che accedono a Facebook usando principalmente macOS Sierra (giusto)
- Persone che amministrano almeno 1 Pagina su Facebook (giusto)
- Persone che accedono a Facebook usando principalmente Firefox (giusto)
- Persone che vivono in nuclei familiari in cui una o più persone non sono familiari stretti o acquisiti (incredibilmente sbagliato)
L’ultima è decisamente bizzarra: non ho coinquilini, ma ho alcuni amici che vengono spesso a trovarmi e si collegano a Facebook usando il mio Wi-Fi. Nonostante la mia frequentazione minima del social network, Facebook comunque ha dedotto questo aspetto personale della mia vita di famiglia.
Con capacità di analisi come queste, ascoltare attraverso il microfono non serve. E voi, nelle vostre categorie, cosa avete trovato?
Ecco alcune segnalazioni dei lettori, arrivate via Twitter dopo la pubblicazione iniziale di questo articolo:
amico di espatriati :)— robinet (@robinetitaly) November 10, 2017
L'unica cosa che c'è è che mi son sposato da meno di un anno, meno di tre mesi e che uso Chrome... basta ^_^... eh beh si mi son sposato ^_^— Claudio bb (@Tombolus) November 10, 2017
God, mi sfugge! pic.twitter.com/iYcBhnelzP— Filippo Valle (@Filippo_Valle) November 10, 2017
Anche a me come ad altri l'unica cosa strana è viaggiatori frequenti. Il resto sono compleanni e accesso a Facebook.— Marco Giannini (@Marcooo83) November 10, 2017
Niente di che: solo "Viaggiatori Frequenti", e dire che non ho né app né geolocalizzazione attiva🤔— Grizzly🐻 (@g_sr) November 10, 2017
Assolutamente niente di strano o invasivo. Particolare semmai la voce "Viaggiatori frequenti" visto che ci spostiamo pochissimo (<1 l'anno) e soprattutto NON lo scriviamo MAI: né prima, né durante. A malapena dopo! ;)— Karellen (@RRiccardi69) November 10, 2017
A parte i cosmetici che non so proprio come ci siano finiti, il resto sono o cose che mi incuriosiscono o cose che ho cercato per regali. Però vedo poche categorie, forse perché navigo quasi sempre con un AD blocker— Lorenzo Bossi (@Lorentz83) November 10, 2017
Da me tutto regolare/ovvio e niente di strano. Unica particolarità: Facebook è convinto che io sia un poliziotto o pompiere. Niente di più sbagliato. L’algoritmo evidentemente non è perfetto.— Manuel Wenger (@ManuCH) November 10, 2017
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2017/11/08
No, Facebook non vuole che gli mandiate le vostre foto intime per bloccarle (beh, non proprio)
Fonte: BBC. |
Sta cominciando a circolare la notizia (Motherboard, Washington Post, Huffington Post Italia, Stephen Colbert, Ars Technica) che Facebook avrebbe attivato un sistema per combattere la diffusione di immagini intime non autorizzate (il cosiddetto revenge porn) che consisterebbe nel mandare a Facebook volontariamente le foto di cui si vuole bloccare la circolazione: un apparente controsenso.
In realtà, nota Sean Sullivan di F-Secure e scrive la ABC australiana il 2/11, c’è soltanto una collaborazione fra Facebook e una piccola agenzia governativa australiana per la sicurezza online, l’ufficio dell’e-Safety Commissioner. In Australia, una persona che è vittima di abuso delle proprie immagini può contattare questo ufficio e segnalare il problema; solo a questo punto l’ufficio può invitare la vittima a inviare le immagini via Facebook Messenger, ma a se stessa, e poi etichettare queste foto come “immagini intime non consensuali”, secondo Motherboard.
Questo consente a Facebook di generare un hash della foto, ossia una sua rappresentazione matematica che è una sorta di impronta digitale. La foto in sé non viene conservata a lungo termine da Facebook, e dall’hash non è possibile ricostruirla, ma se qualcuno mette quella specifica foto su Facebook (o su Instagram, che fa parte della famiglia di Facebook), il social network può riconoscerla (perché ha lo stesso hash) e bloccarla, anche se è parzialmente alterata. La tecnologia di generazione di questo hash, segnala il Guardian, si chiama PhotoDNA ed è stata sviluppata da Microsoft; è la stessa usata per trovare e rimuovere le immagini di abusi su minori e immagini di movimenti estremisti.
L’Australia è uno di quattro paesi che stanno sperimentando questa nuova funzione, secondo quanto ha dichiarato Antigone Davis, responsabile globale per la sicurezza di Facebook, citato da ABC. Non è chiaro, al momento, se questa sia un‘evoluzione del servizio di photo matching contro gli abusi annunciato da Facebook ad aprile 2017.
Dato che inviare una foto a se stessi tramite Messenger comporta inviarla a Facebook, esiste comunque il rischio teorico che qualche dipendente delsocial network possa accedere a quella foto prima che venga cancellata dopo la generazione del suo hash. In effetti, dopo la pubblicazione iniziale di questo mio articolo, Daily Beast ha ricevuto da Facebook una dichiarazione non ufficiale secondo la quale le foto inviate saranno esaminate da un dipendente di Facebook e non da un sistema automatico. L‘esame è necessario, dice Facebook, per verificare che le immagini siano realmente da considerare revenge porn.
...prior to making that fingerprint, a worker from Facebook’s community operations team will actually look at the uncensored image itself to make sure it really is violating Facebook’s policies [...]. Facebook will keep hold of these images for a period of time to make sure that the company is correctly enforcing those policies. Here, images will be blurred and only available to a small number of people, according to the Facebook spokesperson. An individual employee at Facebook, however, will have at that point already examined the un-blurred versions.
Viene spontaneo chiedersi come mai l’hash debba essere generato mandando la foto a Facebook invece di farlo localmente sul proprio smartphone, che ha presumibilmente una potenza di calcolo sufficiente per farlo. La spiegazione più probabile è che se l’hash venisse generato dall’utente, Facebook non avrebbe modo di verificare che il contenuto della foto è davvero revenge porn e questo consentirebbe di manipolare il servizio (per esempio mandando l’hash di una foto politicamente sensibile che si vuole far sparire).
Sean Sullivan segnala inoltre una collezione utilissima di link ai servizi di segnalazione di abusi dei principali social network. Da parte mia, segnalo le raccomandazioni di Facebook su cosa fare se qualcuno condivide senza il vostro permesso una vostra foto intima.
2017/11/07
Un altro astronauta lunare ci ha lasciato: Richard F. Gordon (Apollo 12)
Dick Gordon nel 1969, dopo il ritorno dalla Luna. Credit: NASA. |
Tre anni dopo volò verso la Luna con la missione Apollo 12, la seconda ad atterrare sul nostro satellite (e la prima ad essere colpita da un fulmine durante il decollo dalla Terra). Come pilota del veicolo spaziale Apollo, Gordon rimase in orbita intorno alla Luna mentre i suoi compagni, Alan Bean e Pete Conrad, effettuarono un’esplorazione della superficie lunare nell’Oceano delle Tempeste.
La sua occasione di camminare sulla Luna sarebbe stata la missione Apollo 18, che però fu annullata dai tagli di spesa decisi dal governo statunitense.
Un altro testimone personale di quei viaggi straordinari non c’è più. Sta a noi, sempre di più, conservarne e celebrarne il ricordo, in attesa di nuove esplorazioni. Un’attesa che si fa sempre più lunga e solitaria.
Il Delirio del Giorno: #BastaBufale e l’assalto dei Kitipaka
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2017/11/08 8:55.
La mia recente partecipazione all’iniziativa #BastaBufale della Presidenza della Camera, e in particolare la presentazione del decalogo e della miniguida tecnica per non farsi fregare dalle fake news di ogni provenienza, ha scatenato da un paio di giorni su Twitter un’orda di commentatori inferociti, verbalmente offensivi e violenti, che hanno rigurgitato una pioggia di domande dal tono leggermente inquisitorio.
Non sono mancate le accuse di elusione fiscale, di partecipazione a un piano di censura politica, e neanche gli scivoloni sessisti (questi ultimi nei confronti dell’attuale Presidente della Camera, Laura Boldrini). Insomma, uno spettacolo davvero deprimente ma molto educativo: molti utenti, infatti, non hanno idea della cloaca mentale che si incontra sui social network.
Provo a riassumere qui la vicenda, che per il suo svolgimento e soprattutto per il suo (attuale) epilogo merita di essere raccontata nella mia consueta rubrica Il Delirio del Giorno.
Quest’orda sorprendentemente coordinata, invece di dedicarsi al commento e alla critica del decalogo e della guida, ha preferito ignorare completamente il messaggio e concentrarsi sul lanciare accuse al messaggero: io. In particolare, tutti vogliono sapere quanto sono pagato, e anche chi di preciso mi paga, per partecipare a questo torbido progetto di oscurantismo governativo:
C’è anche chi mi accusa di spionaggio:
Ebbene sì: la pubblica amministrazione italiana spende circa 1 milione e 600 mila euro al minuto, ma c’è parecchia gente che si ossessiona sui dettagli del mio eventuale compenso, come qui:
Oppure qui, quando ho risposto che come giornalista informatico libero professionista lavoro per chi mi dà un incarico:
Non ho saputo resistere, e ho risposto con l’aiuto grafico di @AndTheBad:
C’è anche questa perla:
Gente che mi critica ma non sa neanche la differenza fra debugger e debunker.
Ma l’applauso per il lapsus freudiano dell’anno va a questo:
A questa torma insistente di Kitipaka, che ripeteva ossessivamente -- anzi, “ricacava” -- la stessa domanda (questi sono solo alcuni esempi fra i tanti), ho semplicemente risposto più volte così (in aggiunta a qualche risposta personale ironica ai più aggressivi):
Spiegazione: sono un giornalista libero professionista. Nel mio mestiere, come in tanti altri, qualunque rapporto con il committente è da considerare automaticamente confidenziale salvo che il committente dia il permesso di parlarne. Non è necessariamente il committente a imporre quest’obbligo: lo impone prima di tutto la deontologia professionale.
In parole piccole: non ho niente da nascondere; semplicemente, se non ho il permesso esplicito della Presidenza della Camera di parlare di un qualunque dettaglio del nostro rapporto, non ne parlo. Si chiama riservatezza professionale: la stessa che impone al vostro medico di non andare a raccontare a tutti i vostri problemi di salute e che vi permette di parlargli sinceramente e in confidenza. Tutto qui.
I Kitipaka non l’hanno capita e hanno insistito che volevano sapere tutto, compreso probabilmente il colore delle mie mutande*, appellandosi alla trasparenza degli atti pubblici. Al che ho risposto semplicemente e ripetutamente così:
*sono leopardate.
Questo ha infuriato ancora di più i Kitipaka, che si sono scatenati in due giorni di caccia ossessiva alle informazioni che descrivevano i miei rapporti con la Presidenza della Camera.
Questi sublimi segugi, però, non sono riusciti a trovare neppure questo mio vecchio articolo pubblico che offriva già tutti i dettagli e le risposte alle loro domande assillanti.
Alcuni si sono attaccati anche al suddetto decalogo, che invita a chiedere le prove e le fonti delle affermazioni:
Lasciando da parte quel garbatissimo “quanto vuoi” che pare una domanda rivolta a una puttana, ovviamente è vero che chiedere le fonti è un diritto. A volte, però, ci sono vincoli di riservatezza professionale che non consentono la risposta. Come nel mio caso. A un medico non si può chiedere di pubblicare la cartella clinica del paziente, se non c’è il consenso del paziente. Ma questo, a quanto pare, è un concetto molto difficile.
A questo punto i Kitipaka hanno addirittura scomodato lo spettro di un’interrogazione parlamentare per indurmi a rivelare i miei oscuri e milionari guadagni:
Il parlamentare in questione è Massimiliano Fedriga e il suo tweet è questo. Sarà interessante sapere quanto verrà a costare ai contribuenti questa (eventuale) interrogazione.
Galvanizzati dall’intervento di un politico, i Kitipaka hanno raddoppiato gli sforzi investigativi, arrivando finalmente, dopo due giorni di estenuante investigazione, a una scoperta clamorosa, che però ha avuto l’effetto di una doccia gelata:
Tutto questo can can, insomma, con tanto di interrogazione parlamentare annunciata, per arrivare alla “scoperta” di una prestazione da 350 euro (su questa scoperta vorrei fare un arguto commento, ma mi trattengo, almeno per ora).
I Kitipaka si sono messi da soli nella stessa tragicomica situazione del cane che abbaia rincorrendo le auto e non si è mai chiesto cosa farà il giorno che riuscirà a raggiungerne una.
Chiudo (per ora) questo Delirio del Giorno con le risposte ad alcune delle altre domande ricorrenti di questi leoni da tastiera, che cito testualmente.
L'inquisizione è finita? Posso andare?
La mia recente partecipazione all’iniziativa #BastaBufale della Presidenza della Camera, e in particolare la presentazione del decalogo e della miniguida tecnica per non farsi fregare dalle fake news di ogni provenienza, ha scatenato da un paio di giorni su Twitter un’orda di commentatori inferociti, verbalmente offensivi e violenti, che hanno rigurgitato una pioggia di domande dal tono leggermente inquisitorio.
Non sono mancate le accuse di elusione fiscale, di partecipazione a un piano di censura politica, e neanche gli scivoloni sessisti (questi ultimi nei confronti dell’attuale Presidente della Camera, Laura Boldrini). Insomma, uno spettacolo davvero deprimente ma molto educativo: molti utenti, infatti, non hanno idea della cloaca mentale che si incontra sui social network.
Fino ad ora non avevo idea dell'orda di analfabeti funzionali che infestano Twitter e l'Italia nel complesso.— Holy87 (@francescob87) November 7, 2017
Provo a riassumere qui la vicenda, che per il suo svolgimento e soprattutto per il suo (attuale) epilogo merita di essere raccontata nella mia consueta rubrica Il Delirio del Giorno.
Quest’orda sorprendentemente coordinata, invece di dedicarsi al commento e alla critica del decalogo e della guida, ha preferito ignorare completamente il messaggio e concentrarsi sul lanciare accuse al messaggero: io. In particolare, tutti vogliono sapere quanto sono pagato, e anche chi di preciso mi paga, per partecipare a questo torbido progetto di oscurantismo governativo:
Un giornalista professionista sappiamo bene da chi è pagato. Chiediamo di sapere se la Camera dei Deputati o altro ente pubblico paga per il suo lavoro.— ComploPopulista (@complpop) November 6, 2017
Attivissimo, ce la ricordimo tutti la sua bella faccetta con Puente e la marmaglia del costituendo Ministero delle Verità. Si taccia.— Dozu Barbacani (@dozudoge) November 5, 2017
C’è anche chi mi accusa di spionaggio:
Questo si chiama Paolo Attesissimo. Uno che ci spia anche nei msg privati. Assoldato dalla boldrini e da noi pagato.che tutti sappiano pic.twitter.com/II2rYqRt5M— Aristotele Onassis (@Aristot25533214) November 6, 2017
Ebbene sì: la pubblica amministrazione italiana spende circa 1 milione e 600 mila euro al minuto, ma c’è parecchia gente che si ossessiona sui dettagli del mio eventuale compenso, come qui:
Può soddisfare la mia di curiosità? i soldi dei rimborsi spesa invece chi li paga? No sa vedo che alcuni ne spendono parecchi in telefonate.— topinonavevanonipoti (@novdic600) 5 novembre 2017
Oppure qui, quando ho risposto che come giornalista informatico libero professionista lavoro per chi mi dà un incarico:
Lavora per chi lo paga. Una volta li chiamavano mercenari. pic.twitter.com/nT2FCCpWL1— @nonomnismoriar (@EliYosiFadda) 5 novembre 2017
Non ho saputo resistere, e ho risposto con l’aiuto grafico di @AndTheBad:
Coming soon... pic.twitter.com/TaiD3Ym6iv— The Bad (@AndTheBad) 5 novembre 2017
C’è anche questa perla:
No Ciccio tu sei il debugger. Tu ora dare informaziona ja ?— Ti Cerco E Ti Rompo (@rompo_ti) November 5, 2017
Gente che mi critica ma non sa neanche la differenza fra debugger e debunker.
Ma l’applauso per il lapsus freudiano dell’anno va a questo:
.... anzi sono pronto a ricacare la dose in ogni momento visto che con la gentilezza non capisce approffitando del potere che gli hanno dato— PAOLO BARBIERI (@pdbarbieri) 5 novembre 2017
A questa torma insistente di Kitipaka, che ripeteva ossessivamente -- anzi, “ricacava” -- la stessa domanda (questi sono solo alcuni esempi fra i tanti), ho semplicemente risposto più volte così (in aggiunta a qualche risposta personale ironica ai più aggressivi):
Ho degli obblighi professionali di riservatezza. Se mi scioglono da questi obblighi, ben volentieri.— Paolo Attivissimo (@disinformatico) 5 novembre 2017
Spiegazione: sono un giornalista libero professionista. Nel mio mestiere, come in tanti altri, qualunque rapporto con il committente è da considerare automaticamente confidenziale salvo che il committente dia il permesso di parlarne. Non è necessariamente il committente a imporre quest’obbligo: lo impone prima di tutto la deontologia professionale.
In parole piccole: non ho niente da nascondere; semplicemente, se non ho il permesso esplicito della Presidenza della Camera di parlare di un qualunque dettaglio del nostro rapporto, non ne parlo. Si chiama riservatezza professionale: la stessa che impone al vostro medico di non andare a raccontare a tutti i vostri problemi di salute e che vi permette di parlargli sinceramente e in confidenza. Tutto qui.
I Kitipaka non l’hanno capita e hanno insistito che volevano sapere tutto, compreso probabilmente il colore delle mie mutande*, appellandosi alla trasparenza degli atti pubblici. Al che ho risposto semplicemente e ripetutamente così:
Spetta alla pubblica amministrazione pubblicare gli atti. Quindi per tutti i chiarimenti che vuoi, chiedi alla tua PA. Grazie.— Paolo Attivissimo (@disinformatico) 5 novembre 2017
*sono leopardate.
Questo ha infuriato ancora di più i Kitipaka, che si sono scatenati in due giorni di caccia ossessiva alle informazioni che descrivevano i miei rapporti con la Presidenza della Camera.
Questi sublimi segugi, però, non sono riusciti a trovare neppure questo mio vecchio articolo pubblico che offriva già tutti i dettagli e le risposte alle loro domande assillanti.
Alcuni si sono attaccati anche al suddetto decalogo, che invita a chiedere le prove e le fonti delle affermazioni:
ma insomma: tu dici agli altri di chiedere le fonti ma non bisogna chiedere le fonti a te. ok, quanto vuoi?— alessandro imbriano (@ale_imbriano) November 5, 2017
Lasciando da parte quel garbatissimo “quanto vuoi” che pare una domanda rivolta a una puttana, ovviamente è vero che chiedere le fonti è un diritto. A volte, però, ci sono vincoli di riservatezza professionale che non consentono la risposta. Come nel mio caso. A un medico non si può chiedere di pubblicare la cartella clinica del paziente, se non c’è il consenso del paziente. Ma questo, a quanto pare, è un concetto molto difficile.
A questo punto i Kitipaka hanno addirittura scomodato lo spettro di un’interrogazione parlamentare per indurmi a rivelare i miei oscuri e milionari guadagni:
Un consiglio aggratis per l'Attivissimo, o risponde decentemente a noi asap o risponderà a qualcun altro in una saletta della Camera ;) pic.twitter.com/6QloaueEsj— Minuteman - Italy (@MinutemanItaly) November 5, 2017
Il parlamentare in questione è Massimiliano Fedriga e il suo tweet è questo. Sarà interessante sapere quanto verrà a costare ai contribuenti questa (eventuale) interrogazione.
Galvanizzati dall’intervento di un politico, i Kitipaka hanno raddoppiato gli sforzi investigativi, arrivando finalmente, dopo due giorni di estenuante investigazione, a una scoperta clamorosa, che però ha avuto l’effetto di una doccia gelata:
Trovato! Grazie Valentina. Un prestigioso incarico da 350 euro. pic.twitter.com/UoSByCY3LB— Luca Mussati (@Luca_Mussati) 5 novembre 2017
Tutto questo can can, insomma, con tanto di interrogazione parlamentare annunciata, per arrivare alla “scoperta” di una prestazione da 350 euro (su questa scoperta vorrei fare un arguto commento, ma mi trattengo, almeno per ora).
I Kitipaka si sono messi da soli nella stessa tragicomica situazione del cane che abbaia rincorrendo le auto e non si è mai chiesto cosa farà il giorno che riuscirà a raggiungerne una.
Credit: @DZAladan. |
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Chiudo (per ora) questo Delirio del Giorno con le risposte ad alcune delle altre domande ricorrenti di questi leoni da tastiera, che cito testualmente.
Domanda: lei lavora attualmente in modo indipendente o anche per l'attuale governo "in carica"? Non lavoro per il governo italiano. Sono stato chiamato come consulente dalla Presidenza della Camera.
Domanda: Quindi hanno deciso che la consulenza fosse assegnata a lei senza una procedura di selezione? Qualcuno le avrà detto perché proprio lei? Caro Paolo, ultima domanda (siamo contribuenti italiani) su quale base è stata scelta la sua figura? Criterio di selezione? Non so quale sia stato il processo di decisione. Mi hanno chiamato, ho fatto il lavoro. Tutto qui. Chiedetelo a chi mi ha selezionato.
Domanda: Un incarico di consulenza avrà sicuramente un atto pubblicato che lo certifica. O no? Non lo so e non è compito mio spiegare la burocrazia italiana. Vivo in Svizzera.
Domanda: Com'è che non risulta iscritto né all'ordine dei giornalisti né a quello dei pubblicisti? Millantato credito? Prova a pensare intensamente: sarà mica che non sono iscritto agli ordini italiani perché vivo e lavoro in Svizzera e non in Italia?
Domanda: Quasi la meta' dei tuoi followers sono fake, il dubbio sorge spontaneo. Ah, può darsi. Ma mica me li scelgo io. Informarsi prima di parlare non si usa più? C’è lo spiegone apposito.
Domanda: La sua residenza è in Svizzera? Se sì, x motivi fiscali? 1. Sì. In Svizzera ci vivo, ci lavoro, ci dormo e ci pago le tasse; le figlie ci vanno a scuola. 2. Beh, "motivi fiscali" nel senso che qui le tasse che pago (non poche) mi danno servizi efficaci ed efficienti, cosa che non accadeva quando vivevo in Italia; ma non ci vivo solo per motivi fiscali. Ci vivo perché è un posto sicuro, sereno, con gente cortese e civile e un'amministrazione efficiente. Non è il Paradiso, ma si sta bene.
L'inquisizione è finita? Posso andare?
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2017/11/04
Ho follower fasulli su Twitter? Parliamone
Questo articolo vi arriva gratuitamente e senza pubblicità grazie alle donazioni dei lettori. Se vi piace, potete farne una anche voi per incoraggiarmi a scrivere ancora. Ultimo aggiornamento: 2017/11/05 10:30.
La pubblicazione del decalogo e della miniguida tecnica di #Bastabufale ha scatenato un diluvio di attacchi più o meno stupidi contro di me e i miei colleghi (ne parla, per esempio, Michelangelo Coltelli di Bufale un tanto al chilo). Stupidi perché nella maggior parte dei casi non hanno neanche letto quello che criticano così violentemente. O se l’hanno letto, non l’hanno capito.
Prendiamo per esempio un’accusa ricorrente: io non sarei attendibile perché su Twitter ho tanti follower considerati fake.
È vero che Twitteraudit indica che ho in questo momento circa 164.000 follower ritenuti fake su 400.000 complessivi, ma a chi lancia questa critica sfugge un dettaglio fondamentale: i follower mica me li scelgo io.
Infatti chiunque è libero di diventare mio follower (Twitter è fatto così) e il fatto di avere un buon numero di follower attira inevitabilmente spammer e bot. Se qualcuno pensa che io perda tempo a comperare follower fasulli per sembrare più “importante”, vuol dire che non mi conosce affatto. Non mi guadagno da vivere in base alla fama e la notorietà non è mai stata una mia ambizione (un conto in banca ben pasciuto sì, ma mi è andata male).
Secondo dettaglio che sfugge ai criticoni: ho già provato a purgare i fake, ma si riformano. E purgarli costa.
Ho fatto una prima purga di test fra dicembre 2016 e gennaio 2017, pagando Statuspeople per filtrare i fake. Ma dopo aver bloccato circa 5000 account ritenuti fake su un totale di 300.000 follower, Statuspeople mi diceva che i fake erano già diventati solo il 4%: i conti non tornano, perché Statuspeople diceva che i miei fake erano circa 120.000 su 300.000. Ho disdetto il servizio a pagamento (circa 120 euro l’anno).
Twitteraudit ha un servizio a pagamento che costa 360 dollari l’anno (dovrei usare la versione Gold, perché ho oltre 100.000 follower) e dice di bloccare i fake.
Se qualcuno pensa che io intenda spendere 360 dollari (euro) l’anno per evitare la critica infondata degli idioti, si metta il cuore in pace.
Personalmente considero fake un account se ha tutte o buona parte di queste caratteristiche:
La pubblicazione del decalogo e della miniguida tecnica di #Bastabufale ha scatenato un diluvio di attacchi più o meno stupidi contro di me e i miei colleghi (ne parla, per esempio, Michelangelo Coltelli di Bufale un tanto al chilo). Stupidi perché nella maggior parte dei casi non hanno neanche letto quello che criticano così violentemente. O se l’hanno letto, non l’hanno capito.
Prendiamo per esempio un’accusa ricorrente: io non sarei attendibile perché su Twitter ho tanti follower considerati fake.
È vero che Twitteraudit indica che ho in questo momento circa 164.000 follower ritenuti fake su 400.000 complessivi, ma a chi lancia questa critica sfugge un dettaglio fondamentale: i follower mica me li scelgo io.
Infatti chiunque è libero di diventare mio follower (Twitter è fatto così) e il fatto di avere un buon numero di follower attira inevitabilmente spammer e bot. Se qualcuno pensa che io perda tempo a comperare follower fasulli per sembrare più “importante”, vuol dire che non mi conosce affatto. Non mi guadagno da vivere in base alla fama e la notorietà non è mai stata una mia ambizione (un conto in banca ben pasciuto sì, ma mi è andata male).
Secondo dettaglio che sfugge ai criticoni: ho già provato a purgare i fake, ma si riformano. E purgarli costa.
Ho fatto una prima purga di test fra dicembre 2016 e gennaio 2017, pagando Statuspeople per filtrare i fake. Ma dopo aver bloccato circa 5000 account ritenuti fake su un totale di 300.000 follower, Statuspeople mi diceva che i fake erano già diventati solo il 4%: i conti non tornano, perché Statuspeople diceva che i miei fake erano circa 120.000 su 300.000. Ho disdetto il servizio a pagamento (circa 120 euro l’anno).
Twitteraudit ha un servizio a pagamento che costa 360 dollari l’anno (dovrei usare la versione Gold, perché ho oltre 100.000 follower) e dice di bloccare i fake.
Se qualcuno pensa che io intenda spendere 360 dollari (euro) l’anno per evitare la critica infondata degli idioti, si metta il cuore in pace.
I miei criteri
Personalmente considero fake un account se ha tutte o buona parte di queste caratteristiche:
- icona non personalizzata
- nessuno sfondo
- nome utente seguito da molti numeri o composto da lettere a caso
- nessuna info personale
- pochissimi tweet postati (o nessuno)
Podcast del Disinformatico del 2017/11/03
È disponibile per lo scaricamento il podcast della puntata di ieri del Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera. Buon ascolto!
2017/11/03
Archeoinformatica: alle origini di PowerPoint
Sapevate che PowerPoint inizialmente era un prodotto solo per Mac? La curiosa storia di questa popolarissima applicazione per presentazioni, che vanta 1,2 miliardi di copie circolanti, è raccontata in un articolo intitolato The Improbable Origins of PowerPoint e pubblicato su IEEE Spectrum.
PowerPoint debuttò nel 1987: come racconta in un libro uno dei suoi creatori, Robert Gaskins, all’epoca l’idea era creare un software per generare lucidi o diapositive su pellicola fotografica, da proiettare usando lavagne luminose o proiettori per diapositive (i videoproiettori erano ancora troppo primitivi). Non era certo il primo del suo genere: Lotus Freelance e Harvard Graphics, nomi oggi dimenticati, dominavano il mercato. L’innovazione più importante di questo nuovo prodotto dell’azienda di Gaskins, la Forethought, era che invece di dover affidare la presentazione a un grafico, il relatore avrebbe potuto crearla direttamente e rapidamente, senza intermediari e con un enorme risparmio di tempo, grazie alla semplicità d’uso rispetto ai concorrenti.
Il prodotto si chiamava inizialmente Presenter ed era destinato ai PC IBM che stavano inondando il mercato, ma le limitazioni tecniche del PC obbligarono ad abbandonare questa piattaforma e passare al Macintosh di Apple, che vantava una grafica (per quei tempi) più potente. Qui sotto ne potete vedere un esempio in un video:
L’applicazione fu ribattezzata PowerPoint 1.0 e fu un successo istantaneo fra gli utenti Macintosh, ripagando l’investimento dell’azienda in meno di un mese. Tre mesi dopo il debutto di PowerPoint, arrivò Microsoft, che comprò in blocco l’intera azienda produttrice di PowerPoint per 14 milioni di dollari in contanti. E il resto, compresa la famosa Sindrome da Powerpoint, è storia.
PowerPoint debuttò nel 1987: come racconta in un libro uno dei suoi creatori, Robert Gaskins, all’epoca l’idea era creare un software per generare lucidi o diapositive su pellicola fotografica, da proiettare usando lavagne luminose o proiettori per diapositive (i videoproiettori erano ancora troppo primitivi). Non era certo il primo del suo genere: Lotus Freelance e Harvard Graphics, nomi oggi dimenticati, dominavano il mercato. L’innovazione più importante di questo nuovo prodotto dell’azienda di Gaskins, la Forethought, era che invece di dover affidare la presentazione a un grafico, il relatore avrebbe potuto crearla direttamente e rapidamente, senza intermediari e con un enorme risparmio di tempo, grazie alla semplicità d’uso rispetto ai concorrenti.
Il prodotto si chiamava inizialmente Presenter ed era destinato ai PC IBM che stavano inondando il mercato, ma le limitazioni tecniche del PC obbligarono ad abbandonare questa piattaforma e passare al Macintosh di Apple, che vantava una grafica (per quei tempi) più potente. Qui sotto ne potete vedere un esempio in un video:
L’applicazione fu ribattezzata PowerPoint 1.0 e fu un successo istantaneo fra gli utenti Macintosh, ripagando l’investimento dell’azienda in meno di un mese. Tre mesi dopo il debutto di PowerPoint, arrivò Microsoft, che comprò in blocco l’intera azienda produttrice di PowerPoint per 14 milioni di dollari in contanti. E il resto, compresa la famosa Sindrome da Powerpoint, è storia.
2017/11/02
L’archivio CIA su Osama bin Laden
Ultimo aggiornamento: 2017/11/03 11:40.
L’1/11 la CIA ha messo online circa 321 gigabyte di dati che dichiara di aver recuperato dalla residenza di Osama bin Laden ad Abbottabad, in Pakistan, nell’incursione del 2 maggio 2011 che portò all’uccisione di bin Laden stesso. Non è il primo rilascio di materiale di questo genere: un primo lotto era stato reso pubblico nel 2015.
L’archivio di circa 470.000 file è scaricabile qui ed è filtrato per togliere materiali protetti da copyright, malware, pornografia, doppioni e informazioni ritenute tuttora sensibili. C’è anche il diario di bin Laden (ANSA parla di “giornale”, ignorando che journal in inglese significa diario). Maggiori dettagli sul contenuto dell’archivio sono nel comunicato stampa della CIA.
È decisamente presto per poter fare qualunque valutazione approfondita sul contenuto di questo enorme dossier di materiale eterogeneo: per ora emergono soltanto alcune considerazioni secondarie, come il fatto che tra i film trovati sui vari dispositivi elettronici nella residenza c’erano alcuni documentari su bin Laden e che alcuni video sotto copyright sono sfuggiti al filtro della CIA.
L’elenco dei video include anche quello che dal nome sembrerebbe essere il documentario complottista Loose Change 2, che sosteneva che bin Laden non era l’artefice dei catastrofici attentati dell’11 settembre 2001. C'è anche chi nota una collezione di videogiochi erotici vintage. Questo non vuol dire che Osama bin Laden fosse cultore di alcunché: i file erano a disposizione dei residenti nel compound.
Va detto, inoltre, che la provenienza e l’autenticità di tutto questo materiale non sono verificabili. Tuttavia gli esperti possono ora consultarlo per valutarne la coerenza interna.
2017/11/03 11:40. L’archivio è stato rimosso: restano solo il comunicato stampa e il PDF del diario di bin Laden, che però è in un formato corrotto. Visitando la pagina che ospitava i link per lo scaricamento compare solo la dicitura “The Abbottabad files are temporarily unavailable pending resolution of a technical issue. We are working to make the material available again as soon as possible." Staremo a vedere. Intanto c'è chi ha iniziato a pubblicare su Twitter le immagini presenti nell’archivio.
L’1/11 la CIA ha messo online circa 321 gigabyte di dati che dichiara di aver recuperato dalla residenza di Osama bin Laden ad Abbottabad, in Pakistan, nell’incursione del 2 maggio 2011 che portò all’uccisione di bin Laden stesso. Non è il primo rilascio di materiale di questo genere: un primo lotto era stato reso pubblico nel 2015.
L’archivio di circa 470.000 file è scaricabile qui ed è filtrato per togliere materiali protetti da copyright, malware, pornografia, doppioni e informazioni ritenute tuttora sensibili. C’è anche il diario di bin Laden (ANSA parla di “giornale”, ignorando che journal in inglese significa diario). Maggiori dettagli sul contenuto dell’archivio sono nel comunicato stampa della CIA.
È decisamente presto per poter fare qualunque valutazione approfondita sul contenuto di questo enorme dossier di materiale eterogeneo: per ora emergono soltanto alcune considerazioni secondarie, come il fatto che tra i film trovati sui vari dispositivi elettronici nella residenza c’erano alcuni documentari su bin Laden e che alcuni video sotto copyright sono sfuggiti al filtro della CIA.
L’elenco dei video include anche quello che dal nome sembrerebbe essere il documentario complottista Loose Change 2, che sosteneva che bin Laden non era l’artefice dei catastrofici attentati dell’11 settembre 2001. C'è anche chi nota una collezione di videogiochi erotici vintage. Questo non vuol dire che Osama bin Laden fosse cultore di alcunché: i file erano a disposizione dei residenti nel compound.
Va detto, inoltre, che la provenienza e l’autenticità di tutto questo materiale non sono verificabili. Tuttavia gli esperti possono ora consultarlo per valutarne la coerenza interna.
2017/11/03 11:40. L’archivio è stato rimosso: restano solo il comunicato stampa e il PDF del diario di bin Laden, che però è in un formato corrotto. Visitando la pagina che ospitava i link per lo scaricamento compare solo la dicitura “The Abbottabad files are temporarily unavailable pending resolution of a technical issue. We are working to make the material available again as soon as possible." Staremo a vedere. Intanto c'è chi ha iniziato a pubblicare su Twitter le immagini presenti nell’archivio.
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